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orizzonte48

Rivedere i trattati?

Il vincolo esterno secondo Caffè e la Costituzione

di Quarantotto

federico caffe 21. Nel post ALLA RICERCA DELLA SOVRANITA' PERDUTA: SALVIAMO (chirugicamente) LA COSTITUZIONE, e nell'articolato dibattito che ne è seguito, abbiamo cercato di delineare le misure di rafforzamento dell'attuale modello costituzionale di fronte allo svuotamento determinato da ogni genere di trattato economico che imponga un "vincolo esterno": in essenza, si tratta di precisare i limiti e le procedure di verifica democratica della legittimazione e del modo di esercizio del potere negoziale di coloro che sono chiamati a trattare in nome e per conto dell’Italia. 

E ciò rispetto ad ogni tipo di trattato internazionale, futuro ma anche passato e ancora in applicazione.

"Messo in sicurezza" questo presupposto imprescindibile di ogni iniziativa negoziale legittima entro il quadro dell'art.11 Cost., in un modo che rifletta, né più né meno, la reciprocità rispetto a quello che reclama (qui pp.2-3) un "contraente" come la Germania rispetto al proprio modello costituzionale, proviamo di conseguenza a ipotizzare in che modo si possano modificare i trattati europei attuali, nell'ambito di qualsiasi strategia volta a renderli sostenibili in coerenza con la tutela della sovranità democratica del lavoro delineata in Costituzione.

 

2. La premessa "di sistema" dovrebbe basarsi, in teoria, sulla consapevolezza che occorra correggere un andamento del capitalismo contemporaneo che cerca di imporre "l'ordine internazionale del mercato", e che Basso aveva descritto in questo modo:

… È la naturale tendenza antidemocratica del neocapitalismo che deve difendere il carattere privato dell’appropriazione del profitto in un’economia le cui dimensioni sono sempre più vaste e le cui fondamenta sempre più collettive; la contraddizione fondamentale del capitalismo giuoca qui nettamente nel senso di cercare di svuotare la collettività di qualsiasi potere decisionale con tanta maggior forza quanto più la logica delle cose spingerebbe nella direzione opposta.

Che poi questo processo antidemocratico si svolga nel senso di una vera e propria dittatura di tipo fascista, o nella forma del potere personale di tipo gollista, o nella formazione di una ristretta oligarchia di uomini d’affari, alta burocrazia civile, militare e tecnica, e leader politici, non cambia molto la sostanza delle cose: i processi in atto nei paesi occidentali sono più o meno tutti in questa direzione. 

In una società di massa, questo processo è possibile se si riesce ad ottenere l’appoggio, magari passivo, delle masse: a questo fine la depoliticizzazione, la deideologizzazione, la mistificazione della coscienza delle masse, l’alienazione concepita soprattutto come non-partecipazione, come isolamento dell’uomo dalla sua vita collettiva …” [L. BASSO, L’integrazione e il suo rovescio, in Problemi del socialismo, marzo-aprile 1965, n. 1, 47-72].

 

3. Per individuare le linee fondamentali di una "revisione" dei trattati che riesca a preservare la democrazia dalle prevaricazioni dell'oligarchia cosmopolita (v. qui, p.2) del grande capitale, muoviamo dalle criticità evidenziate da Federico Caffè: l'attualità di queste indicazioni è oggi ancor maggiore, se si considera che la privazione della sovranità monetaria in cui ci colloca l'appartenenza all'eurozona, amplifica le esigenze di correzione dei problemi da lui evidenziati.

I trattati economici sono, com'è noto, ormai quasi esclusivamente volti a imporre il liberoscambismo, e utilizzano rigidi sistemi di condizionalità (derivati dal "sistema FMI") per travolgere ogni resistenza: quello europeo è un modello particolarmente intenso in questa direzione, acutizzando l'assoggettamento dei popoli coinvolti agli effetti della c.d. globalizzazione, con tutti i problemi di democrazia evidenziati da Rodrik.

Veniamo dunque all'analisi di Caffè sul problema delle relazioni economico-commerciali internazionali, e quindi del "vincolo esterno" considerato come ricerca dell'equilibrio dei conti nazionali con l'estero, e veniamo alla sua analisi sul come ogni soluzione sia resa più ardua dall'assoggettamento alle regole di un trattato federalista europeo (considerata la originaria e immutabile ideologia, mercatista e liberista, che caratterizza da sempre questa costruzione).

 

4. Caffè in termini generali sul problema dell'equilibrio dei conti con l'estero (il suo è definito "intelligente pragmatismo" in un mix dosato e ragionevole di liberoscambismo e protezionismo):

"La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.

Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile - che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva - è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.

Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della prima generazione», fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè. 

«Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti - scrive Kalecki in questo libro - il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda[...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.». Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.

Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). 

Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. 

Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12)...

  «E’ consentito discutere di protezionismo economico?».

Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio - egli affermava nel 1977 - gran parte dei mali economici del presente è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).

...L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo articolo, "E’ consentito discutere di protezionismo economico?" 

Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava). 

Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni - leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un piano di mutua comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).

Contro la libertà di movimento dei capitali.

Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali, particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in tempo con determinate procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni. 

La prima è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria,impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche settimane.

Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in vigore solo fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi valutari concessi (18). 

Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti - non importa a quali costi - intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.

... Messaggi non ricevuti.

Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22). 

Particolarmente degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della prima essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione keynesiana...

La preoccupazione che l’Europa nascesse sotto un segno deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23). 

Al grande equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano...

Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè annoverava non solo le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al keynesismo.

La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi successi elettorali, entrò a far parte di una vasta coalizione parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli accordi di Bretton Woods).

Considerava un grave errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad andare deluse.

La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi di coalizione caratterizzati sul piano economico in senso conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.

 

5. Caffè, in particolare, sul "vincolo esterno" dei trattati ormai in applicazione e sulle evidenti storture che si erano già determinate proprio in fase applicativa

“Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le “sollecitazioni” con le quali la Comunità economica europea avrebbe accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito provvisorio infruttifero, nella misura del 30%, su determinate importazioni o acquisti divaluta estera per specificati scopi, ci si trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di vassallaggio. 

Una espressione di indignazione morale di fronte a questo stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle “sollecitazioni”. 

Ma è bene che i giovani i quali seguono queste note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula universitaria siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano, in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto, la Turchia, la Cina) in momenti in cui non erano in grado di far fronte agli impegni del loro indebitamento verso l’estero. 

Questi condizionamenti venivano designati come regime delle “capitolazioni” e la parola rende abbastanza bene l’idea.

Ma, prescinendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto. 

In primo luogo (sono cose che giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate difficoltà della bilancia dei pagamenti, “clausole di slavaguardia” che possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o contingenti alle importazioni

I paesi membri, vale a dire nel caso che ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovraddazi, o l’imposizione di un deposito infruttifero.  

Può essere discutibile se sia stato opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie

In tesi generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto ricorso anche paesi diversi dal nostro). 

Ma l’importante è di tenere presente che i paesi membri hanno “diritto” di far appello alle clausole di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo a verificare se ricorrano o meno gli estremi che ne giustificano l’applicazione.

Detto questo, non si intende contestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzione di un accordo tra le parti sociali). Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie."

 

6. Questo insieme di notazioni di Caffè, relative all'opportunità e alle modalità di adesione ad un'organizzazione internazionale che instauri un'area di liberoscambio in Europa, ci porta a evidenziare alcuni aspetti "correttivi" di immediata priorità, resi ancor più attuali dalla vigenza della moneta unica.

Le linee di un riforma dei trattati sono dunque conseguenziali ai problemi evidenziati:

a) evitare la rigida fissazione dei cambi internamente all'area (a fortiori, scartando la soluzione di una moneta unica), per non rendere la politica monetaria quella "variabile indipendente", dal costo in termini di occupazione, che il mantenimento del cambio impone, deprimendo la domanda interna e, di conseguenza, gli investimenti e la capacità produttiva. Ogni Paese-membro deve poter svolgere la sua politica monetaria avendo di mira le esigenze di autonomo finanziamento delle proprie politiche volte al raggiungimento della piena occupazione, potendo contare sulla rispettiva Banca centrale come ente ausiliario e strumentale di tali politiche, secondo le rispettive previsioni costituzionali "fondamentali".

b) evitare un regime di indiscriminata libertà di movimento dei capitali interni all'area di liberoscambio, cioè limitando all'aspetto daziario-doganale e dell'imposizione sul valore aggiunto (nel paese di effettivo acquisto dei beni e servizi scambiati), il regime essenziale dell'area.

c) prevedere clausole che consentano, in caso di persistenti squilibri commerciali e di crescente indebitamento di uno Stato-membro con l'estero, l'adozione di misure che consistano, sul lato della domanda, in controlli e contingentamenti dei settori merceologici in cui siano ravvisate delle "strozzature", cioè la persistente incapacità del settore nazionale interessato di produrre a prezzi competitivi e il crescente e irreversibile aggravamento della situazione di importazione, laddove tale strozzatura riguardi beni fortemente incidenti, per il loro valore aggiunto, sui conti nazionali. A ciò, sul lato dell'offerta, si devono poter accompagnare politiche pubbliche di investimento diretto e/o di incentivazione all'investimento, che evitino lo strutturarsi del modello squilibrato (e gerarchico) di specializzazione che si verifica in virtù del principio dei vantaggi comparati (qui, p.2).

d) nella realtà applicativa, - come mostra il riferimento di Caffè al "regime della capitolazioni" e alle "sollecitazioni" che si sono accompagnate, de facto, già nella vigenza del trattato del 1957, alla "accettazione di provvedimenti restrittivi più blandi" rispetto a quelli normativamente previsti dalle "clausole di salvaguardia"-, ciò significa l'attenta calibratura delle norme che consentono gli interventi correttivi, in modo che siano lasciati alla autodeterminazione degli Stati in caso di squilibrio dei conti con l'estero, nonché in modo che eventuali organi "comunitari" abbiano un limitato potere di riscontro e "presa d'atto", non esteso ad accentrare in termini discrezionali la decisione su tali politiche di "riequilibrio" (ed al fine di imporre pesanti "condizionalità" deflazionistiche).

e) ciò implica anche che il regime dei "divieti di aiuto di Stato", quale previsto dall'attuale trattato, sia sostanzialmente superato, chiarendo delle ampie e ragionevoli ipotesi di deroga, in un complesso di formulazioni che non si prestino, come le attuali, a disapplicazioni e discriminazioni incomprensibili e, spesso, tese a favorire il più "furbo" e il più forte.

 

7. Naturalmente, non occorrerebbe ancora ribadire che le due linee di "uscita dalla crisi" qui suggerite, - cioè precisare, già in sede costituzionale, i limiti di legittimazione e dei modi di esercizio del potere di negoziare i trattati economici, nonché aderire a contenuti coerenti con tali limiti costituzionali - sono tra loro non separabili: la prima è il presupposto necessario della seconda. Non si può permettere, la già provata società italiana, (cioè il popolo detentore della sovranità), di correre ulteriori rischi per il proprio benessere e la propria democrazia, e di ritrovarsi, nuovamente, di fronte al fatto compiuto di negoziati il cui contenuto, nell'epoca del diritto internazionale privatizzato, sia lasciato a forze democraticamente incontrollabili.

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