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Cottarelli, quando gli economisti danno i numeri

di Carlo Clericetti

Se non si fossero fatte politiche di austerità il debito dell’Italia in rapporto al Pil sarebbe ancora più alto, addirittura al 145%: parola di Carlo Cottarelli e dell’ “Osservatorio sui conti pubblici” che ha fondato presso la Cattolica di Milano.

Come ci arriva, Cottarelli, a quella cifra? Inserendo ipotesi alternative in un modello econometrico, uno di quelli che si usano anche (soprattutto) per fare le previsioni di come andrà l’economia e come reagirà alle diverse scelte di politica economica. Naturalmente esistono diversi tipi di modelli, che danno risultati differenti anche se vi si inseriscono le stesse cifre. Ma anche le cifre possono essere diverse, perché molte dipendono dalle ipotesi fatte dal ricercatore.

In particolare, un elemento cruciale sono i “moltiplicatori”: che effetto avrà sul Pil una maggiore spesa di un miliardo (o più tasse, o tagli, per lo stesso importo)? Lo farà crescere nella stessa misura (moltiplicatore 1) oppure di più (cioè uno-virgola-qualcosa) o invece di meno (zero-virgola-qualcosa)? E’ chiaro che nel primo caso la spesa (o tassa) non ha effetti sul rapporto debito/Pil, nel secondo lo riduce e nel terzo lo fa aumentare. Anche i moltiplicatori, però, possono essere calcolati in diversi modi e anche in questo caso i risultati sono diversi a seconda della metodologia utilizzata.

Tutti i matematici sono d’accordo sul fatto che il Pi greco è 3,14, mentre i valori dei moltiplicatori variano, e non di poco, a seconda di chi li ha calcolati. Non solo: la stessa manovra – per esempio un taglio di spesa – può avere effetti diversi a seconda della situazione congiunturale dell’economia, cioè se è in fase di crescita o di stagnazione o di recessione. E non è finita, perché anche un aumento di spesa darà risultati diversi in funzione del suo obiettivo: è per aumentare gli stipendi pubblici o le pensioni? Per tagliare le tasse? Oppure per investimenti? E che tipo di investimenti?

Come si vede, i risultati di questi esercizi sono tutt’altro che sicuri, e l’uso di complesse formule matematiche e potenti elaboratori non serve a renderle più attendibili. L’ex ministro Pier Carlo Padoan ha raccontato tempo fa che da neolaureato si occupava di questi modelli. Quando si presentò ad una prova di idoneità ed espose i suoi studi, il presidente della commissione, che era il grande economista Federico Caffè, alla fine del suo discorso osservò: “Lei sta cercando, in una stanza buia, un gatto nero… che non c’è”. (Per la cronaca, nonostante la battuta Caffè lo promosse).

I risultati dei modelli econometrici, dunque, vanno presi con le molle: non sono inutili, ma valgono come ipotesi e non come dati oggettivi. E sono fortemente influenzati dal quadro teorico in base al quale il modello è stato elaborato. Quello di Cottarelli rientra evidentemente nel filone dominante, quello secondo cui lo Stato deve intervenire il meno possibile nell’economia, e se lo fa dev’essere solo per correggere eventuali imperfezioni del mercato, perché in questo modo l mercato tornerà spontaneamente all’equilibrio. Che poi l’equilibrio che il mercato raggiunge sia o non sia desiderabile, è un problema che queste teorie non si pongono.

Cottarelli, ma purtroppo non solo lui, continua a seguire una teoria che i fatti hanno ripetutamente smentito. Il più lampante esempio che non è con i tagli alla spesa che si superano le crisi è la vicenda della Grecia, paese distrutto dalle ricette della Troika e il cui rapporto debito/Pil, che era intorno al 115% all’inizio della crisi, veleggia ora oltre il 180%. Proprio la vicenda greca ha spinto l’ex capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, a fare autocritica, ammettendo che erano stati usati moltiplicatori completamente sballati. Così come è finita nel ridicolo la tesi dei due economisti Reinhart e Rogoff, secondo cui un debito pubblico superiore al 90% del Pil frenerebbe la crescita. Prima si è scoperto che mancavano alcuni dati, inserendo i quali il risultato si ribaltava; poi un altro economista, David Rosnick, utilizzando gli stessi dati ha mostrato che non è l’alto debito che frena la crescita, ma che al contrario è l’assenza di crescita che fa aumentare il debito.

L’autocritica di Blanchard va a suo onore, ma non è servita a convincere i sostenitori delle ricette austeritarie. Di recente, per esempio, Veronica De Romanis ha scritto un libro intitolato “L’austerità fa crescere”. Poi la senti nei talk show affermare che la Spagna è un esempio del fatto che “l’austerità funziona” e capisci che non è il caso di perdere tempo a leggerlo. La Spagna? Ma se ha infilato un mega-deficit di bilancio dopo l’altro negli ultimi 10 anni! Quella sarebbe austerità?

Il fatto è che queste ricette vanno d’accordo con l’impostazione di politica economica conservatrice seguita dai governi europei. Che se ne impipano del deficit e del debito, basta che si tolgano diritti ai lavoratori, si comprimano i salari, si tagli il welfare e si privatizzi qualsiasi cosa. Questo è il vero significato della loro austerità. E poi si lamentano perché trionfano i “populismi”…

E infine, ammesso e niente affatto concesso che il rapporto debito/Pil fosse al 145 invece che al 132, ma avessimo evitato milioni di disoccupati, il raddoppio della povertà assoluta, la perdita di un quarto della capacità produttiva, il fallimento di migliaia di imprese che ha mandato alle stelle le sofferenze bancarie, l’aumento della precarietà del lavoro: davvero avremmo fatto una cosa sbagliata? Fate un po’ voi…

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