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Oltre la geopolitica

Storia, economia e soggettività politica

di Carlo Formenti

Mariupol 4 3Per la maggioranza degli esperti di geopolitica, in particolare per coloro che tendono a ragionare in termini di real politik (penso a un filosofo come Carl Schmitt o, si parva licet, all'editorialista del Corsera Sergio Romano), le guerre e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali si spiegano prevalentemente, se non esclusivamente, in base a un combinato disposto di storia e tradizioni culturali, caratteristiche morfologiche dei territori coinvolti, carattere nazionale (mentalità) delle popolazioni interessate e ambizioni di potenza. Da queste ultime non sono ovviamente espunti i motivi di competizione economica, ma raramente vengono considerati la causa prevalente.

Nel caso in cui gli esperti in questione adottino un punto di vista marxista, queste gerarchie tendono a rovesciarsi: le ragioni del conflitto fra opposti interessi economici (riferiti non solo alle diverse economie nazionali o regionali ma anche alle formazioni sociali, cioè ai conflitti di classe interni a tali sistemi e intersistemici) vengono in primo piano, mentre tutti gli altri motivi, pur senza sparire, passano in subordine. In questo articolo intendo abbozzare la tesi secondo cui in entrambi i casi, anche le analisi più raffinate risultano monche, nella misura in cui sottovalutano, nel primo caso le cause strutturali, nel secondo il peso delle ideologie e delle strategie politiche di stati, governi, partiti, movimenti e classi sociali coinvolti nei conflitti che si intende prendere in esame.

Per sostenere quanto appena affermato, discuterò due libri (Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, di Benjamin Abelow, Fazi Editore e Stati Uniti e Cina allo scontro globale, di Raffaele Sciortino, Asterios Editore) che possono essere assunti (benché non senza forzatura) come esempi dei due approcci appena indicati. In particolare, dedicherò il primo paragrafo al libro di Abelow e il secondo al lavoro di Sciortino.

 

1. Abelow. Ovvero la colpevole stupidità del governo Usa

La tesi di fondo di Abelow, come spiega sinteticamente Luciano Canfora nella Prefazione, si basa su un parallelismo storico: così come la Seconda guerra mondiale è stata provocata dalla cecità delle potenze vincitrici, che hanno scelto di umiliare la Germania, alimentando il revanscismo tedesco che ha trovato espressione nel regime nazista e nella sua volontà di rivincita, allo stesso modo la cecità dell'Occidente, e in particolare degli Stati Uniti e del loro braccio militare, la NATO, è consistita nella volontà di stravincere la Guerra fredda, umiliando la Russia dopo il crollo del regime sovietico, fino al punto di metterne in discussione la stessa sopravvivenza in quanto nazione autonoma e indipendente.

Per costruire la sua requisitoria contro le responsabilità di Usa e NATO nella guerra ucraina, Benjamin Abelow attinge a documenti, articoli e opinioni che esprimono le idee di una decina di noti esperti angloamericani di politica internazionale, nessuno dei quali sospetto di simpatie per la Russia, né tantomeno per la Cina, ma anzi perlopiù esponenti del coté conservatore della cultura occidentale. Il filo rosso della sua argomentazione è la totale incapacità dell'establishment atlantista di identificarsi con le ragioni della controparte, e quindi di interpretarne i comportamenti e agire di conseguenza.

Da quando fu formulata (ne1 1823) la dottrina Monroe, gli Stati Uniti considerano come un casus belli il fatto che un'altra potenza schieri forze militari nelle vicinanze del proprio territorio - vedi il caso dei missili russi a Cuba nel 1962 (1) - anche se quel "nelle vicinanze" è stato progressivamente esteso a tutte le aree del mondo in cui siano presenti "interessi vitali" americani. Usa e NATO rifiutano tuttavia di ammettere che tale principio valga anche per la Russia. Tanto è vero che, dall'inizio degli anni Novanta a oggi, hanno messo in atto una serie di gravi provocazioni nei confronti di quest'ultima. Eccone l'elenco stilato da Abelow: in spregio agli impegni assunti all'atto dell'unificazione tedesca (secondo cui, in cambio del ritiro di 400000 soldati russi dalla Germania Est, la NATO si impegnava a non estendere i propri confini al di là di quel Paese) la NATO si è progressivamente allargata di 1600 chilometri, fino ad arrivare ai confini della Russia; gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato sui missili antibalistici (ABM) e li hanno schierati in alcuni Paesi ex socialisti a ridosso dei confini russi; hanno inoltre appoggiato - se non istigato - il golpe di estrema destra del 2014 in Ucraina; la NATO ha condotto esercitazioni con armi in grado di colpire il territorio russo; è stata più volte dichiarata l'intenzione di integrare l'Ucraina nella NATO e si è costruita l'interoperabilità militare con questo Paese prima ancora che avvenisse il suo ingresso nell'alleanza; infine Usa e NATO hanno spinto il governo ucraino ad assumere posizioni sempre più aggressive nei confronti del vicino.

Tutto ciò è avvenuto contro il parere di esperti di geopolitica come George Kennan, il quale si è così espresso sull'allargamento della Nato: "penso sia un tragico errore. Non c'era alcun motivo per farlo. Nessuno stava minacciando nessuno". Sempre Kennan dichiarò che questa mossa equivaleva a emettere una profezia destinata ad auto avverarsi sull'aumento dell'aggressività russa. Analoghi pareri sono stati formulati dall'ex segretario alla difesa McNamara, da Henry Kissinger e molti altri. A parte queste voci, scrive Abelow, nessun membro dell'establishment di Trump prima e Biden poi sembra essersi chiesto come avrebbero reagito gli Usa a situazione invertita, dopo che il ritiro (nel 2019) americano dal trattato sulle armi a raggio intermedio ha esposto la Russia al rischio di subire un eventuale first strike prima di poter reagire, riducendone di fatto la capacità di deterrenza. Un esperto di politica russa come Richard Sakwa aggiunge che "Mosca non ha due grandi oceani per difendersi, non possiede montagne che la proteggano. Nessun fiume importante", non ha quindi confini difendibili e, dalla memoria storica delle imprese di Napoleone e Hitler ha ereditato un costante senso di minaccia da Occidente che ne alimenta la (più che giustificata) paranoia.

A peggiorare la situazione, scrive Abelow, contribuisce il mancato ruolo critico dei media, tanto americani che europei, che censurano sistematicamente le opinioni dissenzienti. In questo modo le false narrazioni divengono modelli di realtà, si impongono come guida per l'azione. Così il racconto della guerra come una limitata iniziativa umanitaria per aiutare l'Ucraina a difendersi dall'aggressione russa è progressivamente slittato fino a enunciare apertamente l'obiettivo di indebolire la capacità della Russia di combattere guerre future (2). Così il rischio di una guerra nucleare viene minimizzato, evitando di porsi la domanda di cosa potrebbe fare la Russia ove avesse la percezione di essere esposta a un rischio di invasione. Così si alimenta l'illusione che prolungando il conflitto si creino le condizioni per rimpiazzare Putin con qualche fantoccio prono agli interessi occidentali, rimuovendo sia il crescente risentimento anti occidentale del popolo russo che cementa il consenso per Putin, sia il fatto che a subentrargli potrebbe essere un governo ultra nazionalista dotato di mezzi offensivi in grado di radere al suolo gli Usa in mezzora.

Il responsabile di quanto avvenuto è davvero Putin? si chiede Abelow in conclusione. Dopodiché, pur affermando la propria antipatia per il presidente russo, si azzarda a dire che la responsabilità primaria è occidentale, e in particolare americana, aggiungendo che, se Usa e NATO avessero agito diversamente, a suo avviso è assai probabile che la guerra in Ucraina non ci sarebbe stata. In poche parole la causa della guerra sarebbe stata la stupidità del governo Usa (per tacere della deferente codardia degli alleati europei).

Per rafforzare tale giudizio, Abelow cita come aggravante il fatto che, a suo avviso, l'Ucraina sarebbe una pedina irrilevante sullo scacchiere geopolitico degli interessi americani. E qui si misurano i limiti dell'approccio "puramente" geopolitico cui accennavo in apertura, riferendomi al fatto che si tratta di un punto di vista che sottovaluta le ragioni "strutturali" (socioeconomiche) dei conflitti internazionali, concentrandosi prevalentemente sui fattori "sovrastrutturali" (3) politico- culturali, ideologici e "psicologici"(in senso lato). Da un lato, è a dir poco riduttivo considerare quanto sta succedendo come frutto della "stupidità" dell'establishment statunitense, come se non esistessero potenti forze materiali che lo spingono a compiere certe scelte (mentre anche lo scontro di opinioni interno alle élite Usa documentato da Abelow rispecchia gli interessi contrastanti di precisi settori del capitalismo a stelle e strisce). Dall'altro lato, è assurdo parlare di irrilevanza dell'Ucraina per gli interessi Usa dimenticando 1) che quel Paese è un tassello importante nella proiezione della Cina verso Occidente attraverso la Via della Seta (cui gli Usa cercano in ogni modo di sbarrare la strada), 2) che la guerra contro la Russia serve in primo luogo a indebolire il più importante partner politico-militare (oltre che sempre più anche economico) della Cina, per isolare e accerchiare quello che gli Stati Uniti considerano oggi il nemico principale (e, in subordine, per indebolire e rendere ancora più prono ai propri interessi l'alleato europeo).

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Sciortino: meriti e limiti di un'analisi strutturale del "Grande Gioco" fra Oriente e Occidente

A Sciortino dedicherò più spazio perché, mentre quello di Abelow è un pamphlet, il suo libro è un saggio complesso, approfondito e articolato, di cui condivido molte argomentazioni, mentre intendo motivare con la maggior cura possibile (per rispettando le esigenze di sintesi imposte dalle dimensioni di un articolo) le ragioni per cui dissento da alcune sue tesi. Parto da una citazione che l'autore pone in esergo alla Introduzione: "I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale, politica e bellica della signoria americana sul mondo capitalistico". L'autore citato è Amedeo Bordiga, scelta tutt'altro che casuale, come cercherò di dimostrare. Quanto al contenuto della citazione: mentre condivido l'augurio di catastrofe rivolto all'imperialismo americano, dissento dall'idea (da contestualizzare negli anni Cinquanta del Novecento in cui fu presumibilmente formulata) secondo cui ai marxisti non sarebbe dato (oggi come ieri?) essere protagonisti della storia. Temo che Sciortino, pur non potendo essere definito neo bordighista tout court, la pensi attualmente come la pensava allora Bordiga, mentre il sottoscritto è convinto che i marxisti siano oggi attori tutt'altro che trascurabili della storia in tutto il mondo non occidentale, e che non debbano rinunciare a svolgere un proprio ruolo nemmeno nel disastrato panorama occidentale. Ma procediamo con ordine.

a) Globalizzazione e "superimperialismo" americano

Uno degli apporti più importanti del lavoro di Sciortino a un'analisi marxista del mondo attuale consiste nell'aggiungere il proprio contributo alla schiera degli autori (4) che stanno rilanciando la categoria di imperialismo, progressivamente abbandonata dalle sinistre (non solo le moderate ma anche le presunte "radicali") a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, allorché la lezione delle teorie del sottosviluppo prima (5) e di quelle della dipendenza poi (6) vennero liquidate come "terzomondismo".

Sciortino sgombra il campo dalle posizioni che tracciano uno scenario secondo cui esisterebbe un conflitto interimperialistico sia fra Stati Uniti ed Europa, sia fra questi due e la Cina. Della Cina diremo più avanti, per ora basti dire che per Sciortino esiste piuttosto un "superimperialismo" Usa (da non confondersi con il concetto proposto a suo tempo da Kautsky né con quello di Impero teorizzato da Antonio Negri) che è l'esito del processo che ha consentito di instaurare e consolidare il signoraggio del dollaro: dallo sganciamento della moneta americana dall'oro all'inizio degli anni Settanta, al Volcker shock (con lo spregiudicato uso dei tassi da parte della Federal Reserve finalizzato a stroncare ogni velleità concorrenziale da parte di altri Paesi capitalisti). Il progressivo consolidamento del ruolo mondiale del dollaro come mezzo di pagamento e moneta di riserva ha messo Washington nelle condizioni di effettuare operazioni alternate stop and go, inondando di volta in volta i mercati con la propria moneta per poi risucchiare capitali su scala mondiale.

Questa alternanza di docce fredde e bollenti ha sbarrato la strada ai tentativi di Giappone, Germania e Tigri Asiatiche di porsi come poli autonomi del processo di concentrazione dei capitali a livello globale. Ma il vero "colpo gobbo" del capitalismo mondiale, la vera essenza di quello che va sotto il nome di processo di globalizzazione, argomenta Sciortino, è stata quella peculiare divisione internazionale del lavoro in ragione della quale il plusvalore prodotto dalla classe operaia cinese (e più in generale dai cosiddetti Paesi in via di sviluppo) si è riversato nelle tasche della finanza occidentale, sia come quota direttamente appropriata da parte delle multinazionali, sia come finanziamento del debito Usa attraverso l'acquisto massiccio dei relativi titoli, sia come quota parte di un mercato mondiale dei capitali dominato dalla finanza a stelle e strisce (per la Cina la contropartita di questo scambio ineguale è stata la fuoriuscita dal sottosviluppo, ma di questo più avanti).

Aspetti non secondari di questi meccanismi intrecciati a livello mondiale sono stati, da un lato, il rapido indebolimento del proletariato occidentale, schiacciato dalle ristrutturazioni tecnologiche e dai decentramenti produttivi verso l'Asia e il Sud del mondo e costretto ad accettare drastici ridimensionamenti di salario (7), nonché altrettanto drastici peggioramenti di welfare e condizioni di vita; dall'altro lato l'atrofizzazione prima e la morte definitiva poi delle sinistre, le quali, già protagoniste del lungo 68, hanno regalato al capitale un nuovo carburante generato dalle trasformazioni ideologiche, politiche e culturali indotte da movimenti sempre più concentrati sui temi della emancipazione individuale, e creato i presupposti dell'egemonia delle nuove classi medie su un proletariato frastornato dal nuovo compromesso sociale neo liberale (8).

La stessa diversificazione geografica che ha consentito la ripresa dell'accumulazione capitalistica in occidente, fino alla crisi del 2008 e ai contraccolpi della pandemia da Covid 19, ha tuttavia favorito una crescita formidabile in Asia ma soprattutto in Cina, un processo, argomenta Sciortino, di proporzioni tali da non essere più contenibile nella gabbia della finanziarizzazione imperialista occidentale. Nel prossimo paragrafo discuteremo le cause endogene che, sempre secondo Sciortino, hanno indotto la Cina a imprimere un salto di qualità al proprio processo di sviluppo, riducendo progressivamente la propria subordinazione nei confronti della controparte a stelle e strisce e incamminandosi sulla strada di una crescita più qualitativa e trainata dal mercato interno.

Gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a questa sfida in un momento in cui al loro interno maturavano tensioni sociali innescate dai contraccolpi della crisi. Una sorta di "momento Polanyi" (ma Sciortino non usa questa categoria, preferendo il concetto di neopopulismo (9)) che ha trovato espressione nella vittoria elettorale di Trump e toccato un vertice mediaticamente vistoso con l'assalto a Capitol Hill. Si tratta di reazioni sociali caratterizzate, scrive Sciortino, da soggettività povera, forme interclassiste e confuse manifestazioni di scontento popolare associate a richieste di protezione. Capitol Hill, aggiunge, rappresenta la "fine del primo tempo neopopulista", ma queste spinte in cui si mischiano ambigue componenti sovraniste, cittadiniste e classiste sono destinate a riproporsi e a tenere sotto pressione un establishment che, sia con Trump che con Biden, ha affrontato la sfida alzando il livello di scontro con la Cina, passando dalla guerra dei dazi alla guerra aperta, per cui il conflitto ucraino appare come la prima mossa di una "strategia del doppio nemico" da affrontare nel contesto di un'unica guerra di lunga durata, che punta a indebolire la Russia per togliere una sponda alla Cina per poi attaccarla direttamente.

b) Ascesa cinese. Verso il "decoupling" Cina-Usa

Nel ricostruire il processo che ha consentito alla Cina di passare da nazione ex coloniale e sottosviluppata a potenza mondiale (10), Sciortino parte da una premessa fondamentale: questo processo, scrive, è assai più complesso delle rappresentazioni che ne danno i teorici operaisti (anche se andrebbe precisato che tale quadro è condiviso dalla maggioranza degli intellettuali sedicenti marxisti occidentali, non solo dagli operaisti) secondo il quale la "borghesia" cinese (in cui vengono inquadrati allo stesso titolo imprenditori privati, manager delle imprese di stato e funzionari di partito) e le multinazionali straniere che operano nel Paese a partire dalle riforme postmaoiste vanno messi sullo stesso piano, in quanto associati nello sfruttamento della classe operaia. Questa diagnosi non tiene conto del punto di partenza del processo: una rivoluzione di liberazione nazionale a base contadina, cui ha fatto seguito un processo di industrializzazione in alcuni settori di base (industria pesante) che, pur avendo formato (soprattutto grazie ai miglioramenti in tema di sanità ed educazione) un nucleo di classe operaia avanzata, da solo non sarebbe stato in grado di garantire la fuoriuscita del Paese dal sottosviluppo e di centinaia di milioni di cittadini dalla povertà.

Un altro punto cieco delle analisi semplificatorie dei teorici di cui sopra (obnubilati, penso sia il caso di aggiungere, da pregiudiziali ideologiche "anti stataliste") riguarda la mancata comprensione del rapporto dialettico fra stato-partito e masse operaie e contadine, rapporto che ha consentito di fare della lotta di classe il motore dello straordinario sviluppo cinese. Trattando di tale argomento Sciortino fa un'affermazione che suona scandalosa per il senso comune addestrato dalla propaganda occidentale: la Cina, scrive, è uno dei pochi stati democratici rimasti al mondo, non nel senso degli aspetti formali, istituzionali e procedurali della nostra liberal democrazia, per altro sempre più svuotata di contenuto effettivo, ma appunto nel senso del rapporto sostanziale fra proletariato e stato. Il partito-stato cinese non è un semplice apparato burocratico, più o meno efficiente o clientelare, bensì un organismo legato da mille fili a una base sociale che può esser mobilitata o può mobilitarsi, luogo effettivo di mediazione tra stato, capitale e classi, fra città e campagna, tra Cina e mondo esterno, presidio dell'unità nazionale e della continuità del processo rivoluzionario avviato nel 1949.

Se non si tiene conto di questo, si rischia di schematizzare la transizione dalla fase maoista all'era delle riforme inaugurata da Deng, riducendola a una "controrivoluzione" capitalista che ha posto fine all'esperimento socialista. Sospendendo il giudizio sul carattere più o meno socialista dell'era maoista e sulla natura del socialismo di mercato (o socialismo con caratteri cinesi), dell'era successiva, tema su cui tornerò nel prossimo paragrafo, vediamo le forme concrete del processo avvenuto nell'ultimo mezzo secolo.

Posto che, come osservato da Giovanni Arrighi (11), il processo di trasformazione non ha avuto nulla a che vedere con la shock therapy imposta alla Russia post sovietica, ma è stato graduale, accompagnato e controllato da provvedimenti (sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, ecc.) che hanno permesso di contenere l'impatto delle dismissioni/privatizzazioni di imprese pubbliche; posto che il processo di ristrutturazione delle aziende di stato non ha coinvolto i settori strategici e le imprese maggiori (in base al principio lasciare le piccole, tenere le grandi); posto che quello delle imprese private è a tutt'oggi un sistema di imprese piccole o piccolissime, per cui Sciortino ha ragione nel sostenere che la borghesia cinese è tutto fuorché una classe sociologica dominante; posto che alla classe contadina continua a essere garantito l'accesso alla terra; posto infine che lo stato mantiene il controllo dei maggiori istituti di credito. Posto tutto ciò, è innegabile che la politica di apertura agli investimenti esteri stranieri abbia assicurato alle multinazionali (non solo quelle occidentali ma anche quelle dei capitali cinesi della diaspora) i benefici di una "accumulazione per espropriazione" basata su elevati tassi di sfruttamento (plusvalore assoluto) (12). Ciò ha creato crescenti tensioni sociali culminate negli eventi di piazza Tien An Men, nei quali tuttavia, le rivendicazioni dei giovani studenti che chiedevano riforme democratiche di tipo occidentale (espressione della spinta liberale di settori borghesi emergenti) non si sono saldate con lo scontento operaio che chiedeva aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita. Lo stato-partito ha represso le prime e progressivamente soddisfatto le seconde, a conferma della diagnosi di Sciortino sulla "democrazia sostanziale" del sistema cinese.

Nei decenni successivi sono state lasciate le briglie sul collo alle lotte operaie, che hanno coinvolto soprattutto le grandi imprese straniere e raggiunto elevati picchi di intensità nei primi anni del secolo XXI, ma soprattutto hanno favorito il progressivo miglioramento in termini di salario e condizioni di vita di larghe masse operaie (in particolare delle centinaia di milioni di migranti provenienti dalle campagne). Per ottenere e consolidare questi risultati, argomenta Sciortino, si è avviato un processo di industrializzazione e modernizzazione (passaggio da un'accumulazione basata sul plusvalore assoluto a un'accumulazione basata sul plusvalore relativo) che ha comportato una vera e propria rivoluzione sociale e politica: ristrutturazione tecnologica e ri-dislocazione spaziale delle attività economiche, crescita dell'occupazione nelle industrie ad alta tecnologia favorite dai piani statali e da massicci investimenti all'estero. Infine progressivo spostamento del motore dello sviluppo dalle esportazioni alla crescita del mercato interno (scelta obbligata anche per la contrazione degli scambi internazionali dovuta alla crisi e all'emergenza pandemica).

Quanto appena descritto ha comportato una progressiva sottrazione della Cina alla tutela geopolitica e geo economica Usa, rompendo quella interazione "virtuosa" (per gli interessi dell'imperialismo americano) descritta nel precedente paragrafo. La reazione punitiva di Washington, dalla guerra dei dazi al decoupling (13), perseguito attraverso il tentativo di tagliare tutte le vie di penetrazione in occidente ai capitali e ai prodotti cinesi - soprattutto a quelli tecnologici - ha avuto l'effetto di rafforzare ulteriormente la spinta di Pechino verso una maggiore autonomia tecnologica e industriale. La presidenza Xi Jinping incarna questa nuova strategia del Dragone: il ruolo delle imprese statali resta decisivo, nella misura in cui consente di accelerare il passaggio dallo sfruttamento intensivo del lavoro allo sviluppo tecnologico e all'internazionalizzazione degli investimenti; la lotta alla corruzione viene intensificata per vincere le resistenze interne al partito e centralizzarne l'azione; infine la Cina cerca di contrastare la strategia del decoupling lanciando un suo modello di globalizzazione, alternativo a quello occidentale.

In quello che la stampa occidentale presenta come il "paradosso" di una Cina che rilancia la globalizzazione proprio nel momento in cui in Occidente se ne annuncia il drastico rallentamento, se non la fine, non c'è in realtà niente di paradossale, nel senso che il concetto cinese riflette contenuti diversi. Il modello globalista occidentale utilizza l'esportazione dei diritti umani e rivendica il "diritto a proteggere" per giustificare l'intromissione negli affari interni dei Paesi del Sud del mondo e intrappolarli nella gabbia della finanziarizzazione e del debito. Il modello cinese, ben esemplificato dall'ambizioso progetto denominato Via della Seta (che prevede la realizzazione di una infrastruttura fisica, logistica e digitale fra Cina e continente euroasiatico fino all'Europa atlantica da un lato e all'Asia orientale dall'altro), è fondato su investimenti esteri in maggioranza di banche statali a supporto di interventi di imprese statali, riguarda soprattutto i Paesi emergenti e in via di sviluppo, e prevede in particolare grandi progetti infrastrutturali; tende a generare una base economica autopropulsiva creando ricchezza reale e solvibilità e incrementando la capacità dei Paesi interessati oltre il mero ricorso al debito. Ma ciò aggrava ulteriormente il conflitto con la controparte imperialista e avvicina il rischio di una resa dei conti anche sul piano militare.

A questo punto, per introdurre gli scenari di guerra descritti da Sciortino, che discuterò nel prossimo paragrafo, è il caso di citare questa affermazione: nel criticare chi presenta il confronto Usa-Cina come un conflitto interimperialistico, e nel ribadire che la Cina non può essere considerata imperialista, Sciortino chiarisce che, a suo avviso, tale carattere non imperialistico non è dovuto al fatto che la Cina non è un Paese capitalista, bensì a un ritardo di fase del suo sviluppo capitalistico. È qui che i nostri punti di vista divergono, nella misura in cui, come mi accingo a spiegare, ritengo che questo approccio pecchi di "oggettivismo" economicista.

c) I limiti di un'analisi strutturale che sottovalutata il peso della mediazione politica

Washington deve (sottolineatura mia) bloccare l'ascesa cinese che alla lunga metterebbe in discussione il dominio imperiale del dollaro, mentre la Cina è spinta (sottolineatura mia) dal suo peculiare corso capitalistico verso una collocazione meno subordinata all'interno del mercato mondiale. Nei due termini appena evidenziati è sintetizzato ciò che non condivido nell'approccio di Sciortino e che getta una certa luce sulla citazione di Bordiga riportata qualche pagina sopra. Nell'evidenziarla, ho detto che non considero Sciortino un neo bordighista, aggiungo però che penso che il punto debole della sua analisi sia un certo oggettivismo economicista che era una delle caratteristiche di fondo del pensiero del comunista "eretico" napoletano.

Il nodo è l'idea che la storia sia mossa da una necessità immanente che ha il proprio unico motore nei rapporti di produzione e nei loro processi evolutivi (14). Da un lato, Sciortino è convinto che il sistema cinese, se non può essere definito imperialista, non può nemmeno essere considerato socialista, sia in quanto: 1) (non lo dice esplicitamente ma mi pare ovvio), considera incompatibili in linea di principio socialismo e mercato, secondo i canoni marxisti "classici" (15); 2) in quanto considera impossibile la realizzazione del socialismo in un solo Paese (e qui rifà capolino Bordiga, oltre che Trotsky); benché si tratti qui di un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti dotato di immense risorse, non solo demografiche. Se la Cina svolge nei fatti un ruolo antimperialista, ciò è essenzialmente dovuto, secondo Sciortino, al fatto che la possibilità di completare la transizione a un moderno capitalismo, basato sul plusvalore relativo e su un compromesso sociale socialdemocratico, dipende dallo spazio di manovra che essa riesce a sottrarre all'imperialismo americano.

Non sto a ripetere gli argomenti con cui Sciortino definisce le forze che spingono necessariamente gli Stati Uniti a stroncare sul nascere tale ambizione. Non discuto nemmeno le ragioni per cui ritiene che l'egemonia Usa, ancorché la sua funzione ordinatrice appaia indebolita da un quadro globale sempre più instabile, non rischi di venire rimpiazzata da un rivale globale né sul piano economico, né su quello monetario, né su quello diplomatico, né tantomeno su quello militare (personalmente condivido l'aspetto militare, mentre gli altri mi paiono discutibili, malgrado i dati statistici che Sciortino cita a sostegno delle proprie tesi, ma si sa che in base ai dati si può affermare tutto e il contrario di tutto, a seconda delle fonti da cui vengono tratti e di come li si legge ).

Sta di fatto che il suo ragionamento esclude, per ragioni oggettive (sottolineatura mia), ogni ipotesi di egemonismo globale cinese come spazio di possibilità reale, né la prospettiva di un ordine multipolare appare a suo parere probabile. La Cina, argomenta, non è in grado di porre una sfida egemonica in senso proprio, ma deve affrontare una sfida esistenziale: o fa un salto di sviluppo o la pressione imperialista le impone un arretramento anche sul piano del compromesso sociale, e quindi minaccia la stabilità complessiva del sistema. Insomma: solo una disarticolazione sistemica globale con esiti catastrofici potrebbe aprire una prospettiva mondiale di transizione a un diverso ordinamento sociale (o alla rovina delle nazioni e delle classi in lotta!). Per quanto riguarda la Cina, la possibilità che l'intreccio di istanze di classe e nazionali sopra descritto esiti in un processo di transizione verso il socialismo ha una qualche consistenza solo (sottolineatura mia) a condizione di una ripresa della lotta di classe al di fuori della Cina (sottinteso a partire dal cuore dell'Occidente).

A questo punto dispongo di tutte le tessere che mi consentono di trarre alcune conclusioni critiche. Dire che Sciortino rimuove il problema della soggettività sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato: come si è visto, nelle sue tesi il conflitto sociale, la lotta di classe, svolge un ruolo determinante sia negli Stati Uniti che in Cina, funge addirittura da motore che spinge i due sistemi verso la rotta di collisione. Il guaio è che anche il conflitto sociale viene trattato come un fattore oggettivo, immanente ai meccanismi sistemici, mentre ciò che manca del tutto è la mediazione politica fra i meccanismi del modo di produzione e la spontanea soggettività di classe. Non a caso Sciortino critica tutte le analisi che danno spazio alla "autonomia del politico" (16). Come se il prevalere di questa o quella fazione interna all'establishment di Washington, o di questa o quella corrente interna al Partito Comunista e allo Stato cinesi, fossero un aspetto marginale, se non del tutto indifferente, ai fini dello sviluppo e degli esiti dello scontro. O come se l'esplicita rivendicazione della volontà di realizzare una società socialista da parte del PCC fosse un mero orpello ideologico, privo di qualsiasi impatto sulle scelte strategiche dello stato-partito.

L'impostazione che ho dato al tema nel secondo volume, non a caso intitolato "Elogio dei socialismi imperfetti", del mio ultimo libro (17) è radicalmente diversa: mentre rinvio alla sua lettura chi desideri approfondire l'argomento, mi limito a concludere dicendo che concordo sul fatto che la Cina non sia in grado di rimpiazzare gli Usa nel ruolo di egemone globale, ma non perché ritengo che ciò sia "oggettivamente" possibile, bensì perché sono convinto che questo non è il suo vero obiettivo, che consiste piuttosto nel proseguire nella costruzione del socialismo in stile cinese, una esperienza su cui dovremmo riflettere seriamente, nella speranza che ciò contribuisca a liquidare una serie di dogmi (18) che continuano a paralizzare la capacità di analisi e di azione del marxismo occidentale.


Note
(1) Abelow sottolinea come la narrazione occidentale sulla crisi cubana rappresenti il ritiro dei missili russi dall'isola come una "vittoria" americana, laddove si trattò di un compromesso, nel senso che poco dopo furono ritirati i missili americani dalla Turchia.
(2) Sulla intenzione di prolungare il conflitto per indebolire la Russia; Abelow cita la cinica dichiarazione dell'ex vicesegretario alla Difesa Chas Freeman:"combatteremo fino all'ultimo ucraino per l'indipendenza ucraina".
(3) Ovviamente qui l'opposizione fra struttura e sovrastruttura non è intesa nel senso di un certo marxismo "ortodosso" e dogmatico, bensì in senso dinamico-dialettico, alla Lukács per intenderci (vedi la mia Prefazione alla Ontologia dell'essere sociale di cui ho anticipato ampi stralici su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/03/finalmente-torna-lontologia-grandezza-e.html ).
(4) Vedi quanto scrivo in proposito nel quarto capitolo del primo volume del mio Guerra e rivoluzione (Meltemi, Milano 2023).
(5) Sul rapporto necessario fra sviluppo dei centri e sottosviluppo delle periferie cfr., fra gli altri, P. Baran, Il surplus economico, Feltrinelli, Milano 1962; vedi anche P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.
(6) Mi riferisco alla scuola dei teorici della dipendenza che Alessandro Visalli (Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020) definisce "la banda dei quattro": Giovanni Arrighi, Samir Amin, Gunder Frank, Emmanuel Wallerstein.
(7) E' quella che alcuni hanno definito WalMart Economy: l'importazione di merci cinesi di bassa qualità e a basso prezzo (spacciate da catene discount come Walmart) ha consentito di abbassare i costi di riproduzione della forza lavoro americana e quindi di comprimere i salari.
(8) Sull'uso capitalistico della "critica artistica" come L. Boltanski e E. Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014) hanno definito la cultura libertaria dei "nuovi movimenti" post 68, concentrata sui diritti civili e individuali, vedi quanto scrivo nel quinto capitolo ("Le sinistre del capitale") di Guerra e rivoluzione, cit.
(9) Cfr. R. Sciortino, L'ascesa dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019. Il tema è ripreso nel libro di Sciortino discusso in questo articolo; quanto al concetto di momento Polanyi, vedi quanto scrivo nel secondo volume di Guerra e rivoluzione (op. cit.) discutendo le tesi di Ernesto Laclau.
(10) Ritengo che l'autore della ricostruzione più accurata e completa del processo in questione sia D. A. Bertozzi (Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, Edizioni l'Antidiplomatico, 2021.
(11) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.
(12) Sulla durezza della condizione operaia negli anni a cavallo del passaggio di secolo, cfr. Pun Ngai, La società armoniosa, Jaka Book, Milano 2102; della stessa autrice vedi anche Morire per un I Phone, Jaka Book, Milano 2016.
(13) Il concetto di decoupling non va confuso con quello di delinking (sganciamento), che Samir Amin usa laddove teorizza la necessità, per le economie postcoloniali che intendono imboccare la via della transizione al socialismo, di allentare progressivamente i rapporti con il mercato globale dominato dalle economie imperialiste occidentali (cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Dècouvert, Paris 1986).
(14) A formulare la critica filosoficamente più convincente di questa visione economicista del processo storico è G. Lukács ne L'ontologia dell'essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023 (appena rieditato con una mia Prefazione).
(15) In Guerra e rivoluzione (cit.) discuto la questione della natura della realtà socioeconomica cinese (socialista di mercato, capitalista, formazione sociale non classificabile secondo criteri classici, ecc.) a partire dalla provocazione teorica di Arrighi (Adam Smith a Pechino, cit.) riassumibile nei seguenti enunciati: società di mercato e società capitalistica di mercato non sono la stessa cosa, per cui non basta l'esistenza di relazioni di mercato per definire la Cina un Paese capitalista; esistono formazioni sociali che, pur basandosi in maggior o minor misura sul mercato, non sono assimilabili al modello di società descritto da Marx (potete aggiungere tutto il mercato che volete, argomenta Arrighi, ma se la classe capitalistica non controlla il potere politico, non siamo in presenza di una società capitalista); la Cina di oggi è un esempio di questo tipo di formazione sociale, che conserva alcune caratteristiche del sistema economico cinese precedente alla colonizzazione da parte dell’imperialismo occidentale. A sua volta Vladimiro Giacché (cfr. “Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno, n.1, gennaio-febbraio 2021; vedi anche “L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020), ricorda che Marx ed Engels, pur non avendo mai largheggiato nel definire quali averebbero dovuto essere i requisiti di una società socialista, non prevedevano che in essa potessero sussistere relazioni di mercato, per cui in base a tale criterio non è possibile definire la Cina un Paese socialista. Tuttavia fa poi riferimento alle parole con cui Lenin replicava alle critiche della sinistra del partito che lo accusava di avere imboccato la via del "capitalismo di stato" (critiche che si intensificarono dopo la svolta della NEP):" “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet” (citato in Economia della rivoluzione, raccolta di testi di Lenin a cura di V. Giacché, il Saggiatore, Milano 2017). Non ha dunque il PCC lo stesso diritto di rivendicare il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese? Tuttavia Sciortino (vedi la nota 99 a pag 173 del libro di cui sto qui discutendo) considera arbitrario l'accostamento che molti (compreso chi scrive) propongono fra la NEP e le riforme cinesi degli anni Settanta, ma soprattutto liquida il criterio secondo cui il controllo dello stato-partito sull'economia sarebbe un fattore rilevante ai fini della definizione del carattere socialista di una determinata formazione sociale, in quanto rifiuta a priori il concetto di "autonomia del politico" (il che è esattamente quello che gli rimprovero, in quanto ritengo ciò lo induca a cadere nell'oggettivismo economicista).
(16) Vedi nota precedente.
(17) Guerra e rivoluzione, cit.
(18) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.

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Giacomo Casarino
Friday, 24 March 2023 22:38
Qualcuno considera una questione di lana caprina discettare sulla NATURA di una società: non mi pare che sia il caso di questo articolo, e perciò, senza citare i classici ad minchiam, intervengo a dire la mia.
Premetto di non credere di essere bordighista " a mai insaputa" e gli argomenti che addurrò credo lo comprovino.
Sembrerebbe che un'economia mista purché controllata dal potere esclusivo del partito comunista sia condizione necessaria e sufficiente a garantire il carattere socialista di una società. (Come se questo potere, dato come un assioma, possa essere garantito e possa riprodursi ab aeterno, come se le forze impetuose del mercato non possano rovesciarlo!.).
Società che a questo punto apparirebbe affidata, per quanto riguarda l'economia, ad uno sviluppo lineare, senza che sorgano al suo interno (e si possano intravedere in anticipo) contraddizioni di sorta. Domanda: transizione, cioé movimento, senza contraddizioni, anche non antagoniste? Qui sì che cadiamo in un bieco economicismo, tanto per richiamarmi a Carlo Formenti!
Trovo qui la controprova di una drammatica e imperdonabile assenza di un'analisi marxista circa le cause della disfatta storica (trent'anni fa!) del "socialismo reale, vale a dire del modello rappresentato dalle società post-rivoluzionarie dell'Est europeo, nell'implicito presupposto della neutralità della scienza e della tecnica (Lenin mi perdoni!).
Modello che qui verrebbe bellamente RIPROPOSTO contro ogni evidenza. Come se il primato assoluto del partito di per sé garantisse l'effettivo "potere operaio", a prescindere da una dialettica con i Consigli, cioé da una democrazia di massa, e in questo quadro, mi si consenta, dalla autonomia del sindacato. Ma, a questo proposito non c'era stata una "rivoluzione culturale"? E poi i rapporti di produzione, le tecnologie non dovrebbero, sia pure progressivamente, sulla spinta della lotta di classe, modificarsi (divisione del lavoro ecc.)? Altrimenti di quale transizione parleremmo?
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Giacomo Casarino
Friday, 24 March 2023 22:38
Qualcuno considera una questione di lana caprina discettare sulla NATURA di una società: non mi pare che sia il caso di questo articolo, e perciò, senza citare i classici ad minchiam, intervengo a dire la mia.
Premetto di non credere di essere bordighista " a mai insaputa" e gli argomenti che addurrò credo lo comprovino.
Sembrerebbe che un'economia mista purché controllata dal potere esclusivo del partito comunista sia condizione necessaria e sufficiente a garantire il carattere socialista di una società. (Come se questo potere, dato come un assioma, possa essere garantito e possa riprodursi ab aeterno, come se le forze impetuose del mercato non possano rovesciarlo!.).
Società che a questo punto apparirebbe affidata, per quanto riguarda l'economia, ad uno sviluppo lineare, senza che sorgano al suo interno (e si possano intravedere in anticipo) contraddizioni di sorta. Domanda: transizione, cioé movimento, senza contraddizioni, anche non antagoniste? Qui sì che cadiamo in un bieco economicismo, tanto per richiamarmi a Carlo Formenti!
Trovo qui la controprova di una drammatica e imperdonabile assenza di un'analisi marxista circa le cause della disfatta storica (trent'anni fa!) del "socialismo reale, vale a dire del modello rappresentato dalle società post-rivoluzionarie dell'Est europeo, nell'implicito presupposto della neutralità della scienza e della tecnica (Lenin mi perdoni!).
Modello che qui verrebbe bellamente RIPROPOSTO contro ogni evidenza. Come se il primato assoluto del partito di per sé garantisse l'effettivo "potere operaio", a prescindere da una dialettica con i Consigli, cioé da una democrazia di massa, e in questo quadro, mi si consenta, dalla autonomia del sindacato. Ma, a questo proposito non c'era stata una "rivoluzione culturale"? E poi i rapporti di produzione, le tecnologie non dovrebbero, sia pure progressivamente, sulla spinta della lotta di classe, modificarsi (divisione del lavoro ecc.)? Altrimenti di quale transizione parleremmo?
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