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I quattro giganti ciechi alla sfida del futuro prossimo*

di Giulietto Chiesa

Dopo un quarantennio imperiale, unipolare, stiamo vivendo una parentesi multipolare. Quanto durerà nessuno può saperlo e non abbiamo una sfera di cristallo in cui guardare. L'unica cosa che sappiamo, con certezza, da molti segnali, è che siamo nella vicinanza relativa di un punto di rottura della continuità storica: quello che si può definire come un “cambiamento di fase”, qualcosa di analogo a quello che in fisica, per esempio, è il passaggio dallo stato liquido a quello gassoso. È per questa ragione che parlo di parentesi multipolare: perché non sarà lunga come la fase storica unipolare che l'ha preceduta, e perché la sua durata equivale alla nostra distanza dal punto di rottura, o cambiamento di fase.

Questa distanza si misura in anni, non in decenni e quello che avverrà in questi anni deciderà le modalità del cambiamento di fase e, in misura decisiva, deciderà anche come l'umanità uscirà dalla transizione.

Dunque è molto importante capire come arriveremo al “punto di ebollizione”. Per questo occorre identificare, con la maggior precisione possibile, chi sono gli “attori” in grado, almeno in via teorica, di influire su questo percorso temporale.

Sono quattro e tali resteranno nella durata della parentesi.

Altri attori stanno per entrare nell'agone pre-ebollitorio, ma non c'è il tempo perché possano entrarci del tutto e dunque parteciperanno come comprimari e, come tali, potranno al massimo fungere da catalizzatori di processi che li travalicano.

Chi sono questi quattro? Sono gli Stati Uniti, la Cina, l'Europa e la Russia.

Sono quattro soggetti le cui “forze” sono in sommo grado disomogenee: per estensione territoriale, per situazione demografica, per dimensione finanziaria, per composizione tecnologica, per struttura industriale e commerciale, per potenza militare, per esperienza storica e cultura. Dunque è assai difficile collocarli in una scala unitaria di forze per estrarne una graduatoria.

Tuttavia la risultante che emerge da ciascuno di essi è una “qualità” grosso modo, intuitivamente, misurabile nell'agone planetario unico nel quale concorrono, cooperano talvolta, collidono e collideranno. In parole povere: sappiamo quanto ciascuno può “valere”, cioè contare, cioè influire sulla situazione globale e sul comportamento degli altri tre.

Noi già sappiamo che la globalizzazione ha assunto un livello tale che, per la prima volta nella storia umana, l'Uomo è in grado – per usare un'espressione di Freeman Dyson – di “turbare l'universo”, non c'è più decisione di uno di questi giganti che possa essere assunta senza influire sull'insieme globale.

È l'insieme globale, e non i suoi singoli componenti, che è oggi sottoposto alle smisurate tensioni che lo stanno conducendo a un cambiamento di fase. Se ne deduce che, per evitare che questo avvenga in forme totalmente incontrollate, catastrofiche, devastanti, occorre un consenso internazionale su tutte le prossime mosse concernenti i punti critici che si approssimano alla rottura (clima, denaro, energia, cibo, acqua, popolazione, etc.).

La domanda è questa: è possibile un tale consenso? Stando sulla rotta attuale, esso è altamente improbabile per molte cause, tre delle quali determinano tutte le altre:

a) l'attuale architettura internazionale è priva di strumenti in grado di far cambiare la rotta ai quattro protagonisti.

b) l'eredità storica dei quattro giganti è talmente pesante che impedisce non solo un agire comune, ma nella grande maggioranza dei casi, e dei problemi, impedisce perfino un pensare comune.

c) entro l'orizzonte temporale della parentesi multipolare i loro interessi immediati collidono. E il livello intellettuale delle classi dirigenti è del tutto al di sotto delle necessità.

Elevare la probabilità di un esito “fausto” implicherebbe un intervento radicale sui tre problemi qui appena enunciati.

È probabile che ci si riesca, data la ristrettezza del tempo a disposizione, e dato il livello culturale e intellettuale delle élites politiche ed economiche che detengono il potere reale nei quattro centri dominanti?

La risposta è ricavabile dalla stato dell'arte attuale: non possiamo cullarci nell'illusione e coltivare speranze infondate. Occorre un grande realismo, per comprendere che decisioni drammatiche, congruenti con l'immensità dei problemi, devono essere prese e che, se non saranno prese, dobbiamo attenderci sconvolgimenti imprevedibili per dimensione, portata, effetti.

Guardiamo ora in rapida sintesi dove si trovano i quattro protagonisti.

Gli Stati Uniti sono in un declino evidente e inarrestabile. Essi hanno già perduto la loro posizione imperiale, anche se non sembrano ancora essersene accorti. L'élite che li guida appare incapace di prendere atto della situazione e di riorganizzarsi di conseguenza. Al contrario appare incline, seppure confusamente, a imporre la sua supremazia anche a dispetto del proprio declino e della insostenibilità di una tale pretesa. Fino a che l'élite americana non metterà in discussione l'assioma reaganiano secondo cui “il tenore di vita del popolo americano non è negoziabile”, quel paese resterà prigioniero dell'illusione di poter continuare a crescere come ha fatto negli ultimi cento anni.

Quando apparirà evidente che ciò non è materialmente possibile, l'esito più probabile – in assenza di una guida più ragionevole dei “tea party”, e dell'élite bipartisan nelle cui mani si trova – sarà la tentazione di usare l'immensa forza militare di cui dispone per schiacciare avversari e concorrenti. Poiché i suoi avversari e concorrenti sono delle dimensioni che sappiamo, si può provare a immaginare gli scenari agghiaccianti che ci si delineano di fronte.

La Cina è il nuovo potere mondiale in formazione, anch'esso inarrestabile (con mezzi pacifici). È la Cina, esclusivamente la Cina, il martello pneumatico che sta frantumando l'Impero americano, essendo evidente che l'Europa non partecipa a questa impresa per la sua totale subalternità al modello imperiale di crescita, e essendo altrettanto evidente che la Russia non può e non vuole il declino americano e lo teme non meno della crescita politico-economica della Cina. Questa agisce già globalmente in tutte le direzioni e a ritmi che, nei prossimi cinque anni – in presenza di tassi di crescita del Pil cinese del 10% medio annuo – avremo di fronte “una Cina e mezza”, al posto dell'attuale.

Questi ritmi di crescita, si presume, porranno non pochi problemi alla stessa Cina, attuale e futura, la cui soluzione positiva possiamo soltanto auspicare, perché, in caso di fallimento del suo programma, gli effetti che dovremmo fronteggiare sarebbero probabilmente di un ordine di grandezza superiore a quelli di un suo successo. Nello stesso tempo la crescita cinese pone e porrà comunque immensi problemi al pianeta nel suo insieme, influendo su tutti i punti della crisi già in atto nel resto del mondo (clima, energia, risorse naturali, finanza, commercio).

Ma con alcune specificità essenziali: la Cina ha le risorse energetiche (carbone) per attraversare indenne tutta la parentesi multipolare; la Cina è l'immenso mercato di se stessa e, in quella parentesi potrà procedere prescindendo in gran parte dalle perturbazioni esterne che si verificheranno in parallelo; la Cina ha un sistema politico che permette decisioni centralizzate e rapide. Il controllo interno è assicurato sia da un sistema politico autoritario, sia dal consenso prodotto dalla crescita di un benessere diffuso e prima sconosciuto a ampi strati sociali.

Si può aggiungere, anzi è opportuno farlo, che la Cina ha un orizzonte e un respiro storico e temporale più vasto di quello dell'Occidente nel suo complesso, che le permette una visione più lunga. Credo che siano queste le ragioni per cui l'attuale Cina appare la meglio preparata a fronteggiare il passaggio di fase cui accennavo all'inizio. Tuttavia la Cina, come almeno due degli altri giganti planetari (Europa e USA) non dispone del freno per annullare, e neppure frenare la propria, mostruosa inerzia di crescita. Oggi si presenta come un giocatore moderato e prudente, perfino dimesso nelle forme, sorridente e amico (anche se molto fermo nella difesa dei propri interessi nazionali). Ma, quando questa Cina diverrà “due Cine”, cioè tra una decina d'anni, nessuno può prevedere né quale sarà il suo peso, né come si dispiegheranno gli effetti della sua supremazia su un mondo già sconvolto in tutti i suoi equilibri essenziali.

La Russia è – economicamente, demograficamente – il più piccolo dei quattro protagonisti. Ma è il più grande geograficamente e lo è soprattutto dal punto di vista delle risorse naturali. È un territorio sconfinato entro cui si trovano le più grandi riserve di energia, di materie prime, di cui il pianeta è dotato. Teoricamente è in condizione di affrontare la parentesi multipolare meglio di ogni altro, proprio sotto il profilo delle risorse. Ha una vasta intellighenzia tecnologica diffusa, ma ha un background industriale molto vecchio, una rete di infrastrutture inadeguata, una fisionomia commerciale assai debole. Soprattutto è un paese ancora ripiegato su se stesso vent'anni dopo il crollo sovietico, con una classe dirigente mentalmente “compradora”, in gran parte subalterna agli Stati Uniti, ma con contemporanee pulsioni nazionalistiche e ambizioni da grande potenza frustrata.

Tutto ciò in condizioni di alta ricattabilità, poiché questi ultimi vent'anni sono stati per la Russia un'imitazione forsennata del modello capitalistico americano, che ha seriamente intaccato le radici storiche della stessa cultura russa.

Nello stesso tempo questa classe di oligarchi di rapina ha fatto emigrare nelle banche occidentali gigantesche ricchezze che fanno ormai parte integrante della gigantesca macchina della speculazione finanziaria guidata da Wall Street. La Russia, senza investimenti modernizzatori, è rimasta essenzialmente un esportatore di materie prime. In queste condizioni sarà difficile che la Russia possa alzare lo sguardo sull'orizzonte per assumere un ruolo mondiale di organizzatore del consenso attorno a una visione autonoma, non conflittuale, della transizione di fase.

Men che mai questa Russia attuale può ambire a diventare un centro propulsore di una visione dello sviluppo umano capace di parlare al pianeta, di una nuova narrazione del mondo all'altezza delle mai sopite ambizioni di qualche minoranza di divenire la “Terza Roma”.

Appare ben più probabile che la Russia si schieri con l'Occidente contro la Cina: più che per l'atavica paura russa del vicino gigante, per il groviglio d'interessi che lega la Russia allo sviluppo capitalistico consumista che sta andando in rovina. Dei quattro giganti, dunque, la Russia appare il meno rilevante, nel senso di meno in grado di influenzare il comportamento degli altri, e piuttosto incline a farsi trascinare dai loro comportamenti. L'asso nella manica russa, che le permetterà di avere voce in capitolo, è la sua potenza nucleare. Dopo averne perduto il controllo nell'era Eltsin – che lo aveva consegnato, per timore di un ritorno del comunismo, nelle mani americane – oggi lo ha riacquistato e lo conserverà gelosamente nel corso di tutta la parentesi bipolare.

Ma questa carta non sarà giocabile, o lo sarà troppo tardi, quando il cambiamento di fase diventerà tumultuoso e incontrollabile. E, in quella fase, molte tecnologie avanzate diverranno probabilmente più vulnerabili di quanto siano mai state. Piuttosto sorgenti di pericolo che di sicurezza.

L'Europa, infine. Essa si trova in preda a una crisi senza precedenti, che è diretta conseguenza del “contagio” di Wall Street. Nel senso che, avendo l'Europa scelto senza equivoci il modello finanziario ultra-liberista statunitense, accodandosi al vagone britannico del treno di Washington, è oggi costretta non solo a sostenere tutte le operazioni di salvataggio della macchina imperiale, ma a pagarne le maggiori conseguenze.

La serie di attacchi speculativi organizzati dal “consenso washingtoniano” sta minacciando, in rapida successione, dopo la Grecia, una serie di paesi che stanno perdendo sovranità a vantaggio dei centri mondiali della finanza occidentale, tutti imperniati sul dollaro. La sovranità di Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, e poi Italia e via via tutti gli altri, significa perdita ulteriore della stessa sovranità europea.

Il modello americano, per altro, mostra crepe talmente evidenti che nemmeno il mainstream, interamente impegnato, con il suo enorme esercito di propagandisti, a nascondere l'evidenza, riesce a nascondere alle opinioni pubbliche europee il disastro incombente. La Banca Centrale Europea, invece di affrontare di petto la crisi della finanza mondiale, assumendo una strategia autonoma e differente rispetto a quella di Wall Street, stabilendo nuove regole, che avrebbero costretto Washington a venire a patti non solo con l'Europa, ma con la Cina, il Giappone, il Brasile, l'India, si è collocata nel suolo di servizio della strategia volta a salvare il dollaro dal tracollo, e l'America (insieme alla Gran Bretagna) dalla bancarotta.

Probabilmente, con i gruppi dirigenti europei che si ritrova, l'Europa non poteva fare diversamente. Ma il fatto è ora che la crisi dell'America è divenuta la crisi dell'intero Occidente.

E, mentre in America, maturano e s'incattiviscono gli spiriti selvaggi di un capitalismo al tempo stesso di rapina e di autarchia (ormai entrambi impossibili da realizzare), che producono uno spostamento a destra dell'asse politico interno, in Europa si assiste alle prime avvisaglie di una rottura del patto sociale che aveva tenuto assieme le società europee.

Un patto sociale che, con il welfare europeo spalmato, nel periodo delle vacche grasse, su vasti strati di ceti intermedi, aveva garantito all'Europa istituzioni stabili e circondate da un relativo consenso. Adesso l'opinione pubblica, abituata al modello del welfare, lontanissimo da quello americano, si vede precipitata all'indietro nel suo tenore di vita, mentre strati intermedi sempre più vasti scendono lungo la scala sociale perdendo redditi, benefici, benessere. Questa Europa risulta indebolita economicamente e politicamente in modo che potrebbe rivelarsi irrimediabile. Avrebbe le dimensioni di scala per esercitare una influenza positiva sui processi in corso. Ha il vantaggio di non essere armata strategicamente e, quindi, di non costituire minaccia. Potrebbe svolgere appieno un ruolo mediatore prima che il cambiamento di fase assuma ritmi travolgenti. Ma tutto ciò presuppone e implica una sovranità europea che rovesci il rapporto di sudditanza verso gli Stati Uniti.

Di una tale sovranità si sono perse le tracce. E questo è uno dei motivi per cui oltre la metà dei cittadini europei non va a votare per le istituzioni europee: segno preoccupante di uno scollamento democratico profondo e di una sfiducia crescente dei cittadini di uno Stato in formazione verso le classi dirigenti che non sanno guidarlo.

In sintesi: dei quattro rematori principali, al momento attuale, uno soltanto rema, mentre gli altri tre si limitano ad annaspare. Che la barca, rappresentata dal nostro pianeta, possa rifugiarsi in un porto sicuro, sono davvero in pochi a credere. Per lo meno tra coloro che hanno il quadro reale della situazione davanti agli occhi.

La grande massa dei popoli non sa quasi nulla di ciò che accade. Non lo sa perché il mainstream è stato costruito proprio per nascondere i tratti cruciali del disastro. E questo impedisce una difesa dal basso di coloro che hanno tutto da perdere, essendo in catene.

Resta, ormai visibile, una grande inquietudine. È su questa, e su una battaglia nuova, inedita, per far giungere la descrizione vera di ciò che è accaduto e accade, agli occhi (letteralmente, proprio agli occhi) delle grandi masse, che si deve fare leva. Sapendo che tutto ciò che di positivo potremo fare, dovunque ci troviamo, sotto ogni latitudine e longitudine, dovrà accadere durante la parentesi bipolare. Un nuovo impero, se ve ne sarà uno, avrà un volto che sarà difficile guardare.

*Questo articolo fa parte del numero di «AntimafiaDuemila» disponibile nelle edicole della Sicilia e nelle librerie a partire dal 20 dicembre e nelle settimane succesive

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