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sinistra

Il lavoro all'epoca di Marchionne

di Salvatore Bravo

La morte di Marchionne svela e rileva l’assenza non solo di senso critico da parte del clero orante dei giornalisti uniti in un volgare ed ossessivo “Osanna” del manager, ma specialmente il vuoto dell’opposizione. Il rispetto verso chi non è più tra noi esige un’operazione di verità e delicatezza. Nel caso di un personaggio ad impatto pubblico è necessaria una valutazione che tenga presente tutti i dati e non solo una parte di essi in funzione osannante. L’informazione parziale che occulta e rimuove il prezzo del successo globale non solo non informa, ma palesa quanto il servizio pubblico sia in realtà privato, schierato ideologicamente, mentre si afferma che le ideologie sono non solo morte, ma un impaccio alla produttività: l’unica ideologia innominabile di cui bisogna essere servi, ma senza saperlo. La condizione reificata è una pratica, si concretizza anche nell’essere servi senza saperlo, nel dividere il mondo fatalmente in servi e padroni, come se la linea che separa i due mondi sia determinata fatalmente da forze celesti. La Fenomenologia dello Spirito con la figura “Servo- Padrone” ha descritto la condizione del servo che si sottrae alla lotta, e dunque fatalmente vive nell’alienazione fino alla presa di coscienza di sé. La nostra è un’epoca servile sul lavoro come nell’uso della lingua-l’angloitaliano.

Il nome di Marchionne con i suoi indubitabili successi globali è legato ad una modello di produzione il World Class Manifacturing, modello produttivo di origine giapponese. Tale modello, che ha nel fare il punto cardine (si noti l’ing che evidenzia la prassi empirica), esige il massimo della produttività con i costi minori, e specialmente un’apparente democrazia aziendale che prescrive l’abolizione del “lei,” l’accorciamento della filiera gerarchica e burocratica, la valorizzazione del merito non certo per nascita, ma spostato sull’asse competenza-impegno. La sostanza di tali “comandamenti” è la competizione.

La globalizzazione ha i suoi imperativi, e la competizione, per essere all’altezza del mercato mondiale, deve trasformare gli uomini in soldati dell’efficienza. La retorica della famiglia-azienda serve per motivare all’impegno, operazione di sottrazione degli spazi di libertà sempre maggiori che sono riempiti dal lavoro senza soste (e non è un’iperbole).

L’era Marchionne ha dato agli operai nuovi ritmi di lavoro per produrre e battere il mercato mondiale. Ben ottocento milioni di euro sono stati investiti per spostare la produzione dalla Polonia a Pomigliano d’Arco. Tale operazione ha sicuramente richiesto sacrifici agli operai tutti, ciò ha salvato il posto di lavoro agli operai di Pomigliano, ma dobbiamo valutare anche i costi sulla carne viva dei lavoratori. Nei bilanci la vita non è sul conto. I provvedimenti per aumentare la produttività in queste ore vengono taciuti abilmente e miseramente: alla catena di montaggio la riduzione da quaranta a trenta minuti della pausa, lo spostamento della pausa mensa a fine turno, lo scatto salariale legato ai risultati ottenuti dallo stabilimento. Certo i lavoratori di Pomigliano hanno accettato le nuove condizioni lavorative con un referendum che ha accettato con il 63 per cento le nuove realtà lavorative.

Marx ci ha insegnato che la libertà formale ha un valore ideologico, operai e padroni in teoria sono egualmente liberi, ma in realtà la condizione operaia, la spinge ad accettare l’inaccettabile per sopravvivere. Piuttosto che lasciarsi stordire dal rito dei numeri, dal balletto delle celebrazioni, si pensi al clima relazionale che si vive nelle “manifatture della produzione”, tutti contro tutti, dove regnava un minimo di solidarietà di classe ora si spinge per la competizione orizzontale che, di fatto, sotto il ricatto della chiusura degli stabilimenti, rende la condizione lavorativa disumana, fonte di malessere. Il ricatto con cui gli operai hanno dovuto sottostare ai nuovi ritmi di lavoro e le nuove relazioni sindacali rilevano il volto celato del successo. Si ricordi che la FIOM è stata prima illecitamente esclusa e poi reintegrata, si pesi al caso del licenziamento degli operai Fiom di Melfi reintegrati con sentenza del tribunale di Potenza. Il culto del successo spesso nasconde la polvere degli aiuti di stato sotto il tappeto, ma è un occultamento difficile data l’entità dei numeri. La FIAT ha usufruito secondo uno studio della CGIA di Mestre del 2012 di ben 7,6 miliardi di euro e ne ha investiti 6,2. La Fiat divenuta Fca ha sede fiscale ad Amsterdam ed il domicilio fiscale a Londra per cui sarebbe interessante sapere dove versa le tasse…

Certo è un’operazione diffusa tra le eccellenze mondiali dell’industria, su cui non bisogna sospendere il giudizio etico e politico, malgrado la giurispudenza consenta questo nel silenzio complice di troppi governi.

Insomma il ribaltamento generale a cui assistiamo è il rappresentare l’astratto, i risultati senza il concreto: le condizioni materiali dei lavoratori. Tale rovesciamento rammenta le critiche di Marx ad Hegel, il quale aveva posto l’idea e non le condizioni storico materiali come essere fondativo della storia. Il silenzio delle opposizioni, e non si tratta soli dei partiti e dei movimenti politici, non permette di teorizzare possibilità operative e produttive alternative alla “manifattura della produzione.”

Il modo in cui ci si stringe ad esaltare il modello Marchionne inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione ( articoli 1, 28, 35, 36, 37, 38). Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda, la sua essenza, come affermava Marx, è un’essenza generale, per cui l’essere umano è un mondo di possibilità che il lavoro non deve mortificare o comprimere, ma piuttosto valorizzare, lasciando ai lavoratori gli spazi fisici e temporali per la vita di relazione.

Il contesto di questi mutamenti è da leggere all’interno di una cornice nazionale in cui si è eliminato l’articolo 18, e si è introdotta la precarietà e lo sfruttamento disciplinati dai nuovi contratti. Se si opera con una visione d’insieme, l’epoca Marchionne ci parla di noi, delle terribili condizioni globali verso le quali si è assunto lo stesso atteggiamento che si ha verso i fenomeni naturali: le leggi di natura si accettano senza discutere. E’ il caso invece di ricominciare a dialettizzare i dati, ad essere persone che fanno dell’economia l’oggetto della comunità, e non il soggetto draculesco che vuole sempre più pluslavoro per molti e plusvalore per pochi. Le contraddizioni necessitano di pensiero e parole, che in questo momento sembrano tragicamente silenti. Riportare il concreto nel regno ideologico dell’astratto è il primo passo per uscire dal buio della caverna.

Non ci resta che riflettere sulle tre possibilità enumerate da Costanzo Preve in un’intervista di Luigi Tedeschi il 13/1/2010:

”Di fronte a questa situazione, io vedo tre soluzioni possibili, che mi permetto qui di segnalare brevemente.

In primo luogo, si può continuare a sostenere la globalizzazione neoliberale, affermando che essa non è stata ancora radicalizzata abbastanza. È la tesi ad esempio di Niall Ferguson (cfr. “La Stampa”, 30-11-09). Secondo Ferguson (cito) “ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto agli anni della signora Thatcher e di Reagan”. Questo approccio deve portare (e Ferguson lo dice apertamente) alla integrale fine del Welfare State. Questo programma, che lascia alla sua destra solo Attila e Gengis Khan (scherzo, perché questi due signori erano a mio avviso complessivamente migliori di tutti i Ferguson del mondo), viene giustificato con la constatazione degli altissimi ritmi cinesi di sviluppo. In poche parole: o torniamo al capitalismo selvaggio totale, o la concorrenza asiatica ci distruggerà. Ed il paradosso sta nel fatto che il cannibale Ferguson ha perfettamente ragione, ma ce l’ha solo dando per scontato che la globalizzazione neoliberale sia una divinità da non mettere in discussione, l’unità di Dio e del Diavolo, di Prometeo e di Lucifero.

In secondo luogo, si può continuare a belare contro la globalizzazione evitando di proposito il diabolico richiamo al protezionismo (non importa se forte o leggero, eccetera). Si tratta del ridicolo ed impotente Movimento detto No Global (in acronimo MNG), che personalmente proporrei seriamente di ribattezzare Presa in Giro Planetaria (in acronimo PGP). Questi buffoni, vera e propria pittoresca opposizione mediatica di Sua Maestà (sua maestà è ovviamente la globalizzazione neoliberale), si mobilitano ogniqualvolta i Potenti si incontrano per mettere in scena una commedia dell’arte post-moderna (cassonetti rovesciati, vetrine infrante, pagliacci in trampoli, mangiatori di fuoco, prefiche belanti, eccetera). Qui l’etica e l’estetica di infima qualità si incontrano. L’estetica del cattivo gusto kitsch si unisce trionfalmente con l’etica della ostensione lamentosa ed impotente. Si avanzano con petizioni, e ricevono idranti. I nostri lontani discendenti li ricorderanno così. La sola cosa che questi giullari non chiedono mai è il solo rimedio contro la globalizzazione neoliberale, e cioè il sacrosanto protezionismo. Ci vedono in esso con la saggia proposta di Fichte e poi di List dello stato commerciale chiuso, ma tutti i fantasmi di “destra” che li assillano: lo stato nazionale, il bottegaio leghista, l’intervento comunitario nazionale sulla sovranità assoluta dell’individuo, eccetera. È la rivolta dell’individuo sovrano (senza denaro) contro il suo gemello individuo sovrano (con denaro). Su questo avrei voluto fare lunghe considerazioni filosofiche, ma per ora le risparmio al lettore, perché ho pietà di lui.

In terzo luogo, finalmente, c’è chi ha avuto finalmente il coraggio di prendere il toro per le corna e la padella per il manico, affermando la legittimità del protezionismo, almeno per aree geografiche (un “piccolo protezionismo” a livello di singolo stato nazionale è infatti del tutto impraticabile, anche ove fosse astrattamente auspicabile). La sola risposta alla globalizzazione neoliberale è infatti geopolitica (parola del tutto ignota alla PGP, presa in giro planetaria), e non può che comportare la formazione nel mondo di alcune grandi aree protezionistiche (con quali modalità concrete non tocca a me giudicare, in quanto non economista), in cui il libero commercio (che resta un valore, ma un valore secondario) è subordinato alla sovranità comunitaria nazionale e locale, al ripristino il più possibile del Posto Fisso, al mantenimento ed anzi all’allargamento del Welfare, all’indipendenza dall’Impero USA neoliberale, eccetera. Noto con piacere e soddisfazione che questa è anche l’esplicita proposta di Alain de Benoist e dei suoi collaboratori (cfr. la rivista in lingua francese Elements, numero 133, ottobre-dicembre 2009). Qui per la prima volta si suggerisce un’ipotesi a prima vista incredibile e paradossale (non però per me, che ho sempre saputo che la dialettica si basa sulla unità degli opposti e sulla loro dinamica di trasformazione reciproca), per cui pur di potersi perpetuare il capitalismo potrebbe anche reinventarsi il comunismo. A chi rimanesse a bocca aperta di fronte a questa (apparente) assurdità consiglio di riflettere sul successo universitario mondiale della trilogia di Tony Negri e di Michael Hardt, in cui si lega l’ipotesi comunista con la globalizzazione incontrollata, il libero scambio, la fine dello stato nazionale e l’esaurimento infinito dei desideri dell’individuo sovrano. 

Come diceva un tempo il comico pugliese Arbore: meditate, gente, meditate!”

Comments

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Mario Galati
Wednesday, 01 August 2018 15:39
Mi dispiace, ma quando Preve, che si legge sempre con gusto e interesse, ragiona di protezionismo nei termini filosofici astratti del comunitarismo (del resto, ciò è legato alla da lui invocata necessità di rifondazione filosofica dell'essenza umana, con la ripresa di Aristotele e Kant e l'abbandono del positivismo-economicismo presente, secondo Preve, anche in Marx. Così mi sembra di aver capito) e trascura la base e gli interessi di classe specifici e contingenti (che liquida come luogo comune contro il "bottegaio leghista"), assolutizzando List (contrariamente a quanto fatto da Marx), non può essere seguito. Su questa strada si arriva a trattare la posizione di De Benoist come puramente e astrattamente filosofica, priva di base di classe.
In definitiva, il globalismo neoliberista è la dottrina del capitale cosmopolita. E il protezionismo è la dottrina (ragionevole) di "tutti gli altri"?
Non può essere una risposta soddisfacente. Tra l'altro, si avvicina alla astratta logica binaria del cosiddetto populismo attuale.
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