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il rasoio di occam

Politica e filosofia “da dentro”

di Sandro Chignola

Che ruolo può avere la filosofia entro un mondo che ormai si è fatto “uno”, e cioè privo di quel “fuori” rispetto al quale essa ha sempre definito le sue coordinate? Se lo è chiesto Sandro Chignola nell'appena pubblicato “Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory” (DeriveApprodi, 2017), libro nel quale si affrontano criticamente molte tendenze della filosofia contemporanea. Del libro pubblichiamo qui l'introduzione, per gentile concessione dell'autore e dell'editore

I testi che raccolgo in questo piccolo libro hanno avuto tutti la medesima origine. Essi sono stati scritti su invito per seminari, lezioni o convegni di studio all’estero: in Europa o, come avvenuto nella maggior parte dei casi, in America latina. A partire dalla circostanza per la quale sono stati redatti, essi hanno poi ottenuto una certa circolazione: alcuni tra di loro sono stati tradotti in altre lingue, sono stati discussi in altri contesti, hanno dato luogo a riprese.

I motivi per metterli qui assieme a disposizione del lettore sono perciò più di uno. Da un lato, il fatto che alcuni di essi non siano mai usciti in italiano o, quando ciò sia avvenuto, abbiano finito comunque col disperdersi in imprese editoriali differenziate e, in molti casi, occasionali (sintomo, varrebbe la pena di sottolineare, dell’autoimprenditorialità scientifica cui vengono spesso coartati giovani studiosi in cosiddetta, mi viene da sorridere, formazione); dall’altro, offrire la loro serie come indicatore della continuità di un posizionamento: intellettuale, se si vuole, ma soprattutto politico.

Che cosa significa pensare in un mondo che si va facendo – se non si è già fatto – uno? Un mondo nel quale le discussioni che vengono istruite per rispondere a trasformazioni che sembrano evidenziare un tratto, o prodursi come effetto di tendenze, almeno sino a un certo punto omogenei, fanno tutte riferimento, in Europa e «fuori», a uno stesso canone di categorie, concetti o autori? Come interagire con impianti argomentativi che, almeno a mio parere, viene dato per scontato siano condivisi, anche quando alcuni di essi perdono evidentemente di vista i motivi per i quali – si tratti di Foucault o di Deleuze – sono stati inventate alcune delle parole-chiave che risuonano (a volte in maniera vuota, come un puro effetto d’eco) nella teoria critica contemporanea?

Il titolo di questa raccolta rivendica una doppia internità. Quella ad un mondo che un «fuori» non lo ha più, e quella ad una linea di pensiero, inseparabilmente teorica e politica assieme, che è stata chiamata postoperaista, il motore della quale è sempre stata l’assoluta consapevolezza che è nel campo di immanenza del reale, e non nella rarefatta atmosfera della chiacchiera più o meno filosofica, che ci si muove, assumendosi la piena responsabilità di ciò che si scrive e di ciò che si fa. Per riprendere il Foucault lettore degli antichi, è la presa di parola di cui ci si fa carico, che dà valore ad una politica della verità e credito a chi, mettendosi con ciò a rischio, la enuncia.

In questo caso, certo, il rischio è minimo. Quello di procedere per approssimazioni e frammenti di discorso – ma chi scrive non pretende certo, mai lo ha fatto e mai lo farà, a una cifra autoriale – e quello di esplicitare evidenti motivi di critica nei confronti di alcune proposte e di alcuni interlocutori.

Il mondo nel quale viviamo non ha più un «fuori», dicevo poco sopra. Non lo ha, perché i dispositivi dell’accumulazione capitalistica si sono estesi sull’intera superficie del globo estraendo direttamente valore dalla vita – intendo con questo tanto ciò che si suole chiamare, a partire dall’indefinita dilatazione della giornata lavorativa e della rottura della misura del salario, sussunzione reale, quanto l’innestarsi di regimi proprietari sul genoma dei viventi grazie a brevetti e biotecnologie – e perché i processi di unificazione del mondo diretti dalla mercificazione hanno ormai ibdridato culture e tradizioni di pensiero.

Da questi processi non è dato dichiararsi «fuori». Occorre cioè assumersi la responsabilità di insistere nella posizione che essi ci ascrivono, se, come mi sembra necessario, assumiamo che non esiste un luogo pacificato e sottratto alle tensioni che essi producono dal quale giudicare delle cose. Ma, ancora di più, e prendo in carico questo dato proprio per il fatto di aver steso questi testi per occasioni di discussione in luoghi apparentemente molto distanti tra di loro, da Parigi a Belgrado, dall’Argentina, al Chile, al Brasile, per il fatto che la teoria critica, o comunque, la filosofia politica che cerca strumenti interpretativi per accompagnare e per potenziare lotte e percorsi di emancipazione interni al farsi mondo del capitale, tende in molti casi a riferirsi a categorie, concetti e strutture discorsive ricorrenti e, per così dire, unitarie.

È da dentro questo duplice processo di unificazione, anche soltanto per produrre attriti ed effetti di dissonanza correggendo il rischio di politiche della filosofia fatte di marketing, moda o facili stilizzazioni, che questo piccolo libro prende la parola. Lo fa, discutendo di biopoteri e di governance – viene con ciò assunto un punto di soglia, potrebbe dirsi: il determinarsi di formule giuridiche e istituzionali che rispondono decostituzionalizzando, denazionalizzando e desovranizzando la democrazia ai processi di soggettivazione operaia e militante che hanno scosso con potenza il globo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso -, di bioeconomia, di Foucault, Benjamin e Deleuze, gli autori che hanno messo a punto gli strumenti per descrivere e per interpretare le linee fondamentali dei processi appena evocati, di quella che altri ha voluto definire Italian Theory, dato che, nella maggior parte degli eventi in cui sono stato invitato a discutere, ricorrente era il riferimento ai più recenti contributi filosofico-politici provenienti dalla parte del mondo nella quale, per buona parte dell’anno almeno, vivo e lavoro.

Come sarà facile intuire, non difendo questa etichetta. Al contrario, essa mi fa problema per almeno due motivi. Il primo: non capisco bene che cosa con essa si intenda. Chi ha inventato e messo in circolazione la formula, ha retrospettivamente costruito una tradizione che forse può avere a che fare con le pratiche - a mio avviso in genere perverse - della storia della filosofia (per di più, e lo sottolineo, italiana), ma certo non con la dura realtà degli scontri, delle vendette, delle miserie e, in alcuni casi almeno, degli autentici opportunismi, che in Italia hanno occupato la scena culturale a partire dagli anni ’80. Il secondo: davvero non credo sia possibile difendere l’idea che ancora esistano culture identificate a usi, costumi o vicende «nazionali» e che le pratiche teoriche possano modificarsi in relazione ai posizionamenti dai quali esse si guardano perimetrandosi l’una rispetto all’altra. Do in qualche modo per scontato che il Gramsci letto in India o in Brasile, il Foucault studiato in Argentina, il Deleuze interpretato negli USA, non esprimano un’appropriazione a stili e tradizioni locali, ma che, al contrario, modifichino proprio quest’ultimi, allineandoli al farsi uno del globo. È perciò, di nuovo, dall’interno di questo processo, che anche i testi che presento al lettore tentano di intervenire, senza difendere la supposta specificità di una maniera italiana nel fare filosofia.

Ho fatto riferimento ai processi di decostituzionalizzazione che segnano da alcuni decenni le nuove modalità di formazione del comando e della decisione politica. Mi riferisco, con questo, non soltanto alla progressiva marginalizzazione dello Stato su scala globale, ma anche allo scivolamento in direzione tecnico-amministrativa – e cioè: postdemocratica e postrappresentativa  - del governo. È noto che Foucault, uno degli autori più frequentemente convocati nelle pagine che seguono, fu tra i primi a segnalare questo passaggio, parlando del dischiudersi di un’epoca della governamentalità. Come il lettore avrà modo di verificare, la diagnosi foucaultiana, effetto dello sguardo sagittale che egli rivendicava alla filosofia nei confronti dell’attualità, non si riferiva ad un lineare succedersi di dispositivi – dallo Stato al fatto di governo, dall’anatomopolitica disciplinare ai biopoteri – ma alludeva alla crescente rilevanza acquisita da forme di conduzione delle condotte, e cioè di orientamento della libertà, che si erano rese necessarie per recuperare le traiettorie disegnate da curve di soggettivazione tendenzialmente ingovernabili.

Tutti i testi che il lettore ha davanti a sé – e che potranno, evidentemente, essere letti indipendentemente l’uno dall’altro – cercano di porre a tema, anche quando trattano di biopolitica, anche quando si occupano di nuova penologia o dell’«odore di marcio» che emana dalle tecnologie commissariali che segnano parti significative della contemporanea produzione normativa, anche quando alludono ai progetti biomedici di governamentalizzazione della salute, la trasformazione che, per primo, Foucault ha inteso assumere a problema.

Di qui, non vale forse neanche la pena di sottolinearlo, la rivendicazione di un posizionamento politico. La filosofia, una volta assunta la propria internità al mondo, può solo aiutare a schierarsi, non certo pretendere di descrivere, criticare o afferrare la realtà da un’impossibile posizione esterna rispetto alle cose. Il lettore che abbia voglia di seguirmi potrà allora comprendere anche alcuni dei miei motivi di polemica con alcune delle posizioni presenti nel dibattito e con le quali, qui, direttamente mi confronto: essere fedeli all’evento e il più prossimi e di ausilio possibili a chi si solleva, significa rinunciare alla nobile postura del diretto confronto con la purezza della metafisica - ammesso essa si sia mai data o che essa si dia -, elaborare un altro rapporto tra politica e filosofia e in ogni caso accettare la sfida che arriva dal lato meno immacolato delle cose.

Quello dentro il quale, senza resto, ci troviamo.


Sandro Chignola è ordinario di filosofia politica presso l’Università di Padova e Visiting Professor presso la UNSAM di Buenos Aires. Fa parte della Direzione di "Filosofia politica" e del comitato scientifico di altre riviste italiane e straniere. Ha scritto sull’Ottocento francese e tedesco, su Foucault, sui concetti politici moderni.

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