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I veleni di Hillary Clinton

di Carlo Formenti

Come nella corsa alla nomination del candidato Democratico di quattro anni fa, a mano a mano che si profila il rischio di una vittoria di Bernie Sanders, i vertici di un partito che da tempo ha perso il ruolo (e soprattutto la volontà) di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, per divenire il portavoce delle lobby finanziarie e delle élite dei super ricchi, si impegnano allo spasimo per sbarragli la strada. Così il Corriere della Sera del 26 febbraio scorso, che di quegli interessi è solerte portavoce, ha sottratto un’intera pagina (la 21) alle cronache del coronavirus per pubblicare un’ampia intervista a Hillary Clinton (evidentemente troppo ambiziosa per ritirarsi dietro le quinte malgrado le ripetute, sonore batoste) la quale carica a lancia in resta contro il vecchio socialista.

L’intervista è stata rilasciata a Berlino, dove l’ex Segretaria di Stato si trovava per la presentazione di un documentario sulla sua vita pubblica e privata, grazie al quale spera forse di correggere l’immagine che si è guadagnata (“a torto o a ragione”, scrive per attenuare il giudizio il corrispondente da Berlino che firma l’articolo) di donna “carrierista, calcolatrice, manipolatrice e insincera”. Vediamo alcuni degli schizzi di veleno che la nostra sputa contro Sanders (anche se premette che sosterrà il candidato democratico chiunque ottenga la nomination).

Il primo è spassoso: dopo aver detto che Sanders “non piace a nessuno, che nessuno vuole lavorare con lui” (si riferisce evidentemente ai membri dell’establishment, certo non ai milioni di americani che lo sostengono entusiasticamente) aggiunge: “è un politico di carriera”. Quale sublime faccia tosta, visto che a lanciare questa accusa è una donna che ha sempre e solo vissuto di politica e che, contrariamente a Sanders, con la politica si è arricchita (agli epiteti sopra citati andrebbe aggiunto “corrotta”, visto che ha notoriamente incassato milioni dalle lobby di Wall Street, sotto forma di compensi per conferenze, consulenze e prestazioni varie).

Sulla seconda accusa vale la pena di spendere qualche parola di più, perché si ammanta di argomenti “femministi” (virgolette d’obbligo, visto che femministe come Nancy Fraser e la giovane leader politica Ocasio-Cortez vedono la Clinton come il fumo negli occhi e tifano per Sanders). “Penso al sito Bernie Bros e ai continui attacchi contro gli avversari democratici, in particolare le donne”, dice Hillary. Questo è divenuto ormai un leitmotiv degli attacchi contro i leader di sinistra che ripudiano il verbo neoliberista (ne è stato bersaglio anche Corbyn, al quale hanno dato anche dell’antisemita – accusa più difficile da lanciare all’ebreo Sanders, benché Netanyahu e altri ci abbiano provato ugualmente). Non a caso il Corriere – che di questo uso del politicamente corretto contro gli “eretici” è maestro – titola la pagina “Sanders? Mi preoccupano i suoi attacchi contro le donne”, benché solo la battuta citata in precedenza giustifichi tale scelta.

Battuta marginale che merita tuttavia qualche riflessione. In primo luogo va detto che, grazie ai contributi di diverse filosofe, militanti e intellettuali femministe, le accuse strumentali di maschilismo a figure come Sanders e Corbyn hanno perso impatto: dopo che Nancy Fraser ha evidenziato come l’abbandono dei temi del conflitto di classe abbia indotto quei settori del movimento femminista che esprimono il punto di vista e gli interessi delle donne bianche delle classi medio alte ad allearsi con le élite neoliberiste; dopo che Jessa Crispin ha smontato il mito secondo cui l’accesso delle donne a ruoli di potere sarebbe di per sé in grado di cambiare le logiche del sistema politico ed economico; dopo che certe “femministe” boliviane hanno dichiarato che lo scontro fra i generali fascisti e il governo socialista di Morales era una “lotta fra maschi” che non le riguardava (mentre migliaia di donne indigene venivano uccise, imprigionate e torturate dai militari) questi richiami strumentali al femminismo lasciano il tempo che trovano. Soprattutto se usati da un personaggio come la Clinton, cinica, guerrafondaia (nell’intervista giustifica e rivendica l’eliminazione di Gheddafi, dicendo che il solo errore è stato quello di non completare il lavoro “pacificando” la Libia), compromessa con le peggiori pratiche dell’imperialismo americano (in passato ha ammesso apertamente – e giustificato – il fatto che gli Stati Uniti abbiano armato e fomentato il terrorismo jaidista contro Russia, Siria e altri nemici), ossessivamente impegnata a giustificare la propria sconfitta con la bufala secondo cui Trump avrebbe vinto solo grazie all’appoggio di Putin.

Ciò detto, è giustificata l’idea secondo cui un socialista come Sanders non potrà mai prevalere su Trump? Fare previsioni sull’esito delle prossime elezioni presidenziali, che dipende da complessi fattori interni e internazionali, oltre che dall’andamento dell’economia è impresa ardua. Ma due cose si possono dire: la prima è che se i vertici democratici non gli avessero scippato la candidatura quattro anni fa, è probabile che Sanders avrebbe avuto più chance della Clinton di battere Trump, in quanto il suo programma politico era più credibile per i lavoratori americani immiseriti dalla globalizzazione, i quali votarono Trump in odio alla “sinistra” clintoniana che li aveva abbandonati al loro destino. Oggi Sanders, se per miracolo gli lasciassero vincere le primarie, sarebbe molto più preparato di allora al compito di aggregare una larga coalizione sociale. Forse non basterebbe, ma è presumibile che i suoi anemici competitor avrebbero chance ancora minori.

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