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Guerra Russia-Ucraina: la resa dei conti
L’Ucraina è alle corde
di Big Serge - bigserge.substack.com
La guerra russo-ucraina è stata un’esperienza storica inedita per diverse ragioni, e non solo per le complessità e i tecnicismi dell’impresa militare in sé. È stato il primo conflitto militare convenzionale nell’era dei social media e della cinematografia planetaria (sotto la costante presenza delle telecamere). Questo ha consentito di dare uno sguardo (anche se solo una sbirciatina) all’essenza stessa della guerra, che, per millenni, si era rivelata solo attraverso le forze mediatrici dei notiziari via cavo, dei giornali stampati e delle steli della vittoria.
Per gli eterni ottimisti, c’erano dei lati positivi nell’idea che una guerra ad alta intensità potesse essere documentata da migliaia di video in prima persona. Dal punto di vista della curiosità intellettuale (e della sagacia militare), la marea di filmati provenienti dall’Ucraina consente una visione dei sistemi e dei metodi di armamento emergenti e permette di ottenere una notevole quantità di dati tattici. Invece di aspettare anni le analisi dei rapporti post-azione e poter ricostruire la dinamica degli scontri, siamo a conoscenza in tempo quasi reale dei movimenti tattici.
Sfortunatamente, si sono verificati anche tutti gli ovvi inconvenienti della trasmissione di una guerra in diretta sui social media. La guerra è stata immediatamente sensazionalizzata e saturata da video falsi, fabbricati o con didascalie errate, saturi di informazioni che la maggior parte delle persone e degli pseudo-esperti non è semplicemente in grado di analizzare (per ovvie ragioni, una persona normale non è in grado di fare distinzioni tra due eserciti post-sovietici che utilizzano equipaggiamenti simili e parlano una lingua simile o addirittura la stessa).
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Javier Milei eletto Presidente della Repubblica Argentina
Una rivoluzione solo demagogica?
di Paolo Arigotti
Si è chiusa domenica 19 novembre, col ballottaggio, la corsa alla Casa Rosada, sede della presidenza della Repubblica Argentina. Fino all’ultimo c’è stata incertezza circa l’esito finale del duello, che ha visto fronteggiarsi il peronista Sergio Massa, ministro dell’Economia, e Javier Milei[1], candidato ultraliberista: come noto, il confronto si è concluso appannaggio di quest’ultimo. Il 72 per cento circa degli aventi diritto recatosi alle urne, percentuale di poco inferiore a quella registrata al primo turno (nel paese esiste un parziale obbligo di voto), ha assegnato a Milei il 55,69 per cento dei suffragi, contro il 44,31 andato al rivale: il vincitore ha ottenuto complessivamente più voti di qualsiasi altro candidato presidenziale dal 1983 (parlando sempre del secondo turno), con un importante successo nelle regioni dell’interno.
Milei ha potuto contare sull’appoggio dei leader del centrodestra di “Uniti per il Cambio”, formazione arrivata terza al primo turno col 24 per cento dei voti (candidato Patricia Bullrich): tra i suoi leader figura l’ex presidente della Repubblica Mauricio Macri[2], che ha offerto il suo sostegno a Milei nonostante i molti dissensi presenti all’interno della sua stessa compagine.
Un ulteriore e importante sostegno per la vittoria di colui che si è definito “anarco capitalista” è arrivato dagli elettori più giovani, che hanno intravisto in Milei un’opportunità di cambiamento radicale, in quanto candidato che si opponeva dichiaratamente al “sistema”[3].
Sul fronte opposto, a favore di Massa si erano schierati diversi leader latino-americani, tra i quali l’ex presidente uruguaiano José "Pepe" Mujica, considerato vicino all’allora governo argentino guidato da Cristina Fernández de Kirchner.
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La crisi del Modo di Produzione Capitalistico e la Rivoluzione in Occidente
di Giacomo Marchetti
Nel quadro dell’annuale Fête de l’Association National des Communistes si è svolto il dibattito “Di fronte alla militarizzazione dell’economia globale, come lottare per la pace e il progresso sociale?” con gli interventi di Charles Hoareau (ANC de France), Saïd Bouamama (Rassemblement Communiste), Marie-Josée Ngomo e Mariam Bah (Dynamique Unitaire Panafricaine). Un dibattito ricco, interessante e proficuo sul ruolo dei comunisti nella nuova fase della competizione internazionale e di crisi dell’egemonia dell’imperialismo occidentale. Di seguito l’intervento di Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti).
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Nell’agosto del 2021, commentando la precipitosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan, scrivevamo nell’editoriale del nostro quotidiano Contropiano.org: «I talebani hanno vinto, le potenze occidentali hanno perso. Gli sconfitti si portano dietro quel sistema di relazioni, ormai oggettivamente indebolite, che aveva caratterizzato la fine del mondo bipolare.
Perde quindi un mondo che aveva scommesso sul complesso militar-industriale e le “guerre infinite” come motore principale di sviluppo – tagliando sul Welfare e aumentando il Warfare – in una mutazione castrense e poliziesca della funzione dello Stato. Gli USA avevano pensato che quel meccanismo inaugurato di fatto dalla Reagan-Economics, con la corsa agli armamenti contro l’Unione Sovietica, avrebbe pagato all’infinito.
Un mondo che, come riflesso culturale indotto, non si accorgeva che oltre il suo Limes mentale un paese della periferia integrata – la Cina – stava diventando “la fabbrica del mondo” di prodotti ad alto valore aggiunto, mentre la Russia cessava di essere una “potenza regionale”, come la definì Obama in maniera quasi spregiativa, per diventare un global player cui non è conveniente pestare i piedi».
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La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani
di Mario Reale
Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano
Il primo libro di SP (Stefano Petrucciani) dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.
La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso.
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Una guerra senza vie d’uscita
di Nicola Lamri
Per cogliere il senso dell’attacco del 7 ottobre e del conflitto attuale come scontro dentro uno stato segregazionista, bisogna incrociare le mappe con il territorio, considerare i flussi demografici, tenere presente il modello coloniale
«La mappa conta», ricordano Christine Leuenberger e Izakh Schnell in un recente saggio incentrato sulla sfida cartografica posta dal conflitto israelo-palestinese. La mappa conta poiché contribuisce a imporre l’immagine, altrimenti intangibile, della nazione. Essa conta, poiché fonda l’unione della carta e del territorio, del piano della rappresentazione e di quello reale, conditio sine qua non per l’esistenza della comunità immaginata, all’interno della quale il popolo di una nazione moderna diviene pensabile. La mappa conta poiché è uno strumento politico, che tradisce lo sguardo di un’epoca sulla realtà circostante. «L’arte di irrigidire la vita in un sistema di segni», per dirla con Franco Farinelli, è il presupposto per qualsiasi interpretazione esaustiva dei fatti del mondo.
A ogni intensificazione degli attacchi israeliani contro le popolazioni palestinesi, torna a circolare online una mappa stilizzata, volta a illustrare il processo di progressiva espansione territoriale dello Stato ebraico a scapito di quello arabo. Ne esistono varie versioni, ma una delle più popolari è la carta in cui la sorte della Palestina viene comparata a quella dei nativi americani. Come nel caso delle popolazioni indigene dell’America settentrionale, si legge fra le righe, i palestinesi sarebbero destinati a finire nelle riserve.
Illusione ottica
Da qualche tempo, la visione della mappa rappresentante le «Palestinian lands», ridotte progressivamente a una serie di enclaves territoriali, circondate dalle ben più omogenee «Israeli lands», è fonte per me di turbamento.
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Palestina: strategie a confronto
di Enrico Tomaselli
Proviamo a indagare l’attuale fase del conflitto israelo-palestinese sotto il profilo strettamente militare: le strategie, le tattiche, le scelte fatte – e le condizioni oggettive – di una guerra in cui comunque interagiscono, direttamente o indirettamente, molti attori, ciascuno con i propri interessi e le proprie esigenze. Proprio per ciò, un puzzle complicato da risolvere.
* * * *
In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.
Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.
La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.
Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.
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Il complesso militare e industriale degli Stati Uniti (e dell’Europa)
di Paolo Arigotti
Il segretario di stato (leggi, ministro degli Esteri) degli USA, Anthony Blinken, ha tenuto lo scorso 13 settembre un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies[1], considerato uno dei “templi” della strategia a stelle e strisce, nel quale, pur ribadendo l’avversione dell’Amministrazione Biden nei confronti della Russia, ha confermato che la maggiore sfida alla leadership (o dominio, se preferite) politica, economica e militare degli States è rappresentata, specie nel lungo periodo, dalla Cina; tenuto conto del livello di “autonomia” del quale godono gli “alleati” di Washington (pensiamo solo a Giappone o Europa, Italia in primis) è ovvio che questo messaggio rappresenta una sorta di “direttiva” non ufficiale per tutte le “province” dell’impero.
In sostanza, il cambio di “colore” dell’Amministrazione statunitense non sembra aver inciso più di tanto sull’orientamento politico di Washington, che già al tempo di Donald Trump aveva individuato nella Repubblica popolare il principale avversario, forse l’unico in grado di tenere testa e/o contrastare, per lo meno nel lungo periodo, i disegni egemonici di Washington e scardinare quella sorta di unipolarismo scaturito dalla fine della guerra fredda.
La potenza americana deriva innanzitutto da quella militare. Le forze armate USA sono stanziate in circa 170 paesi sparsi per l’intero globo, e sono almeno 76 gli stati che ospitano le circa 642 basi presenti nei quattro angoli del mondo[2]; per la cronaca nella nostra penisola le basi NATO sono 120, cui se ne aggiungerebbe una ventina di non ufficiali[3]. Gli Stati Uniti surclassano nettamente il resto del pianeta anche per quanto concerne la spesa militare: nel 2022 il budget di Washington ha toccato gli 876 miliardi di dollari, cifra da sola equivalente a quella stanziata da undici tra le più grandi nazioni: Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Corea del sud, Giappone, Ucraina e Canada.
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Gaza. Disumanizzazione e ottimismo della disperazione
di Ruba Salih
Solitamente odiamo i silenzi ingombranti, quelli dei momenti dove una conversazione incespica e uno iato riempie goffamente lo spazio. Naturalmente facciamo ciò che possiamo per evitarli. Tuttavia, questo non è il caso di Gaza. Qui amiamo il silenzio, perché significa una pausa dalla morte e distruzione. Finché non è brutalmente rotto di nuovo dal rumore dei missili, che fanno traballare le nostre case e danzare i nostri cuori di paura… La scorsa notte siamo rimasti tutti nelle nostre stanze, ma mentre i bombardamenti divenivano sempre più fuori controllo e frequenti, abbiamo deciso di stare tutti insieme in una stanza nel mezzo della casa. Quella notte nessuno ha dormito fino all’alba. Alcune notti passano e finalmente il bombardamento si ferma. Ma la distruzione ha lasciato un segno di morte nei cuori della mia famiglia. Una parte significativa della nostra storia è stata ora distrutta. So che molti altri residenti di Gaza hanno sofferto molto di più. Le bombe hanno distrutto molte vite, molti sono diventati orfani, intere famiglie sono state distrutte e alcuni sono ancora sepolti sotto le loro case, mentre altri sono stati bombardati mentre fuggivano, in strada. Alcuni sono rimasti amputati e menomati. Chi è sopravvissuto ha perso una parte della sua anima…
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Le parole di Yusef Maher Dawas, tratte dal sito We are not numbers di cui è stato fondatore, raccontano del bombardamento israeliano a Gaza, a cui è sopravvissuto nel maggio 2022. Yusef è morto insieme a numerosi membri della sua famiglia quando la sua casa a Beit Lahia è stata bombardata il 14 ottobre 2023.
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Le cause economiche dietro il massacro di Gaza
di Maurizio Brignoli
Di seguito un commento de l'Autore di "Jihad e imperialismo", LAD edizioni, sulla mattanza in corso a Gaza da un punto di vista poco approfondito: l'economico
Gli eventi come le guerre, notoria continuazione della politica di stato con altri mezzi, hanno alle spalle una struttura economica. Proviamo ad allargare quindi la prospettiva e a cercare motivazioni allo sterminio dei palestinesi che vadano al di là della rappresaglia scatenata dopo la sanguinosa operazione Tempesta di al-Aqsa del 7 ottobre.
I piani di pulizia etnica, trasferimento forzato di popolazione e, in ultima istanza, genocidio non corrispondono solo al razzismo intrinseco alla dottrina sionista, che nasce con tutte le peculiarità di un’ideologia colonialistica, e alla necessità di stroncare la lotta di liberazione nazionale palestinese, ma corrispondono anche agli interessi del capitale occidentale (israeliano e non solo). Questi piani si inseriscono a loro volta nel contesto più ampio dello scontro interimperialistico che vede gli Usa (e il subordinato europeo) sempre più in difficoltà sul piano strutturale nei confronti dei concorrenti cinesi. Difficoltà che porta l’imperialismo occidentale a cercare di utilizzare l’unica arma efficace che ha ancora a disposizione e uno dei pochi settori produttivi in cui mantiene una predominanza: la guerra.
Guerra per i giacimenti e piani di deportazione
Che peso hanno gas e petrolio nel contesto del massacro in atto? Nel momento in cui l’Ue ha ridotto fortemente gli approvvigionamenti dalla Russia, il Medioriente e il Nord Africa (dove si trovano il 57% delle riserve mondiali di petrolio e il 41% di quelle di gas) hanno visto aumentare le richieste per le loro risorse energetiche.
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Un “pacchetto sicurezza” che trasuda paura e infamia
di Dante Barontini
Premessa necessaria. In questo periodo storico, in questo paese, siamo in presenza del minimo storico per quanto riguarda la conflittualità sociale, i fatti di criminalità, rivolte sociali e carcerarie.
Di questi tempi la principale causa di morte violenta è… andare a lavorare. I morti di lavoro del 2023 sono fin qui 1.068 (aumenteranno di certo entro sera, persino in una giornata di sciopero generale). Sul lavoro sono 823, in itinere 245, per una media quotidiana di 3,3. Un “diluvio di Al Aqsa” che si ripete ogni anno…
Se poi andiamo a guardare le statistiche sugli omicidi, in drastico calo da decenni, possiamo facilmente notare come la “tipologia principale” siano ormai i femminicidi: 103, finora, nel solo 2023. Quasi tutti avvenuti “in famiglia”, commessi da chi si conosceva bene, non “per strada nella notte” ad opera di sconosciuti.
Potremmo dunque dire che di tutto si sentiva il bisogno tranne che di un nuovo “pacchetto sicurezza”. Ma un governo para-fascista non ha molti altri argomenti nel suo piccolo “campionario delle idee”, e dunque ha approvato ieri un insieme di norme di dubbia coerenza giuridica, ma “fedeli” ad una mentalità preistorica.
Data la gravità di alcune di esse, sarà però bene prima analizzarle una per una e poi tracciare un giudizio sintetico.
Occupazioni di case
«Chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da 2 a 7 anni».
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Boicottare le università israeliane è una rivendicazione legittima e importante
di Lorenzo Lodi*
Una raccolta firme lanciata da un gruppo di accademici e le mobilitazioni degli studenti nelle università hanno acceso il dibattito sul boicottaggio degli atenei israeliani. Personaggi del mondo della cultura, come Tomaso Montanari, hanno criticato la rivendicazione in nome dell’ “autonomia e dell’indipendenza dell’università”. Si tratta invece di una parola d’ordine efficace contro la macchina di morte israeliana e per fare pressione sullo Stato sionista, colpendone l’economia. La rivendicazione dà inoltre il pretesto per smascherare l’idea che le università possano essere considerate contesti neutrali e al di sopra delle parti.
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Nelle ultime settimane le azioni militari genocide del governo Netanyahu ai danni della popolazione palestinese hanno suscitato un moto di indignazione nelle università in Italia, coinvolgendo sia settori di studenti, che di docenti e ricercatori. In particolare, un gruppo di accademici dell’Università di Bologna ha redatto e fatto circolare una raccolta firme rivendicando un cessate il fuoco e la rottura dei rapporti di collaborazione tra atenei italiani e israeliani, spesso implicati nelle pratiche di colonizzazione promosse dal governo di Tel Aviv. Una rivendicazione del genere risuona con i principi della campagna di boicottaggio collegata al movimento internazionale BDS (Boycott Disinvestment Sanctions), per la fine delle politiche di apartheid israeliane. L’iniziativa ha interagito con le occupazioni e le proteste che vari collettivi universitari hanno messo in campo in alcune città, accogliendo tra le rivendicazioni la richiesta degli studiosi di Bologna.
Naturalmente, il comunicato ha suscitato le ire della componente maggioritaria dell’accademia, coinvolgendo non solo fasce apertamente sioniste, ma anche studiosi vicini alla sinistra, che hanno attaccato duramente l’idea del boicottaggio accademico.
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Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”
di Daniela Palma
Abstract: Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
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Quando nel marzo del 1973, sotto i colpi della speculazione, il sistema di Bretton Woods dei cambi fissi andò definitivamente in crisi ed ebbe inizio il regime della fluttuazione,
non si avevano [di quest’ultimo] che vaghe nozioni a priori. Per gli stessi libri di testo di economia internazionale la fluttuazione era solo un’occasione di esercizio logico […]. Si pensava che il movimento dei cambi avrebbe corretto automaticamente gli squilibri che il vecchio sistema delle parità fisse lasciava accumulare. Apparentemente i cambi si muovono per riportare l’equilibrio, ma il loro stesso movimento muta all’interno e all’esterno le condizioni dell’equilibrio. Esso viene continuamente inseguito; viene raggiunto spontaneamente solo dopo lungo tempo e dopo mutamenti spesso intollerabili” (Biasco, 1985, p. 114).
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La débâcle militare e la resa dei conti interni: cosa accadrà ora a Kiev?
di Giacomo Gabellini
All’inizio di novembre, il generale Valerij Zalužny, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha scritto un articolo pubblicato sull’«Economist», arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica.
Dal quadro dipinto dal generale, emerge con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera di quest’anno dalle forze armate ucraine non ha raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Secondo Zalužny, il conflitto «si sta muovendo ora verso una nuova fase: quella che noi militari chiamiamo guerra “di posizione”, di combattimento statico e logoramento sulla falsariga della Prima Guerra Mondiale, in contrasto con la guerra “di manovra” di movimento e velocità».
A suo avviso, le forze in campo si sono arenate in una situazione di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuna svolta significativa della guerra, poiché la parità tecnologica – tipica dei conflitti simmetrici che l’Occidente si è ormai disabituato ad affrontare – che caratterizza i due schieramenti impedisce alle truppe di sfondare le linee difensive del nemico. Ne consegue che, in assenza di un concreto avanzamento qualitativo ma anche quantitativo di una parte sull’altra dal punto di vista delle capacità militari e di intelligence, il conflitto è destinato a languire nella condizione in cui si trova allo stato attuale.
Per Zalužny, il superamento della guerra di posizione passa necessariamente per l’ottenimento «della superiorità aerea che consenta alle forze di terra di penetrare in profondità nei campi minati; di una maggiore efficacia del fuoco di controbatteria; di accresciute capacità in materia di guerra elettronica, oltre che dalla possibilità di formare e addestrare unità di riserva in numero adeguato», attualmente compromessa dalle diserzioni di massa che si registrano ormai da molti mesi.
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«I veri cannibali sono i capitalisti»
Giorgio Fazio intervista Nancy Fraser
«La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro». Da questo presupposto Nancy Fraser prova a trovare punti di congiunzione tra le diverse lotte
Con il suo ultimo libro Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) Nancy Fraser ci ha consegnato una delle diagnosi più ampie e penetranti, oggi in circolazione, del capitalismo contemporaneo e delle sue tendenze autodistruttive. Intrecciando diverse linee di ricerca e tradizioni teoriche Fraser ha messo a disposizione un aggiornato vocabolario critico, che punta a rendere visibili i potenziali di trasformazione emancipativa che stanno emergendo nell’«interregno» in cui ci troviamo, infestato dai più disparati «fenomeni morbosi».
Questa intervista è stata rilasciata a margine della lezione pubblica che ha tenuto presso il dipartimento di filosofia dell’università La Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze dedicato alle nuove frontiere della teoria critica contemporanea: «Technology, Work and Democracy».
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Il tuo ultimo libro si intitola Capitalismo Cannibale. Perché dovremmo parlare di «capitalismo cannibale» per comprendere le logiche e le dinamiche del capitalismo?
Per definizione un cannibale è colui che mangia la carne di un altro essere umano, quindi più o meno di qualcuno della sua stessa specie. Nella storia razziale è stata proprio l’Europa imperialista a utilizzare questo concetto nei confronti delle persone africane. Io dico che i veri cannibali sono i capitalisti, non riferito ai singoli individui ma all’intero sistema. In qualche modo possiamo dire che questo sistema incentiva e invita i grandi investitori, le grandi corporation e altri soggetti con forti interessi economici ad accumulare profitto mangiando, cannibalizzando, le risorse che non sono necessariamente parte dell’economia ufficiale, come il lavoro di cura, il lavoro coatto e servile, i beni pubblici.
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La battaglia della Moneta Fiscale
recensione di Stefano Lucarelli*
Sylos Labini S. (2022), La battaglia della Moneta Fiscale. L’idea, i rapporti politici, gli attacchi, le prime applicazioni, le prospettive, Firenze: Il Ponte Editore, pp. 152, ISBN: 978888861869
Stefano Sylos Labini si fa testimone di una vicenda davvero emblematica per tutti coloro che sono interessati a comprendere le relazioni istituzionali che caratterizzano la politica economica italiana. La battaglia della Moneta Fiscale, infatti, può essere letto come il resoconto della elaborazione, diffusione e realizzazione di un progetto innovativo per la politica economica nazionale – la creazione di fatto di un circuito finanziario basato su uno schema di compensazione di crediti fra imprese, banche e governo.1 La definizione più generale di moneta fiscale è: “qualunque strumento trasferibile a terzi che lo Stato s’impegna ad accettare dal portatore per l’adempimento delle proprie obbligazioni fiscali e previdenziali nella forma di riduzione degli importi dovuti all’Amministrazione Pubblica” (p. 34).
Tuttavia, la definizione più accurata è, secondo Sylos Labini, quella presente all’interno del disegno di legge d’iniziativa parlamentare A.S. 2012 “Delega al Governo per l’istituzione dei buoni digitali di sconto fiscale”, presentato il 9 novembre 2020 al Senato:
qualunque titolo al portatore che lo Stato s’impegna ad accettare anche in forma compensativa, ai fini dell’adempimento delle obbligazioni fiscali, contributive e previdenziali, nonché per i pagamenti relativi a prestazioni sanitarie […] erogati in forma gratuita e aggiuntiva, ossia non sostitutiva rispetto ai redditi percepiti in euro, al fine di consentire l’espansione del potere d’acquisto e stimolare la domanda interna del sistema economico e finanziario nazionale. […] dopo due anni dalla loro emissione, i buoni digitali di sconto fiscale possono essere utilizzati sia dalle persone fisiche che dalle imprese per ottenere una corrispondente riduzione di obbligazioni finanziarie verso le amministrazioni pubbliche senza che lo Stato sia tenuto a rimborsarli in euro alla scadenza essendo non payable tax assets ovvero attività fiscali non pagabili (p. 116 e ss.).2
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La cesoia corazzata
di Salvatore Bravo
Il conflitto tra sionismo e palestinesi è giunto a un punto di svolta, la sproporzione tra l’attacco di Hamas e la reazione di Israele rivela la verità di una guerra dai contorni genocidiari. Se si pongono in successione gli eventi del conflitto negli ultimi decenni, la deriva sanguinaria in cui siamo, è solo l’effetto di un meccanismo di violenza ed esclusione in atto da non poco tempo. Gli scritti di Giancarlo Paciello con i loro dati e con la loro documentazione ricostruiscono la verità storica del presente ricostruendo la storia del conflitto. La Nakba (esodo) ovvero l’esodo palestinese è stato per Giancarlo Paciello un evento storico divenuto parte della sua biografia, egli non ha solo svolto un lavoro di ricerca, ma ha vissuto profondamente il dolore di un popolo costretto all’esodo e alla diaspora. Nei suoi scritti ha utilizzato il termine “sionismo”, poiché non accusa il popolo israeliano ma solo i sionisti.
Le violazioni dei diritti umani da parte di “Israele” denunciate dall’ONU mostrano, altresì, l’impotenza degli organismi internazionali di fatto sotto il controllo delle gerarchie delle potenze economiche, in primis, gli Stati Uniti. I diritti umani sono solo un mezzo nella strategia dell’imposizione del nuovo ordine mondiale che affonda nel caos di guerre e sconfitte. La logica dell’esclusione fisica dei palestinesi trova un punto di svolta nella costruzione nel 2002 del Muro che separa la comunità palestinese da quella israeliana. Ogni anno si festeggia la caduta del muro di Berlino, e si inneggia alla libertà ritrovata, ovvero il neoliberismo, dei paesi dell’ex blocco comunista, ma il silenzio cala sui nuovi muri che tagliano i popoli e preparano con la discriminazione spaziale la successiva eliminazione fisica. Il Muro costruito da “Israele” per proteggersi da eventuali attacchi suicidi non è un confine.
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Il vento dell’odio e l’Europa, che fare?
di Antonio Cantaro
Una interruzione sine die della politica e del diritto. Le parole usate come proiettili. E i proiettili come parole. Hamas Netanyahu, Netanyahu Hamas. Guerra d’odio alla massima potenza. L’ideologia unionista non è un antidoto. È necessaria un'Europa autonoma, neutrale, mediterranea
In tempi di opposti e manichei fondamentalismi ci sforziamo, sin dal numero zero del nostro web magazine, di tornare ai fondamentali. Primo. La maggior parte delle guerre in corso tra Stati, tra popoli, dentro i popoli, sono sempre più guerre d’odio. Secondo. La guerra israelo-palestinese, ancor più di quella russo-ucraina, è guerra d’odio alla massima potenza. Terzo. Nessuna comunità è immune dal cadere nel baratro delle guerre d’odio, compresa l’Europa che pure nel secondo dopoguerra era risorta sotto l’egida del “mai più la guerra tra noi”. Quattro. L’ideologia europea (‘unionista’) è lungi dall’essere un antidoto alle odierne guerre d’odio. Quinto. Non sarà oggi, ma è quantomai urgente lavorare da subito a un’altra Europa che, insieme ad altri attori della politica internazionale, contribuisca alla ricostruzione di un ordine mondiale di giustizia e pace: un’Europa autonoma, neutrale, mediterranea.
Il confine dell’odio
Tanti storceranno il naso. Come si fa a negare – si obietterà – di fronte a quel che accaduto il 7 ottobre che, da una parte, c’è il male e, dall’altra, c’è il bene? Come si fa a negare che è stato l’odio palestinese ad aver oltrepassato il confine tra Gaza e Israele per colpire le più innocenti delle vittime? Da una parte, ha scritto Domenico Quirico, centinaia di giovanissimi ragazzi in festa, musica, balli riuniti per un festival e, dall’altra, giovani con coltelli e kalashnikov, il “kit per il paradiso”, il massacro e il martirio (La Stampa,12 ottobre: Israele-Gaza, il confine dell’odio). Qui c’è solo una verità, diversamente da quanto sosteneva nel 1938 David Ben-Gurion, uno dei fondatori dello Stato di Israele: «Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità.
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Palestina, cuore del mondo
di Nicola Casale
La Tempesta di Al Aqsa ha provocato molti turbamenti sia in quel che resta della sinistra anti-capitalista sia in molti militanti che avevano conservato sulla pandemia una lucidità di classe. Una vera e propria Sindrome di Hamas, come la definisce questo articolo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/26619-raffaele-tuzio-la-sindrome-di-hamas.html che ne descrive brillantemente sintomi ed effetti. C’è effettivamente da interrogarsi su come mai soggetti che hanno rifiutato di dare credito a ciascuno dei dettagli politico-mediatici-scientifici agitati per gestione pandemica, vaccini, ecc. abbiano preso per buoni tutti i dettagli informativi tesi a dimostrare che l’azione della resistenza palestinese non fosse altro che un terroristico massacro di civili (ulteriore prova di come il problema non sia dell’informazione in sé, ma di come si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere, in ragione della propria condizione materiale, di coscienza, ecc. che non è solo la condizione di classe, ma anche l’ambito generale sociale, economico, politico in cui si vive: tanto per dire, anche i giovani palestinesi che vivono da noi si alimentano della nostra stessa informazione, dei social, ecc., eppure ne traggono conclusioni diametralmente opposte e vanno in pazza a rivendicare con veemenza free Palestine… pur non essendo militanti di Hamas e senza necessità di prenderne le distanze).
Come ben detto nell’articolo, se anche si fosse trattato solo di un atto terroristico non avrebbe, in nulla, cambiato l’ordine dei problemi, ossia quelli di un popolo costretto a reagire, spesso con atti disperati (che solo tali solo per l’enorme asimmetria di armamenti), a una lunga, sistematica, brutale oppressione che non conosce limiti di alcuna natura. Ma non di questo si è trattato, bensì di una vera e propria operazione militare, fatta con i mezzi poverissimi che è possibile reperire nel quadro spaventoso di controllo militare e di intelligence esercitato da Israele, e messa in atto da tutti i gruppi di resistenza tranne Al Fatah.
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Preve a dieci anni dalla morte
Luci e ombre di un'eredità
di Carlo Formenti
Il decennale della morte è uno stimolo per ragionare sul lascito di Costanzo Preve in merito all’attualità di Marx e del suo pensiero. In questo articolo mi occupo di tre testi, La Scuola di Francoforte, Adorno e lo spirito del Sessantotto (Opere, vol. III ; Shibboleth, Roma 2023), La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo (Franco Angeli, Milano 1984, prossimamente ripubblicato da Shibboleth) e “Demos e Libertà” un articolo apparso sulla rivista “Eretica”. Ho strutturato l’articolo in cinque paragrafi dedicati, rispettivamente, al rapporto fra Preve e Lukács, alla critica del postmodernismo, alla critica della sinistra, al presunto idealismo di Marx, ai limiti del pensiero sociologico e politico di Preve.
Preve e Lukács
Preve è uno dei pochi filosofi italiani che abbia colto la portata del contributo dell’ultimo Lukács, raccolto nei quattro volumi della Ontologia dell’essere sociale (1). Negli anni Ottanta e Novanta - allorché la cultura neoliberale celebrava il funerale del comunismo - i marxisti ortodossi, ridotti a un manipolo di nostalgici, associavano il filosofo ungherese quasi esclusivamente a Storia e coscienza di classe (2), opera giovanile parzialmente ripudiata dall'autore (3), al contrario di Preve, il quale aveva capito il potenziale dirompente dell’Ontologia, un’opera monumentale che faceva giustizia dei dogmi del “materialismo storico e dialettico” senza accodarsi al liquidazionismo eurocomunista, mentre cercava di ridefinire e attualizzare le linee fondamentali del pensiero marxiano, sfrondandole dagli equivoci associati a certi “regimi narrativi” - così li definiva Preve (4) – presenti in alcune opere dello stesso Marx.
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Due guerre
di Enrico Tomaselli
Quella che si combatte in Ucraina, e quella che si sta combattendo in Palestina, non sono semplicemente due guerre che oppongono l’occidente collettivo al mondo multipolare, ma sono in effetti osservabili come due battaglie di una medesima, grande guerra globale, nella quale la declinante egemonia statunitense si confronta con le potenze emergenti. Un conflitto destinato a durare ancora anni, e che sarà segnato da nuove ‘battaglie’, in differenti quadranti dello scacchiere mondiale.
* * * *
Forse per la prima volta dal 1945, il cosiddetto occidente collettivo si trova a dover affrontare due guerre significative nello stesso momento. Si tratta di una situazione già di per sé eccezionale, ma lo è ancor più in quanto il mondo occidentale sta attraversando una fase a dir poco complicata, e in cui sicuramente la sua potenza (non solo militare) viene apertamente messa in discussione e sfidata, da parte di più attori sulla scena internazionale. E per quanto, soprattutto negli ambienti anglo-americani, una lunga dimestichezza con la geopolitica e le strategie globali dovrebbe aiutare a leggere correttamente la fase, ciò sembra invece non accadere. O quanto meno, non del tutto.
Dal punto di vista dell’occidente, infatti, sembra che – semplicemente – una guerra rimuova l’altra. Archiviata di fatto quella in Ucraina, data sostanzialmente per persa e comunque ormai fonte più di imbarazzo e fastidio, Stati Uniti e NATO sembrano essersi gettati sulla (rinnovata) guerra israelo-palestinese, con lo stesso entusiasmo dei primi mesi in Ucraina.
Anche se per il momento a sostenere economicamente Israele sono soltanto gli USA, mentre i paesi europei si limitano a un supporto politico totale e incondizionato [1], è evidente che l’onda lunga di questa guerra finirà per investire ancora una volta proprio questi ultimi.
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Il marxismo-keynesismo di Giovanni Mazzetti: una proposta per uscire dalla crisi
di Lorenzo Palaia
L’ esegesi e la sintesi tra il pensiero di Marx e quello di Keynes, per mano del già professore di economia presso l’università della Calabria Giovanni Mazzetti, non costituiscono un’oziosa operazione speculativa ma vogliono rispondere ai problemi concreti con cui la nostra società si trova a confrontarsi quotidianamente, cruccio di tanti intellettuali: perché questa disoccupazione e stagnazione strutturali continuano senza soluzioni, nonostante i tanti tentativi di mettervi mano? Perché le nostre società dei paesi sviluppati sono in una crisi che, nonostante i tentativi di dissimulazione, non è affatto contingente e sembra non presentare sbocchi? L’immagine eloquente in quarta di copertina del libro di Mazzetti, Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, pubblicato dal sempre attento e interessante editore triestino Asterios (con cui l’autore ha pubblicato diversi altri libri), raffigura un robot alla catena di montaggio che licenzia il lavoratore umano e ne prende il posto. Si tratta del problema epocale con cui economisti e sociologi si trovano a dover fare i conti, dai quali l’autore prende ad esempio alcuni argomenti tipici – tra gli altri le tesi di Riccardo Staglianò, Domenico De Masi e Yuval Noah Harari – per confutarne le diverse impostazioni finora adottate. Sintetizzando, potremmo dire che l’atteggiamento più errato è quello di chi non concepisce affatto il problema perché non ne vede la novità: per costoro, l’innovazione tecnologica si trova oggi a produrre ciò che ha fatto sempre, distruzione di posti di lavoro e creazione di nuovi; così il capitalismo si auto-riprodurrebbe sempre ponendo esso stesso le condizioni per uscire dalle crisi in cui si caccia, che sono dunque in ogni caso crisi congiunturali.
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L’Unione europea verso l’irrilevanza economica?
di Vincenzo Comito
L’UE dovrebbe indirizzare la propria azione al mondo multilaterale. Prevale la tendenza a rinchiudersi nel campo atlantista, come mostrano le vicende russo-ucraina e israelo-palestinese, usate per far prosperare l’industria delle armi.
Nel testo che segue cerchiamo di analizzare con qualche dettaglio la situazione e le prospettive economiche dei paesi facenti attualmente parte dell’Unione Europea, concentrandoci comunque soltanto su alcuni aspetti della questione. Il quadro appare, almeno a chi scrive, allarmante e senza grandi prospettive.
La competizione mondiale sulle tecnologie avanzate
Un’analisi svolta dall’Australian Strategic Policy Institute (Hurst, 2023), con il sostegno del Dipartimento di Stato statunitense, ha analizzato di recente la posizione competitiva dei vari paesi del mondo nel campo delle tecnologie avanzate. In 37 dei 44 settori analizzati nella ricerca la Cina è il paese guida, superando anche gli Usa, che mantengono il primato soltanto in 7 settori. Nessuno degli altri paesi, compresi quelli europei, ha una posizione di leadership in qualcuno di essi. Il paese asiatico tende a posizionarsi, secondo lo studio, come la superpotenza scientifica e tecnologica principale del mondo. La Cina genera da sola all’incirca il 50% del totale mondiale degli articoli scientifici ad alto impatto. Può darsi che lo studio, per alcuni aspetti, sovrastimi la dominazione cinese, ma in ogni caso esso fotografa una situazione corretta nelle grandi linee, in particolare in relazione al ruolo dei paesi europei.
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L’espulsione dei Palestinesi esaminata di nuovo
di Dominique Vidal*
Una ricostruzione storica fatta da Dominique Vidal circa 25 anni, ma tutt’ora utilissima per illuminare quello che l'”Occidente liberista” e Israele vorrebbero tenere sotto il tappeto (tutto quello che è avvenuto prima del “fatale” 7 ottobre).
Una riflessione anche breve sull’obiettivo strategico di Israele, fin dalla fondazione, porta all’unica conclusione possibile: “ripulire” della presenza palestinese i territori che a loro interessano, senza alcun limite predeterminato. Non a caso, tra le “unicità” di Israele c’è l’assenza di confini ufficiali…
* * * *
Cinquant’anni fa, l’ONU decise di partizionare la Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. La successiva guerra arabo-israeliana si concluse con Israele che espandeva la sua parte di territorio di un terzo, mentre ciò che rimaneva agli arabi fu occupato da Egitto e Giordania.
Diverse migliaia di palestinesi fuggirono dalle loro case, diventando i rifugiati al centro del conflitto.
Israele ha sempre negato che siano stati espulsi, né forzatamente né per politica. I “nuovi storici” di Israele hanno riesaminato tale negazione e hanno messo fine a una serie di miti.
Solo pochi riconoscevano che la storia del padre, di ritorno, redenzione e liberazione, era anche una storia di conquista, spostamento, oppressione e morte. Yaron Ezrachi, Rubber Bullets
Tra il piano di partizione per la Palestina adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 e la tregua del 1949 che pose fine alla guerra arabo-israeliana, iniziata con l’invasione del 15 maggio 1948, diverse centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono le loro case nel territorio che alla fine fu occupato da Israele (1).
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La decrescita è contro gli interessi dei lavoratori?
di Don Fitz
I detrattori affermano che i lavoratori non sosterranno mai la decrescita, ma non capiscono né i lavoratori, né la decrescita
Il 2023 ha visto l’estate più calda mai registrata nell’emisfero settentrionale, mentre nell’emisfero meridionale si è vissuto l’inverno più caldo mai registrato; a tutto questo seguirà un autunno con terrificanti tempeste e inondazioni in tutto il mondo. Il numero di persone che attribuiscono la catastrofe climatica alla crescita economica è in aumento.
Ma non tutti concordano sul fatto che il problema sia la crescita [economica]. Alcuni rispondono che la crescita è destinata a permanere mentre il concetto di "decrescita" è un assurdo nonsense.
Molte delle accuse contro la decrescita hanno trovato delle risposte. Tra il libri, quello di Jason Hickel Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta (2021) è forse il più noto e leggibile. E un'eccellente raccolta di articoli (Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development) è disponibile nell'edizione di luglio/agosto 2023 di Monthly Review.
La “decrescita” è contro i lavoratori?
Un'accusa sembra ancora priva di una risposta adeguata: «La classe operaia statunitense è intrinsecamente contraria alla decrescita perché comporterebbe una massiccia perdita di posti di lavoro». Questo fa pensare che i sostenitori della decrescita non abbiano mai sentito parlare di una settimana lavorativa più corta. Perché questa sarebbe la prima conseguenza della decrescita. Per molti lavoratori statunitensi, avere una settimana lavorativa di 40 ore sarebbe un gradito sollievo.
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La resistenza a Gaza smaschera l'imperialismo USA
di Sara Flounders*
La morsa degli Stati Uniti sta cedendo. La sua egemonia globale e la sua capacità di proporsi come l’unico decisore globale vengono messe in discussione da un popolo disperato e rivoluzionario tenuto totalmente prigioniero.
L’audacia della resistenza palestinese coordinata, iniziata con un’operazione a sorpresa il 7 ottobre, non è stata solo uno shock per la macchina militare sionista e la sua vantata rete di intelligence, ma sta anche inviando onde d’urto nell’impero statunitense.
Sia Israele che i governanti statunitensi si affidano ora alla forza bruta. Ma la forza bruta non può ribaltare questo colpo politico. Altre armi fornite dagli Stati Uniti per la distruzione di massa non fanno altro che chiarire il ruolo degli Stati Uniti – e susciteranno l’ulteriormente odio di milioni di persone nel Sud globale. La resistenza palestinese coordinata è una minaccia mortale per Israele e per il suo principale finanziatore.
Molti commentatori concordano sul fatto che il mito dell'”invincibilità” israeliana non si riprenderà mai da questo colpo. Il mondo intero ha visto, ancora e ancora, i video dell’audace volo coordinato su strati di recinzioni elettrificate, filo spinato e telecamere di sorveglianza da parte di piccoli deltaplani motorizzati, seguiti da droni leggeri. La protezione offerta dall’Iron Dome israeliano è stata infranta da raffiche di missili a spalla che hanno colpito i centri di comando israeliani fino a Tel Aviv.
Sebbene l’attacco sia stato una sorpresa, non è stato certamente non provocato. È stato un atto di disperazione da parte della popolazione di un campo di concentramento che ha sofferto 16 anni di isolamento totale e 75 anni di sfollamento completo. L’intera popolazione palestinese è stata condannata al carcere a vita.
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