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Un mondo capovolto: in crescita le disuguaglianze

di Giovanni Di Benedetto

Quali sono le conseguenze e le implicazioni dell’accumulazione di capitale sulle condizioni di vita dei lavoratori e della maggioranza della popolazione mondiale e, dunque, sui destini dell’umanità? A dieci anni dall’inizio della crisi economica dei subprime, significative deduzioni si possono trarre da alcuni recenti studi statistici sullo stato dell’economia mondiale e sulla distribuzione della ricchezza e dei patrimoni fra le diverse aree geografiche del pianeta, i differenti paesi, e le diverse classi sociali. Emergono due dati su tutti: il primo riguarda il fatto che negli ultimi trenta anni sono indiscutibilmente aumentate le disuguaglianze tra la parte della popolazione più ricca del pianeta e il 50 per cento di popolazione più povera. In pratica l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%. Aumenta dunque la disuguaglianza di reddito e la sperequazione: il rapporto della Ong britannica Oxfam dello scorso anno sottolineava il fatto scandaloso che otto persone soltanto, di cui abbiamo nomi e cognomi, possiedono una ricchezza di 426 miliardi di dollari che è pari a quella posseduta dalla metà della popolazione del pianeta, ossia a 3,6 miliardi di persone. Secondo il rapporto sulle disuguaglianze mondiali del World wealth and income database pubblicato circa un mese fa, il 14 dicembre del 2017, l’1% più ricco del mondo si è accaparrato il 27% della crescita totale del reddito mentre il 50% più povero si è dovuto accontentare del 12%.

Global Wealth Report di Credit Suisse nel novembre dello scorso anno ricordava che l’1% di super-ricchi che possiede oltre il 50% della ricchezza complessiva nel 2008 ne possedeva appena il 42,5%.

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A mo’ di esemplificazione paradigmatica, nel grafico sopra riportato è rappresentato il livello di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza nazionale negli Stati Uniti, dove l’1% si accaparra il 20% della ricchezza nazionale e il 50% della popolazione, posizionato sul versante più in basso, è costretto a dividersi un’aliquota che oscilla fra il 12 e il 13 %. Peraltro la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre di più anche in Italia dove secondo i dati Oxfam l’1% della popolazione detiene il 25% della ricchezza nazionale e i primi sette miliardari italiani posseggono una ricchezza maggiore della ricchezza detenuta dal 30% più povero dei nostri connazionali.

È bene ricordare che ogni processo sociale di produzione è anche processo di riproduzione. Indipendentemente dalla forma sociale che il processo di produzione assume, esso deve ripetersi continuamente se non si vuole che una qualsiasi forma sociale smetta di consumare e produrre. Per di più, se la produzione è produzione di merci nella forma capitalistica, la riproduzione sarà riproduzione di capitale. Quest’ultima, considerata in concreto, non può che risolversi in accumulazione ossia in riproduzione su scala progressiva e allargata del rapporto sociale che presuppone la separazione fra proprietà e lavoro e la subordinazione del lavoro al capitale. Marx scriveva, già un secolo e mezzo fa, che “il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose” (Marx, Il Capitale, libro I, Roma, 1989, p.828). In effetti, insieme alla riproduzione delle condizioni materiali della produzione, è necessario che possano riprodursi anche i rapporti di riproduzione sociale che vincolano, tenendolo in una condizione di dipendenza, il lavoratore al capitalista. Entro i termini e le condizioni con le quali si riproduce l’attuale modello di sviluppo non può non darsi, a meno che non intervengano controtendenze riconducibili in ultima istanza all’intervento soggettivo della scelta politica, un allargamento della disuguaglianza economica e della forbice sociale. L’accumulazione capitalistica determina, tra i suoi effetti, non solo quello della estensione a livello mondiale, del rapporto salariato, ma anche quello della crescita della polarizzazione sociale, con una élite aristocratica sempre più ricca e facoltosa.

Il secondo dato riguarda, soprattutto per quel che concerne lo spazio economico dell’Occidente, la perdita di potere sociale della cosiddetta classe media, oramai da tutti quanti annoverata, in maniera concorde, tra i soggetti “vinti” della globalizzazione, che ha registrato un significativo calo del reddito e che rischia seriamente di precipitare verso il basso della scala sociale.

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In un articolo pubblicato per Le Monde economie e intitolato “Des sociétés où cohabitent des gens aux revenus très differents peuvent-elles rester démocratiques?” (14.12.2017), lo studioso di disuguaglianze economiche e sociali Branko Milanovic si chiedeva se società in cui convivono persone con redditi molto diversi possono rimanere democratiche o, piuttosto, assecondare pericolose derive populistiche. Soprattutto negli Stati Uniti ma, sebbene in misura minore, anche in Europa, le classi sociali medie, insieme alle classi lavoratrici, perdono diritti, prerogative e welfare, e vedono oramai compromessa la rete di protezioni e garanzie sociali conquistate nei Trenta gloriosi. Non a caso, questa tendenza alla proletarizzazione e all’impoverimento si accompagna, come dimostra la grafica, a un sostanziale arretramento delle istanze dei pubblici poteri e della statualità, al momento non più in condizione di sostenere lo stato sociale e il debito pubblico, e a un’esplosione scandalosa dei patrimoni privati.

È interessante notare come l’impoverimento dei settori intermedi della società, che nell’attuale momento storico si manifesta, in particolar modo, nei paesi del ricco occidente (tendenze contrarie, antagonistiche, sono presenti nei paesi emergenti), potrebbe essere ricondotto a una delle conseguenze della legge generale dell’accumulazione capitalista che individua gli effetti dell’aumento di investimenti di capitale, entro lo sfondo del loro ininterrotto movimento ciclico, sulla classe lavoratrice. Quanto più estesa e profonda è la capacità di accumulazione del capitale, tanto più grande è il suo dispotismo sulla forza lavoro che, in tal modo, viene resa, sempre di più, variabile dipendente della logica della valorizzazione. L’espansione del lavoro salariato, che ha risucchiato entro la propria sfera ampi settori della classe media, si è accompagnata non solo a un aumento vertiginoso dei profitti ma anche a un’accresciuta segmentazione della composizione del mondo del lavoro. Quest’ultimo ha risentito dell’ingresso nel mercato mondiale di milioni di lavoratori provenienti dai paesi emergenti e dai paesi più poveri, ingresso che ha diminuito il potere contrattuale e di negoziazione dei lavoratori dei paesi ricchi. Già ai tempi di Marx l’estensione del mercato mondiale, e l’ideologia libero scambista che ne derivava, mettevano gli uni contro gli altri, in termini di pressione salariale, i lavoratori delle nazioni più ricche a quelli di paesi in cui il costo della forza lavoro era più basso. Scriveva il nostro: “Oggi siamo un bel pezzo più avanti grazie alla concorrenza del mercato mondiale, sorta da allora. Il membro del parlamento Stapleton dichiara ai suoi elettori: « Se la Cina diventa un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia europea possa sostenere la lotta senza scendere al livello dei suoi concorrenti » (Times, 3 settembre 1873).” E concludeva con una considerazione che assomiglia a un vaticinio profetico: “Il fine auspicato dal capitale inglese non è più il salario continentale, ma il salario cinese.” (Marx, Il Capitale, libro I, Roma, 1989, p.657, nota 53 alla terza edizione).

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