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sinistra

Introduzione a Ian Angus: Anthropocene

di Giuseppe Sottile

GMO are an ‘invention’ of corporations, and therefore can be patented and owned.
Ana Isla

Nature, too, awaits the revolution
Herbert Marcuse

copertina angusIl libro di Ian Angus è stato pubblicato nel 2016. Da allora si sono avute novità e conferme. Il 21 maggio dello scorso anno, l’Anthropocene Working Group ha formalizzato la proposta di considerare quella in cui viviamo una nuova epoca successiva all’Olocene, definita Anthropocene, il cui inizio viene datato a partire dalla metà del secolo scorso, con quella che è stata definita la «Grande accelerazione». Adesso si attende il parere di altri organismi.ii L’AWG individua questa nuova realtà cronostratigrafica in una serie di fenomeni imputabili alle recenti attività umane, che consentono di paragonare “l’umanità” ad una potente e distruttiva forza geologica.

Fondamentali cicli naturali sono stati compromessi a causa dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione per come li abbiamo conosciuti e delle attività militari in campo nucleare, cosa che ha procurato il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo, nonché una generale devastazione del pianeta; e molti di questi cambiamenti sembra persisteranno per millenni. La più importante traccia (primary marker) che segnala lo spartiacque tra le due epoche geologiche viene individuata nella presenza di radionuclidi dovuta alle esplosioni nucleari, che al ritmo di una ogni 9,6 giorni hanno caratterizzato il Secondo dopoguerra dal 1945 al 1988.

Intanto, vasti incendi hanno interessato la Russia, la California, l’Amazzonia e di recente in misura ancora più drammatica l’Australia, e inondazioni il Sud-Est asiatico. Circa dieci milioni di ettari di vegetazione scomparsi a causa degli incendi e si stimano un miliardo di animali morti nella sola Australia. In fondo, tutto come niente fosse.

È del tutto normale soffermarsi per giorni su fatti di cronaca, ma non considerare fenomeni del genere. Una delle condizioni che rende una società figlia del proprio tempo, è il fatto di non saperlo, ossia non poter considerare questi aspetti esiziali alla propria continuazione. E l’ideologia che sostanzia il nostro tempo è drammaticamente antropocentrica.

Abbiamo appena attraversato un periodo di epidemia da coronavirus. Le emissioni di gas serra, nichel e cadmio si sono ridotte d’improvviso. L’aria nelle città è tornata respirabile. Si narra che a Venezia i pesci hanno fatto nuovamente capolino in acque che parevano limpide ed i cigni sono tornati a far visita ai canali; e a Cagliari, senza il traffico delle navi, si sono visti i delfini; e daini e cervi tra i campi di golf e lepri sono riapparse nelle città; e il canto degli uccelli ha sostituito il rumore dei clacson. Magari, nel frattempo, qualcuno avrà compreso che il lavoro non nobilita l’uomo. La Natura ci ha mostrato che l’economia, una certa economia, fa male alla salute del pianeta e dunque alla nostra. Il pianeta ci ha ricordato che viviamo in un castello di carta, le cui fondamenta sono di sabbia, estraniati come siamo da chi ci ospita. Ma le preoccupazioni sono state solo quelle relative alla produzione d’un vaccino ed agli effetti sul mantra della crescita economica. Già si parla di una “nuova ricostruzione”, che magari chiameranno “verde”. La miopia con cui si guarda a ciò che è accaduto, infatti, ha visto solo un “nemico” ed una “guerra” da combattere. Nulla o quasi riguardo alla probabile origine dell’epidemia, che come SARS, BSE, aviaria, influenza suina etc. comporterebbe la messa in questione del nostro modo di trattare ed allevare animali, specie da quando è comparso il regime agroalimentare industriale, nonché della nostra distruzione degli habitat terrestri con i gravi squilibri nel rapporto uomo-natura. Ma su ciò potremmo aprire un capitolo a parte, da cui evincere come generalmente l’origine delle epidemie non abbia nulla di “naturale”, ma esprima un regime economico ecocida. iii

Nel 2018 inizia la sua protesta Greta Thunberg e nasce il movimento Extinction Rebellion, seguito un anno dopo dalla nascita del movimento vegano Animal Rebellioniv, definendo entrambi una sorta di «saldatura epocale tra la lotta contro il riscaldamento globale e la difesa del non umano».v Mentre Occupy Wall Street rappresentò una novità nel panorama della lotta politica contro il capitalismo e adesso a suo modo anche il movimento dei gilet gialli, i due «Rebellion» possono considerarsi una novità assoluta per la radicalità della critica al sistema, giacché mettono finalmente il luce l’impatto catastrofico che esso produce sulla vita tutta, umana e non umana. È facile imbattersi, durante le loro iniziative, e specie nella variante originaria britannica, in slogan quali «Ecologia radicale, morte al capitale», «Il capitalismo è crimine organizzato», «Business as usual is death» etc., e sul sito di Extinction Rebellion in affermazioni di questo tenore: «Ci ribelliamo in nome della verità e rifiutiamo di accettare l’ecocidio, l’oppressione e il patriarcato», «La terza guerra mondiale – del profitto contro la vita – è già cominciata». Essi hanno adeguatamente individuato nel sistema delle corporation, consolidatosi dal Secondo dopoguerra, la vera minaccia all’umanità ed al pianeta, tant’è che molte delle loro azioni non violente e di disobbedienza civile colpiscono i simboli della loro presenza sul pianeta (con tanto di continui arresti).

Non è un caso che le autorità si siano spinte a considerare Extinction Rebellion una organizzazione terroristica (nel mentre alcune componenti della Polizia hanno espresso una certa comprensione), né che i “reati” legati alla difesa della natura siano da tempo i più perseguiti, specie negli Sati Uniti e nell’America Latina, com’è avvenuto nei confronti di Earth First e delle gloriose comunità indigene. Questo dato misura anche il valore intrinsecamente antagonistico di un movimento: la misura in cui viene sottaciuto dai mass-media e represso dagli apparati di polizia, a differenza delle organizzazioni ambientaliste mondiali, dell’ambientalismo mainstream, di cui lo stesso sistema ha bisogno, nella misura in cui gli conferiscono una parvenza di liberalità.

Nei principi e nell’organizzazione, esprimono al momento una visione che, a nostro parere, coniuga un approccio ecosofico a tratti evidenti di anarchismo e socialismo, che ci risolleva dalla asfissiante continuazione terminale delle variegate opposizioni apparenti sovraniste e globaliste. Non c’è altro da sperare che un tale movimento e con tali caratteristiche, ecologiche anarchiche e socialiste, si estenda.

Un altro slogan recita «Cambiare il Sistema, non il clima». Esistono tre studi recentivi che ci forniscono un quadro coerente del posto che nell’ecosistema occupa la nostra specie in questa fase storica. Uno riguarda la quantità e la composizione della biomassa nella biosfera, in termini di gigatonnellate di carbonio. Un altro, il processo di annientamento delle popolazioni animali per singole specie, che configura un aspetto di quella che è stata chiamata «sesta estinzione di massa» per cause antropiche.vii Un altro studio concerne l’impatto ambientale della produzione non solo industriale di carne, pesce e latticini.

Il primo assegna alla nostra specie circa lo 0,01% della biomassa, la maggior parte della quale è invece composta da organismi autotrofi (il regno delle piante, circa l’85%), poi vi sono i batteri (circa il 15%) ed il resto, funghi, virus, animali etc., formano meno del 10%; sul totale gli animali fanno circa lo 0,3%, una parte dei quali soltanto sono onnivori-carnivori. La faccenda drammaticamente curiosa è che mammiferi e uccelli d’allevamento oramai superano in termini di biomassa quelli selvatici, ciò a causa del regime alimentare impostosi soprattutto a partire dal Secondo dopoguerra e della progressiva riduzione degli habitat per le altre specie.viii Il secondo presenta un quadro allarmante degli effetti che sulla biosfera e per quanto riguarda certe specie animali ha prodotto la nostra specie socialmente impostasi sugli ecosistemi animali. L’ultimo induce alla necessità di ridurre drasticamente il consumo di carne, pesce e latticini dati gli effetti enormemente distruttivi sull'ambiente causati dal sistema industriale (capitalistico) che presiede alla produzione dei medesimi, con una resa, in termini di calorie e proteine disponibili, in rapporto alla terra utilizzata estremamente bassa.

Dunque ciò che conta, in termini di biomassa, è l’effetto radiante dell’umanità a questo stadio della civilizzazione, ossia distruzione degli habitat, caccia, inquinamento, cambiamenti climatici, portata di quanto viene chiamato «impronta ecologica» etc.,ix ove i paesi a vecchia industrializzazione hanno decisamente il maggior impatto.

Ciò non significa che il dato demografico non conti, ma solo che il problema risiede principalmente nel modo in cui l’attuale stato della civilizzazione interagisce con ciò di cui è parte: gli ecosistemi.x Si tende invece nel mainstream, e certamente quello ambientalista, ad attribuire alla crescita demografica conseguenze che sono proprie di un sistema economico che considera la sua crescita indefinita come un fatto “naturale” e dunque il consumo di materie prime ed energia come altrettanto naturalmente indefinito, così come si attribuisce al dato demografico la causa della miseria crescente. Quest’ultima piuttosto è intervenuta o si è acuita a partire dai primi anni ’70, quando inizia un ciclo notevolmente rallentato di accumulazione capitalistica (una sorta di “descrescita infelice”), scandito da pesanti crisi economiche, l’ultima delle quali superiore anche in termini relativi a quella degli anni ’30 e a cui sono dovuti i noti fenomeni delle privatizzazione di settori un tempo pubblici, dell’outsourcing e del boom speculativou.xi

Ian Angus è il direttore della testata online ecosocialista Climate&Capitalism, legata alla storica rivista della sinistra americana Monthly Review, il cui direttore è attualmente John Bellamy Foster. Insieme all’altra rivista storica ecomarxista Capitalism Nature Socialism, costituiscono un approccio integrale di critica al capitalismo, poiché oltre a considerare le dinamiche intrinseche, strettamente economiche che caratterizzano l’economia capitalistica, ne considerano le ricadute sugli ecosistemi. Il ruolo della natura e del lavoro - ciò che O’Connor sulla scia di Marx ha chiamato «condizioni di produzione» - conduce, secondo lo stesso autore, ad una «seconda contraddizione» del capitalismo, al ruolo rilevante che gioca nel processo di accumulazione ciò che James Moore ha definito «accumulazione per appropriazione» ed all’importanza che il concetto di «frattura metabolica» riveste nel pensiero di Marx, come hanno mostrato gli studi di John Bellamy Foster, a cui Angus si richiama, e che rende determinante il contributo di Marx ad una critica ecologica che sia esiziale per il capitalismo.xii

Foster, in tal senso, mostra come ad un primo ecosocialismo, la teoria della «frattura metabolica» ne comporta un secondo che riabilita Marx dalla tesi di non essersi preoccupato degli aspetti che riguardavano gli effetti devastanti del capitalismo sui cicli naturali, come avevano sostenuto alcuni autori che si muovevano nell’ambito di una critica ecologica del capitalismo, a cominciare dallo stesso O’Connor.xiii La frattura individuata da Marx nel ciclo dei nutrienti (azoto, potassio, fosforo) – a causa della intervenuta separazione tra città e campagna e come conseguenza della accumulazione originaria in Gran Bretagna – condusse intanto alla appropriazione del nitrato di guano dall’America latina, nonché di residui ossei in giro per il mondo. Fece seguito la produzione sintetica di fertilizzanti e poi di pesticidi che hanno caratterizzato l’agricoltura industriale e la cosiddetta «rivoluzione verde» sino ad oggi.xiv

Tale frattura metabolica è alla radice della crisi ecologica contemporanea, e si accompagna a quella del ciclo del carbonio (da cui il riscaldamento globale), inaugurata dal «capitalismo fossile», da cui conseguono eutrofizzazione e acidificazione delle acque, perdita di biodiversità etc. Possiamo così considerare, ad es., come la produzione industriale sia tanto all’origine della frattura metabolica del ciclo riproduttivo dei pesci nel Mediterraneoxv quanto, come sistema che ha perturbato il ciclo del carbonio, della siccità prolungata nel Medioriente, che ha procurato e procura milioni di migranti climatici che si affacciano sullo stesso mare.

In sostanza, «il ricambio organico» tra uomo e natura si configura come un metabolismo sociale che interagisce con il metabolismo naturale. Quello proprio al capitalismo ha un carattere ecocida, giacché produce una frattura metabolica che mette a rischio la sopravvivenza delle specie e dell’uomo, soprattutto con l’avvento della «Grande accelerazione». Il capitalismo deve essere visto come un sistema che per certi aspetti porta alle estreme conseguenze tratti che appartengono allo stesso processo della civilizzazione.xvi Insomma, alla base della catastrofe ecologica in corso e ventura non vi è una astratta, generale attività umana, ma un sistema economico naturalmente insostenibile.xvii

Non più solo il capitalismo si trova ad un bivio, ma l’intera civilizzazione. Il capitalismo si è trovato spesso ad un bivio, per via delle sue ripetute non identiche débâcle economiche. L’ultima volta appena circa dieci anni fa, e ci siamo ancora dentro. Adesso fronteggiamo un evento epocale, non una semplice crisi.

Bonneuil e Fressoz osservano come «i marxisti “convenzionali”, focalizzandosi sulla teoria del valore-lavoro e sulla ripartizione del lavoro fra due classi … considerano essenzialmente due fattori di produzione: capitale e lavoro. Mentre Marx ed Engels si erano preoccupati in primo luogo della frattura metabolica fra terra e società prodotta dal capitalismo, e alcuni marxisti, sulla scorta di Podolinskij, si proponevano di rifondare la teoria del valore sull’energia, la scienza economica marxista – fino all’emergere in tempi recenti di un ecomarxismo assai fecondo – elimina il ruolo del metabolismo e dell’energia, respingendo come “malthusiana” (dunque, conservatrice) qualunque idea di limite alle risorse del pianeta».xviii Del pari Burkett e Foster sottolineano come l’analisi economica di Marx concepisca la produzione capitalistica nel contempo come un regime economico ed ecologico.

Un’analisi nei termini della “contraddizione classica” tra capitale e lavoro non può che accompagnarsi dunque ad un’analisi di quella che si è definita «seconda contraddizione», di una «crisi di sottoproduzione», e dunque considerare il ruolo che ricopre la frattura metabolica a questo stadio del capitalismo. Siamo di fronte ad una sorta di accumulazione terminale o, per dirla con Moore, «Oggi la dialettica di capitalizzazione ed appropriazione ha raggiunto un punto di rottura». Foster parla di «legge generale, assoluta, di degradazione ambientale», Angus richiama l’«exterminism», McBrien parla di «necrosi» e Kovel del capitalismo come di un cancro nella natura.xix In quest’ottica, la questione della natura delle crisi capitalistiche non riveste molta importanza. Ciò che ha importanza sono gli effetti devastanti che l’accumulazione capitalistica, gli investimenti in capitale fisso e circolante comunque hanno sulla forza-lavoro e sulla natura.

La domanda che ci si può porre è la seguente: è conciliabile un processo di accumulazione continuo con una qualche capacità del sistema economico di riciclare, di conservare o di sopperire alla carenza degli elementi fisici (oltre che alla degradazione di quelli umani) e di porre rimedio alla compromissione dei processi naturali che finora non ha né riprodotto né conservato.xx Poiché l’espansione globale del capitalismo è equivalsa alla distruzione delle risorse naturali non rinnovabili che lo tengono in vita - e nelle modalità devastanti degli effetti di spreco ed inquinamento -, nonché alla compromissione delle rinnovabili a causa del suo impatto sui cicli naturali del pianeta e sulla omeostasi del biosfera, l’ideale mostruoso cui sembra tendere è di praticare una indefinita sostituibilità e “rinnovabilità” pro domo sua delle risorse naturali (ed umane), rendendone più efficiente l’uso ed in questa fase terminale, attraverso tecniche geo-ingegneristiche, riciclandone gli scarti e cercando di ricostituirle attraverso procedure che veicolano il folle progetto di un compiuto dominio dell’uomo sulla Natura.xxi

Sappiamo che l'apparato tecnico-scientifico, con i suoi innumerevoli ricercatori, è una dépendance del capitale. Esso, dunque, piuttosto che vedere la follia distopica in corso, la sostiene. Considerando il processo in corso alla stregua di una eventualità naturale, si tratterebbe di ovviare a quelli che appaiono solo come problemi urgenti con surrogati o tecnologie appropriati, per approdare, magari, ad una progressiva «dematerializzazione» (assoluta, si intende) dell’economia.

L’establishment, dunque, cerca di correre ai ripari. Alcune tendenze, a questo riguardo, sono volte a “porvi rimedio”, ossia in questa fase a implementare nuove forme “finali” di controllo-dominio delle «condizioni di produzione», specie fisiche. La finanziarizzazione della crisi ecologica, la monetizzazione dei servizi ecosistemici, la geo-ingegneria e la green economy fanno bella mostra di sé come “nuovi” strumenti per forme di accumulazione reali o fittizie e probabili soluzioni illusorie, ma quasi certamente pericolose. La comune “percezione del mondo” fornita dal sistema di dominio capitalistico non può d’altronde che concepire solo quelle “soluzioni” compatibili con la sua propria esistenza, sicché il proprio limite è il limite del mondo.

«Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso», osservava Marx, e ciò che oggi impone il superamento di questo sistema di distruzione di massa è anche ciò che lo impedisce. In sostanza, poiché la vera finalità della produzione nel capitalismo non è la soddisfazione dei bisogni, sicché sarebbero questi a determinarne forma e contenuto, ma i profitti netti conseguibili, sono questi ultimi a determinare forma e contenuto dei bisogni e finalità del processo produttivo, dal tipo di farmaci, al tipo di informazione, al tipo di alimenti, di tecnologie, di trasporti, alla produzione in massa di armamenti e pesticidi, al 5G, alla previsioni meteo, ai documentari di “divulgazione scientifica” che disegnano la natura come un perenne teatro di guerra (mentre la norma è autotrofia e simbiosi), ove l’elenco degli orrori, nei termini di ciò che chiamano beni e servizi, è infinito. Produzione strutturata attraverso immensi apparati corporativi che vivono di vita propria (da cui la litania sul «consumismo», che Foster definisce «malthusianesimo economico»). Sino al “bisogno” dei noti «strumenti di distruzione di massa», rappresentati dalle «scommesse» sull’andamento del prezzo di una materia prima, o su un indice finanziario o sul default degli Stati. Ciò definisce il quadro normativo di ciò che consideriamo “libertà”. Il risultato è un sistema sociale che somiglia sempre più ad una bidonville ricolma di computer e smartphone.

Ma poiché il sistema per quanto totalitario, non è onnipotente, possiamo ancora chiederci, con Debord, «quanto si trascinerà nella sua caduta». Facciamo qualche cenno alle strategie che mette in campo per sopravvivere.

 

a) Marx rilevava che «il processo di produzione appare soltanto come un male necessario per far denaro», e che il capitalismo viene preso «periodicamente da una vertigine» nella quale si vuole «fare denaro senza la mediazione del processo di produzione».xxii La finanziarizzazione della crisi ecologica opera nel senso di intercettare reddito a fini speculativi, incrementando la quantità del debito, ove il sottostante è la gestione di rischi ecosistemici, poiché, da quanto si assiste al riscaldamento globale, l’andamento dell’economia dipende in misura sempre maggiore dalle condizioni climatiche. Essa è parte di una mutazione in senso speculativo del capitale a cui si assiste in misura notevole a partire dai primi anni ’70, quando fu abbandonato il regime dei cambi fissi e cominciò ad emergere il dominio della sfera finanziaria sul capitale produttivo, con un incremento esponenziale del valore degli asset finanziari sul PIL. Solo che ora vi è in gioco il futuro del pianeta, non solo del capitalismo.

I derivati climatici, che hanno avuto un boom a partire dal 2004, come le «obbligazioni catastrofe», sono strumenti per fronteggiare finanziariamente i cambiamenti climatici. Essi vanno distinti dalle semplici assicurazioni che coprono i danni di un evento calamitoso. Da entrambe le parti i contraenti cercano di guadagnare nel “gestire” le conseguenze economiche di andamenti climatici che si danno per scontati. Così, indicizzando variabili climatiche, ad es. la temperatura media stagionale, e prezzando i valori dell’indice, si può “impacchettare e commerciare il tempo” (una realtà “inventata”). A sua volta, questi strumenti possono essere scambiati su mercati appositi.

Il peggioramento delle condizioni di produzione procura al contempo un aumento dei costi ed una occasione di guadagno. La finanziarizzazione, a considerare anche solo la posizione netta di mercato dei derivati climatici, rende comunque più fragile la catena del debito. Possiamo poi citare i «mercati del carbonio»: anch’essi prezzano una unità fisica, la tonnellata di carbonio, e imponendo un costo alle emissioni di gas serra creano le condizioni per procurare profitti speculativi. Che non abbiano avuto effetti sulla riduzione delle emissioni è stato messo in luce da più parti. xxiii

Va da sé che queste non rappresentano “soluzioni”, ma procedure per avere una parvenza di controllo sulle mutate condizioni ambientali ed ulteriore occasione, appunto, di guadagno per settori del capitale. Guadagni di carattere speculativo, come si accennava, che sottraggono quote di reddito monetario ai potenziali investimenti in capitale produttivo, riducendo il tasso di accumulazione, sicché è un po’ come se il capitalismo divorasse pure se stesso.xxiv

Il peggioramento delle condizioni fisiche della produzione, inoltre, innesta il fenomeno della finanziarizzazione su di un processo di privatizzazione di risorse naturali un tempo considerate «comuni», a partire dall’acqua. Più i beni scarseggiano a causa del processo di distruzione capitalistica della natura, più diventano fattori di accumulazione, non in sé, ma in ragione dei rapporti di potere politici dati. La scarsità di un bene è condizione necessaria e non sufficiente per la sua privatizzazione o gestione capitalistica, come la sua ampia disponibilità è condizione necessaria e non sufficiente per una gestione comune pubblica. Se si dovessero avere tecnologie frutto di “energie pulite” (fusione a basse energie ed altre note), o si avesse un utilizzo più efficiente di quella solare, ciò non escluderebbe la privatizzazione del processo che le renderebbe disponibili, a partire dai brevetti; almeno sino ad un certo punto, poiché queste tecnologie potrebbero avere intanto un carattere domestico: non richiederebbero grosse centrali e reti di trasmissione, ove si concentra il business delle fossili.

 

b) Una «modernizzazione ecologica» del capitalismo, una green economy, sembra fare il paio con il desiderio ricordato del sistema economico di fare denaro senza passare per il processo di produzione, poiché adesso – nel quadro di un insieme di indicatori di sviluppo sostenibile – si cerca di passare dal processo produttivo “senza usare risorse” (la chiamano «dematerializzazione»), supponendo un più generale mirabolante progresso tecnico, mentre questo sembra restare infine per lo più confinato alla information technology.xxv Va ricordato che la ricerca di un efficiente uso delle risorse è parte del processo produttivo capitalistico (le «esternalità» e lo spreco di risorse vengono addebitate alla società, come noto), ma che ciò reitera quello che è noto come paradosso di Jevons, sicché ad un eventuale risparmio nell’uso delle materie prime e dell’energia si accompagna un incremento complessivo della produzione e dei consumi (in valore ed in quantità fisiche, e fino ad ora di emissioni) che ne compensa e supera la portata, poiché è poi nella natura del capitalismo crescere “senza fine”. Dunque anche supponendo un uso crescente di risorse rinnovabili, non verrebbe meno la necessità del capitalismo di incrementare la produzione e di usare quelle risorse che rinnovabili non sono.xxvi

 

c) Il pensiero filosofico e scientifico moderno esordì con un’oggettività cadaverica che consentì di martoriare la natura, adesso, e sempre più, si oggettivizza una costruzione economica per “terminarla”. Mentre la green economy si inscrive nel solco di quella tradizione che vede nei meccanismi di mercato la soluzione in termini di risorse sostitutive e di tecnologie che consentano un uso più efficiente delle risorse naturali, l’«economia ecologica», rispetto all’impianto neoclassico che assume, prende atto dell’importanza dei processi e fattori naturali in relazione ai fattori socio-economici; tuttavia essa è per lo più interessata alla conservazione dello status quo.xxvii Data la preoccupazione attuale che una carenza o degradazione degli elementi naturali possa rappresentare un vincolo ai processi di crescita economica, un settore di studi si occupa di monetizzare, di attribuire un valore economico a quanto vengono chiamati «servizi ecosistemici», intesi come «capitale naturale» (dalla impollinazione alla disponibilità di falde acquifere alla cattura naturale dei gas serra etc.). Si stima in tal modo «il contributo relativo del capitale naturale al benessere umano»xxviii, suddiviso anch’esso in differenti tipologie di capitale; tale contributo è l’insieme dei servizi ecosistemici. Si suppone, così, di poter risolvere i problemi ambientali attribuendo un prezzo ai processi naturali da cui dipendiamo, onde valutarne i costi, e ciò indipendentemente dal possibile utilizzo in chiave capitalistica a cui tale valutazione conduce. Ma con tutta la buona volontà, è come se si volesse curare il malato con quanto gli ha procurato la malattia.

Sulla «valutazione dei servizi ecosistemici», un approccio marxista ne mette in luce tutte le limitazioni. In sostanza, “naturalizzando” l’economia, la cui natura è capitalistica, si “storicizza” la natura , nel senso che la si percepisce alla luce di categorie economiche dal carattere storico e non “naturale”xxix; sicché essa viene tradotta nei termini di reddito naturale, capitale naturale, servizi naturali, deprezzamento naturale, scorte naturali etc. È facile sostenere che tra ambiente ed economia non c’è contrasto, a patto di rendere omogenee categorie concettuali e poi attribuirle “alle cose stesse”. Poiché i servizi ecosistemi contribuiscono al benessere umano, sono fondamentali per l’economia, e poiché questa si occupa di merci, di flussi di valori monetari e dinamiche di produzione, distribuzione e consumo, allora, di rimando, anche la natura deve esser sottoposta allo stesso tipo di valutazioni di mercato, ed il mercato ne saprà fare un uso ottimale.xxx Una argomentazione fallace sostenuta dal presupposto che la mercificazione sia un fatto naturale. Abbandonato questo, la natura dismette le vesti della storia, di questa storia almeno.xxxi

Marx, in chiave ironica, scriveva che «Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamante», che vi sono valori d’uso che non posseggono un valore di scambio, riferendosi a «tutti i mezzi di produzione dati in natura senza intervento umano: terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine ecc.».xxxii Dopo aver «smaterializzato» l’economia nel corso del ‘900, con lo sviluppo di una contabilità nazionale specie a seguito della crisi degli anni ’30, si torna a «materializzarla». Come osservano Bonneuil e Fressoz, «Il processo per rendere invisibili i limiti della Terra non consiste più solamente nell’esternalizzarla…ma al contrario nell’internalizzarla radicalmente…tramite la misurazione dei funzionamenti ecosistemici in termini di flussi finanziari».xxxiii

Nel quadro della teoria ortodossa in cui si muovono questi studi e nel quadro di un sistema energivoro votato ad una crescita mondiale continua (anche se da tempo asfittica a livello globale), essi consentono infine di compilare un quadro statistico di ciò che si prevede in termini di degradazione di taluni servizi, allo stesso modo di come si può prevedere l’andamento di voci del welfare a fronte di una stagnazione economica. Nell’attribuire un valore monetario alle risorse naturali, l’economia ecologica cerca di procurare uno sviluppo sostenibile, celando il problema di un capitalismo insostenibile.

 

d) Ma ciò che occorre temere è la geo-ingegneria. Essa è al contempo l’apoteosi del dominio e del fallimento di un sistema che fagocita le condizioni naturali ed umane della propria riproduzione a partire dalla colonizzazione che inaugura l’epoca moderna. La geo-ingegneria è un complesso di tecnologie atte a ridurre la quantità di gas serra presente nell’atmosfera, da una parte filtrando la radiazione solare in entrata o aumentando la riflettività (albedo) della superficie terrestre, dall’altra (emissioni negative) rimuovendo la quantità di CO2 prodotta dal sistema economico (Sun Radiation Managment, Carbon Dioxide Removal, Bio-energy with Carbon Capture and Storage, ad es.),xxxiv anche se le tecniche previste volte a ridurre gli effetti dell’inquinamento, le esternalità prodotte dal sistema, sono più diversificate, da nano particelle sostitutive dei fertilizzanti chimici, ai pioppi che assorbono plastica, a rinnovate policolture perenni, alle muraglie vegetali contro la desertificazione e le sempre più temute tempeste di sabbia, alla carne sintetica, ai robot impollinatori etc.

Quando si prevede di gettare calcare negli oceani per renderli più alcalini e così in grado di assorbire più anidride carbonica, anche qui, si “cura” il pianeta come la medicina convenzionale “cura” il malato: ne cura i sintomi in un quadro riduzionistico. I potenziali gravi effetti a cui condurrebbero tali tecnologie sono stati messi in luce da più parti, e certamente vi sono già stati a considerare le interessanti indagini di Rosalie Bertell,xxxv ove si rende conto dell’impatto delle attività militari dal Secondo dopoguerra sulla biosfera e nell’atmosfera, sino alle fasce di Van Allen. Va considerato infatti, come rileva lo stesso Angus, che dalle contabilità ufficiali sulle emissioni di gas serra e più in generale sugli elementi inquinanti non figurano le voci relative alle attività militari, nonché al commercio navale e aereo. Di fronte alla catastrofe ecologica in corso, il capitalismo sta cercando e cercherà di porvi rimedio producendo gli ultimi apparati di dominio sulla natura (e sull’umanità), che consolideranno un «geopotere» a carattere militare-industriale. Il capitalismo si concede una nuova occasione di crescita sulle sue stesse macerie. È soprattutto attraverso la geo-ingegneria, infatti, che il sistema cercherà di rispondere alla domanda che ci siamo posti circa la sua capacità di far fronte alla compromissione dei processi naturali. Ma c’è il forte rischio, secondo gli esperti, che sia dannosa per gli ecosistemi e si accompagni a processi decisionali apertamente autoritari.

È opportuno notare, in relazione a quanto abbiamo detto, come Burkett riconduca la seconda contraddizione alla prima. L’aumento dei costi dovuto al deterioramento delle condizioni di produzione diventa nel contempo un’occasione di accumulazione (crescita), ossia di ciò che ha prodotto il disastro.xxxvi Il capitalismo può occuparsi dei propri disastri solo in modo capitalistico. È una tautologia, che rappresenta una “ineliminabile condizione del mondo”. La morale del capitalismo è tutta qui, continua a mostrarci infine che in qualunque modo agisca, qualunque cosa faccia, esso costituisce un crimine contro qualcosa o qualcuno. La “tecnica”, sino allo stremo, viene ultimata sulla via del compiuto e terminale dominio.

Tutto questo, poi, potrebbe accadere nel quadro di sempre più vaste «guerre climatiche» e della tragedia delle decine di milioni di migranti climatici in giro per il mondo (si veda appendice al testo), che stanno aggravando il già grave deterioramento delle condizioni umane sul pianeta.

Abbiamo iniziato osservando come Marx avesse ben compreso che il capitalismo stesse compromettendo il ciclo dei nutrienti nelle campagne inglesi e di come farà fronte a questa «frattura metabolica» sviluppando infine l’uso di fertilizzanti di sintesi e pesticidi, ciò che condurrà al trionfo delle monocolture, la massima espressione della distruzione della biodiversità in agricoltura. Ma ciò produrrà, insieme ad altri fattori, una frattura nel processo dell’impollinazione, per via della distruzione delle specie di insetti, con conseguenze catastrofiche sugli ecosistemi e la sopravvivenza della nostra specie, e a cui il capitalismo immagina di farvi fronte, tra l’altro, mediante una rete di robot impollinatori.xxxvii Il capitalismo crea situazioni che compromettono il metabolismo del pianeta e le “risolve” trasformando la Terra in qualcosa che somiglia ad un immenso «tecnofossile». È evidente che l’apparato tecnico-scientifico sia interamente modellato dalle esigenze del capitalismo e che solo “estinguendo” questo sistema sociale potremo sapere cosa farcene.

Il libro di Angus, dopo aver esposto la genesi storica del capitalismo fossile nel Secondo dopoguerra, conclude con la vexata quaestio delle alternative, più una appropriata appendice sugli equivoci che può indurre l’espressione «Anthropocene». Il merito del lavoro di Angus, che appartiene ad una letteratura sull’argomento poco diffusa in Italia, è quello di aver delineato l’impatto sui cambiamenti climatici del capitalismo; di avere delineato in dettaglio la genesi del capitalismo fossile; di aver chiarito come la crisi ecologica sia determinata e sia la crisi di un determinato sistema sociale, abbia un carattere storico, ma sia talmente devastante da compromettere l’esistenza della nostra stessa specie.

A circa trent’anni dal crollo del blocco sovietico, si ripropone in forme ancora più drammatiche l’alternativa «(eco)socialismo o barbarie». Angus rileva come l’alternativa non sia mai stata l’URSS (e men che mai la Cina di ieri e oggi), riconoscendo l’impatto devastante sugli ecosistemi di quel sistema, caratterizzato dal produttivismo, che lo rese, aggiungiamo noi, un inefficiente e corrotto capitalismo di stato.

Riprendendo alcune decisive considerazioni, la prospettiva continua ad essere complessa. Marx scriveva: «gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”», mentre la storia del movimento operaio si è svolta nel senso contrario, una lotta per «l’integrazione» nel capitalismo, giacché, come ancora osserva Marx, « La condizione della sua [dell’operaio] esistenza è la vendita della forza-lavoro». E Paul Lafargue, negli stessi anni, scriveva che nel capitalismo «il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica». Camatte, da parte sua, osservava che «Si può parlare della vittoria dei proletari solo nella misura in cui si afferma simultaneamente che la realizzeranno non come proletari, ma negando se stessi, ponendosi come uomini», e Robert Kurz,, con il gruppo Krisis, rimarca che lotta di classe e democrazia hanno rappresentato la dinamica sociale e la forma politica di questa integrazione. Postone sugella queste riflessioni precisando che «la classe lavoratrice è parte integrante del capitalismo piuttosto che l'incarnazione della sua negazione», poiché essa incarna, nel «valore», una forma specifica e dominante di “ricchezza” propria del capitalismo.xxxviii

Intanto, da circa quarant’anni è iniziata quella che si può chiamare una fase di de-integrazione, per via dell’aggravamento delle condizioni economiche e dello smantellamento progressivo del welfare, con il risultato che i salariati si aggrappano per lo più ad una qualunque forma di reddito. Insomma, l’auspicabile urgente fine dell’industrialismo capitalistico è insieme l’auspicabile urgente fine del regime del lavoro salariato, in un quadro in cui il contrasto irrimediabile si è spostato oramai in misura evidente tra il processo di riproduzione del capitalismo ed il processo di riproduzione della nostra specie, che come l’intera biosfera dalla salvaguardia dei sistemi basilari di supporto alla vita dipende.

Tuttavia, poiché il regime sociale capitalistico è monolitico, omogeneo, pervasivo al suo interno a differenza di modi di produzione precedenti, in cui i contrasti tra ceti e classi erano evidenti, «fine del mondo» e «fine del capitalismo», osserva Angus citando Jameson, vengono identificati, sicché una questione profondamente politica viene percepita come parte dell’ordine naturale delle cose.

Negli ultimi decenni, sul piano teorico, si sono discusse varie alternative, specie in area anglosassone. Senza la pretesa di affrontare la questione, l’ecoanarchismo nella sua variante primitivista rappresenta la pars destruens. Questo approccio ha opportunamente messo in luce, sulla scorta di numerose ricerche antropologiche degli ultimi decenni, come ciò che chiamiamo civiltà, con un tono apologetico, sia nella sostanza dominio degli uomini sugli uomini e di questi sulla natura e di come ciò sia riconducibile in una certa misura alla nascita dell’agricoltura e specie alla pratica della domesticazione degli animali.

La condanna del capitalismo, per i primitivisti, è parimenti una condanna della civiltà, dunque di tutto ciò che sembra caratterizzarla: dalla tecnica alla cultura simbolica al lavoro tout court. Tuttavia, i primitivisti non sembrano fornire alcuna alternativa praticabile, che non sia un “ritorno” ad una condizione in qualche modo preistorica, mentre, allo stato delle cose, occorrerebbe porsi il problema di una post-civiltà.xxxix Il regime economico e l’apparato tecnico-scientifico odierni impediscono l’uso potenziale di fonti di energia alternative (come delle stesse rinnovabili) e di tecniche di gestione conseguenti, così come la nascita di un altro regime alimentare – che ci consenta di non tornare a pratiche di caccia e pesca, ad es. – e di forme di agricoltura passate e presenti di carattere «organico», avendo infine come orizzonte, certo, un ritorno in forma nuova alla Natura, piuttosto che immaginare fughe spaziali dalla Terra, con lo stesso spirito di conquista e dominio.

In un qualche senso dobbiamo tornare ad essere “incivili”, figli come siamo di pratiche necrofile fattesi “sistema” negli ultimi secoli. In questo quadro, posizioni «antispeciste», di ispirazione ecoanarchica, marxista e non solo, sembrano fornire altri interessanti contributi, e si aggiungono ai contributi da tempo forniti dall’ecologia sociale di Bookchin.xl«Nel mondo e in noi stessi», scrive Vaneigem, «ci troviamo all’incrocio di due civiltà. L’una finisce di rovinarsi sterilizzando l’universo sotto la propria gelida ombra, l’altra scopre ai primi bagliori di una vita che rinasce l’uomo nuovo, sensibile, vivo e creatore, fragile ramoscello di una evoluzione in cui l’uomo economico ormai non è altro che un ramo secco».xli

La pars costruens, a nostro parere, è data da modelli di economia partecipativa elaborati nel corso degli ultimi decenni. Pensiamo in particolare al modello prefigurato da Albert. Esso delinea un sistema economico-sociale a pianificazione consiliare (alternativo ai mercati ed alla cosiddetta «pianificazione centralizzata»), dunque «dal basso», ossia autogestito dai “lavoratori” e dai “consumatori”, cosa che più di tutte incarna quella «economia dei produttori associati» di cui parlava Marx.xlii Esso pone le basi per una autentica «democrazia diretta», poiché vengono meno le condizioni del dominio degli uomini sugli uomini, a cominciare dai rapporti di classe, dalla divisione del lavoro, e dall’esistenza di apparati istituzionali pubblici o privati, ove il lavoro come libero esercizio di capacità in un ambito sociale non assumerebbe una forma mercificata e non incarnerebbe alcuna forma di dominio. Come osserva Kovel, «E’ il nesso classe-stato che procura il salto decisivo tra società arcaica e ciò che chiamiamo civilizzazione».xliii

L’ecosocialismo prefigurato da Angus insiste su alcuni aspetti di una ecologia radicale e sulla necessità di una rivoluzione sociale che conduca ad una civiltà ecosocialista, in quanto individua nel sistema capitalistico la causa di quella svolta planetaria chiamata «Anthropocene»; una società i cui si pongano le condizioni di un’autentica, non ingannevole, sostenibilità, ove, richiamando Marx, i produttori associati regolano razionalmente il metabolismo uomo-natura. Occorre auspicare in tal senso, secondo Angus, la nascita di un “movimento di lavoratori” che abbia un carattere ecologista, poiché ciò che presiede alla degradazione delle condizioni umane sul pianeta è ciò che procura, come abbiamo detto, la degradazione ambientale: sono due aspetti d’una stessa faccenda. Il metabolismo sociale capitalistico non esprime un generico processo produttivo ed una generica attività lavorativa, è tutt’uno con la forma mercificata del lavoro come componente ecocida di questo metabolismo; ciò che la teoria del valore-lavoro di Marx vuole appunto sottolineare. Come osservava O’Connor, «è ormai diventato evidente che nel capitalismo la tecnologia, le forme del lavoro etc., inclusa l'ideologia del progresso materiale, sono diventate per lo più parte del problema, e non la soluzione».xliv In tal senso, Angus indica tutta una serie di misure radicali da intraprendere nell’immediato se si vuol far fronte a quanto accade ed accadrà.

Anche se non nascondiamo un certo pessimismo circa la fine di questo olocausto, l’ecosocialismo appare l’unica alternativa che ci consentirebbe di tornare alla terra secondo la forma dei tempi che ci attendono, giacché, in caso contrario ed a meno di un miracolo, per dirla con Adorno dovremo solo vergognarci, nell’inferno che abbiamo creato, «di possedere ancora … l’aria per respirare».

Ancor più occorre allora rivolgerci a quella saggezza che precedette «le magnifiche sorti e progressive» e che ancora resiste nel richiamo alla vita che proviene dalle culture indigene:

Per molti anni, noi, leaders indigeni e popoli dell’Amazzonia, abbiamo avvisato voi, nostri fratelli che hanno causato tanti danni alle nostre foreste. Quello che voi state facendo cambierà il mondo intero e distruggerà la nostra casa, e distruggerà anche la vostra casa. … Solo una generazione fa, molte delle nostre tribù lottavano fra di loro, ma ora siamo uniti, lottando insieme contro il nostro comune nemico. E questo nemico comune siete voi, i popoli non indigeni che hanno invaso le nostre terre e ora stanno bruciando anche le piccole parti delle foreste in cui viviamo che voi ci avete lasciato. Il presidente Bolsonaro del Brasile sta incentivando i proprietari di fazende vicine alle nostre terre a ripulire la foresta, e non sta facendo nulla per impedire che invadano il nostro territorio.

Chiediamo che voi interrompiate ciò che state facendo, la distruzione, il vostro attacco agli spiriti della Terra. … Perché fate tutto ciò? Voi dite che è per lo sviluppo … Perché dunque fate tutto ciò? Noi vediamo che è perché alcuni di voi possano ottenere una grande quantità di denaro. Nella lingua Kayapó chiamiamo il vostro denaro piu caprim, «foglie tristi», perché è una cosa morta e inutile. E porta solo danni e tristezza. … Ma queste persone ricche moriranno, come noi tutti moriremo. E quando i loro spiriti sono separati dai loro corpi, i loro spiriti rimangono tristi e soffrono… Dovete cambiare il vostro modo di vivere perché esso è perduto, voi vi siete perduti. Laddove voi state andando è solo il cammino della distruzione e di morte. Per vivere, dovete rispettare il mondo, gli alberi, le piante, gli animali, i fiumi e anche la terra stessa. Perché tutte queste cose hanno spiriti, tutte sono spiriti e senza gli spiriti la Terra muore, la pioggia si fermerà e le piante alimentari marciranno e moriranno esse pure. Tutti respiriamo quest’aria, tutti beviamo la stessa acqua. Viviamo in questo pianeta. Abbiamo bisogno di proteggere la Terra. Se non lo faremo, i grandi venti verranno e distruggeranno la foresta.

E allora voi sentirete la paura che noi già sentiamo.

We, the peoples of the Amazon, are full of fear. Soon you will be too

Raoni Metuktire cacique del popolo indigeno Kayapó

La capacità del capitalismo da sempre consiste del farci credere che il peggio debba ancora venire. Se esso infine si è mostrato, possiamo opporvi un racconto che, se si re-intitolasse «Notizie da nessun luogo», narrerebbe di come l’uomo cominciò a ritirarsi dalla natura, liberando animali, piante e se stesso da qualunque recinto, gabbia, prigione e procedura di sterminio, ed in buon ordine, dopo millenni di «condanne di morte a vita»,xlv (ri)cominciò a vivere. Dopo quanto accaduto, anche questa possibilità, solo come possibilità, sta nell’ordine delle cose.


Note
i Ana Isla, (a cura di), Climate Chaos, Inanna, 2019, p. 21; Herber Marcuse, Counterrevolution and Revolt, 1972.
iiSubcommission on Quaternary Stratigraphy, http://quaternary.stratigraphy.org/working-groups/anthropocene/, ove si elencano le conseguenze sul pianeta delle attività industriali e dei test nucleari. Si veda anche Jan Zalasiewicz et al., «When did the Anthropocene begin?», Quaternary International, vol. 383, ottobre 2015.
iii Si veda http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/, e l’intervista a Rob Wallace, «Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà?», infoaut, 16 marzo, 2020, nonché alcune proposte per non tornare alla “normalità” in Climate&Capitalism, «Five proposals for a better world after the pandemic», 20 aprile, 2020. L’OMS ha monitorato 1483 eventi epidemici in 172 paesi, tra il 2011 ed il 2018, dovuti al forte impatto delle nostre società sul pianeta, a partire dal regime alimentare industriale.
iv Questo movimento insiste sull’effetto che la mostruosa filiera industriale degli allevamenti di bestiame e pesci e dei mattatoi ha sul riscaldamento globale come fonte di gas serra. Sono decine di miliardi gli animali che vi transitano. In proposito, il notevole studio sul «complesso bovino» di Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondadori, 2002.
v Si veda Bailador, http://bailador.org/blog/wp-content/uploads/2019/10/18-Bailador.-Animal-Rebellion-.pdf.
vi Si vedano Yinon M. Bar-On, Rob Phillips, Ron Milo, «The biomass distribution on Earth», PNAS, 21 maggio, 2018; G. Ceballos, Paul R. Ehrlich, R. Dirzo, «Biological annihilation», PNAS, 10 luglio, 2017 - ciò che preoccupa non è solo il numero di specie che scompaiono o la quantità di individui nelle singole popolazioni, ma la velocità con cui ciò accade; J. Poore1, T. Nemecek, «Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers », Science, 1 giugno, 2018.
vii Justin McBrien la considera invece il «primo sterminio di massa». Essa è infatti procurata dal regime sociale capitalistico. Definirla come sesta estinzione, infatti, comporta una sua “naturalizzazione” e “neutralizzazione” politica, significa considerarla alla stregua di un evento naturale imprevisto ed involontario. Si veda «This Is Not the Sixth Extinction», in https://truthout.org/articles/this-is-not-the-sixth-extinction-its-the-first-extermination-event/.
viii «Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate», osserva Wallace nell’intervista citata.
ix Decisivi a questo riguardo sono gli studi sulla estrazione ed i consumi di materie prime ed energia (tranne aria ed acqua) con cui si misura in termini di unità fisiche, diversamente da quelle puramente monetarie, l’impatto fisico e le ricadute metaboliche dell’economia industriale sul pianeta. Dagli anni ’50, con la «Grande accelerazione», vi è stata una transizione metabolica globale guidata dai combustibili fossili, ove la bilancia commerciale fisica (flussi di materia in entrata ed uscita) evidenzia il peso devastante delle economie industrializzate e negli ultimi decenni della Cina e dell’India (un imperialismo fisico contabilizzato in tonnellate). Si veda Anke Schaffartzik et al., «The global metabolic transition», Global Environmental Change, vol. 26, maggio 2014.
x Ian Angus, Simon Butler, Too many people?, Haymarket Books, 2011.
xiSi vedano, del compianto Paolo Giussani, «La crisi e il saggio del profitto», 2012, https://www.contraversus.net/app/download/18396530325/p._giussani_crisi_e_saggio_del_profitto.pdf?t=1584175921; «Capitalism is dead», https://www.contraversus.net/app/download/18405289225/giussani_capitalism_is_dead.pdf?t=1584177174. Puntuali analisi in termini di economia politica marxiana si possono trovare nel sito Countdown, http://www.countdownnet.net/index.php,
xiiJames O’Connor, «Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction», CNS, vol, 1, 1988 (trad. it. L’ecomarxismo, Datanews, 2000); G. Ricoveri (a cura di), Capitalismo, natura, socialismo, Jaca Book, 2006, pp. 24-33. Jason W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre Corte, 2015, Antropocene o Capitalocene?, Ombre Corte, 2017; John Bellamy Foster, Marx’ ecology, Monthly Review Press, 2000. Per una panoramica si veda https://monthlyreview.org/commentary/metabolic-rift/. Per un confronto tra le posizioni di Moore e Foster, si vedano di Moore, «Transcending the Metabolic Rift», in Journal of Peasant Studies, 13 gennaio, 2011 e di Foster, «Marx and the Rift in the Universal Metabolism of Nature», in Monthly Review, 1 dicembre 2013. Per una efficace critica alle posizioni espresse da Moore, si veda A. Malm, «In Defence of Metabolic Rift Theory», Verso, 16 marzo, 2018 e John Bellamy Foster, Paul Burkett, «Value Isn’t Everything», Monthly Review, 1 novembre 2018.
xiii Su questa questione e la sua rilevanza nella vasta letteratura ecosocialista, Paul Burkett, Marx and Nature, Haymarket Books, 2014, pp. vii-xiii; John Bellamy Foster, Paul Burkett, Marx and the Earth, Haymarket Books, 2016, pp. 1-15. Foster, precisando come una critica ecologica di ispirazione marxista è stata prefigurata nel corso del ‘900 da diversi autori, specie negli anni ’60 e ’70, data l’inizio di un secondo ecosocialismo con la pubblicazione del suddetto libro di Burkett nel 1999, e di una terza fase ecosocialista a cui lo stesso Burkett ha dato un forte contributo con la pubblicazione, di Marxism and Ecological Economics, Haymarket Books, 2005.
xiv Marx osserva che «il sistema capitalistico ostacola una agricoltura razionale, ovvero che quest’ultima è incompatibile col sistema capitalistico (benché esso ne favorisca lo sviluppo tecnico), e che ad essa è necessaria l’opera del piccolo proprietario che lavora in proprio ovvero il controllo dei produttori associati», Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, vol. 3, pp. 158, 159.
xv Stefano B. Longo, «Mediterranean Rift: Socio-Ecological Transformations in the Sicilian Bluefin Tuna Fishery», Critical Sociology, vol. 38, 2010.
xviJ. Bellamy Foster, «Capitalism and the Accumulation of Catastrophe», in Monthly Review, vol. 63, dicembre 2011.
xvii Nel confronto Moore-Foster, ossia tra «frattura metabolica» ed «ecologia-mondo», i due studiosi pongono un accento differente riguardo alla necessità di abbandonare «il modo di organizzare la natura» (Moore), «il metabolismo sociale» (Foster) che caratterizza il capitalismo. Sulla scorta di Marx, l’insistenza di Foster sul «metabolismo universale della natura» esprime adeguatamente lo stato di una crisi planetaria che compromette processi essenziali alla vita, e a tal proposito parlerei con Marx, e diversamente da Moore, «di una differenza dell’esistenza» (Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, p. 102) , nel senso almeno che l’uno dei due processi (il metabolismo naturale) esclude l’altro (il metabolismo sociale capitalistico), come il valore d’uso non necessita della forma di valore, né il lavoro della sua forma mercificata. Il motivo è infine «ontologico». Nel caso di Moore, questo motivo sembra scomparire dietro la «storicità delle nature». Nel contempo, la sua insistenza sulla storicità vorrebbe salvare la dialettica contro un presunto dualismo. È vero, come sostiene anche Moore, che è lo stesso capitalismo a generare la percezione di una natura separata dal sociale, ma è altrettanto vero che la necessità di superarlo deriva chiaramente solo se si assume un “residuo” che è la Natura in quanto tale, ossia un aspetto relativamente a-storico - rilevabile, ad es., nel grado di compromissione della «produzione primaria netta» di biomassa -, ciò che Marx considerava, a proposito del ciclo dei nutrienti, una «eterna condizione naturale», un «ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita», sicché non c’è dialettica, non c’è mediazione alcuna e di cui è parte lo stesso lavoro: «Il lavoro … è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra l’uomo e la natura, cioè la vita degli uomini» (Il Capitale, vol. 1, p.75). Foster non contrappone natura a società, solo un certo metabolismo sociale, che istituisce potremmo dire una “disbiosi”, all’universale metabolismo della natura, quello che sorge dalla separazione degli uomini dai loro mezzi di sussistenza, dalle condizioni di produzione, per ritrovarsele forzatamente unificate in forma di capitale. D’altronde è lo stesso Moore a rilevarlo quando ad esempio precisa, con una curiosa espressione, che «La Natura è finita. Il capitale si basa sull’infinito» (Ecologia-mondo, op. cit. p. 160).
xviii Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz, La terra, la storia e noi, Treccani, 2019, pp. 263, 264. Occorre tuttavia precisare che Marx ed Engels rifiutarono l’ipotesi «energetica» di Podolinskij per una molteplicità di valide ragioni. Si veda in proposito John Bellamy Foster, Paul Burkett, Marx and the Hearth, op. cit., cap. 2, oltre alla considerazione del fatto che, marxianamente, nel capitalismo la sola fonte del valore, in quanto lavoro astratto, è il lavoro umano. Ciò dipende dalla specificità del sistema capitalistico e vale solo per questo. Come ha mostrato Postone nella sua analisi critica del marxismo tradizionale, la categoria del valore è una categoria storicamente specifica, Moishe Postone, Time, Labour, and Social Domination, Cambridge University Press, 2003.
xix Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene, op. cit., p. 133; John Bellamy Foster, Brett Clark, Richard York, Ecological Rift, Monthly Review Press, 2011, pp. 207-211; Robert Biel, The Entropy of Capitalism, Haymarket Books, 2013, cap. 5; McBrien, op. cit.; Joel Kovel, The Enemy of Nature, Zed Books, 2008, 121-123. Come noto, Marx paragona il capitalismo, questa mostruosità che ha infranto qualunque elemento di un’economia organica, «a un vampiro», che «si ravviva … soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia», Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, vol. 1, p. 267. Ciò vale per ogni elemento naturale. Foster parla di «legge generale, assoluta, di degradazione ambientale» come «controparte dialettica» della «della legge generale, assoluta, dell’accumulazione capitalistica», nella misura in cui vi è incorporata. Mentre quest’ultima esprime tradizionalmente il dominio sul lavoro, l’altra lo esprime sulle «condizioni di produzione» nel suo complesso. Come quella produce degradazione sociale, questa produce degradazione ambientale ed è la più evidente oggi, giacché mette a rischio l’esistenza stessa della vita sul pianeta, Ecological Rift, op. cit., cap. 10; Marx and the Earth, op. cit., p.6.
xx Ci riferiamo in specie a «… "external physical conditions" or the natural elements entering into constant and variable capital», O’Connor, op. cit. p. 14.
xxi Non solo il capitalismo sta esaurendo quelle che ai suoi occhi sono riserve di combustibili fossili, ma sta intaccando fortemente la biomassa generata annualmente dall’energia solare (da cui l’insieme delle rinnovabili). Delle 1000 Gt di carbonio stimate duemila anni fa, ne sono rimaste 550, l’11% della quali è stata consumata a partire dal 1900, ad un tasso netto annuo di circa 1,5 Gt negli ultimi anni. Si veda in proposito John R. Schramski et al, «Human domination of the biosphere», PNAS, vol. 112, n. 31, 2105, ove l’analisi accurata e decisiva degli stock e flussi di energia sul pianeta è priva, però, di una contestualizzazione sociale che individui precisi regimi energetici.
xxii Karl Marx, Il Capitale, op. cit., vol. 2, pp. 58, 59.
xxiii Daniel Tanuro, L’impossibile capitalismo verde, Alegre, 2011; AA.VV., The Global Fight for Climate Justice, Resistance Books, 2009, cap. 5.
xxiv Su natura e funzione del capitale speculativo, si veda ad es. P. Giussani, «Crescita speculativa», 2001, http://www.left-dis.nl/i/specul.htm.
xxv L. Reynolds, B. Szerszynski, «Neoliberalism and technology: Perpetual innovation or perpetual crisis?», in M. Ylönen, L. Pellizzoni (a cura di), Neoliberalism and Technoscience: Critical Assessments, Routledge, 2012.
xxvi John Bellamy Foster et al, Metabolic Rift, op. cit.; J. M. Polimeni, K. Mayumi, M. Giampietro, B. Alcott, The Jevons Paradoxand the Myth of Resource Efficiency Improvements, Routledge, 2015. Le statistiche sulla crescita enorme dell’estrazione e consumo di materiali nella «transizione metabolica» del Secondo dopoguerra lo dimostrano, sicché a un incremento dell’efficienza corrisponde un maggiore uso di materiali. Occorre segnalare che l’efficienza nell’uso delle risorse richiesta dal processo di accumulazione storicamente si è accompagnata ad una riduzione della produttività del capitale in termini di valore, ossia del rapporto prodotto netto-capitale fisso, ancor più pronunciata nelle economie dell’ex blocco sovietico, e da cui una tendenza storica alla caduta del saggio del profitto.
xxvii Un diverso approccio, ad esempio, negli scritti di Giorgio Nebbia e in quanto reperibile sul sito CNS – Ecologia Politica, http://www.ecologiapolitica.org/wordpress/. Una «contabilità fisica dell’economia» come abbiamo osservato ha il merito di valutare l’impatto della produzione di merci in regime capitalistico sugli ecosistemi, cosa che non può che essere assente nel quadro di una contabilità puramente monetaria dell’economia, qualunque sia l’impianto teorico. Si pensi che alcuni economisti considerano l’effetto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura irrisorio poiché essa conta per un 5% massimo del PIL delle economie industrializzate. L’analisi economica convenzionale è un mondo da sogno che ha trasformato il pianeta in un incubo: alla crescita monetaria fornita dai vari indici economici (a cominciare da quella del mercato secondario dei titoli) corrisponde una devastazione di risorse umane e naturali. Se ne potrebbe formulare una legge.
xxviii Robert Costanza et al, «Change in the global value of ecosystem services», Global Environmental Change, vol. 26, maggio 2014, p. 153.
xxixPaul Burkett, «The value problem in ecological economics», Organization & Environment, vol. 16, n. 2, giugno 2003. Si assume che processi naturali possano essere tradotti in valori di scambio secondo la teoria economica ortodossa, mentre questi presuppongono rapporti sociali di sfruttamento.
xxxRobert Costanza et al.op. cit., p. 154, ove si scrive che «”the environment versus the economy” is a false choise. If nature contributes significantly to human well-being, then it is a major contributor to the real economy», una affermazione che se non chiamassimo in causa il contest storico sarebbe del tutto priva di significato.
xxxi Burkett osserva come la categoria di «capitale naturale sembra utile nel riconciliare valori ecologici e “pratiche” preoccupazioni economiche», Marxism and Ecological Economics, op. cit., p. 114.
xxxii Karl Marx, Il Capitale, op. cit. vol. 1, pp. 115, 238.
xxxiii C. Bonneuil, J Fressoz, op. cit., p. 273.
xxxivIn proposito, sul sito dell’IGBP, www.igbp.net/news/features/features/climategeoengineeringcouldweshouldwe.5.1b8ae20512db692f2a680002386.html. Vandana Shiva parla in proposito di «hybris finale». Sulla e contro la geo-ingegneria si veda il sito https://www.nogeoingegneria.com/. Una tecnica recente prevede di catturare e trasformare l’anidride carbonica in carbonio solido a temperatura ambiente, e renderlo disponibile come fonte di energia, in https://www.nature.com/articles/s41467-019-08824-8.
xxxv Rosalie Bertell, Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra, Asterios, 2018.
xxxviPaul Burkett, Marx and Nature, Haymarket Books, 2014, pp. 193-197. D’altronde è proprio questa contraddizione che consente al capitalismo di procurarsi condizioni di accumulazione sulla base della «legge di degradazione generale, assoluta, ambientale», con la bio-ingegneria, la geo-ingegneria etc. Il capitalismo prospera della sua stessa morte. La seconda e terza fase dell’ecosocialismo di cui parla Foster rappresentano perciò un venir meno delle ragioni del primo ecosocialismo.
xxxvii Ogni anni sui campi vengono sparsi circa quattro milioni di tonnellate di pesticidi, prodotti da poche grandi multinazionali della chimica. Questi crimini contro la Vita, come ovvio, non sono considerati reati.
xxxviii Karl Marx, «Salario, prezzo, profitto», Opere complete, Editori Riuniti, 1987, vol. XX, p. 150; Il Capitale, op. cit., vol. 1, p. 714; Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, Asterios; Jacques Camatte, Capital and community, 1972; Robert Kurz, L’onore perduto del lavoro, Manifesto Libri, 1994; Moishe Postone, op. cit., p. 17. Sulla questione lavoro/abolizione del lavoro, Bob Black, L’abolizione del lavoro, Nautilus, Torino, 1992; Peter Hudis, «Marx’s Concept of Socialism», in Matt Vidal et al (a cura di), The Oxford Handbooof Karl Marx, giugno 2019; Uri Zilbersheid, «The Vicissitudes Of The Idea Of The Abolition Of Labour In Marx's Teachings —Can The Idea Be Reviewed? », Critique, vol. 32, n. 1, 2004, ove l’autore rileva come Marx ed Engels abbiano prefigurato anche una «abolizione del lavoro» in quanto tale, una «pianificazione del non lavoro». Se ha un senso l’idea di un superamento del lavoro, ne ha se il lavoro è equiparato ab origine ad una produzione di tipo strumentale socialmente organizzata, come condizione per qualunque tipo di sfruttamento si sia presentato storicamente. Per attività o produzione non strumentali si intendono attività che abbiano il fine in se stesse e che richiedano perciò altre tecnologie. Qui il lavoro non appare più come «una necessità eterna della natura».
Per la tematica relativa all’integrazione, può risultare utile oggi rileggere il saggio di Paul Mattick, «I limiti dell’integrazione», Wobbly n. 31, autunno 1992, nonché un più ampio panorama critico sulla questione del superamento del capitalismo, quando né la «miseria delle masse», né il «progresso distruttivo» fanno intravvedere vie di uscita, in AA.VV., Un omaggio a Paul Mattick, https://issuu.com/connessioni/docs/un_omaggio_a_paul_mattick?backgroundColor=%2523222222.
xxxix Ci riferiamo in particolare ai lavori di John Zerzan. Utili osservazioni critiche alle posizioni primitiviste in relazione alla situazione presente in Brian Tonak, «The dangerous folly of eco-primitivism: A reply to John Zerzan and Derrick Jensen», Climate&Capitalism, 10 aprile, 2020. Tra i fautori d’una società liberata da qualunque forma di repressione e gerarchia, pur facendo proprie le acquisizioni tecniche e scientifiche, vi fu il due volte perseguitato - in regime dittatoriale e democratico - Wilhelm Reich.
xl Steven Best, Liberazione totale, Ortica, 2017; Bob Torres, Making a Killing, AK Press, 2007; Liberazioni – Rivista di critica antispecista; Animali e comunismo, Antagonism Press, 1999, https://www.contraversus.net/app/download/17870974025/animali_e_comunismo1999.pdf?t=1585755663; 18 Theses on Marxism and Animal Liberation, https://www.indybay.org/uploads/2018/09/07/tp_english_a6.pdf. Esiste poi una vasta e potente letteratura ecosofica a carattere laico e religioso, che, ad essere consequenziale, dovrebbe giungere ad una esplicita e diffusa condanna del capitalismo, ossia di ciò che contraddice radicalmente i propositi etici di rispetto d’ogni forma di vita e di esistenza che essa asserisce. Per una disamina profonda e articolata della genesi delle pratiche e delle dinamiche ideologiche di dominio sulla Vita e la Natura nella tradizione occidentale, Enrico Giannetto, Un fisico delle origini, Donzelli, 2010.
xli Raoul Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, 1999, p. 19.
xlii Essa viene dettagliatamente esposta in Michael Albert, Il libro dell’economia partecipativa, Il Saggiatore, 2003; dello stesso autore, Oltre il capitalismo, Elèuthera, 2007. Per testi ed un’ampia discussione in merito http://www.parecon.org. Si veda anche il modello di pianificazione democratica di Pat Devine, «Participatory Planning Through Negotiated Coordination», Science & Society, vol. 66, n. 1, 2002, e in Matt Vidal, Tony Smith, Tomás Rotta, Paul Prew (a cura di), The Oxford Handbook of Karl Marx, settembre 2018, «Democratic Socialist Planning», cap. 40. Sul socialismo come «economia dei produttori associati», si veda di prossima pubblicazione Countdown. Studi sulla crisi, n. 8, Asterios.
xliii Joel Kovel, op. cit. , p. 129. Nel testo in questione vengono indicati modelli e realtà “ecosocialiste”.
xlivJ. O’Connor, op. cit., p. 16.
xlv Le espressioni sono tratte da Theodor. W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, 1994, p. 19 e «Fin de partie e il mondo di Beckett», in Samuel Beckett, Molloy, Malone muore, l’Innominabile, Sugarco, p. XXXVII

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giuseppe
Friday, 21 August 2020 19:01
"Il mio punto di vista … concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale”, Marx

A Marx, come pare ad ogni grande pensatore che ha lasciato più di una traccia nella storia, sono toccate in sorte parecchi fraintendimenti. Per esempio, uno riguarda la questione del lavoro. Si sa che Marx auspicava la fine del lavoro salariato e non la sua ('inevitabile') diffusione e difesa permanente come ideologia del movimento operaio, in origine. in seguito, sulla bocca di qualunque agenda .politica
Di recente, Bertinotti ha sostenuto su Repubblica che «sostituire la lotta di classe con l’ecologismo sarebbe una catastrofe».
Un altro fraintendimento è dato, appunto, dal contrapporre questioni ecologiche e lotte sociali. Dal fatto che l’ambientalismo e l’ecologismo imperanti si siano preoccupati delle questioni ambientali non coniugandole spesso a quelle sociali non consegue che Marx ed Engels non avessero ben chiare quelle che sarebbero poi divenute questioni ecologiche (il termine ecologia fu coniato da E. Haeckel nel 1866). Tutto questo è bensì servito, nei fatti, a non far cogliere le facce d’una stessa medaglia. In area anglosassone esiste da decenni una vasta letteratura ed un ampio dibattito che ha dato luogo all’evolversi di un movimento teorico (e pratico) ecosocialista. Basta fare un salto, ad es., sulla Monthly Review, alla voce «metabolic rift», per avere a disposizione una buona panoramica su questa letteratura.
A ben vedere, e per quanto Marx ed Engels non abbiamo potuto sviluppare questo aspetto, loro avevano bene presenti i risvolti catastrofici del capitalismo sulla natura. Scrive Marx, citando le opere del chimico Liebig, «la nuova chimica agricola… è più importante per tale questione di tutti gli economisti messi insieme». Qual era la questione? Quella della «frattura metabolica» indotta dal capitalismo nei cicli naturali. In altri termini, nel metabolismo naturale. Nei suoi rilievi, essa conseguiva alla separazione tra città e campagna e dunque nella compromissione del ciclo dei nutrienti. In sostanza, egli già avvertiva come l’agricoltura industriale (capitalistica) avrebbe sconvolto gli ecosistemi, e oggi sappiamo avrebbe contribuito ai cambiamenti climatici in corso. Il ruolo ecocida, diremmo oggi, dell’accumulazione capitalista era ben chiaro nel pensiero e nelle opere di Marx ed Engels.
Del concetto di «frattura metabolica», negli ultimi tempi si stanno appropriando molti studiosi in differenti discipline (dalla chimica alla fisica), cosi come di una lettura in senso lato “energetica”, sicché l’ecologismo, così inteso, è parte integrante d’una critica al capitalismo che da Marx riprenda. È tanto più importante, quanto essa si fa “integrale”. O’Connor e Commoner, tra i primi se ne accorsero. Va da sé che del metabolismo sociale impostosi con il capitalismo e generante fratture metaboliche nei cicli naturali (carbonio, azoto, nonché devastazione del pianeta, ossia della vita tutta) è parte essenziale la forma mercificata del lavoro, che va rivista in questa luce. L’abolizione dell’uno è parimenti l’abolizione dell’altra. Probabilmente è già troppo tardi.
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giuseppe
Friday, 21 August 2020 18:29
Gentile Sig. Claudio,
si tratta di una introduzione ad un libro. Non vi sono lunghezze standard. Se vuole, la legga per intero, sarà più chiaro quel riferimento alla sottoproduzione (non è un refuso, ve ne sono, ai curatori non imputabili, ma non in questo caso). Su ciò la invito solo a leggere quanto scritto da O’Connor almeno nel noto testo citato nella introduzione. Tutto quanto ivi si dice intorno alla seconda contraddizione, suppone una “tendency towards the exhaustion (underproduction) of extra-human nature.”, rileva Jason Moore in Transcending the Metabolic Rift (a sua volta citato, dove troverà i riferimenti in Marx), ove si analizza (e contende con Foster) il ruolo e la natura di questa sottoproduzione. Io mi sono permesso di fare delle osservazioni critiche a Moore riguardo altri aspetti. In Marx può vedere nello specifico le pp. 155-158 del volume 3 del Capitale. La questione è nota ma meno conosciuta, come direbbe Hegel, perché in effetti ha rappresentato un aspetto “trascurato” della teoria della crisi (quale?) di Marx (rileva Moore), ma “in agguato” nel Capitale (dice Foster, almeno nella nostra traduzione). Ma a me sembra che questa sottoproduzione di elementi del capitale circolante (un elemento delle “condizioni di produzione”) giochi un ruolo rilevante nella crisi ambientale e climatica, con la compromissione dei cicli naturali (Metabolic Rift, ne consegue) e a cui si cerca di far fronte da parte del ‘sistema’ con quanto accenno nella introduzione.
Poi, siccome in Marx è rilevante l'incremento della composizione organica, la sovraccumulazione di capitale (non la sovrapproduzione), come elemento 'critico' per il sistema, fa specie notare come quanto accennato prima vada di pari passo, per qualche ragione, con l’esaurimento delle condizioni di riproduzione del capitale stesso, indicato dai dati storici declinanti del saggio di accumulazione, ad es. (da cui dipende l'incremento della composizione organica, appunto).mi fermo qui, può vedere il sito www.countdownnet.net per degli spunti.
Circa i due “Rebellion”, io motivo proprio il contrario:
“Non è un caso che le autorità si siano spinte a considerare Extinction Rebellion una organizzazione terroristica (nel mentre alcune componenti della Polizia hanno espresso una certa comprensione), né che i “reati” legati alla difesa della natura siano da tempo i più perseguiti, specie negli Sati Uniti e nell’America Latina, com’è avvenuto nei confronti di Earth First e delle gloriose comunità indigene. Questo dato misura anche il valore intrinsecamente antagonistico di un movimento: la misura in cui viene sottaciuto dai mass-media e represso dagli apparati di polizia, a differenza delle organizzazioni ambientaliste mondiali, dell’ambientalismo mainstream, di cui lo stesso sistema ha bisogno, nella misura in cui gli conferiscono una parvenza di liberalità.”
Almeno fin quando lo ho seguito e per la variante originaria britannica. In Italia, e non solo, non se ne è fatto quasi cenno, tranne una volta per ridicolizzarli, mentre le ‘Sardine’ , ad es, hanno spopolato. dunque non penso i due Rebellion servano a distrarre le masse.
grazie
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Pantaléone
Friday, 21 August 2020 08:38
Per garantire la continuità dell'infinita e illimitata accumulazione di capitale fittizio nel tentativo di evitare una fortissima svalutazione, e quindi per poter diffondere la maturità dei crediti in corso, è necessario che la specie umana sia totalmente addomesticata, mobilitata su obiettivi illusori di strade senza uscita e che la mistificazione democratica del capitale sia al massimo e soprattutto che non riemerga la lotta di classe proletaria.

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claudio
Wednesday, 19 August 2020 18:35
Gentile Giuseppe Sottile, innanzitutto le confesso di non avere letto l’intero scritto, non posso stancarmi troppo (e quindi l’inviterei ad essere più sintetico), per cui commenterò soltanto alcuni punti importanti della parte iniziale del lunghissimo scritto.
Lei afferma:”… i due «Rebellion» possono considerarsi una novità assoluta per la radicalità della critica al sistema, giacché mettono finalmente in luce l’impatto catastrofico che esso produce sulla vita tutta … ”. In parte non posso che essere d’accordo, infatti possono anche rappresentare una critica radicale, ma non sono certamente movimenti destinati a mettere in discussione le caratteristiche catastrofiche dell’attuale sistema. Essi, infatti, non si prefiggono di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di superare l’ordinamento esistente! Non ci si è mai domandati per qual motivo è stato dato tanto spazio sui media e dalle organizzazioni internazionali a tali movimenti? Semplicemente perché non ne rappresentano un pericolo, ma soltanto un fastidio alla realizzazione del massimo profitto in tutti i settori produttivi. E’ per questo che: [i “reati” legati alla difesa della natura sono … perseguiti, specie negli Stati Uniti …]. Del resto i propositi mi sembrano abbastanza chiari: «Ci ribelliamo in nome della verità (?!) e rifiutiamo di accettare l’ecocidio, l’oppressione e il patriarcato»!
E più sotto: ”coniuga un approccio ecosofico (quanti paroloni!) a tratti evidenti di anarchismo e socialismo, che ci risolleva dalla asfissiante continuazione terminale delle variegate opposizioni apparenti sovraniste e globaliste. Non c’è altro da sperare che un tale movimento e con tali caratteristiche, ecologiche anarchiche e socialiste, si estenda”.
Quindi, solleva il fatto di non poter essere considerati sovranisti e globalisti, il che lascia pensare che possono anche esserlo. Sulla conclusione dello stesso capoverso, se mi permette, la penso all’esatto opposto di lei. Penso cioè che tali movimenti abbiano lo scopo di distrarre le masse di giovani e di emigrati precari e super/sfruttati, affinché non arrivino a mettere per davvero in discussione il sistema, e soprattutto non si organizzino a livello internazionale per cercare di superarlo.
A un certo punto parla di “di una «crisi di sottoproduzione», che considero un semplice refuso, può capitare, in caso contrario sarebbe in netto contrasto con tutta la teoria marxiana, nonché con l’evidenza dei fatti. La sovrapproduzione è globale e riguarda tutti i settori “maturi”.
Non vado oltre, su molti passi successivi non posso che concordare, anche se la parte che ho commentato, mi lascia alquanto perplesso ...
Saluti.
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Pantaléone
Tuesday, 18 August 2020 19:40
Riassumiamo, in poche parole, tutte queste descrizioni hanno origine dalle devastazioni del sistema di dominio capitalistico, ruota intorno, come una mosca attratta dall'odore del letame.
Ma si tratta comunque di gestione ecologica, di buona gestione capitalistica.
Tutto ciò che non va al cuore del problema, rimane come sempre, nel miglioramento, estrema sinistra, idioti utili del capitale.
Abbasso lo Stato, il denaro e il lavoro salariato.
Finché queste categorie non saranno abolite non c'è speranza, per un mondo futuro, se non la dittatura!
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