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L’impero del bene di Philippe Muray

di Francesco Paolella

C’è ora la traduzione italiana de L’empire du bien, di Philippe Muray, la cui versione originale uscì in Francia nel 1991. Quindi 26 anni fa; ma in questo libro troviamo molto del mondo attuale e di quello che arriverà in futuro: ossia, il dominio, “libero” e “democratico”, dell’Opinione, assieme all’ossessione per il benessere, per la pulizia, per la virtù, per la felicità…

Insomma, la società contemporanea, che si vuole laica, liberale se non addirittura libertaria, ha scelto di votarsi a una nuova fede, a una religione più efficace e terribile di ogni altra: quella del bene, anzi del Bene. Muray non si scaglia qui tanto contro il cosiddetto “buonismo”, ma contro lo spettacolo del Bene: “Viviamo in un’atmosfera di religiosità furiosa. E non sto parlando della buona vecchia religione di una volta, perché l’ateismo avanza, lo vediamo tutti, l’indifferenza si diffonde, le grandi fedi di un tempo (quelle sì che erano veramente folli e, in quanto tali, potevano giustificare la follia religiosa) sono sostanzialmente sparite. La nostra religione è ancora più delirante: la vera fede, oggi, è credere nello Spettacolo” (p. 27).

Si tratta dello spettacolo che mette in scena la farsa di un mondo dove per il male non c’è più posto, dove l’igienismo, la tolleranza, la cultura e la “spiritualità” si sono imposti irresistibilmente. Il negativo, il dire no, le idee sconce e indigeribili, lo sporco, il pericoloso, semplicemente rimangono fuori e, quindi, non ci sono più. “Questa è la vera epopea: il Bene – quello vero, quello intero – contro tutto il Male. Avanti tutta! La ragione definitiva contro il torto perenne. L’avamposto della Nuova Bontà guida il popolo contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico di avorio e di pellicce, contro i responsabili delle piogge acide, la xenofobia, l’inquinamento, la devastazione del paesaggio, il tabagismo, l’Antartide, i pericoli del colesterolo, l’AIDS, il cancro eccetera eccetera” (p. 19).

L’ingiustizia, il razzismo, la violenza sono stati relegati nella memoria: i fantasmi dei colpevoli vengono ritualmente riesumati dal passato per mostrare il cambiamento avvenuto da allora. L’espulsione del male ha imposto un conformismo radicale, che solo la società di massa, con la sua logica binaria, ha potuto instaurare. Il dominio dell’opinione pubblica rappresenta l’universale meccanismo di censura e di autocensura prescritto dallo Spettacolo, da quello che Muray chiama l’“Impero del Sorriso”. Al di là di ciò che lo scrittore francese pensasse della sessualità contemporanea o dei “diritti dell’uomo”, è indubbio che la retorica spettacolare del Bene, il farisaismo della beneficenza, il cinismo della filantropia siano oggi intoccabili, perché massimamente redditizi: “Dilige et quod vis fac, diceva Sant’Agostino. Ama e fa’ quello che vuoi. Oggi sarebbe piuttosto: Di’ che ami e fa’ tutti i soldi che vuoi” (p. 25).

Nonostante il processo di secolarizzazione e la liberazione dei costumi, la cultura di massa è schiacciata da “valori” e feticci sempre più incombenti. La “litania dei buoni sentimenti” (p. 37) è irresistibile, per cui “ormai anche i razzisti vogliono essere antirazzisti come tutti” (p. 21). La salute pubblica, per continuare a vincere, deve prevenire ogni male possibile: è la prevenzione la chiave di volta del sistema. Ogni anomalia va neutralizzata, ogni “evento” va previsto e annunciato, a cominciare dal tempo, vera ossessione contemporanea: “La sceneggiata dell’abolizione del brutto tempo va in onda ogni sera, quando vi fanno la psicologia dell’anticiclone, quando dal nord della Francia giunge la minaccia di piogge torrenziali, quando la neve sulle Alpi non cade proprio all’inizio della stagione sciistica, quando l’estate torrida, quando l’emergenza siccità, quando la primavera gelida. Un’anomalia dopo l’altra: ‘teleattimi’ che immortalano attacchi chiari e netti ai diritti climatici dell’uomo” (p. 68).

In nome del Bene pubblico, si consuma il narcisismo di massa, non tanto dei singoli (l’individualismo non è ormai che un simulacro del passato), ma il narcisismo della massa, anonima. E così siamo nel mondo di Bouvard et Pécuchet: non è Facebook il regno delle frasi fatte? Nel 1991 non esistevano ancora i mondi social, non c’era Facebook e non c’era l’odio virtuale, ma li ritroviamo già descritti in questo libro: tutto è effimero, vince l’ipocrisia caritatevole, le vittime del giorno sono usate e subito dimenticate, e il Kitsch si impone in primo luogo nel mondo “alto” della cultura, ridotto a una fiera permanente fatta di festival e di “eventi”. Come risultato di tutto ciò, isolarsi diventa sempre più difficile, il silenzio è visto come una malattia da debellare, e sparire è impossibile: o si è presenti o si è morti. “Non rispondere sarà uno sport per pochi, uno di quelli riservati alle élite. I maligni ci andranno a nozze. Un’infedeltà al rito collettivo, un microcrimine contro la specie, un sopruso portentoso. Un’azione eclatante che le generazioni che verranno ricorderanno con devozione. Le trasmissioni sulle persone scomparse si moltiplicheranno” (p. 91).

Conseguenza ancora più grave (e qui Muray sembra davvero Orwell): sarà sempre più difficile ridere. La comicità diventerà sempre più ingombrante, fastidiosa e ingestibile, perché, per esistere, deve pur far vedere le increspature della vita.

Tutto è sacro e ritualizzato, e non si può fuggire nemmeno ridendo.

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