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Il lavoro autonomo e il sindacato: una svolta ?

di  Sergio Bologna

È appena stata pubblicata una “Guida” della Cgil su cui è importante riflettere, si tratta di: In-flessibili. Guida pratica della CGIL per la contrattazione collettiva inclusiva e per la tutela individuale del lavoro. Prefazione di Elena Lattuada e Fabrizio Solari, con testi di Davide Imola, Cristian Perniciano, Rosangela Lapadula, Marilisa Monaco, Ediesse, Roma 2013, pp. 195, € 13,00.

Ad esempio i candidati del PD, di SEL, di Rivoluzione civile, per limitarsi a coloro che stanno presentadosi alle elezioni proponendosi come rappresentanza politica dei lavoratori, hanno letto questo libretto? Se non lo hanno ancora fatto, lo facciano. Diranno, sul problema drammatico dell’occupazione e dei diritti di chi lavora, qualcosa di meno generico di quanto i più volonterosi tra di loro vanno dicendo in queste settimane pre-elettorali.

Ma dovrebbero leggerlo anche i lavoratori con contratti “atipici” e i lavoratori autonomi con partita Iva, perché il testo lascia intravedere, a mio avviso, la possibilità di una svolta molto importante nella storia della CGIL o, meglio, la esplicita, perché il cambiamento in questi anni c’è stato ma era sotterraneo, non ancora legittimato dai vertici, e dunque non effettivo. Ora, che questo libretto, concepito come manuale per la “contrattazione inclusiva” ad uso dei quadri intermedi del sindacato, delle RSU e dei delegati, sia presentato da due segretari nazionali, dimostra che ci troviamo di fronte a una possibile inversione di rotta di cui la Direzione CGIL è ben consapevole.

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Le bugie dell'Ilva e la realtà dei fatti

di Girolamo De Michele

Prima di leggere questo intervento, ascoltate le parole di questo medico, Giuseppe Merico, nella puntata del 1 dicembre 2012 di Ambiente Italia (RAI3) [qui: l'intervista comincia al minuto 01:40]: parla di diossina nel latte materno, di bambini a cui viene diagnosticato un tumore – della diagnosi di un tumore alla prostata a un neonato di 3 giorni. È un'intervista rilasciata nei giorni della presentazione del decreto salva-Ilva (dl 3 dicembre 2012 n. 207 convertito in legge 24 dicembre 2012 n. 231), la legge ad aziendam che consente all'Ilva di continuare le proprie attività, e sulla quale pende il giudizio della Corte Costituzionale dopo il ricorso del Tribunale di Taranto. Con le parole di Adriano Sansa, ex sindaco di Genova e attuale presidente del Tribunale dei minori del capoluogo ligure (sempre nella stessa puntata di Ambiente Italia, al minuto 14:40):

«Noi stiamo accettando collettivamente l'alta probabilità (in diritto si chiama "dolo eventuale") che alcune persone - non ne conosciamo i volti ma sappiamo che esistono, a Taranto, adesso, adulti e bambini - si ammaleranno e moriranno per via di queste emissioni e dell'esenzione che viene autorizzata».


Questo è lo scenario su cui scorrono le notizie degli ultimi giorni, e in base al quale il governo oggi, martedì 21 gennaio, emanerà «un provvedimento che consenta di sbloccare la situazione».

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La lotta ai tempi dell’Ikea

Potere, organizzazione e solidarietà

Clash city workers

Un’analisi a partire dalla lotta all’Ikea che, lungi dall’essere terminata, ha però il merito di averci già fornito un bagaglio enorme e indispensabile di esperienze e spunti di riflessione. Nei paragrafi che seguono, non ci soffermeremo sulle fasi della lotta che è ancora aperta e in aggiornamento (qui potete trovare una ricostruzione tappa per tappa): proveremo a dare un contributo che metta in risalto quelle che consideriamo alcune tendenze dello sviluppo del capitalismo in Italia e gli elementi della lotta interessanti e potenzialmente riproducili nel tempo e nello spazio.

Se vai con la bandiera a fare uno sciopero tradizionale o sali sul tetto puoi stare lì anche tutta la vita, non cambierà niente.
Basta con lo sciopero della fame o cose del genere, perché la fame la deve fare il padrone!
A noi basta già la sofferenza che viviamo tutti i giorni sul posto di lavoro.

Mohamed, operaio alla TNT di Piacenza

Oggi, per molti, guardare ai movimenti sociali e politici in Italia significa andare incontro allo sconforto. Tranne qualche eccezione, sebbene importante, sembra proprio che non siamo all’altezza dello scontro in atto. 
Malgrado ciò, le lotte sui posti di lavoro non sono finite. Anzi, in apparenza paradossalmente, si moltiplicano. Con casi molto rilevanti, almeno in astratto, perché molto dipende da cosa siamo capaci di leggere noi all’interno di quei processi.


Prendiamo la mobilitazione degli operai delle cooperative in appalto presso il deposito IKEA di Piacenza: la si può considerare come una ‘semplice’ vertenza sindacale.

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Doina fila e Berta non va in pensione

Come il made in Italy gioca di prestigio con gli operai

di Devi Sacchetto

La storia è analoga a molte altre e non ha meritato più di due colonne nella cronaca locale. Diversamente da quanto pensano i pigri e talvolta prezzolati giornalisti, però, per noi questa storia consente di gettare uno sguardo profondo sui processi di globalizzazione. Una fabbrica con un marchio storico, una multinazionale che la acquista per quattro denari e che dopo aver tirato il collo a lavoratrici e lavoratori la chiude, mantenendo il marchio. Le cause, ripetute come un mantra, sono i costi della manodopera e della materia prima, ritenuti eccessivi. Peccato che la stessa multinazionale, ventidue giorni prima di chiudere in Italia, abbia inaugurato uno stabilimento in Romania. D’altra parte, per continuare a produrre «made in Italy» non serve molto: due operazioni di qualsiasi tipo svolte in Italia, come ad esempio spazzolare e imbustare il prodotto, e lo sporco lavoro rumeno sparisce lasciando il posto alla bellezza del lavoro ben fatto, italiano. Il made in Italy nasconde procedure di valorizzazione che funzionano solo perché si attraversano i confini, mentre come vedremo le fabbriche diventano uno degli snodi di produzione della precarietà e una lente privilegiata per cogliere le trasformazioni complessive del sindacato. La produzione globale gioca di prestigio con gli operai: li fa sparire da una parte per farli comparire in un’altra con salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori. La produzione di precarietà ha bisogno di confini da varcare in continuazione affinché il gioco di prestigio sia redditizio. Quelli che restano da questa parte del confine hanno il problema di organizzare una precarietà sempre più spesso priva di salario, mentre dall’altra parte il salario è la misura stessa della precarietà. E presto o tardi ci si accorge che questo confine non separa degli Stati, ma stabilisce una posizione rispetto al salario che si ripete in ogni paese, indifferente alle frontiere.

La multinazionale è però tutta italiana e ha i piedi ben piantati in piazzetta Cuccia, dove si trova la (ex?) sede del potere economico e finanziario di questo paese, Mediobanca.

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La crisi del lavoro

di Rinaldo Gianola

La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell’intera economia mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente anche l’Italia. La nostra economia è stata travolta da una profonda recessione che, alimentata inizialmente da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va come era successo in passato, ma una bufera continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione.

Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent’anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare nuovi predicatori, aitanti sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero,  “scoprono” nei debiti sovrani, nell’insufficiente produttività del lavoro, nell’eccessiva protezione sociale garantita dai sistemi di Welfare, negli sprechi veri e presunti dello Stato o delle svariate “caste” le autentiche cause della caduta dell’economia, delle condizioni di vita di milioni di cittadini, dell’impoverimento di intere nazioni arrivate sulla soglia del fallimento.

A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano tristemente all’elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo tradizionali, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai assai poco affidabili,  riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice, innocuo, alla fine inutile esercizio.

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Lavoro e Stato

di Sandro Moiso

Le apparenti bonacce estive non hanno potuto nascondere la frattura che si va sempre più allargando tra la società che lavora (o che non lavora a causa dei tagli occupazionali e pensionistici) e il governo che la dovrebbe rappresentare.

Proprio con i fatti di Taranto e le perentorie affermazioni dei rappresentanti del Governo Terminator che li hanno accompagnati e il conflitto aperto dal Grande Vecchio con i magistrati inquirenti di Palermo sulle trattative Stato-mafia si è reso evidente che, mentre l’illegalità è sempre più di casa nei palazzi del potere, l’unica legalità oggi esistente è quella delle piazze che contestano, dalle valli del Piemonte al Mar Jonio, le scelte operate dai rappresentanti delle istituzioni.

Nonostante le illusioni di tranquillità economica e di ripresa possibile fatte brillare nel mese deputato alle vacanze, i motivi che stanno alla base delle proteste dei minatori del Sulcis, degli operai dell’Alcoa e le evidenti decisioni di chiusura degli stabilimenti italiani della FIAT hanno fatto, poi, altresì intendere che l’unico destino dei lavoratori italiani non può essere altro che quello delineato dal tragico bilancio delle vittime degli incendi degli stabilimenti tessili pakistani e russi o quello dello stress e dei suicidi degli operai cinesi che hanno la fortuna di lavorare negli stabilimenti dell’azienda creata dall’ormai canonizzato Steve Jobs.

In entrambi i casi, legalità delle piazze – illegalità dei palazzi e massacro delle condizioni di lavoro “per favorire gli investimenti”, la responsabilità dei governi in carica e dello Stato nelle sue funzioni è evidente.

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Taranto nel Mar grande delle contraddizioni globali di classe

di Davide Cobbe, Devi Sacchetto, Luca Cobbe

In modo intermittente, cioè in maniera molto diversa rispetto al passato, gli operai italiani ritornano costantemente al centro dello scontro politico di questo paese. Qualche anno fa quelli di Pomigliano e Mirafiori sono stati accusati di mettere a rischio i 20 miliardi di euro di investimenti promessi dalla Fiat e poi mai visti. Corrado Clini, che già si era allenato con gli operai di Porto Marghera, nella sua boutade agostana l’ha sparata ancora più grossa: gli operai dell’Ilva che chiedono ambienti salubri sono i responsabili della fuga degli investitori stranieri. Se nel caso della Fiat, qualche sindacato (la Fiom-Cgil e i Cobas) aveva provato a ridicolizzare Sergio Marchionne, nel caso di Clini il silenzio è piuttosto assordante. D’altra parte le forze politiche governative di ieri e di oggi amplificano il rimbombo, ammonendo che è in gioco niente meno che il futuro dell’Italia industriale. Emilio Riva d’altra parte non è un padrone qualsiasi e i verbali delle intercettazioni dipingono un quadro piuttosto articolato di persone coinvolte direttamente e indirettamente nella gestione ambientale e sanitaria. A quanto pare il buon padrone organizza la produzione, ma anche l’inquinamento e i sistemi destinati a nasconderlo. Vedremo quante notti carabinieri e custodi giudiziari passeranno a registrare che il flusso produttivo continua indisturbato. Intanto è piuttosto chiaro che tra Marchionne e Riva l’Italia industriale ne esce piuttosto male: quando non è sfruttata a pezzi sotto il marchio Chrysler, è sporca da fare schifo.

Forse per difendere tutto questo, Taranto sta diventando il crocevia di strategie sindacali, padronali e politiche. Qui ricadono le contraddizioni e i conflitti che da tempo attraversano la società italiana.

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Contraddizioni sull'Ilva e non solo

di Antiper

Qualche giorno fa il GIP Patrizia Todisco ha disposto il fermo di 6 impianti “a caldo” dell'Ilva di Taranto ipotizzando il rischio di un “disastro ambientale” consapevolmente prodotto “per la logica del profitto”

“Non vi sono dubbi sul fatto che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti...”

“... La piena consapevolezza della loro attività avvelenatrice non può non ricomprendere anche la piena consapevolezza che le aree che subivano l’attività emissiva erano utilizzate quale pascolo di animali da parte di numerose aziende agricole dedite all’allevamento ovi-caprino...”

“... Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull'uomo non potevano dirsi sconosciuti...”

“... Non vi è dubbio che gli indagati, adottando strumenti insufficienti nell’evidente intento di contenere il budget di spesa, hanno condizionato le conseguenze dell’attività produttiva per la popolazione mentre soluzioni tempestive e corrette secondo la migliore tecnologia avrebbero sicuramente scongiurato il degrado di interi quartieri della città di Taranto...”

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Morire di fame o morire di tumore… this is the question

Teniamoci la fabbrica, tenetevi i padroni

di Militant

Perdere il lavoro, per quanto di merda. Perdere la casa e regalarla alla banca con cui hai acceso il mutuo. Perdere la possibilità di immaginare un futuro per te e la tua famiglia in una regione in cui questa parola ha sempre avuto poco senso. Insomma, morire di fame, adesso. Oppure morire di tumore fra qualche anno. E’ questo il dubbio tutt’altro che amletico che ci pone la vicenda dell’Ilva di Taranto. Un dubbio che all’interno del quadro delle compatibilità capitalistiche non potrà essere sciolto. Sappiamo bene quanto questo ragionamento possa apparire astratto di fronte alla durezza del contingente, perchè con le idee non ci riempi il piatto. Almeno finchè non diventano forza materiale.  Avevamo pensato di dire la nostra sulla mobilitazione operaia di Taranto, una lotta con cui non possiamo che essere solidali, ma girando in rete abbiamo trovato questo post sul sito Operai Contro che ci pare estremamente efficace oltre che condivisibile, per cui ve lo riproponiamo.


CHE COSA SUCCEDE ALL’ILVA DI TARANTO?

Lo stabilimento siderurgico di Taranto è una bomba a cielo aperto. Lo è sempre stato, da oltre mezzo secolo, da quando negli anni ’50 polizia e carabinieri sgomberarono con la forza centinaia di contadini poveri dagli oliveti e mandorleti espropriati per fare posto alla tomba industriale di centinaia di operai e di proletari dei quartieri più vicini. Da allora la strage di vite umane, espressa in primo luogo come morti, malattie e infortuni fra gli operai, poi come morti e malattie fuori dello stabilimento, è stata pratica quotidiana in fabbrica e in città.

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utopiarossa2

Un'autocritica di Giorgio Cremaschi

di Michele Nobile e Gino Potrino

Riportiamo questa dichiarazione di Giorgio Cremaschi perché dice la verità. E la verità, per una volta tanto, viene detta da qualcuno che ha fatto parte integrante dell’apparato Cgil e Fiom. Ci piace anche il fatto che finalmente si senta una voce autocritica, anche se solo per i tempi più recenti (cioè per la speranza infondata che la revisione governativa e parlamentare del diritto del lavoro sarebbe stata fermata da un moto popolare). Per un’autocritica sul passato della Fiom/Cgil – per lo meno dal 1969 in poi - vale la pena di attendere ancora. Ma prima o poi bisognerà arrivarci.

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La costituzione esce dalle fabbriche

di Giorgio Cremaschi

Il 20 maggio 1970 veniva approvato lo statuto dei lavoratori. Allora si disse, usando una frase di Di Vittorio, che la Costituzione varcava finalmente i cancelli dei luoghi di lavoro.  Oggi ne esce, con la controriforma del lavoro suggellata dalle dichiarazioni tecnicamente reazionarie della ministra Fornero. Il lavoro non ha più diritti e non e' più un diritto, può solo essere il premio di chi vince la competizione selvaggia nel mercato e nella vita.

Di fronte a questa drammatica sconfitta sento prima di tutto il bisogno di scusarmi per la parte che ho in essa. Tempo fa avevo scritto e detto che di fronte all'attacco all'articolo 18 avremmo fatto le barricate. Pensavo ancora alla Cgil guidata da Cofferati dieci anni fa e alle rivolte dei sindacati e del popolo greco oggi. Non e' stato così, mi sono sbagliato, sono stato troppo ottimista. E ora subiamo la più dura sconfitta sindacale dal dopoguerra senza aver combattuto in maniera adeguata.

Colpa dei lavoratori impauriti e ricattati dalla disoccupazione e dalla precarietà? No, colpa dei dirigenti di quello che una volta definivamo movimento operaio ed in particolare di quelli della Cgil.

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furia dei cervelli

Lapsus, passi falsi e gaffes nella riforma del lavoro

Roberto Ciccarelli

Nella riforma del lavoro approvata ieri alla Camera, e nelle dichiarazioni del ministro Fornero che l'ha battezzata, emerge un piano impalpabile, addirittura psicoanalitico, di cose dette e poi negate, di pensieri inconfessabili eppur sospirati attraverso la produzione di "gaffe".


Psicoanalisi della Gaffe


Stiliamo una fenomenologia breve della "gaffe", abbozzando un'improvvisata psicoanalisi a partire dall'etimo della parola. Gaffe, apprendiamo, è balordaggine, sproposito, granchio, ma anche sbaglio, topica, equivoco, granchio, azione o espressione inopportuna, atto o parole che rivelino inesperienza o goffaggine. In francese significa afferare con il gancio o gaffa (lunga pertica con due rami, uno diretto e l'altro ricurvo che serve ad agganciare la barca). In italiano "gaffe" si dice anche "gaffa" e deriva dal longobardo "gairo", punta di giavellotto, o "gancio d'accosto".

Una lettura sintomale di questi atti mancati, pulsioni che girano a vuoto, che scambiano la verità per senso comune e la propria banalità per ragione incarnata, racconta meglio questo paese, e la mentalità di chi lo governa, di quanto non facciano i singoli provvedimenti contenuti nella riforma.

Il meccanismo è semplice: alla base c'è un'irrefrenabile coazione a dire la cosa più ovvia possibile ("il posto fisso non esiste più, scordatevelo) scambiandola per la realtà da affermare in una società che non vuole sentire ragioni e pretende di restare ancorata al passato.

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Lavoro: l’ora della verità

Piergiovanni Alleva

I.     Con l’approvazione del disegno Fornero di riforma del mercato del lavoro, è giunto per tutti – partiti, sindacati, operatori giuridici, sociali e culturali e per lo stesso Governo – il momento della verità.

Infatti, con il sostanziale svuotamento dell’art.18 St., si chiude una parabola che ha abbracciato quattro decenni all’insegna della garanzia della dignità del lavoro.

Con l’art.18 prevedente, in caso di licenziamento arbitrario, la reintegra nel posto di lavoro, il lavoratore poteva esercitare con tranquillità, durante il rapporto, tutti i suoi diritti, legali e contrattuali, perché la legge imponeva al datore di giustificare lui, a pena di annullamento, l’eventuale licenziamento che volesse intimargli, indipendentemente dalla possibilità del lavoratore di dare la difficilissima prova di una volontà di rappresaglia contro l’esercizio di quei diritti.

Ora l’art.18 come norma antiricatto è nella sostanza venuta meno e quindi si realizza il disegno di parte datoriale di poter contare su uno strumento sicuro di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento, giustificato o meno.

Questo è il cuore del problema, che ormai conoscono tutti.

In primo luogo il Governo, che, dopo aver messo alla disperazione decine di migliaia di persone con la manomissione del sistema pensionistico, completa ora il lavoro sporco affidatogli a tempo dai ceti dominanti.

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Il potere rimosso di un diritto di cittadinanza*

Luigi Cavallaro

La modifica dello Statuto del lavoratori è proposta per legittimare un mutamento dei rapporti di forza a favore delle grandi imprese

La tesi argomentata in questo libro si può dividere in quattro punti. Primo, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro trasforma il diritto al lavoro da diritto civile dei contratti in diritto sociale di cittadinanza. Secondo, una volta inteso come diritto sociale di cittadinanza, il diritto al lavoro sta e cade insieme alla possibilità che la classe lavoratrice riesca ad esprimere un qualche potere politico sui mezzi di produzione che le si contrappongono in forma di capitale. Terzo, un simile potere si dà effettivamente nella misura in cui il processo capitalistico viene assoggettato - quanto a organizzazione dell'input e composizione, quantità e qualità dell'output - ad una politica economica generale, il cui significato complessivo dev'essere la riduzione dell'incertezza che domina, invece, ogni forma di intrapresa privata. Quarto, la riduzione dell'incertezza implica, su un piano macroeconomico, che i pubblici poteri si facciano «garanti» degli sbocchi attraverso opportune politiche di sostegno della domanda e, su un piano microeconomico, che adottino una legislazione sostanziale e processuale idonea a garantire i diritti di proprietà.



Un potere da conquistare


La tesi abbisogna di una precisazione e mette capo ad un'implicazione.

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Piccola Guida alla controriforma del Mercato del Lavoro

di Laboratorio Baracca

“I cinesi hanno detto chiaramente che la rigidità del nostro mercato del lavoro è uno dei fattori che finora li ha disincentivati dall’investire in Italia”
Mario Monti, 31/03/2012

A contare, nel “vecchio” articolo 18, non sono stati gli effetti visibili; a contare sono stati quelli che non si sono potuti vedere.”
Franco De Benedetti, 23/03/2012

Crescita di cosa..?Un’introduzione critica

Il disegno di legge di “Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” porta ancor più indietro nel tempo la legislazione sul lavoro, retrodatandola agli anni precedenti le conquiste dei diritti collettivi degli anni ’70. Chiariamo subito: niente di particolarmente nuovo dopo decenni che hanno visto, tra gli altri, il pacchetto Treu (che istituì le agenzie interinali), la legge Biagi (che legalizzò la precarietà) e altre misure che avrebbero dovuto rendere “più efficiente un mercato del lavoro ingessato”, freno di una crescita che non si è poi mai presentata. Si tratta quindi di un ennesimo, ma questa volta particolarmente significativo, passaggio verso quel “dopo Cristo” auspicato da Marchionne – il 1800 dopo Cristo in cui vigevano analoghe condizioni di lavoro.

Per questo motivo ci si riferirà al DdL in termini di “Controriforma”. (Scarica il documento in pdf

La Controriforma esprime già nel titolo il suo scopo apparente: riportare la “crescita del Paese” (parole della Ministro Fornero).

Fa parte delle riforme strutturali richieste dall’Europa, quelle “necessarie” che non avremmo fatto in questi anni vissuti “al di sopra delle nostre possibilità”, illudendoci di avere qualcosa di più che una bettola in affitto, cibo scadente o una striminzita pensione – e che ora ci costringono, tutti indistintamente, a sacrifici.

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Togliere ai padri senza dare ai figli

Cosa c’è per i precari dentro la riforma del lavoro

Claudia Pratelli

Abbiamo seguito il plasmarsi della riforma del lavoro con un’attenzione che a tratti si è fatta ansia. L’abbiamo rincorsa dietro alle dichiarazioni (tutte altisonanti) dei Ministri del Governo e interpretata da documenti che erano  prima “linee guida”, poi un “documento di policy” approvato dal Consiglio dei Ministri, ma mai testi definitivi. Le dichiarazioni promettevano meraviglie e svolte epocali. I testi circolati le smentivano.

L’attesa di un testo di legge, dunque, non era pignoleria: serviva per capire cosa questa riforma prevedesse davvero soprattutto per coloro in nome dei quali è stata sbandierata. Per i giovani e per i precari.

Proprio in nome della nostra generazione, infatti, è stato attaccato l’articolo 18, sono state abbassate le pensioni, è stato messo a dieta il sistema degli ammortizzatori sociali. “E’ la crisi, baby” ci hanno spiegato i teorici dello scambio “Bisogna togliere ai padri per dare ai figli”. Mentivano per almeno due ragioni.  La prima è sempre stata chiara: i diritti non sono una quantità data, un kg di pane da ripartire tra gli affamati. Quanti ne vogliamo e come li vogliamo? Non c’è scienza economica che ce lo possa prescrivere. Sono scelte, scelte politiche. Checchè ne dicano i tecnici, la troika e tutto il cucuzzaro. Difficile non vedere, poi, che la logica dello scambio è una trappola, soprattutto  quando riguarda la platea dei più fragili e costruisce artificiose contrapposizioni tra ultimi e penultimi, padri e figli, giovani e anziani, senza intaccare le rendite di posizioni, i grandi capitali, chi ha accresciuto i propri profitti. La seconda ragione è divenuta evidente con il testo definitivo del DdL: lo scambio (anche qualora avesse  un senso) è truccato. Hanno tolto ai padri, ma non hanno dato ai figli.

Adesso il testo c’è ed è definitivo. Ma non ci siamo.

Letteralmente. Noi - giovani e precari- non ci siamo: non ci sono risposte né ai nostri bisogni, né ai nostri desideri, verso i quali questo Paese ha contratto il debito più pesante. Sull’impianto generale della riforma, su cosa fa e non fa per i precari, su cosa è inefficace e cosa dannoso valgono le considerazioni svolte qui, con qualche significativo peggioramento. Ricapitoliamo.

1. Non sono state ridotte le tipologie contrattuali precarie.