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manifesto

L’esistenza fittizia di un «noi» senza conflitti

di Marco Bascetta

«Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra» di Alessandro Dal Lago, per Cortina editore. Quale forma di partecipazione si offre con la promessa dell’agire collettivo e dell’appartenenza?

«Questa è l’essenza di ciò che si chiama populismo: parlare per conto di un popolo che non c’è». Proviamo a prendere le mosse da questa affermazione di pregevole nettezza tratta dal primo capitolo del nuovo libro di Alessandro Dal Lago (Populismo digitale, Raffaello Cortina, pp. 170, euro 14). Nella sua semplicità la definizione ha il merito di mettere a fuoco la coincidenza tra l’idea di popolo e il suo uso politico, di cui l’autore ripercorre sommariamente la storia fino alla nostra contemporaneità digitale.

POPOLO, INSOMMA, è il nome che legittima il potere o il suo sovvertimento, sotto forma di una inafferrabile trascendenza. Che si pretenda di «servirlo», di «guidarlo» o, ancora, di interpretarne la «volontà». Si pensi a un principio equivoco come quella «autodeterminazione dei popoli» che se da un lato ha animato le lotte contro il colonialismo, dall’altro ne ha anche coperto le derive autoritarie. Per non parlare della proliferazione di piccole patrie nutrite di un nazionalismo esasperato e intollerante, che a questo principio si richiamano.

Almeno a partire dalle dottrine che stanno a fondamento della politica statuale moderna (Hobbes, in primo luogo) il popolo che non c’è è chiamato in vita da una «scelta generale» di sottomissione, da una delega, da un affidamento al potere del sovrano. Con il che il nesso tra il popolo e l’«uomo forte», sul quale tutte le definizioni di populismo sembrerebbero concordare, è saldamente stabilito una volta per sempre. Popolo è dunque una idea fusionale che tende a cancellare le differenze e sopprimere le contraddizioni che attraversano il corpo sociale, o comunque a tacitarle, in regime di democrazia, attraverso la sacralizzazione del principio di maggioranza.

L’IDEA DI MOLTITUDINE, per quanto problematica e sfuggente, ha se non altro il merito di contrastare la finzione di un soggetto unitario dotato di volontà che non può esprimersi, tuttavia, se non attraverso una «guida». Nessuno ha mai preteso, infatti, di parlare a nome della moltitudine che per definizione si sottrae a qualsiasi sintesi o rappresentazione. La diffidenza nei confronti di questa polarità concettuale priva la critica del populismo di uno strumento in grado di coglierne in profondità l’inevitabile travaso nella retorica (e nella politica) della sovranità nazionale. La quale, nell’analisi di Dal Lago, prende oggi la forma di un «neo nazionalismo» di natura reattiva che non si propone più di «creare nuove nazioni, ma di ricreare o purificare lo spirito autentico di quelle esistenti», facendo ricorso a un «gergo dell’autenticità» rivolto contro i nemici esterni e interni: gli stranieri e le élites, il basso e l’alto di ciò che dal popolo è appunto escluso. Ma a differenza del popolo del pactum subiectionis, il popolo dei populismi si autoprodurrebbe attraverso processi di aggregazione, dinamiche conflittuali e «partecipative» come suggerisce la teoria di Ernesto Laclau.

TUTTAVIA, questa modalità «antagonista» non lo mette affatto al riparo dall’egemonia di concezioni gerarchiche, autoritarie, quando non esplicitamente razziste, di cui la cronaca ci mostra l’indiscutibile diffusione. Del resto anche i fascismi storici e, più in generale, ogni espressione del nazionalismo, hanno suscitato estese esperienze di «partecipazione» non solo dettata da opportunismo e paura. L’affidamento a un capo si completava con la convinzione di stare contribuendo in prima persona al prodursi di un qualche fatidico destino. Nel celebre discorso dello Sportpalast nel 1943 Joseph Goebbels è al popolo che mostra di rivolgersi chiedendo «volete voi la guerra totale?». Ed ottenendo in risposta un ovvio e corale «sì!» è il popolo germanico che sceglie la guerra.

Come sappiamo, il mondo socialmente omogeneo mobilitato dalla radio di Goebbels non esiste più. Come si produce allora, oggi, il popolo che non c’è come fondamento effettivo di un potere politico? Quale forma di «partecipazione» si offre con l’implicita promessa di un agire collettivo e di un’appartenenza? La risposta di Dal Lago suggerisce di abbandonare la ricerca degli sfuggenti soggetti sociali che possano rientrare nell’alveo di questo popolo immaginario per rivolgere l’attenzione all’«ambiente» in cui le tonalità emotive, le pulsioni e le rappresentazioni generalmente attribuite al populismo si generano e si diffondono. Questo ambiente altro non è che Internet dove un’esistenza virtuale si sostituisce alle costruzioni astratte della filosofia politica e alle convenzioni artificiose della democrazia rappresentativa.

L’ESISTENZA SOLO virtuale di questo popolo influenza enormemente non solo la forma, ma anche i contenuti e l’autorappresentazione dei soggetti che vi partecipano. La sentenza prevale sull’argomentazione, il pregiudizio sul giudizio, l’umore sul ragionamento. Sembrerebbe un’accozzaglia ingovernabile di opinioni allo sbaraglio. Ma non è affatto così. Gli imprenditori politici della rete sono assai abili nel canalizzare questa confusione, nel selezionarne le costanti più direttamente utilizzabili, nell’ottenere le risposte volute da soggetti convinti di partecipare concretamente alla decisione politica. Così che gli orientamenti virtuali del popolo virtuale possano conseguire effetti del tutto materiali a sostegno di poteri assolutamente reali. Ovviamente, alle spalle di tutto questo esistono le esperienze e le condizioni di vita prodotte dalla fine dell’assetto produttivo e del compromesso sociale che hanno caratterizzato quasi tutta la seconda metà del Novecento. Ma è essenzialmente nella dimensione digitale che la loro espressione si fa materia e sostanza di una politica che parla «a nome del popolo». E che ne blandisce risentimenti e paure.

QUESTO «AMBIENTE», tuttavia, non è solo comunicativo e culturale, ma costituisce l’organizzazione produttiva nella quale la forza lavoro contemporanea è messa all’opera, con tutte le contraddizioni che le sono proprie: tra autonomia e dipendenza, tra individualismo e conformismo, tra cooperazione e competizione. La soluzione gerarchica e discriminatoria di queste contraddizioni nell’esistenza fittizia di un «noi» non più attraversato da conflitti può essere approssimativamente designata con il nome di populismo.

Nello stile autoritario, nei riflessi d’ordine e nella colpevolizzazione delle devianze, nella retorica della «virtù» e dell’«onestà» e nell’affidamento all’infallibilità del leader, Dal Lago vede (con particolare riferimento al Movimento5stelle) un fenomeno di «parafascismo», che trova nellarete il suo luogo ideale di espressione e di autoconferma. «Para» sta ad indicare la distanza dalla «classicità» dei fascismi novecenteschi, ma anche una qualche parentela stilistica e psicologica. Nella forma in cui essa può darsi in condizioni di vita e soggetti così diversi da quelle degli anni Venti e Trenta. È l’incomprensione di questa contraddittoria diversità da parte delle sinistre vecchie e nuove che ha preparato il terreno ai tribuni del popolo che non c’è.

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