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ospite ingrato

Critica, occasione e disciplina

Appunti sparsi sull’oggi

di Marco Gatto

Con un sentito ringraziamento all’autore, pubblichiamo di seguito un estratto del libro di Marco Gatto, Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018

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Introducendo Minima moralia (1951), Renato Solmi così si esprimeva sul carattere solo apparentemente frammentistico della raccolta di Adorno: «i trapassi bruschi, e a prima vista sconcertanti, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, e viceversa», non sono la manifestazione di «un linguaggio metaforico e suggestivo», non hanno nulla di «arbitrario e di fantastico», bensì rappresentano «le scorciatoie della dialettica». La rinuncia al sistema o all’esibita unitarietà, «mentre corrisponde alla dispersione apparente dell’oggetto, serve, nello stesso tempo, a un’intenzione precisa»: «l’analisi disimpegnata», nel momento in cui «confuta la pretesa del particolare a valere come essenza, si ritorce contro il cattivo universale; mentre l’esposizione sistematica finirebbe per dare ragione al sistema». Il meccanismo hegeliano della critica all’assolutizzazione assumeva, nelle mani del filosofo più influente della Scuola di Francoforte, un’ulteriore funzione demistificatoria: mostrava il carattere falso della realtà o, per dirla in termini schiettamente adorniani, della “vita vera”, cautelando il discorso intellettuale nei riguardi di qualsivoglia diretta presa di posizione. Di fronte allo strapotere dell’americanizzazione, capace di affossare i tradizionali modelli interpretativi di origine borghese e di disinnescare la persistenza dei grandi orientamenti di senso, la critica ha pertanto l’obbligo di una permanente autoverifica, in larga parte consistente nel sorvegliare la propria tendenza a porsi come falsa universalità o come opposizione passibile di integrazione in un sistema che ha dimostrato d’essere, nella sua coerenza sistematica, più ampio e agguerrito. «In questo senso – insiste Solmi –, nel sistema del dominio, l’apparenza è la sede della verità. Ma non appena si ritiene tale, si capovolge nel suo contrario», generando quell’ambivalenza che è costitutiva del pensiero di Adorno, moralista e pessimista intransigente, ma «pronto ad aprirsi alla speranza», seppure irrisolto nel saper convertire «la critica dell’interiorità» in una «critica della prassi», senza che la prima diventi un alibi per il disimpegno e la disillusione.1

Ci si può chiedere se il carattere frammentistico dell’opera più nota di Adorno sia il riflesso formale più consono a una filosofia critica che vive il paradosso del rapporto tra il particolare e l’universale. Se cioè vi sia una sorta di volontà rappresentativa di questo travagliato percorso di conoscenza. Del resto, la forza del pensiero di Adorno sta nella persistenza del concetto di totalità, arnese dello hegelismo che può essere convertito e attualizzato, specie nella sua direzione “negativa”: nel verso, cioè, di una dialettica che, consapevole di sviluppare una totalità anzitutto «negando l’autosussistenza delle determinazioni particolari», sa di essere «ancora il non vero» e, in qualche modo, si condanna a una non-realizzazione, a una non-conciliazione. Dietro il frammento si svela l’immagine del tutto, ma con il corollario della falsificazione imposta a qualsiasi tentativo di fornirne un’effigie definitiva. Stefano Petrucciani ha recentemente ricordato che, per Adorno, «la totalità non è […] il punto d’approdo, ma è ancora una totalità lacerata dalla contraddizione, in quanto la ragione che con essa si costituisce lo fa nella forma della separazione e dell’astrazione». In questo mondo separato dalla realtà sociale, la ragione – che è ragione critica – si dimostra inadeguata «perché non si attua nel mondo sociale»; e, parimenti, il mondo sociale resta inadeguato «perché non si lascia compenetrare dalla ragione, sebbene rechi in sé l’istanza della società razionale».

Questa irresolutezza, che mai chiude il cerchio della totalità, è la condizione che si realizza nelle società governate dall’astrazione capitalistica, ovvero da un principio non umano, meramente quantitativo, che, grazie all’uso spregiudicato delle mediazioni, capaci di penetrare nella vita profonda dell’individuo, pone se stesso come unico, totale e realizzato, mostrando, tanto più oggi, il fallimento di quel pensiero critico – laico, secolare e progressivo – che, al contrario, mai riesce a convertirsi in filosofia assoluta, in ragione del mondo. Totalizzazione dinamica che ambisce, riuscendoci, a imporsi come totalità, il capitale erode persino la negazione determinata, la critica, manovrando in modo astuto i meccanismi che essa faticosamente porta alla luce. Ne conviene che il discorso critico costantemente inciampi nell’ordine imposto dal capitale, arrivando sempre dopo e sempre tardi. Condannata a tessere una possibile narrazione unitaria costantemente osteggiata da altri assoluti molto più appetibili, la critica ha poche vie da seguire: può ostinarsi a rivaleggiare con le narrazioni più complete e suasive del capitale, rischiando di restare sedotta nell’abbraccio mortale dell’identificazione o del mimetismo o dell’addomesticamento (e mi pare che questa strada, percorsa molto spesso senza consapevolezza, sia alla base di quella produzione critica che, pur ambendo ad opporsi, in realtà ricade in uno sterile adattamento confermativo dell’esistente); si ritira nel particolare, anche in tal caso correndo il rischio di cedere all’ideologia dello specialismo – che poi è una manifestazione evidente della divisione del lavoro – e dunque rifiutando un corpo a corpo con la realtà sociale (ed è questa la scelta di gran parte degli studi scientifici o di una pubblicistica spicciola di esibito taglio militante); si arroga il diritto di scegliere la strada di una possibile rinnovata dialettica tra frammento e totalità, tra particolare e universale, con la consapevolezza che, di fronte all’eclissarsi dei fondamenti comuni e condivisi, il percorso potrà, di volta in volta, presentarsi come periglioso o persino perdente, o configurarsi come sequela di tentativi attraverso i quali, molto lentamente, ricostruire un pur minimo alfabeto orientativo.

Nel seguire quest’ultima direzione, la critica ha il vantaggio strategico di potersi porre il problema delle categorie con cui pensa i suoi oggetti, secondo un’articolazione filosofica che assume come dilemmatico il suo stesso procedere. In tal senso, la critica rappresenta, ogniqualvolta interagisce con un oggetto, un’occasione di verifica dei propri postulati, ben sapendo che senza quegli stessi postulati non potrebbe accedere alla conoscenza. D’altra parte, la critica impressionistica cede completamente a questo paradosso: crede di poter conoscere l’oggetto destorificandosi, presentandosi come spoglia di predeterminazioni, e, al peggio, si identifica in esso, perdendo il suo carattere di critica. Viceversa, il vero sapere critico è cosciente dell’estrema transitorietà del suo atto – e lo è proprio in virtù della distanza che, di volta in volta, stabilisce con il suo oggetto. E pertanto, esso è chiamato oggi, se vuole percorrere la strada della dialettica, a ripensare costantemente le mediazioni che intercorrono tra gli oggetti di cui discute e la realtà da cui essi emergono, che è poi la stessa realtà che sprigiona, anche quando sentite distanti o inservibili, le possibilità di conoscenza di cui la critica si nutre. Questa rilettura del rapporto tra la particolarità e un’universalità sempre più difficile da cogliere rappresenta la sfida cui tende ogni occasione critica. Penetrando nella vertigine delle mediazioni, il pensiero critico negativo – per dirla ancora con Petrucciani – obbedisce a «un lavoro di resistenza e di scavo interpretativo che non si soddisfa in sé» (come nel caso dell’edonismo specialistico mainstream), «ma che di lascia guidare appunto dalla prospettiva che la realtà potrebbe essere diversa da come è, e che in essa covano tensioni che solo con il trascendimento della realtà data potrebbero essere sciolte».3

Ora, quel che troppo frettolosamente stiamo chiamando frammentismo adorniano risponde a esigenze e circostanze storiche ben precise. Dietro ogni particolare sviscerato dialetticamente nei Minima moralia c’è la pretesa di un’apertura del possibile: ogni frammento, nella sua relazione con la totalità, mostra la possibilità di un’articolazione diversa e comunica la non-chiusura del mondo (che, nel dominio del sistema capitalistico, si vorrebbe invece esclusivo). Anche in tal senso, la dinamicità del particolare oggetto di conoscenza scelto dimostra, da parte della critica, la provvisorietà del suo statuto, che è dunque sottoposto a una verifica costante. Si può leggere nella scelta formale una necessità storica: di fronte a un mondo sempre più orientato al pensiero unico e al dogmatismo, alla negazione della storicità e dunque all’alienazione del progresso, sciamanizzato dall’egualitarismo consumistico, il frammento può agire come grimaldello che scardina la logica assolutizzata e certa del presente e porsi come occasione in cui intravedere un’immagine diversa della totalità; nello stesso tempo, esso può semplicemente manifestarsi come il terreno particolare in cui le possibilità stesse dell’utopia, della pensabilità del non-identico o del diverso, risultano corrose e annichilite dall’onnipotenza del dominio: e, in tal caso, il frammento acquisisce una qualità ulteriore, direi allegorica, quella della conoscenza dimessa e circostanziata, che non crede nell’immediatezza della sua efficacia, del brandello testimoniale, di un sapere vinto ma onorato. Col rischio che esso diventi, se il potenziale dialettico viene disinnescato da una narrazione culturale più forte, una delle tante merci acquistabili nel supermercato culturale: un semplice preziosismo da elzeviro o, al peggio, uno sterile esercizio intellettualistico.

Ciò per dire che un libro come Strada a senso unico (1928) di Walter Benjamin, la pluralità di interventi raccolti in La massa come ornamento (1930) di Siegfried Kracauer, persino i quadri filosofici assemblati ne L’uomo è antiquato (1956) di Günther Anders e gli stessi Minima moralia di Adorno, potevano correre il rischio d’essere esorcizzati e ridotti a iconismo culturale proprio perché dimostravano di intendere l’occasione particolare di conoscenza come il portato consequenziale di una possibile visione più larga della totalità, come una specifica verifica di alternative, possedevano cioè gli anticorpi giusti per essere letti come la testimonianza negativa, critica e, in alcuni casi, persino corrosiva della realtà circostante o come porzioni indispensabili di un discorso più generale ancora, seppure flebilmente, riconoscibile come umanistico, cioè teso alla trasmissione possibilmente larga di idee e di valori. Potevano, gli autori appena menzionati, lavorare sulla figurazione ideale dei loro frammenti, sulla loro manifestazione estetica, nella consapevolezza che quel lavoro formale potesse ottenere, finanche da un solo lettore lontano o futuro, la qualifica di significato ulteriore, di rispecchiamento di una condizione storico-materiale ben precisa, fosse cioè il cascame stilistico o la specifica forma di soggettivazione di un discorso più ampio.

 

2.

Ma oggi? La soggettivazione stilistica è messa sotto scacco da una dominante culturale in cui la costruzione estetizzata del Sé è diffusa a tutti gli ambiti della vita quotidiana; la falsa democrazia del consumo di massa ha reso labile il confine tra giudizio di gusto e giudizio di valore, cosicché quest’ultimo non riesce a imporsi neppure come discorso indipendente; quando praticata nei luoghi istituzionali, sempre più ridotti a meri contenitori televisivi, la critica somiglia a un’urlata trovata pubblicitaria: il critico indisponente e corrosivo è richiesto dal mercato anzitutto nell’estroflessione sgarbata, ma anche nell’uso performativo di un alfabeto vetusto e incomprensibile – è la distanza siderale dal lessico categoriale della modernità, collocata nei contenitori mediatici della cultura di consumo, a suscitare il riso e la goliardia, come nel caso di altrettante forme dello spettacolo; non si dà lavoro culturale capace di arginare l’edificazione di una soggettività pienamente liberale, cioè totalmente aderente al principio capitalistico di svuotamento dei rapporti sociali e della concretezza materiale; non appare possibile rilevare istituti di trasmissione del sapere alieni da logiche compromissorie, ovvero aderenti alla pervasiva “comunicazione sociale”, che consiste nella fluttuazione disorientante e ludica di significati e nell’impossibilità di congiungere più significati fra loro. In definitiva, oggi il pensiero della totalità cade sotto i colpi della filosofia stessa, ormai genericamente ridotta a contenitore culturale; e cade sotto i colpi della pratica fintamente critica di tale falsa forma-filosofia a essa correlata. Ma non è soltanto il rischio dell’inautentico a essere perseguito: sempre più si verifica una condizione di desiderato adeguamento al sistema, che ha tratti nichilistici e che spesso si nutre di sofisticate argomentazioni. Soprattutto a sinistra, l’egemonizzarsi del pensiero francese – con Foucault e Deleuze eletti a numi tutelari, quasi sempre riusati in salsa post-operaistica – ha dato vita a un senso comune filosofico completamente asservito ai dettami della de-totalizzazione e dell’anti-dialettica, persino concepiti come portati rivoluzionari di una supposta lotta politica da giocarsi su un altrettanto supposto piano politico di immanenza, in cui a contare sarebbe solo la possibilità del soggetto di esperire il proprio desiderio individuale ed egoistico. La critica si darebbe qui solo nelle forme descrittive, fumose ed edonistiche della scoperta estetica, nell’esaltazione religiosa di una qualche sepolta teologia delle moltitudini, nella rivelazione di un lontano soggetto rivoluzionario costruito attraverso concatenamenti e nomadismi o nelle esortazioni pseudopolitiche alla fine del lavoro, alla fine del socialismo, alla fine del soggetto tradizionalmente inteso. Forme, queste, ovviamente “acritiche” perché del tutto interne a quelle che István Mészáros ha chiamato l’«ordine metabolico-sociale del capitale».4

In questo contesto, come cambia il rapporto tra l’occasione critica e l’ineliminabile tensione all’universalizzazione dei suoi contenuti? Occorre rassegnarsi alla sua perifericità? O persino la sua volontaria dismissione, nella rinuncia a voler vedere nella riflessione un momento di conoscenza, è organica all’attuale conformismo? E, nel porci queste domande, dobbiamo però specificare che l’idea di critica cui stiamo alludendo – un’idea di critica appunto umanistica – prescinde dalle categorizzazioni disciplinari: è critica letteraria se è anche critica della cultura, è critica cinematografica se è anche discorso sul nostro tempo, è critica d’arte se è anche intervento sull’oggi, e via dicendo.

Nel rispondere, dobbiamo prima di tutto resistere alle tentazioni di un meccanicismo volgare. Potremmo difatti vedere nella scelta odierna di ricorrere a una critica occasionale e frammentaria, e di rinunciare alla sistematicità, il riflesso delle attuali trasformazioni del lavoro intellettuale, in cui la figura del critico è del tutto scomparsa. E potremmo cadere nel malinteso, in fondo astorico, di vedere nella critica un genere letterario per costituzione asistematico, depositato cioè in modo del tutto arbitrario in sedi editoriali – le vecchie terze pagine, per intenderci – di breve durata. Non perché la critica non sia anche questo. Ma perché dietro l’occasionalità deve celarsi un impianto, questo sì sistematico, di idee, seppure chiamate alla perenne verifica, che configurino e delimitino un campo di valori, per non dire una visione del mondo. A questa altezza, la tentazione meccanicistica ha frecce al suo arco: in ragione di quanto detto prima in forma di elenco, il nostro è il tempo della frammentazione e dell’impossibilità, finanche cognitiva, di costruirsi mappe orientative di senso – la precarietà e la flessibilità, vale a dire le due forme ricattatorie di schiavismo che il mercato capitalistico del lavoro impone non solo alle giovani generazioni, si convertono senz’altro in attitudini esistenziali o in pratiche di accesso alla conoscenza sempre più parcellizzate, inadatte alla formulazione continua di un pensiero di lunga durata o comunque beneficiario di un tempo di verifica, sedimentazione e convalida sociali. Non si può negare che il cosiddetto “lavoratore della cultura” si trovi oggi nel pieno di un paradosso storico: se non vuole cedere alle lusinghe del mercato culturale, è chiamato a mantenere un’autonomia distintiva, rinunciando alla critica sistematica dell’esistente e puntando alla lenta costruzione di un’organicità di pensiero che, tuttavia, rischia di essere insidiata costantemente dalle costrizioni materiali, oppure è deciso ad accogliere in sé la difficile condizione illecita di colui che, consapevole di trovarsi in un momento storico che ne decreta l’inutilità e l’inefficacia, continua comunque a esercitare per via sistematica la critica anche e soprattutto in luoghi non necessariamente tradizionali (e anzi “esterni” all’istituto consolidato della tradizione: e quindi non più sui giornali, sulla rete o nei dibattiti specialistici, ma nelle scuole o nei luoghi di aggregazione sociale), come fosse possibile, attraverso di essa, postulare un incontro fra pari interlocutori, sostenuto dal rispetto per il sapere e animato dalla volontà di costruire una piattaforma condivisa di valori culturali.

Se sceglie quest’ultimo proposito, il critico può forse oggi sperare – anche se è una speranza rassegnata – di convertire l’occasione frammentaria dell’incontro con un oggetto degno di attenzione in un momento di conoscenza condivisa e, sperabilmente, in un ulteriore momento di costruzione dell’alternativa. Può persino sperare che il suo lavoro stilistico – concepito però come veicolo di un senso e non come narcisistica o virtuosistica esposizione di unicità – venga inteso per quello che è: non un orpello o un abbellimento, ma un potenziamento dell’argomentazione. È difatti lo scollamento tra forma e contenuto a essere superato nell’attuale momento culturale: non certo a beneficio di uno dei poli – la contrapposizione tra contenutisti e formalisti appartiene ormai al passato –, ma a nutrimento di una falsa e nuova opposizione in cui i due termini appaiono svuotati di senso, come del resto accade per tutti i binarismi ideologici, che il sistema culturale capitalistico ha buon gioco a neutralizzare realizzando una diversa, innovativa, flebile contraddizione.

 

3.

Svolgo queste considerazioni perché ho davanti a me due esempi di critica militante, per certi aspetti diversi fra loro. Nelle sue recenti Cronache letterarie, Antonio Tricomi inscena un rapporto tra occasione critica, frammento e giudizio sull’esistente di taglio modernista, dunque ormai tradizionale, guardando ai maestri prima menzionati, ma ponendo, nei contenuti e nelle forme, quesiti teorici e politici che quel rapporto costringono a ripensare. Ciascuna occasione argomentativa, di fronte alla specificità dell’oggetto-libro o dell’oggetto-film, diventa in Tricomi il mezzo per inoltrarsi nel difficile percorso di riappropriazione della realtà: non solo mostrando, di volta in volta, il modo in cui il critico lega quel romanzo o quella pellicola a una condizione più generale, ma porgendo al lettore la difficoltà di questa operazione, del procedere impervio tra le mediazioni che l’esegesi impone. Questa modalità operativa è la ragione dello stile saggistico di Tricomi: il suo periodare assai rifinito, ma mai stucchevole e sofisticato, esibisce il travaglio dell’argomentazione, costringe il lettore a un vero corpo a corpo con la pagina, quasi dovesse stabilire con l’autore un preventivo patto di attenzione intransigente, in modo tale che ciascun elemento sintattico trovi la sua piena giustificazione, ciascun enunciato si concateni perfettamente agli altri. Non di rado l’incontro di Tricomi con i testi, con le idee, con le immagini diventa appunto il teatro di uno scarto, di uno iato allegorico che viene a costituirsi tra la particolarità dell’opera e l’universalità dei valori adottati per comprenderla, i quali sono costretti a ribadirsi continuamente, e quindi a legittimarsi: ne discende che al lettore sia consegnata la singolarità stilisticamente irriducibile delle argomentazioni, che però, per potersi dire tali o per obbedire al messaggio politico che vorrebbero inoltrare, chiamano sempre in causa l’intelligenza dell’interlocutore, la pretendono.

Non so se nelle intenzioni di Tricomi vi sia la valorizzazione militante del frammento e del piccolo intervento saggistico. Chi conosce i suoi libri sa che il dispositivo formale ha un’importanza non accessoria. Ecco, il fatto che due taccuini di lettura, ciascuno formato da una ventina circa di scritti, siano divisi da un saggio tradizionale di lunghezza media, concepito quasi come una parentesi vacanziera, offre un ulteriore spunto di lettura, quasi che la pratica critica cui Tricomi oggi si consegna non possa prescindere, sia pure per ragioni materiali, dall’adozione della piccola forma, investita pertanto di una funzione culturale nuova, e non possa quindi sottrarsi a un lavoro, anche stilistico, sulle possibilità, che la stessa piccola forma contiene, di intervento sociale e di presenza viva nella lotta per la ricostruzione di significati condivisi. E che la specificità di questa scelta sia da ritrovarsi proprio in un intervento fra i più brevi – un intervento in cui il ragionamento su una forma altrui diventa una possibilità di autocoscienza del proprio procedere –, conferma il modo non approssimativo con cui Tricomi, in verità da sempre, allestisce i suoi libri: perché è chiaro che qualunque occasione critica è per l’autore di queste finte Cronache una tappa irrevocabile del libro che ininterrottamente va scrivendo, di quell’unico discorso umanistico che il critico va svolgendo, non senza rischi, giorno dopo giorno – solo in tal senso la rapsodica scelta di oggetti e temi può sostanziarsi nell’unicità della raccolta di scritti militanti.

L’intervento in questione – una sorta di sineddoche dell’intero volume – ha come oggetto una recente raccolta di versi di Fabio Pusterla, Argéman (2014). Ecco, nella poesia di Pusterla sembra di scorgere quella «pudica vocazione conoscitiva» che Tricomi si sforza di attribuire a ogni intrapresa intellettuale che non voglia dirsi compromessa: vale a dire quella capacità «di descrivere, interrogare e in parte anche giudicare il nostro tempo con puntuale accortezza esegetica e sicura attitudine autocritica, ma senza nulla concedere né a tentazioni predicatorie o toni tribunizi, né a forme di euforico o apocalittico autocompiacimento di natura intellettualistica». L’impegno, se si può usare questa abusata categoria, consiste allora nell’«individuare già riconoscibili o solo potenziali rapporti tra frammenti di realtà magari lontani gli uni dagli altri», istituendo pertanto connessioni e legami che sappiano riformulare, dietro l’apparenza, un possibile disegno di comprensione. Ed è un impegno che presuppone non rassegnazione, ma la pazienza di «accostarsi, con laica ed estrema umiltà, alla polisemia del reale per ricavarne un’imprescindibile lezione su come andrebbero intesi il diritto-dovere del singolo alla conoscenza e l’aspirazione al sapere di ciascuna società: al pari non di perentorie e assolute affermazioni identitarie, ma alla stregua di empiriche e inesauribili ricerche di una per statuto irraggiungibile verità ultima».5

Qui il frammento non è semplicemente la porzione isolata di una qualche possibile costellazione, ma è il coccio rotto che sussiste in quanto pezzo di una realtà scomposta, in attesa d’essere ricostruita diversamente. Gli oggetti culturali, nella loro solitudine forse transitoria, inscenano il calvario di un particolare che non sa più riconoscersi, nemmeno per riflesso, in una totalità diversa da quella imposta, ma che presente e postula, per suo stesso statuto, la possibilità che un giorno tale riconoscimento avvenga in modalità differenti. E dietro questa rappresentazione di una particolarità che resta irrelata si scorge la natura odierna del lavoro intellettuale, che, pur decretandosi del tutto sterile perché socialmente innocuo, pur ammettendo lo scacco imposto da una realtà che ne nega la facoltà di mediazione, si sforza umilmente di mantenere vivi i suoi presupposti. Ecco perché, in fondo, i libri di Tricomi continuano a essere un unico solo libro sul destino della civiltà occidentale e sul tracollo di quel progetto illuministico che pare ormai naufragato a fronte di un più incisivo ritorno – lo dimostrano i fatti più recenti – della religione e dell’oscurantismo. Che si occupi dei romanzi di Houellebecq – che tale sconfortante destino interpretano costantemente – o della poesia di De Angelis – apparentemente lontana da interessi civili –, il critico vive il paradosso di impegnarsi, oggi, in Occidente, in un alacre svisceramento delle loro ragioni, in una possibile loro collocazione nella storicità, nell’esegesi rispettosa della loro lettera materiale, infine nel giudizio culturale su di essi, dando però «per scontata l’inattualità e dunque, quasi inevitabilmente, la sterilità della propria proposta etica e intellettuale, se egli, con tale scelta, si confermerà senza alcun dubbio figlio di una tradizione, in senso largo umanistica, ormai estintasi o giusto a un passo dal farlo ma, in ogni caso, verosimilmente destinata a non conoscere eredi».6

 

4.

Non è difficile riconoscere in Adorno il maestro ideale di questo scetticismo che però mai cede alla disperazione. E c’è forse una tensione etica che va sottolineata negli scritti che rispondono a tale configurazione intellettuale: l’idea che la critica possa essere una pur residuale forma di disciplina, una testimonianza non titanica, ma periferica e dimessa, di come si possa svolgere un onesto lavoro culturale nel tempo in cui il pressapochismo, la chiacchiera e la furbizia la fanno da padroni (anche e soprattutto in quella che si suole additare come società intellettuale). Mi sembra di riconoscere questo intento testimoniale e civile anche nella recente raccolta di interventi critici e militanti firmata da Luca Lenzini, Il gatto di Arnheim. E altri scritti clandestini. Lenzini riserva molta attenzione al concetto di “militanza” e alle forme in cui essa prende corpo. Il suo sguardo critico esibisce sempre le strategie dell’autocoscienza: il critico si immerge nella contemporaneità – anche in quella più banale, senza pregiudizi di sorta – perché sa che la continua verifica della sua posizione è l’unico antidoto a quella che già Gramsci, riflettendo sulla tipicità dell’intellettuale italiano di casta, bollava come auto-attribuzione di un proprio compito sullo scacchiere riconosciuto della cultura. Certo, la lezione di Fortini è vivissima in Lenzini (che ne è il più acuto e fedele interprete nel nostro Paese): l’andirivieni dialettico del suo saggismo, che non sembra mai riposarsi, lo conferma. Con Tricomi, il critico toscano accetta l’idea che oggi a «fallire, decadendo a farsa, [sia] in primo luogo l’ideale umanistico»: non perché il sistema capitalistico l’abbia eletto a suo principale nemico, sembra aggiungere Lenzini, ma perché l’idea di cultura, di cui gli intellettuali sono responsabili, sembra essersi fatalmente trasformata in un’articolazione propulsiva del dominio. Cosicché la forma del saggio – quella forma che ancora nei maestri del moderno cercava una relazione dialettica tra «il legame, inscindibile e fondante, con l’esistenza (e l’esperienza) soggettiva» e «l’attenzione al particolare e al molteplice», secondo «una singolare commistione di analisi e di sintesi che decostruisce, filtra e restituisce entro nuovi nessi il proprio oggetto, rivelandone aspetti incogniti» – rischia di addomesticarsi e neutralizzarsi se dimentica di esercitare con costanza uno sprofondamento nella polisemia del reale e se pretende di darsi al lettore come mero veicolo di un protagonismo tutto individuale (da qui, del resto, l’invadenza nostrana del Super-Io critico che si bea di polemiche da terza pagina o di stroncature del tutte funzionali al mercato delle vendite).7 C’è in Lenzini sia una problematicità conclamata, che lo rende autore disposto al confronto, sia una propensione ad accogliere senza pregiudizi l’offerta del mondo culturale, verso la quale non manca di indirizzare il giusto sarcasmo.

Mi sembra che i propositi di questo incedere critico trovino una loro cognizione formale proprio nello scritto di occasione, che dunque sembrerebbe porsi come una sorta di decostruzione dell’usuale e tradizionale dispositivo saggistico. Il punto mi pare il seguente: quando restituisce al lettore il senso di un rapporto problematico tra il particolare e la totalità, il frammento critico o lo scritto d’occasione, come lo si voglia chiamare, non entra in antitesi con la forma-saggio, cui siamo disposti ad attribuire caratteri di più completa organicità; piuttosto, se concepita non come spontanea estroflessione di giudizi, ma come un microcosmo narrativo entro cui far brillare l’immagine del tutto (un tutto che ovviamente beneficerà di più articolate argomentazioni per essere sviscerato nella sua pienezza), la critica d’occasione può avere qualche possibilità di convertirsi in discorso civile e di sottrarsi, per negazione, all’addomesticamento. È forse questa la strada per ribadire, con Lenzini, attraverso l’esempio di Fortini, che «coscienza formale e coerenza etico-ideologica vanno […] di pari passo», e che se si ritiene disumanizzante il costituirsi odierno della soggettività critica, se si contesta chi, pur attribuendosi la patente culturale, «evit[a] accuratamente di immergersi nei conflitti»,8 sprofondando in un complice privatismo, si eviterà allora di praticare dispositivi formali che quella stessa soggettività non sottomettano a una qualche forma di disciplina, per evitare che essa si trasformi nella vitalistica manifestazione di una qualche euforica dimensione espressiva. Senza questo rigore – che a sinistra molti bollerebbero come riflusso autoritario, ma a che me pare l’unico modo per riabilitare un orizzonte laico, democratico, illuminista e, perché no?, socialista – non si dà oggi discorso critico capace di opporsi alle logiche culturali del tardo capitalismo.

 

5.

Quel che sembra emergere è difatti l’idea che la cultura sia diventata non solo una seconda natura, ma anche il terreno in cui svuotare di senso tutte le acquisizioni della modernità. Non parlo semplicemente della riduzione del dibattito a gioco di ruoli o dell’invadenza spropositata del consumismo culturale, ma di quella estensione radicale del simbolico a tutti i momenti della vita quotidiana che prende il nome di “estetizzazione diffusa”. La costruzione dell’identità è divenuta una costruzione culturale. Si dirà: è da sempre così. Ma per la prima volta si tratta di un’edificazione ritenuta indispensabile per vivere e per potersi esprimere nel mercato dell’esistenza. E nulla conta la consapevolezza si tratti di un processo indotto: a essere davvero importante, per il soggetto fluidificato della postmodernità capitalistica, è il piano di immanenza, senza passato né futuro, il qui ed ora presso il quale far fruttare il desiderio, realizzarlo senza ostacoli, anche se tale desiderio implica la distruzione dell’altro da sé, in nome del godimento dell’Uno. La sinistra ha accettato questa logica: sostituendo i diritti umani alla lotta di classe, il desiderio monadico a una pedagogia socialista del Sé, ha accantonato il proposito di uno sviluppo aggregante dei ceti subalterni e ha ridotto la politica a una mera manutenzione delle istanze individuali, peraltro sempre più estetizzate. Se il discorso critico accetta di situarsi su questo stesso piano di valori, riproduce fedelmente un orizzonte neoliberale in cui la proliferazione di transitorie singolarità è preferibile alla costruzione di possibili collettività. Se lo rifiuta, può forse candidarsi all’isolamento, ma non di certo al compromesso.

Dal punto di vista formale, il saggio diventa, ancor più di quanto lo sia per statuto, la forma simbolica di un’espressione autoriale problematica.9 La sua natura rabdomantica rischia, in un’era di fluttuazione del senso, la piena neutralizzazione in un orizzonte narrativo. Il soggetto che ne è artefice sconta un vuoto di riconoscimento e travalica nella letteratura intesa come innalzamento retorico dell’espressività. Non è l’incontro profondissimo e fertile che si realizza, nel romanzo-saggio della modernità, tra due ordini espressivi; ma un trascorrere indisciplinato del culturale nell’estetico, secondo i dettami cari al postmodernismo. La proverbiale asistematicità del dettato saggistico si confonde nell’assenza di ordini valoriali, anche quando il saggio ambisce a una verifica sulla loro ricostruzione. I nessi di ragionamento, da sempre considerati manifestazione di giunti ideologici, rischiano di esibirsi come semplici occasioni argomentative di superficie, in preda alla manutenzione espressiva dell’autore. La boutade politica o il sentimentalismo da tribuno la fanno da padroni.

La forza destrutturante del postmoderno, insomma, scardina i tentativi di accedere a nuove forme di totalizzazione. Da qui la riduzione del saggio a genere letterario: il marchio soggettivo, indispensabile a definire l’autorialità irriducibile, si riconsegna a un orizzonte di senso in cui non si dà verifica sociale di forma e contenuto. Ne deriva un’autorialità monca. L’indistinzione, per la quale molti si battono, tra saggio e opera di invenzione – che sembra semplicemente una battaglia per la conquista di un gagliardetto consumistico-culturale – non adeguatamente studia le ragioni politiche della sua origine, che possono essere rintracciate solo ricorrendo a un’analisi delle forme come emersione di necessità espressive. Vengono in soccorso le ulteriori trasformazioni simboliche: il ritorno del frammento occasionale e i processi di ibridazione formale descrivono i contorni di un campo complesso e vario, dietro le cui manifestazioni vanno scorte ragioni sociali e politiche.

L’analisi che Stefano Ercolino ha recentemente proposto di un rapporto dialettico continuativo tra «il carattere critico del saggio moderno» e il suo “assorbimento” nel «romanzo-saggio» come nuova «forma critica» offre non pochi spunti di riflessione e ristabilisce un ordine nella discussione. Perché, scardinando la logica postmoderna dell’accostamento artificiale dei contenitori formali, trascina l’ormai rinsecchito dibattito sul saggio come genere letterario (un recinto in cui tutte le vacche sono nere) su un terreno finalmente storico-ideologico. In questa nuova cornice formale che viene a crearsi nella modernità matura, «i frammenti saggistici – scrive Ercolino – sono l’ipostatizzazione della natura frammentaria del saggio, una sua estrinsecazione formale. Sono istantanee, sintesi concettuali più o meno efficaci, che delimitano, congelano, una porzione di senso, consegnandola a una forma specifica». Quest’ultima certifica la sua dimensione mimetica nel momento in cui si fa ragione simbolica di una sollecitazione storica e problematica: «La mimesi morfologica dell’indeterminatezza di genere e dell’essenza intimamente dinamica del saggio – continua lo studioso – […] soddisfaceva l’impellente bisogno di unità e di senso di un’Europa devastata dalla crisi ideologica di fine secolo e dalla Prima guerra mondiale; il bisogno di unità e di senso di un mondo in rovina»: dava pertanto risposta formale e simbolica all’«agonia della modernità», qualificandosi come risultato di un’articolazione ulteriore, che, superando il romanzo e il saggio, permetteva il sorgere di «una forma emergente e progressiva», in grado di rispondere alle domande di una contraddizione più profonda.10

Ecco, oggi questa forma – per Ercolino ultimo sussulto di una modernità sconfitta – sì descrive per negazione la «deregolamentazione ideologica ed estetica»11 del postmoderno, nel cui novero altre forme espressive prendono corpo, ma continua a mantenersi in vita nel carattere di feticcio della sua autorappresentazione salvifica (nel romanzo quanto nella critica) o in una dimensione fantasmatica (in certi esiti narcisistici di critica della cultura en artiste), entro la quale non si dà verifica anzitutto storica del destino delle forme. In altri termini, quando nella critica meno avvertita – vale a dire meno predisposta a una verifica disciplinata dei concetti – ci si adagia su una descrizione dell’attuale momento ricorrendo, quasi fosse una semplice presa d’atto, a termini come pastiche, a nozioni come l’annullamento dei confini di genere, all’idea di un’esibita coesistenza pacifica tra forme, a un istinto insomma catalogatore, sembra rinnovarsi il vecchio adagio dell’espulsione della storicità (anche e soprattutto quando ci si pone di fronte a prodotti letterari che intrattengono col romanzo-saggio un rapporto di continuità e opposizione dialettiche: si pensi, restando in Italia, a Walter Siti, o all’universo del “romanzo massimalista” studiato dallo stesso Ercolino)12 o, quanto meno, una ormai raggiunta ritrosia a consegnare il discorso sulla letteratura e sulle sue manifestazioni a una filosofia della storia. Che sembra, almeno a mio avviso, ancora una volta il terreno d’elezione per mantenere vivo quel ripensamento della totalità che l’occasione critica mette in scena attraverso la forma simbolica del frammento. Vale a dire che senza una cognizione storico-filosofica del cammino delle forme – dell’alternarsi dialettico di totalità espressive – non si dà oggi sapere critico. Nel postmoderno, i concetti definitori e le categorie con cui la cultura viene interpretata dalla critica obbediscono non più a un’articolazione propulsiva dell’intero, ma a una sua perenne disarticolazione (in parvenza, indisciplinata; in profondità, amministrata).

 

6.

Si dirà: questa posizione nasconde una nostalgia del moderno o dell’assoluto. E sia pure. La troviamo difatti espressa in quel modello inarrivabile di lettura che è Teoria del romanzo di Lukács. Anche se il filosofo ungherese offre indicazioni preziose già in quel testo solo apparentemente liminare che è L’anima e le forme, il cui punto d’accesso consiste, non casualmente, in un’auto-interrogazione in forma di lettera (indirizzata a Leo Popper) sulle ragioni del proprio scrivere saggistico. In questa densa epistola, ricca di suggestioni filosofiche, Lukács descrive il saggio come un processo occasionale e transeunte, dinamico e provvisorio, di «lotta per la verità» a partire da una forma pre-costituita, da un oggetto estetico che si offre come autonomo. In tal senso, il saggio promuove un’operazione di ri-ordine, di ri-semantizzazione del già espresso e del già esistito: dimostra come il chiuso possa essere riaperto, come una totalità che ambisce a dirsi completa (e dunque, di per sé, falsa, perché conclusa) possa essere rimessa in gioco, possa essere ri-totalizzata. E, al pari di qualunque percorso privo di presupposti, il saggio incorpora tensioni mai definitive – per questo, certo, «tende alla verità», ma a una verità inaspettata: «così il saggista – dice il giovane Lukács, stretto tra Kierkegaard e Schopenhauer – che sa cercare realmente la verità, raggiungerà alla fine del suo cammino la meta non ricercata» – ed è espressione di una perenne problematicità. Nel senso ulteriore che il saggio moderno, a partire da Montaigne, accetta la propria non-autonomia come condizione irrinunciabile del suo statuto. Il saggio è problematico perché al punto di partenza non corrisponde mai il dato definitivo di verità (se uno ve n’è). E tale interrogazione dinamica spiega la sua natura asistematica – il fatto cioè che il frammento rappresenti il contrassegno di una tensione verso la verità che non conosce dimensioni aprioristiche. Lukács, in virtù di ciò, può ben dire che i saggi «anticipano sempre il sistema; ed anche se il sistema si fosse già realizzato, i saggi non sarebbero mai un’applicazione dello stesso, bensì una creazione nuova, una rivitalizzazione dell’esperienza reale di vita».13

Oggi possiamo dire, con Fortini, che questa organicità dinamica della forma saggistica, che si ricostruisce ogniqualvolta il ragionamento si dispiega, corrisponde alla sua stessa funzione di mediazione conoscitiva. E possiamo inoltre affermare che il frammento o l’occasione, in tempi di controllata dispersione della totalità, rappresentino un campo di possibilità concrete di riallestimento del discorso critico, come dicevamo in apertura. Lo comprende bene, in un suo recente contributo, che si apprezza per raffinatezza teorica, Gabriele Fichera. Il titolo della sua raccolta di saggi, Le asine di Saul, riprende un passo della lettera a Popper che ho menzionato. E le parole dell’introduzione realizzano i propositi del modello a cui si ispirano: «solo a partire dall’analisi paziente e minuta del dettaglio si [può], seppur obliquamente, far rifulgere qualche verità di più ampia portata, e infine contribuire alla messa in forma di esigenze umane». Mi pare che nell’intenzione critica di Fichera – altresì animata dalla lettura di Benjamin – sia da evidenziare anzitutto l’idea che il dettaglio e il frammento possano produrre scarti, ossia illuminazioni dialettiche di una totalità possibile, e che in questi stessi scarti vi sia il senso di una misura ideologica da scoperchiare, in particolar modo espressa nei contrasti, nelle faglie, nell’inconciliabilità (senza forzature di senso che convaliderebbero e renderebbero statiche le strategie di sutura e contenimento dei testi) o nei silenzi, negli interstizi del non-detto; e sia inoltre da sottolineare che il saggio, per assolvere questa funzione di rilettura dei nessi problematici del testo, debba comunque farsi sede di un continuo trascorrere dall’estetico al non-estetico, dall’autentico al non-autentico o, per centrare uno dei punti focali del libro, dall’irreale al reale, dalla forma alla localizzazione politico-ideologica, e viceversa. Cosicché, nel discutere di opera e realtà, Fichera può ripensare il problema del realismo (e il nesso tra contenuto manifesto e contenuto latente) nel contesto odierno della postmodernità più agguerrita – cioè, in un contesto in cui la superficie egemonizza il “dato”, costringendo la rappresentazione «a cadere nell’ambito dell’“effetto di realtà” barthesiano» –, provando a suggerire l’ipotesi di un’opera che «si sforza di rendere artisticamente evidente la dissomiglianza fra reale e irreale, fra l’esistente e ciò che sembra non essere», e così rinverdendo un’opzione che era già insita nel metodo negativo di Adorno. «Un realismo del dissimile», insomma, che, senza rinunciare alla dialettica tra esterno e interno, tra fuori e dentro, tra manifesto e latente, trovi un antidoto all’aderenza piatta dell’oggetto rappresentato su un terreno solo superficiale, e che, proprio attraverso tale capacità dell’oggetto di mediarsi con l’irreale e con ciò che non viene protetto dalla reificazione in simulacro, «risponda meglio di altri realismi a certi bisogni contemporanei».14

Questo auspicio è da lezione anche per la forma saggistica e per l’attività della critica culturale, ma in una modalità differente. L’irreale del saggio, il contenuto che un’analisi demistificante dovrebbe afferrare, è quel che si nasconde dietro i nessi apparenti dell’astrazione capitalistica, resi nella loro suasoria e plastica evidenza. Astrazione reale eppure immateriale che, lavorando costantemente a uno svuotamento del concreto e a un suo inglobamento nell’immagine patinata di una superficie priva di profondità, non solo sconvolge – come Fichera indica quando ragiona sulla contraddizione massima della nostra società – l’idea che vi sia una ragione ulteriore dietro il “visibile”, ma scardina la necessità di rendere dialettico il rapporto tra i simulacri e i dati materiali, tra l’estetico e il non-estetico, tra il reale e l’irreale. Il punto, insomma, mi pare il seguente: trovare una dimensione del saggio che non ricada nell’estetizzazione epidermica degli involucri formali imposta dalla gestione capitalistica della conoscenza critica. Una dimensione che, sollevando lo sguardo verso un nuovo rapporto simbolico con le forme, dia conto dell’invisibile senza scomparire in esso; una dimensione che sia, con assoluta costanza, consapevole degli inganni e degli auto-fraintendimenti che proprio l’esperienza continua della superficie e del simulacro reca in sé.


Note
1 R. Solmi, Introduzione a «Minima moralia» di Theodor W. Adorno [1954], Macerata, Quodlibet, 2017, pp. 17, 26, 87 e 86.
2 S. Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, Roma, manifestolibri, 2017, p. 25.
3 Ivi, p. 29.
4 I. Mészáros, Oltre il Capitale. Verso una teoria della transizione [1995], a cura di Nunzia Augeri e Roberto Mapelli, Roma, Punto Rosso, 2016, p. 25 ma passim.
5 A. Tricomi, Cronache letterarie, Giulianova, Galaad, 2017, pp. 82 e 83.
6 Ivi, p. 257.
7 L. Lenzini, Il gatto di Arnheim. E altri scritti clandestini, Lavagna, Zona, 2015, p. 14.
8 Ivi, pp. 18 e 16.
9 Utilizzo la categoria di forma simbolica nel significato messo in luce da Benjamin nei suoi studi sulla critica romantica, come elemento decisivo della riflessione dell’opera sull’opera: cfr. W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino, Einaudi, 1982, p. 91 e sgg.
10 Si è variamente citato da S. Ercolino, Il romanzo-saggio. 1884-1947, Milano, Bompiani, 2017, pp. 9, 103-104 e 262.
11 Ivi, p. 264.
12 Cfr. Id., Il romanzo massimalista, Milano, Bompiani, 2015.
13 G. Lukács, L’anima e le forme [1910], Milano, SE, 2002, pp. 28, 29 e 37.
14 G. Fichera, Le asine di Saul. Saggismo e invenzione da Manzoni e Pasolini, Leonforte, Euno Edizioni, 2016, pp. 15, 125 e 127.

Comments

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Franco
Wednesday, 10 April 2019 21:45
Dico questo. Deleuze e' uno scrittore difficile. Non lo dico io. Eppure ho capito qualcosa delle cose che ho letto di lui. Di questo articolo non ho capito niente (apparentemente) ;se non una "critica" a priori e senza un minimo di argomentazioni a Deleuze. Penso che ci vorrebbe molta,molta modestia. Questa e' una manifestazione di quel relativismo che forse si vorrebbe criticare.
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