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perunsocialismodelXXI

Oltre la geopolitica

Storia, economia e soggettività politica

di Carlo Formenti

Mariupol 4 3Per la maggioranza degli esperti di geopolitica, in particolare per coloro che tendono a ragionare in termini di real politik (penso a un filosofo come Carl Schmitt o, si parva licet, all'editorialista del Corsera Sergio Romano), le guerre e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali si spiegano prevalentemente, se non esclusivamente, in base a un combinato disposto di storia e tradizioni culturali, caratteristiche morfologiche dei territori coinvolti, carattere nazionale (mentalità) delle popolazioni interessate e ambizioni di potenza. Da queste ultime non sono ovviamente espunti i motivi di competizione economica, ma raramente vengono considerati la causa prevalente.

Nel caso in cui gli esperti in questione adottino un punto di vista marxista, queste gerarchie tendono a rovesciarsi: le ragioni del conflitto fra opposti interessi economici (riferiti non solo alle diverse economie nazionali o regionali ma anche alle formazioni sociali, cioè ai conflitti di classe interni a tali sistemi e intersistemici) vengono in primo piano, mentre tutti gli altri motivi, pur senza sparire, passano in subordine. In questo articolo intendo abbozzare la tesi secondo cui in entrambi i casi, anche le analisi più raffinate risultano monche, nella misura in cui sottovalutano, nel primo caso le cause strutturali, nel secondo il peso delle ideologie e delle strategie politiche di stati, governi, partiti, movimenti e classi sociali coinvolti nei conflitti che si intende prendere in esame.

Per sostenere quanto appena affermato, discuterò due libri (Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, di Benjamin Abelow, Fazi Editore e Stati Uniti e Cina allo scontro globale, di Raffaele Sciortino, Asterios Editore) che possono essere assunti (benché non senza forzatura) come esempi dei due approcci appena indicati. In particolare, dedicherò il primo paragrafo al libro di Abelow e il secondo al lavoro di Sciortino.

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fuoricollana

Dopo l’Ucraina. Un nuovo ordine energetico mondiale?

di Vincenzo Comito

Tra i tanti effetti del conflitto ucraino non bisogna sottovalutare la formazione progressiva di un nuovo ordine energetico mondiale incentrato su una inedita alleanza tra Cina e Paesi del Golfo e un ridimensionamento del ruolo globale del dollaro

MontebugnoliAmory Lovens è uno scienziato americano che già nel 1976 aveva consegnato al presidente Jimmy Carter un piano per uscire dal carbone e dal petrolio in quaranta anni attraverso in particolare le “economie di energia”, prevedendo tra l’altro che si poteva triplicare il rendimento energetico del paese (Vidal, 2022). Egli difende ancora oggi una strategia basata, oltre che sullo sviluppo delle energie rinnovabili, soprattutto sulle economie di energia, quest’ultimo costituendo il mezzo più ambizioso, meno caro, più sicuro, più pulito e più rapido per intervenire, sottolinea da sempre Lovens. Ma nonostante che oggi siano disponibili tutte le tecnologie necessarie per effettuare in pochi anni una rivoluzione energetica che ci libererebbe sostanzialmente dalle energie fossili, il processo si rivela come molto lento, sebbene la guerra in Ucraina gli ha dato un impulso rilevante. Occorre sottolineare a tal proposito lo scoppio della guerra ha comportato mutamenti molto importanti nel mercato energetico.

 

Verso un’alleanza tra Cina e paesi del Golfo

Come ci ricorda un recente articolo apparso sul Financial Times (Foroohar, 2023), nel 1945 si era stretta una grande alleanza tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Usa assicuravano la sicurezza del Medio Oriente in cambio della vendita del petrolio arabo in dollari e un approvvigionamento sicuro nei confronti degli Usa.

Oggi la guerra in Ucraina sta riorientando i flussi energetici a livello mondiale, con il petrolio ed il gas russi che si concentrano verso l’Est, in particolare l’Asia, mentre quelli dei paesi del Golfo che si dividono tra l’Est e l’Ovest.

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giubberosse

La fine delle talassocrazie

di Enrico Tomaselli

aircarrierNon è solo l’unipolarismo ad essere tramontato. E lo è, dato che dal momento che viene così significativamente messo in discussione, ciò già implica di per sé che sia finito. Ad essere giunta al crepuscolo è anche una concezione (ed una pratica) strategica, su cui si è fondato il millenario dominio dell’occidente. A scomparire dietro l’orizzonte, in un ultimo, fiammeggiante bagliore, è la supremazia delle potenze navali

* * * *

La nascita dell’imperialismo navale

Storicamente, il commercio marittimo è sempre stato importante, in quanto le vie del mare erano le più veloci, e consentivano di trasportare grandi quantità di uomini e merci. Anche la storia antica racconta di innumerevoli battaglie navali, da quella di Ecnomo – nel 256 a.C. – a quella di Lepanto – 1571. Ma è fondamentalmente a partire dall’epoca delle conquiste coloniali europee in Africa, in Asia e nelle Americhe, che si afferma il moderno imperialismo navale.

Il possesso di territori lontani, con i quali era necessario mantenere un contatto costante, sia per ragioni economiche che difensive, portò allo sviluppo di grandi flotte da parte dei principali stati europei; la competizione tra le varie case regnanti (peraltro tutte più o meno imparentate tra di loro) determinò conseguentemente che tali flotte assumessero quindi un ruolo determinante, sia nella conquista e difesa delle colonie, sia nelle guerre tra stati. E da questo marasma, emergerà poi come massima potenza navale l’Inghilterra.

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lantidiplomatico

Georgia, verso una nuova rivoluzione colorata?

di Giacomo Gabellini

720x410c50wedctgbuDa diversi giorni, la Georgia è sconvolta da moti di piazza diretti contro l’approvazione parlamentare della legge che sanciva l’introduzione dell’obbligo di iscrizione sul registro degli agenti stranieri nei confronti di qualsiasi associazione che copra almeno il 20% del proprio fabbisogno finanziario con fondi provenienti dall’estero. La misura nasce dall’esigenza di ridurre la capacità di condizionamento sulla vita politica nazionale esercitata dalle potenze straniere, identificabili non solo nella Federazione Russa, ma anche e soprattutto negli Stati Uniti. Il cui attivismo nello spazio ex-sovietico – e non solo – si realizza a tutt’oggi per tramite di una vasta costellazione di Organizzazioni Non Governative (Ong). La sigla identificativa Quasi-Autonomous Non-Governmental Organization (Qango) che le caratterizza tradisce la parzialità di queste associazioni, tutte riconducibili a uffici e agenzie statunitensi che se ne servono per portare avanti i loro piani strategici senza lasciare tracce che possano ricondurre a Washington, attraverso una sorta di diplomazia parallela e in buona parte privata condotta anche con l’ausilio di think-tank allineati come l’American Enterprise Institute (Aei) o il Center for Strategic and International Studies.

Una parte assai ragguardevole delle Ong fanno capo al Dipartimento di Stato, alla Cia e all’United States Agency for International Development (Usaid). Nonché al National Endowment for Democracy (Ned), una società privata senza scopo di lucro istituita dal Congresso nel 1983 dietro raccomandazione del direttore della Cia William Casey per provvedere al fruttuoso reimpiego dei finanziamenti pubblici stanziati annualmente per la “promozione della democrazia nel mondo”.

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kamomodena

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Terza (e ultima) parte

Il prossimo non sarà un Sessantotto gioioso

di Raffaele Sciortino

0 11188Pubblichiamo la terza e ultima parte (qui e qui la prima, qui e qui la seconda), relativa al dibattito politico, della presentazione modenese di Raffaele Sciortino del suo ultimo lavoro, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022). In queste ultime, incisive battute, l’autore risponde alle domande provenienti dal pubblico: abbiamo quindi optato, per facilitarne la lettura, di unire le risposte in un unico discorso di senso compiuto, apportando un numero minimo di tagli a digressioni e interventi dalla platea. La riflessione complessiva che emerge mette in risalto alcuni, importanti, punti politici, che crediamo si debbano tenere in considerazione, essere dibattuti e approfonditi: la questione baricentrale, nodale, dei ceti medi, che assume forma e valenza differente a seconda di dove collocata e della sua composizione, ma che pervade ogni scenario e che altrettanto dovrà fare per la ricerca militante; il campo di battaglia che sarà lo “stile di vita”, il livello di consumo e lo standard di benessere “di massa” che il piano inclinato di scontro materiale tra Stati Uniti-Occidente e Cina-Russia andrà inevitabilmente e direttamente a intaccare e su cui farà leva per mobilitare (o paralizzare) settori non secondari di società, tra guerra e cambiamento climatico; l’individuazione, non a livello ideologico ma di processi e dinamiche reali, degli Stati Uniti come perno inaggirabile che impedisce una trasformazione sistemica, la contrapposizione verso di essi come porta stretta e obbligata (ma non sufficiente) entro cui passare anche solo per pensarla, l’importanza cruciale che assume per questo ogni loro convulsione, interne ed esterna; le questioni della democrazia e della libertà, nelle declinazioni contraddittorie e anche contrastanti che ne fanno (e faranno) movimenti e istanze, e il necessario punto di vista di parte, e di classe, entro cui leggerle e piegarle; la necessità, speculare a quella di riscrivere una teoria dell’imperialismo, di ritematizzare l’antimperialismo, alle condizione date di esaurimento della parabola del movimento operaio e della natura (e contraddizioni) di nuovi possibili movimenti di là da venire. Tutto questo e molto altro. Buona lettura, e ancora grazie a Raf.

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comedonchisciotte.org

È il turno della Cina

di Mike Whitney - unz.com

Il sistema economico iper-finanziario americano non può competere con il modello di investimento governativo cinese e la crescita esplosiva della Cina sta spingendo verso la guerra una Washington sempre più disperata

ChineseWomanMW 600x400 1L’Ucraina è il primo punto caldo di una grande lotta di potere tra gli Stati Uniti e la Cina. Dopo aver delocalizzato per anni le proprie industrie in Paesi con manodopera a basso costo in tutto il mondo, gli Stati Uniti si trovano ora a perdere costantemente quote di mercato a favore di una Cina in rapida crescita e dotata di maggiori risorse. Secondo la maggior parte delle stime, entro il 2035 l’economia cinese avrà superato quella degli Stati Uniti; a quel punto, Pechino sarà in una posizione migliore per modellare le relazioni commerciali internazionali e promuovere i propri interessi. Con la crescita, arriva il potere, e questa regola si applicherà certamente anche alla Cina. La Cina è emersa come una potenza industriale nell’epicentro della regione più popolosa e in più rapida crescita del mondo. È per questo motivo che gli Stati Uniti hanno avviato una serie di provocazioni sull’isola di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale. Gli Stati Uniti hanno abbandonato ogni speranza di prevalere sulla Cina attraverso la convenzionale concorrenza del libero mercato. Invece, gli Stati Uniti intendono impegnare militarmente la Cina nel disperato tentativo di prosciugarne le risorse, raccogliere un più ampio sostegno per le sanzioni economiche e isolare la Cina dai suoi partner commerciali regionali. Si tratta di un piano rischioso e dirompente che potrebbe ritorcersi contro in modo spettacolare, ma Washington sta andando avanti comunque. I mandarini della politica estera statunitense e i loro alleati globalisti non accetteranno un risultato in cui la Cina sia la più grande e potente economia del mondo. Questo è tratto da un articolo di China Macro Economy:

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giubberosse

Dopo il tritacarne

di Enrico Tomaselli

1677568853 cropped Bakhmut soldier Feb 24 APLa sanguinosa battaglia di Bakhmut si avvia inesorabilmente alla conclusione. Quanto più gli ucraini tarderanno ad avviare la ritirata, tanto più probabile è che rimangano chiusi nell’accerchiamento, non avendo a quel punto altra alternativa se non la resa o la morte. Ma, per quanto la battaglia abbia tenuto banco nei media per mesi, la sua importanza è rilevante tatticamente, ma sotto il profilo strategico sposta poco. La questione rimane sempre la stessa: come e dove si colloca il giro di boa, il punto in cui si può realisticamente aprire un tavolo negoziale. Un punto che, però, l’Occidente sembra intenzionato a spostare sempre più in là.

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Tra iperbole e trincee

Quando la propaganda ringalluzzisce, è segno che le cose non vanno bene. Se non hai buone nuove da raccontare, è il momento in cui si fanno strada le iperboli più fantasiose, in cui si fa di tutto per occultare il reale stato delle cose. Da mesi la situazione sul fronte ucraino corrisponde sempre meno ai desiderata di Washington e, mentre il dibattito interno fa venire fuori con sempre maggiore insistenza le perplessità e le contrarietà di una parte considerevole dell’establishment statunitense, la propaganda cerca di tappare i buchi più vistosi.

Da mesi si parla di stallo, anche se in effetti le forze armate russe stanno lentamente conquistando terreno praticamente lungo l’intera linea del fronte. Dopo tutto il clamore sull’invio di carri armati da parte dei paesi NATO, il tutto si è ancora una volta risolto in una bolla di sapone: pochi, e alla spicciolata, senza quindi alcuna possibilità di incidere anche solo a livello tattico. Non sono nemmeno ancora arrivati, che già si è alzato il polverone sulla fornitura di cacciabombardieri.

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italiaeilmondo

Voi e l’esercito di chi?

La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.

di Aurelien

2cateistarna 860x280I will do such things –
What they are yet I know not, but they shall be
The terrors of the Earth! – Shakespeare, King Lear.

Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.

Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.

Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.

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lantidiplomatico

Il disinteresse dell'occidente sul "piano di pace cinese" è il fallimento totale dell'Unione Europea

di Leonardo Sinigaglia

720x410c50khbveIl 24 febbraio il Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese ha pubblicato ufficialmente il suo piano di pace in 12 punti per la risoluzione della crisi ucraina. In realtà dal documento traspare una dimensione ben più ampia di quella ristretta al solo paese slavo. La Repubblica Popolare correttamente contestualizza la crisi ucraina come espressione di dinamiche globali complesse, e non si limita a declassare tutto al delirio di un preteso dittatore, come parte della stampa (e delle cancellerie!) occidentale ha fatto sin dai primi giorni dell’operazione russa.

Il ministero non si limita all’invocazione di una generica “pace”, né a richiedere ritualmente il ritiro incondizionato delle truppe russe, ma anzi pone l’attenzione su quelle che sono globalmente le vere cause del conflitto: la “mentalità da guerra fredda”, le posizioni conflittuali, il mancato rispetto della sovranità e della dignità degli Stati e il continuo ricorso a misure unilaterali di guerra economica, come sanzioni ed embarghi.

La prospettiva cinese si fonda sul rispetto della Carta delle Nazioni Unite, che di per sé sancirebbe l’eguaglianza fra le nazioni e la piena libertà e autonomia nella scelta delle prospettive di sviluppo e di ordinamento sociale. Si tratta di qualcosa che dovrebbe stare alla base dell’ordinamento internazionale, ma che nella realtà dei fatti è puntualmente disatteso. E non certo dalla Federazione Russa.

Se la Cina si esprime per il congelamento delle ostilità e per il recupero delle trattative di pace, di certo non si fa illusioni su possibili “equidistanza”: parlando di “mentalità da guerra fredda” e politiche conflittuali sta chiaramente chiamando in causa gli Stati Uniti d’America e la loro azione destabilizzatrice a livello internazionale.

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vocidallestero

Ucraina: Il tunnel in fondo alla luce

di Robert Freeman

Apparso su Consortiumnews e su Commondreams, questo articolo di *Robert Freeman svolge una analisi ragionata e impietosa sul declino dell'impero americano, che a causa della sua cieca hybris sta precipitando da una posizione di egemonia globale verso un ineluttabile declino, rischiando di coinvolgere rovinosamente i suoi stessi sfortunati paesi alleati e, nella peggiore delle ipotesi, tutto il pianeta.

tunnel 7Gli Stati Uniti hanno abusato dell’idea di nazione ‘della provvidenza’, dice Robert Freeman. Questo abuso è stato riconosciuto, denunciato e ora viene contrastato dalla maggior parte delle altre nazioni del mondo.

"La luce in fondo al tunnel" era una frase emblematica usata dai guerrafondai che mantennero gli Stati Uniti in Vietnam ancora per molto tempo dopo che la guerra era ormai stata persa.

Il sottinteso era che gli addetti ai lavori potevano vedere attraverso la "nebbia di guerra" e sapere che le cose stavano migliorando. Era una bugia.

Nel gennaio 1966, molto prima del culmine militare della guerra, il Segretario alla Difesa Robert McNamara disse al Presidente Lyndon Johnson che gli Stati Uniti avevano una possibilità su tre di vincere sul campo di battaglia.

Ma Johnson, come Eisenhower e Kennedy prima di lui e Nixon dopo, non voleva essere il primo presidente americano a perdere una guerra. Così, inventò una bugia semplicistica e "soldiered on" - cioè continuò a mandare truppe.

La menzogna fu spazzata via dall'offensiva del Tet nel gennaio 1968. Più di 100 installazioni militari americane furono attaccate in un assalto simultaneo in tutta la nazione, che stupì gli Stati Uniti.

Il giornalista, Walter Cronkite, all'epoca "l'uomo più fidato d'America", gridò alla televisione nazionale: "Pensavo che avremmo dovuto vincere questa dannata cosa". Fu l'inizio della fine dell'occupazione assassina e fallimentare degli Stati Uniti.

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rossellafidanza

Ci vuole una guerra?

di Rossella Fidanza

Seymour Hersh nel suo nuovo articolo paragona correttamente l'attuale congiuntura all'escalation di Kennedy in Vietnam. "Il tempo stringe."

a86e8efd 4256 4646 8d7b b0b214570ad0 1216x866Seymour Hersh torna a scrivere, dopo aver pubblicato un dettagliato resoconto su come gli Stati Uniti hanno organizzato il sabotaggio al Nord Stream con l’appoggio della Norvegia (link) e aver approfondito che tipo di rapporti legano da decenni la Norvegia alle operazioni militari e non gestite dai servizi segreti americani:

https://rossellafidanza.substack.com/p/seymour-hersh-spiega-perche-gli-usa?utm_source=substack&utm_campaign=post_embed&utm_medium=web

Nel proseguire con il suo lavoro di ricerca in relazione al conflitto che si sta combattendo in Ucraina, Hersh oggi si spinge a fare un paragone tra quello che Biden sta gestendo in questo momento e quanto ha dovuto affrontare il Presidente John F. Kennedy in un momento molto delicato della sua amministrazione.

“C'è un inevitabile divario tra ciò che un presidente ci dice su una guerra - anche una guerra per procura - e la realtà sul campo. È vero oggi, mentre Joe Biden lotta per ottenere il sostegno dell'opinione pubblica per la guerra in Ucraina, ed era vero sei decenni fa, quando Jack Kennedy lottava per capire la guerra che aveva scelto di portare avanti nel Vietnam del Sud.”

Partendo da questo preambolo, Hersh ripercorre il frangente probabilmente più critico della Presidenza Kennedy, l'inizio del 1962. JFK era appena passato dal disastro della Baia dei Porci accaduto dopo tre mesi dall’inizio del suo mandato, che aveva pesantemente danneggiato la sua immagine e la sua leadership (trovate in fondo all’articolo la sezione “approfondimenti” con i link consigliati con le informazioni storiche).

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ilponte

La scienza della guerra, oltre la presunta geopolitica

di Fiammetta Salmoni

geopolitica2022 900x4451. Il saggio di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, dal titolo La guerra capitalista (Mimesis 2022),1 ruota intorno alla tesi della centralizzazione del capitale, non in quanto fenomeno più o meno occasionale, transitorio e sostanzialmente casuale, quando non addirittura inesistente, bensì quale vera e propria “legge” di tendenza del capitalismo.

Partendo da questo assunto, che rappresenta il vero e proprio fil rouge del volume, ne vengono quindi sviluppate alcune conseguenze dirette, che vanno dal conflitto fra capitali deboli e capitali forti, fra imperialismi “debitori” e “creditori”, fino alla disgregazione dell’ordine democratico, o, meglio, liberal-democratico, e allo sfociare in vere e proprie guerre militari. Insomma, come già si può intuire da questi brevi accenni, un testo decisamente non banale e di non comune vision.

Il libro è strutturato in tre sezioni, ciascuna con una propria natura e struttura.

Nella prima viene sviluppata la tesi della centralizzazione del capitale, partendo da una constatazione per certi versi sorprendente: Marx, ormai pressoché dimenticato dagli eredi della tradizione del movimento operaio, viene riscoperto e citato copiosamente proprio dai sacerdoti del capitale. Dal Financial Times all’Economist, passando per illustri economisti e accademici, fino ai grandi magnati della finanza, non si contano le citazioni di Marx (in realtà il libro le ha ben contate: il solo Financial Times cita Marx 2.644 volte in 13 anni). E, ciò che è più singolare, si tratta spesso di citazioni positive: “Karl Marx aveva ragione” afferma l’economista statunitense Nouriel Roubini in un'intervista del 2011 a The Wall Street Journal; “Marx resta una figura monumentale”, recita inaspettatamente un articolo di The Economist del 2018.

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analisidifesa

Credere, Obbedire, Soccombere

di Gianandrea Gaiani

1646864304086 volodymyr zelenskyyDopo un anno di guerra in Ucraina non è ancora chiaro chi potrà forse vincere il conflitto sul campo di battaglia ma tra gli sconfitti senza appello, “senza se e senza ma” ci sono i media occidentali, in particolare quelli europei, in special modo la gran parte di quelli italiani.

Studi televisivi riempiti con bandiere giallo-blu, anchor-man che tolgono l’audio in diretta a un discorso di Vladimir Putin atteso dal mondo intero “per non dare spazio alla propaganda russa”, conduttori che prendono le distanze dalle dichiarazioni di ospiti che indugiano nello sposare ogni tweet della propaganda di Kiev o nell’accusare solo i russi per ogni responsabilità e nefandezza di questa guerra.

Che dire poi delle interviste al presidente ucraino Volodymyr Zelensky talmente in ginocchio da far apparire equilibrata e pure aggressiva la “mitica” intervista di Gianni Minà a Fidel Castro del 1987?

Nessuna domanda scomoda sulle opposizioni messe al bando, il patrimonio personale del presidente e di diversi ministri e generali, le leggi che soffocano la libertà di stampa ed espressione, la corruzione dilagante anche a danno dei militari che ha portato alla rimozione di molti funzionari, il rapporto di Amnesty International che accusa le truppe ucraine di crimini di guerra, le armi donate dall’Occidente rinvenute su fronti bellici in altri continenti, le rappresaglie sui “collaborazionisti” nelle città riconquistate, i video che mostrano le truppe di Kiev ferire o uccidere prigionieri…solo per citare alcuni dei temi più eclatanti.

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machina

La guerra capitalista. Alcune note di lettura

di Raffaele Sciortino

0e99dc d25f80e43a524a419b3ee330c79854admv2Continua il dibattito su La guerra capitalista, il libro di Emiliano Brancaccio, Stefano Lucarelli e Raffaele Giammetti di cui abbiamo dato conto su Machina a partire dall’intervista che il curatore di questa sezione, Francesco Maria Pezzulli, ha condotto con uno degli autori (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista). Pubblichiamo oggi, invece, l’interessante contributo inviatoci da Raffaele Sciortino che mette in evidenza i pregi e alcune problematicità di questo fondamentale lavoro collettivo.

* * * *

Nell’attuale temperie politica e culturale in cui, anche e forse soprattutto a «sinistra», per discutere di guerra è d’obbligo prima genuflettersi un consono numero di volte alla vulgata atlantista sull’«aggressione russa», su «Putin criminale al servizio degli oligarchi», sulla «difesa della democrazia ucraina» e via sproloquiando in volgare american-english – un libro come quello di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli (BGL), La guerra capitalista, offre una boccata d’aria pura oltre a far tornare coi piedi sulla terra[1]. E non è forse un caso che la riflessione lì contenuta sulle radici profonde del conflitto in corso non provenga da ambienti di radical left, intrisa di neo-progressivismo woke di importazione anglo-sassone e oramai distantissima da ogni riferimento classista. Ma proviene da studiosi seri (sì, studiosi) che mostrano di saper ricercare e ragionare in gruppo, capacità oggi pressoché scomparse, senza paura di nuotare, oggi, contro la corrente.

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giubberosse

Cul-de-sac

di Enrico Tomaselli

la fg china military pla q and a 20150902Mentre le classi dirigenti europee fanno tristemente mostra di una smisurata pavidità nei confronti di Washington, negli Stati Uniti cresce invece il dibattito – e lo scontro politico – tra le due attuali fazioni (trasversali) del bellicismo imperialista: i russofobi neocon ed i super-falchi anti-cinesi.
Il punto di partenza, anche se i primi tendono ovviamente a nasconderlo, è la consapevolezza che la strategia messa in atto in Ucraina contro la Russia si è rivelata un fallimento, politico e militare. Per i neocon ciò significa che bisogna rilanciare, alzare il livello dello scontro, sino a portarlo – se necessario – ai limiti di un nuovo conflitto mondiale. Mentre per i secondi significa trovare il prima possibile una via d’uscita dal pantano ucraino, cercando di salvare la faccia (e non solo quella) e prepararsi per lo scontro con Pechino.

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Due errori

Può apparire tragicamente incredibile, ma in fondo all’origine del prolungamento del conflitto ucraino ci sono due clamorosi errori; uno, politico, di Mosca, ed uno, militare, di Washington.

È ormai abbastanza chiaro che, nel momento in cui la Russia dava il via all’Operazione Speciale Militare, l’obiettivo era quello di forzare la mano (non solo a Kiev, ma anche e soprattutto agli europei ed a Washington), portandoli rapidamente ad un tavolo di trattativa, con l’intento di ottenere ciò che non era stato possibile avere sino a quel momento: autonomia per il Donbass, riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa, e garanzia di sicurezza (no all’Ucraina nella NATO).