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Smettere (On quitting)
di Francesca Coin
Riportiamo la traduzione dall’inglese (a cura di Michela Pusterla e Franco Palazzi e rivista dall’autrice) dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di Francesca Coin, originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera – Theory and Politics in Organization
Negli ultimi anni, si è assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Questo articolo esamina l’impatto dell’accademia neoliberale sulla soggettività. Nell’università neoliberale, la soggettività è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di concorrenza, dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma incentivata di abuso di sé. In questo contesto, abbandonare l’accademia non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso neoliberale e la percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad abbracciare valori e principî di altro tipo.
Introduzione
Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013).
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Le paure di un’Europa germanizzata
di Marco Novelli
C’è un periodo centrale della storia contemporanea della Germania, dell’Europa e persino del mondo, a quasi un secolo dal suo inizio, che andrebbe riscoperto e approfondito, a mio avviso, ma ad avviso anche di molti altri commentatori politici attuali[1], al fine di trarne la giusta esperienza per il presente e per i tempi futuri o, più semplicemente, al fine di creare un quadro dell’epoca più veritiero ed oggettivo possibile. Cadere in una lettura incompleta della storia, infatti, è alquanto facile ed un approfondimento che vada oltre la lettura di un semplice articolo di giornale o del programma scolastico di storia è doveroso se si vogliono cogliere tutte le sfumature e non rimanere intrappolati nella “parzialità” cui spesso veniamo relegati in quanto ultimi attori dei processi politici e sociali.
Il periodo in oggetto è la Repubblica di Weimar, Germania dal 1918 al 1933, periodo repubblicano transitorio tra l’epilogo dell’Impero, in seguito alla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, e l’avvento al potere di una delle dittatura più feroci della storia, quella nazista. Periodo in cui visse una fragile democrazia, con suffragio universale e una Costituzione “sociale”, molto simile a quella adottata poi, ad esempio, nel nostro Paese nel ‘48.
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Cybercom
Per l'evoluzione del marxismo
di Marcello Olivieri
Introduzione alla terza edizione
Il presente progetto di ricerca sull'aggiornamento del paradigma del materialismo storico nasce a metà degli anni '90. La prima edizione di Cybercom. Per l'evoluzione del marxismo risale al luglio 2007. Si trattava di un pamphlet a tesi piuttosto breve, grezzo e incompleto come le severe quanto preziose critiche e osservazioni dei lettori mi fecero notare. La consapevolezza delle loro ragioni mi indusse a pubblicare una seconda edizione rivista e ampliata un anno e mezzo dopo. Il risultato fu più che confortante: alle voci cybercomunismo e sociologia della creatività il motore di ricerca Google classificava il sito al primo posto su un totale rispettivamente di 10.300 e risultati al 31 luglio 2011. Posizione occupata dal gennaio 2010 fino a tutto il 2013. All'epoca, i risultati precedenti la pubblicazione del libro erano di circa 7.000 e 230.000. Segno evidente che le integrazioni avevano suscitato un crescente interesse.
Le ulteriori critiche e suggerimenti e gli eventi occorsi da allora hanno prodotto questa terza edizione, cresciuta dalle duecento pagine della prima a oltre quattrocento. L’impianto teorico originale è rimasto invariato, ma sono stati aggiunti i mancanti ampliamenti e le necessarie precisazioni, ulteriori schemi sintetici e molti dati empirici che spero contribuiscano a chiarire in modo più esaustivo le tesi.
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Linee strategiche e alleanze elettorali
di Circolo “Dolores Ibarruri”- Valdelsa fiorentina
Pubblichiamo un’interessante riflessione sulla ricostruzione dell’identità comunista e non genericamente di “sinistra”, ancor più necessaria durante il passaggio elettorale
“ … si dichiara inconsistente il concetto stesso di "scopo finale" e si respinge categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si nega l’opposizione di principio tra liberalismo e socialismo; si nega la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.”
(Lenin, Che fare?)
“Prima di unirci, e per unirci,
dobbiamo innanzitutto delimitarci (definirci) risolutamente e con precisione”
(Lenin, Dichiarazione della redazione dell'Iskra)
Da tempo, anche nel PRC, si insiste sulla necessità di un'unità elettorale con forze genericamente “di sinistra”. Ma, prima di stabilire le linee su cui un partito comunista possa, in precise situazioni, andare a un tavolo con forze non comuniste, è doveroso definire i punti fermi dell'identità comunista.
Alcuni compagni sembrano ritenere quasi “obbligatoria”, sempre e comunque, la partecipazione del PRC alle competizioni elettorali, indipendentemente da scelte contingenti e obiettivi di prospettiva delle forze con cui dovrebbe costituirsi l'eventuale unità elettorale.
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Finalmente qualcosa “dal basso”!
La mossa delle giumente di razza, Giulietto e Antonio
di Fulvio Grimaldi
Scricchiolio, brusio, vocio, brulichio, ronzio, cicaleccio, pissi pissi, perfino flatulenze revansciste … Le ultime settimane ci hanno lanciato nella contesa elettorale. Sono quelle in cui i cancelli si aprono e ogni genere di botolo si lancia ringhiando all’inseguimento del coniglio di pezza. Più che il tifo tonitruante di scommettitori e drogati di corse fine a se stesse, sono questi rumorii ad aver fatto vibrare etere, cronaca e storia. Degni di quella che appare come una gara non proprio tra levrieri. (Quei levrieri che consolarono lo zar Nicola II quando, nel 1905 a San Pietroburgo, dovette far abbattere dalla guardia imperiale alcune migliaia di operai e contadini straccioni che ai suoi levrieri osarono contendere i bocconi. Quegli operai e contadini straccioni che, nella storiografia della Mosca attuale, sono diventati turba di farabutti violenti che attentavano alla vita di uno zar buono e saggio, finalmente in procinto di essere proclamato santo nel plauso dei nipoti dei servi della gleba dagli zar così amorevolmente curati).
Sto divagando. Torniamo al brulichio. Brulichio per noi, ché per coloro che lo hanno emesso parrebbe avere il volume e la risonanza delle trombe di Gerico. Sembra che oggi basti riempire un teatro, occupare il palco di una conferenza stampa, vedersi in quattro amici al bar, per ricavarne investiture popolari con la stessa naturalezza e automaticità in cui i re erano tali per grazia di dio e volontà del popolo. Se in Ernest Hemingway la campana di Spagna suonava per l’umanità, qui trillano campanelle per ribaltare il destino di qualche circoscrizione.
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L’anatra zoppa. I comunisti e la questione di genere
di Il Pungolo Rosso
L’atteggiamento di sufficienza con cui storicamente i compagni aderenti ai gruppi della sinistra rivoluzionaria del passato hanno guardato al movimento delle donne, giudicandolo in base ad una pretesa ortodossia marxista, la pretesa di autosufficienza di chi si impegna nel “movimento” o nelle lotte sindacali, il considerare le donne proletarie, in particolare quelle del sud del mondo, come sottomesse e arretrate, è un atteggiamento a dir poco incauto.
La questione di genere è, nella prospettiva rivoluzionaria cui si richiamano i comunisti, una questione assolutamente centrale.
Non si è mai data nella storia una rivoluzione senza la partecipazione attiva e autonoma delle donne.
Nei tempi recenti, e soprattutto nelle grandi rivoluzioni degli ultimi due secoli, le donne sono state in prima fila, hanno anzi dato il là mobilitandosi per prime e trascinando con la loro determinazione l’intero proletariato.
La doppia o tripla oppressione che subiscono le donne in tutto il pianeta è sicuramente un peso, ma al tempo stesso un vantaggio. Esse hanno molte più ragioni di ribellarsi dei loro compagni, e infatti lo hanno fatto e lo fanno continuamente, conquistando con dure battaglie anche i minimi miglioramenti della loro condizione, pagati spesso con l’isolamento e la riprovazione sociale, quando non anche con l’aggressione fisica.
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L’economia politica del comune
di Andrea Fumagalli
Pubblichiamo in anteprima la prefazione del volume Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, scritto da Andrea Fumagalli (Derive Approdi, 2017). Si ringrazia l’editore
Alla fine del 2007 (dieci anni fa) pubblicavo un libro dal titolo “Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione”[1]. Si trattava del tentativo di sviluppare una critica dell’economia politica delle forme di accumulazione e valorizzazione del capitalismo contemporaneo, sviluppatosi sulle ceneri e sulle trasformazioni del capitalismo fordista-materiale che aveva caratterizzato la seconda metà del secolo scorso.
Venivano discusse le nuove forme dell’accumulazione capitalistica basate, da un lato, sulla finanza come strumento di valorizzazione e, dall’altro, sul ruolo sempre più rilevante della conoscenza e dello spazio come perni della riorganizzazione della produzione e del lavoro. Dopo il periodo del cd. post-fordismo, a partire dalla metà degli anni ’90, un nuovo paradigma si andava affermando in modo sufficientemente egemone e pervasivo in buona parte del globo. Avevamo così cominciato a parlare di capitalismo cognitivo, termine che, come noto, ha suscitato non poche polemiche, soprattutto all’interno di quel pensiero critico, di impostazione marxista, che ritenevano ancora dominanti le modalità di estrazione del plusvalore di derivazione fordista. Secondo questa visione, il processo di sussunzione reale, la netta separazione tra macchina e essere umano, tra lavoro produttivo di matrice salariale e lavoro tendenzialmente improduttivo (o residuale) che incorpora attività cognitive e relazionali (ritenute ancora intellettuali) erano ancora le basi per definire la natura e la forma del rapporto di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro.
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Conversazioni con Stalin, di Milovan Gilas
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Ovviamente scomparso dalle librerie, torna rieditato da Pgreco Conversazioni con Stalin, il libro di memorie del dirigente comunista jugoslavo Milovan Gilas, al tempo della pubblicazione (1962) già compromesso con l’anticomunismo e di lì a poco definitivamente venduto all’Occidente. Nonostante ciò, si tratta di un libro bellissimo, per chi lo sa leggere. In prima battuta è semplicemente lo sfogo dell’ex dirigente in rotta col suo partito. Grattata via la superficie del rancore emerge il punto di vista intimo di un capo comunista, per anni ai vertici del movimento comunista jugoslavo, posizione che gli ha permesso numerosi incontri con la dirigenza sovietica e in primo luogo con Stalin. Da questi incontri Gilas ne ricava un’antropologia del potere sovietico e un’essenza del comunismo. Ma andiamo con ordine.
C’è un fatto che caratterizza i rapporti tra Jugoslavia e Urss, e che difficilmente si ritroverà nelle relazioni tra Unione sovietica e gli altri paesi del glacis: nonostante l’ovvia “devozione” per Stalin e l’Urss, il gruppo dirigente jugoslavo cercò di mantenere sempre le relazioni politiche su di un piano di parità e di indipendenza. Fatto questo reso possibile dalla particolare evoluzione della Resistenza jugoslava che, come noto, si liberò autonomamente dell’invasore nazi-fascista, ma non solo: in Jugoslavia si sviluppò parallelamente alla guerra d’indipendenza una massacrante guerra civile contro le formazioni monarchico-nazionaliste cetniche. Una doppia guerra che portò sia alla Liberazione che alla nascita di un nuovo Stato. Questo fatto impresse al comunismo jugoslavo la sua originalità nonché la predisposizione a salvaguardare gelosamente le conquiste epocali prodotte dalla Resistenza-Rivoluzione del ’41-’45. Di questa indipendenza sono intrise le pagine di questo diario.
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Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione
Introduzione di Samuele Cerea*
Pubblichiamo qui la bella introduzione di Samuele Cerea alla traduzione italiana del libro di Robert Kurz: Il collasso della modernizzazione, Mimesis 2017.
Il testo di Kurz, uscito in Germania nel 1991, a ridosso del crollo dei regimi a socialismo reale dell’est, mantiene ad oggi una sua vibrante attualità. La tesi di fondo, in estrema sintesi, è che questo crollo, contrariamente a quanto se ne è detto e si continua a dire, non ha rappresentato la vittoria di un blocco, quello occidentale, presunto “alternativo” e antagonista a quello orientale, che ne sarebbe uscito sconfitto e umiliato. Tantomeno, ha sancito la fine di ogni possibilità di “rivoluzione”, decretando quello capitalistico-occidentale non solo come il migliore dei mondi possibili, ma proprio l’unico, e affrettandosi a seppellire Marx e ogni istanza critica che abbia l’ardire di metterlo in discussione. Piuttosto, sarebbe la prima tappa di un crollo ben più importante e inevitabile, quello dello stesso sistema capitalistico, a cui anche i regimi dell’est hanno sempre appartenuto, sia pure nella forma di “modernizzazioni di ritardo”, quindi in modo raffazzonato e un po’ cialtrone, ma non meno devastante.
La crisi economica mondiale sembra aver confermato, a posteriori e in modo clamoroso, le tesi di Kurz e di tutti coloro che hanno partecipato ad elaborare la “critica del valore”, ovvero la teoria su cui poggia l’analisi che legge la fine del “socialismo da caserma” dei regimi dell’est come primo momento di una rottura, come detto, ben più ampia.
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L’ascesa cinese: “Adam Smith a Pechino” di Giovanni Arrighi
di Paolo Missiroli
Questo articolo, dedicato all’opera di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino, prosegue l’approfondimento iniziato nell’articolo Giovanni Arrighi e la crisi dell’egemonia USA
Uno dei più bei capitoli di Operai e capitale, l’opera più nota di Mario Tronti, si intitola Marx a Detroit. In quei passaggi, tra i più fortunati di quelli di Tronti, l’operaista italiano sostiene che, a differenza che in Europa, dove la lettura delle lotte di classe era viziata dal marxismo, che diveniva così una griglia astratta di lettura del reale, negli Stati Uniti del primo dopoguerra, essa era del tutto de-ideologizzata: era Marx che veniva letto mediante le lotte di classe. Marx era “nelle cose”, anche se non nei libri, come in Europa. Marx era a Detroit come uno spettro, e continuava ad imparare e a vedere le sue teorie verificate anche dopo morto. Marx era, quindi, quasi fisicamente a Detroit. La classe operaia americana aveva fatto a meno di lui proprio perché lui aveva avuto ragione. Curioso destino: avere il massimo del successo (cioè di efficacia della propria lettura della realtà) proprio dove si ha il minimo assoluto di fama. E non solo: avere il massimo del successo proprio dove si viene traditi, dove non si è in sé stessi il punto di riferimento della realtà storica, ma dove è la realtà storica a essere il fulcro della lettura stessa che si dà del testo.
In questo senso Giovanni Arrighi parla di Adam Smith a Pechino.
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La norma e il karma della legge
Sulla miseria del soggetto produttivo
di Paolo Vernaglione Berardi
Giorgio Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto - Bollati Boringhieri editore 2017 -pagine 140 – €. 14,00
Pierre Macherey, Il soggetto delle norme – Ombre Corte editore – pagine 215 – €.18,00
Il successo del diritto
Una ricerca sull’istituzione e la funzione della norma deve risalire all’origine semantica del termine. Emerge così la sequenza concettuale tipica della modernità per cui ciò che comunemente è definito legge risulta dall’identità della norma con il diritto positivo. Ma questa traslazione, che per un verso è arbitraria e per altro verso è la risultante di un’operazione giuridico-politica eminente, chiarisce indirettamente un’altra occorrenza del concetto di norma, che assume oggi per lo più il senso di un paradigma universale, considerato indiscutibile: la normalità. La normalità sembra essere il grande compito della modernità che l’assume come legge di comportamento.
Un’archeologia del diritto deve dunque risalire la differenza tra norma e legge per cercare di scoprire il luogo di insorgenza di ciò che è normativo. Per far questo vale la pena delimitare lo spazio di senso della norma cercando di fare luce sui rapporti tra legge norma e normalità.
Questi rapporti, che sono densi e si districano con difficoltà, si presentano in una doppia linea che all’apparenza disegna una continuità, ma che a guardar bene segna invece una genealogia spezzata, i cui punti di rottura corrispondono al progressivo scivolamento di senso della norma dall’antichità all’epoca moderna.
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Cosa fare dell’anniversario del 1917?
di Valerio Romitelli
A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci si trova di fronte a interrogativi e riflessioni sull’eredità di un evento che ha cambiato radicalmente il volto del XX secolo. Il crollo del socialismo reale si è portato appresso uno stigma che ha reso difficile un’analisi critica e possibilmente priva di pregiudizio sulla portata effettiva del 1917 e sul grande periodo di cambiamenti sociali e movimenti emancipatori che essa ha innescato.
Questo contributo, senza aspirare ad una esaustiva rassegna storiografica, vuole mettere in luce i principali nodi della riflessione sul 1917 e le sue conseguenze di lungo periodo prendendone in considerazione analisti e critici e cercando di trarre alcune conclusioni sulla pesante eredità della più importante rivoluzione della contemporaneità.
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Ci sono centenari dall’immensa portata simbolica. Caso clamoroso da tale punto di vista è quello della Rivoluzione Francese del 1789: che nell’Ottocento costituì un’importante occasione per il formarsi della socialdemocrazia in Europa e che invece nel Novecento registrò il disfarsi dell’Unione sovietica col conseguente crollo di credibilità di tutto il comunismo. Ben diversamente il centenario in corso della Rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia, fino a imprevedibili prove contrarie, non pare sancire alcunché di simbolicamente rilevante.
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Politica del limite e pensiero costituente
di Roberto Esposito e Toni Negri
Pubblichiamo qui, in versione ridotta, uno scambio tra Roberto Esposito e Toni Negri. Il dibattito si è tenuto in occasione del primo Festival di DeriveApprodi (25-27 novembre 2016) e si trova oggi raccolto, in versione integrale, nel volume Effetto Italian Thought (a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, Quodlibet, 2017). Il libro inaugura, insieme ad altri, la collana Materiali IT diretta da Dario Gentili ed Elettra Stimilli.
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Politica del limite
In dialogo con Toni Negri
di Roberto Esposito
In questo intervento – pronunciato al festival di DeriveApprodi1 – provo a interloquire con la relazione di Toni Negri sulla fine della sovranità. Ne riassumo rapidamente la tesi di fondo.
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La politica monetaria della BCE gonfia la finanza senza rilanciare l'economia reale
E la diseguaglianza aumenta
di Enrico Grazzini
Alla fine di ottobre la Banca Centrale Europea guidata dall'italiano Mario Draghi ha prolungato, con grande plauso dei commentatori, la manovra di espansione monetaria, il cosiddetto Quantitative Easing. Le politiche monetarie della BCE di Draghi si sono confermate espansive mentre quelle fiscali dettate dal trattato di Maastricht e dall'assurdo Fiscal Compact imposto da Berlino, sono invece restrittive. E allora tutti a ripetere ancora una volta che Draghi “è il salvatore dell'Europa”. Da quando Draghi, l'ex banchiere della Goldmann Sachs, ne è diventato presidente, la BCE è acclamata come salvatrice dell'Europa (e della patria Italia, l'anello debole tra le grandi economie continentali). Tutti riconoscono che la BCE è in effetti l'unica istituzione che è riuscita a difendere l'eurozona dalla speculazione finanziaria e a controbilanciare con la sua politica espansiva la brutale e stupida austerità teutonica. Senza il supporto della politica monetaria della BCE di Draghi l'euro non esisterebbe più da anni. E quindi la BCE è diventata un mito e un tabù.
Ma la politica della BCE non difende solo la moneta unica europea: aiuta soprattutto le banche e aumenta le diseguaglianze. La BCE affianca attivamente l'Unione Europea nelle sue politiche di contro-riforme strutturali, cioè di destrutturazione del mercato del lavoro e di riduzione selvaggia del welfare. Grazie alla politica monetaria della BCE che alimenta i mercati finanziari i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E non è detto che la sua azione alla fine sarà efficace.
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Bisogna sognare! E ieri il sogno è cominciato
di Je so' Pazzo
Grazie.
Avevamo detto: "bisogna sognare!", e ieri il sogno è cominciato.
Anche se i media, pure quelli di sinistra, non sembrano essersene accorti, ieri è successo qualcosa di straordinario. E non solo perché un centro sociale ha dichiarato di voler partecipare alle elezioni, o perché un'assemblea chiamata 3 giorni prima ha riempito un teatro di 800 posti senza sponsor mediatici, senza "grandi nomi", senza bisogno di truppe cammellate...
Ma per l'entusiasmo, la passione, l'emotività che ieri si sentiva nell'assemblea e che ha attraversato in questi giorni l'Italia come una scarica.
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Riunire la classe, costruire il blocco sociale, lanciare l’alternativa
di Autori vari*
Dopo il fallimento del Brancaccio, costruire un’alternativa delle classi popolari
1. Brancaccio: cronaca di un fallimento annunciato
Il fallimento del percorso del Brancaccio segna un punto di rottura nello scenario delle possibili prospettive per la lotta di classe del nostro Paese. Da svariati anni, a ogni turno elettorale, nazionale o non, siamo stati costretti ad assistere a dinamiche sempre meno convincenti. Partiti che portano nel loro nome riferimenti espliciti alla lotta di classe e al comunismo si sono piegati a processi elettoralistici lanciati da realtà e in contesti totalmente refrattari alle esperienze più conflittuali del Paese, senza nessun collegamento rispetto alle contraddizioni che i lavoratori, i disoccupati, gli studenti e tutti gli sfruttati vivono quotidianamente sulla propria pelle.
Ripensando alle esperienze di “Cambiare si può”, “Rivoluzione civile”, “L’altra Europa” e alla miriade di proposte regionali e comunali, non era difficile prevedere che l’Assemblea del Brancaccio sarebbe naufragata appena i nodi fossero venuti al pettine. Le aspettative suscitate sono state spezzate già durante le fasi della prima assemblea con l’estromissione dei compagni di “Je so’ pazzo” e l’allontanamento dei rappresentanti del PCI, per lasciare posto ai vari D’Alema e Bersani.
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Note sulla condizione globale
Bond vigilantes, banchieri centrali, crisi 2008-2017
di Adam Tooze
[Dallo storico inglese Adam Tooze, professore alla Columbia University e vincitore del Wolfson History Prize, un utilissimo e ampio riassunto di quanto accaduto sui mercati finanziari in questi anni e sul ruolo dei banchieri centrali. Alzare la testa dalla contingenza attuale, per porsi in una prospettiva più ampia dal punto di vista del tempo e dello spazio, consente di osservare meglio le forze devastanti che sono in opera nel contesto globale in cui viviamo. Dopo la liberalizzazione dei capitali, negli anni 70, la politica ha gradualmente perso ogni potere, lasciandolo a entità sciolte da qualsiasi vincolo elettorale: da una parte i mercati, lontanissimi dall’avere – neanche collettivamente – comportamenti razionali, dall’altro le banche centrali, di fatto diventate arbitre del destino di Paesi e governi. Nel gioco strategico che contrappone questi giganti, noi cittadini e i nostri diritti – per cui è stato versato sangue – come il diritto a un lavoro, a una vita dignitosa, alla salute, siamo sempre più deboli e a rischio].
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L’economia politica alla fine del ventesimo secolo era caratterizzata da un evidente parallelismo. A partire dalla metà degli anni 70, un aumento del debito pubblico senza precedenti in tempi di pace coincise con la liberalizzazione delle transazioni internazionali di capitali.
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Robotizzazione e alienazione dall’essere collettivo
di Karlo Raveli
Alcuni di noi si chiedono - e siamo ancora troppo pochi - se l’oggettività dell’attuale robotizzazione delle persone (a) non sia da annoverare tra i processi sociali più significanti, cumulativi (b) e logicamente negativi di questa ‘civiltà’ secolo XXI. Generata in modo sempre più intrinseco e profondo dallo sviluppo capitalistico (c) come un lineamento ben concreto e sostanziale (e forse conclusivo...) della crescente alienazione umana del Sistema.
Soprattutto per il fatto che incide in misura crescente e devastante sulla natura originariamente empatica ed essenzialmente collettiva (d) della nostra specie. Derivando pertanto in un individualismo (e) sempre meno invisibile e sostenibile. Cioè con apparenze, comportamenti e modi di vivere progressivamente condizionati e dissociati dall’intrinseca essenza ed esistenza comunitaria della persona (f). Quindi, tra l’altro, nell’inevitabile direzione di fenomeni via via più drammatici di solitudine, isolamento e abbandono in crescenti settori della società. Soprattutto metropolitana o cosiddetta “sviluppata”.
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Neoliberismo, biopolitica e schiavitù
Il capitale umano in tempo di crisi
di Silvia Vida
1. Lo ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora, chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La diagnosi del presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli oppongono una resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni, dal razzismo istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto che, per funzionare, il capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più possibili, soprattutto nelle aree del mondo più avanzate (ibidem, 11-12).
Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno.
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La via "reale" alla democrazia necessaria
Luxemburg, Gramsci, Basso e Caffè
di Quarantotto
1. Cerchiamo di definire se e come esistano condizioni di ripristino della democrazia sostanziale, cioè quella "necessaria" accolta dalla nostra Costituzione, perchè, in sua assenza, la democrazia semplicemente "non è", come di dice Mortati, qui, p.4.1.; e non paia che tale interpretazione dell'essenza della nostra Costituzione sia una suggestione storicamente datata, subìta dal massimo costituzionalista italiano (Basso ci testimonia tutt'altro, sulla dialettica del processo costituente, qui, p.4.2.), dato che, simmetricamente, sono gli stessi massimi pensatori "liberali", Pareto, Mosca, Einaudi, a teorizzare che, la democrazia, appunto "liberale", debba necessariamente ridurre la rappresentanza popolare a "finzione" (qui, p.3).
2. Nel tentare di porre ordine su questo argomento, comincerei, - in una rapida rassegna compiuta col necessario punto di vista divulgativo-, dal pensiero di Rosa Luxemburg, traendo da un buon lavoro politico-filosofico (e quindi avulso dal pur fondamentale pensiero economico anticipatore della Luxemburg stessa, per la verità riattualizzatosi per l'imponenza delle forme attuali di imperialismo economico - o globalismo istituzionalizzato, e comunque evolutosi nell'analisi keynesiana di Kalecky). Si veda come, ad esempio, la formula, sopra citata, del democristiano Mortati, sia allineata sull'origine concettuale, e persino lessicale, fornita a suo tempo dalla Luxemburg:
"Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la democrazia.
Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa superflua o addirittura di impaccio; al contrario per la classe operaia essa resta sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché sviluppa forme politiche che serviranno al proletariato come punti di partenza e di appoggio per la trasformazione della società»; imprescindibile: «perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti il proletariato può diventare cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici».
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Capitalismo 2017
La Grande depressione e l’ascesa di Trump: ovvero la tragedia e la farsa
di Antonio Carlo
Questo lavoro riprende le ricerche degli anni passati pubblicate su Sinistrainrete ai seguenti link: 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016
1) L’economia mondiale nel 2017, i mali di sempre senza soluzione
A) Scienza economica ed istituzioni davanti alla Grande depressione. Confusione ed impotenza
La Grande depressione in atto1 ha spinto la scienza economica in una situazione di incertezza estrema (alludo ovviamente a quegli studiosi che non sono struzzi per vocazione e convenienza). Due economisti italiani (entrambi conservatori) scrivono (relativamente ai “perché” della crisi”): “Alcuni economisti affermano di sapere perché: scarsa domanda (pubblica), diseguaglianze che riducono i consumi delle famiglie, calo della produttività, salari che non crescono: la verità è che non sappiamo se davvero vi sia una stagnazione secolare, e se ci fosse da che cosa dipenda. Sarebbe molto più utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare “verità”. L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo e l’incertezza non aiuta ad investire ed accrescere.
L’unica soluzione è diventare più innovativi, in modo da ridurre i nostri costi e rendere più difficile a Cina ed India di imitare i nostri prodotti”.2
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Il bilancio 2018: un quiz senza risposte
Roberto Romano
La “programmazione di corto respiro” della Legge di Bilancio presentata dal governo finisce per inficiare la trasparenza dei conti pubblici e anche gli obiettivi di riduzione del debito. Una analisi della manovra
La cornice della Legge di Bilancio per il 2018
Il Bilancio dello Stato per il 2018, presentato al Senato il 29 ottobre, ricalca le indicazioni generali della nota di aggiornamento del DEF1. I provvedimenti indicati nel DEF – aggiornato – hanno trovato una coerente applicazione nella Legge di Bilancio, ancorché non manchino delle sorprese relativamente ad alcune misure che non erano state preventivate. Per esempio lo stanziamento di 250 mln – a valere sul 2019 -per la formazione Industria 4.02, le misure per la famiglia (100 mln per il 2018-19-20), oppure gli interventi relativi al SUD (200 mln per il 2018) che, in realtà, appare più che altro una partita di giro.3
La cornice macroeconomica nazionale rimane inalterata. In particolare è confermata la crescita del PIL per il 2018 all’1,5% rispetto al quadro tendenziale indicato all’1,2%. La maggiore crescita di 0,3 punti percentuali è, sostanzialmente, imputabile alla parziale sterilizzazione delle clausole di salvaguardia – mancato aumento di IVA e accise – per quasi 15 mld per il 2018 e poco più di 6 mld di euro per il 2019.
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Recensione di Potenza ed eclissi di un sistema
Hegel e i fondamenti della trasformazione
di Edoardo Raimondi
Un libro di Emiliano Alessandroni, con introduzione di Remo Bodei
Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione (Mimesis, Milano-Udine 2016) è forse uno dei tentativi più audaci, apparso negli ultimi tempi, di restituire il pensiero di un Hegel ben distante da quelle interpretazioni canoniche, e dal sapore dogmatico, che nell’arco di decenni – a ben veder – non ne avrebbero saputo restituire il giusto significato ed il giusto valore. Ché ripercorrendo tutto il sistema hegeliano – attraversando anche gli scritti giovanili dell’autore tedesco – Emiliano Alessandroni, con un’analisi attenta dei testi, in primis della Wissenschaft der Logik e della Phänomenologie des Geistes, porta alla luce come la lezione hegeliana possa non solo essere considerata essenziale per la comprensione del nostro tempo, tornando così a farsi artefice di un discorso coerente su cosa possa andare a significare per noi la trasformazione nella storia, ma soprattutto contribuire al risveglio del concetto stesso di critica – questione a cui è dedicato l’intero capitolo III del libro. Tornando a rischiarare, questo è certo, il significato fondamentale della “contraddizione oggettiva”, motore e molla del divenire determinato che non farebbe altro che dispiegarsi in strutture processuali, materiali e culturali insieme, essenzialmente dialettiche e storiche, pur sempre sottese all’essere che si scopre prettamente sociale (ciò che non può far altro che manifestarsi, nella sua significatività e nella sua determinatezza, in e attraverso un linguaggio che sa comprendere se stesso).
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Solitudine della teoria comunista
di Bruno Astarian
Nel testo che segue, cercheremo di comprendere la situazione di grave isolamento in cui versa la teoria comunista nella nostra epoca. È difficile, per i teorici, non vedere a qual punto il linguaggio che usano – che devono usare – risulti incomprensibile alla grande maggioranza dei proletari, anche quelli di buona volontà. Questo è vero indipendentemente dalle differenti opzioni teoriche. Tra i gruppi o gli individui che riflettono teoricamente sulla situazione attuale della società capitalistica, e sul suo superamento possibile, nessuno ha trovato il linguaggio e/o il punto di vista che gli permettano di uscire da un piccolo milieu ripiegato su se stesso. Questa situazione rimette in questione la teoria comunista nella sua specificità storica? Oppure la rimette semplicemente al suo posto?
1. La teoria comunista e la lotta di classe
Cominciamo col dire che cosa la teoria comunista non è. La teoria comunista non è il resoconto scientifico della congiuntura economica, degli imprevisti dell’accumulazione del capitale.
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Questione omosessuale e capitalismo
di Eros Barone
La tesi che intendo sostenere è che il comportamento omosessuale è tanto più diffuso quanto più la società è contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita, a mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella forma della pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione di agonismo permanente (lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica1 ), così come fortemente agonistici erano i rapporti tra le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione delle Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per tenere sotto controllo questa energia potenzialmente distruttiva, i cui correlati mitologici sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del comportamento omosessuale in Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione nella civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione di quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di tipo patriarcale-solidaristico ad una società imperiale-cosmopolita con forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio.
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