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Platform capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali

Tra sussunzione di soggettività e forme emergenti di cooperazione sociale. Riflessioni introduttive

Emiliana Armano e Annalisa Murgia

Nell’intento di continuare ad approfondire le modalità di accumulazione del capitalismo di piattaforma e soprattutto le nuove configurazioni del lavoro sottese a tale contesto, proponiamo la lettura dell’ottima introduzione di Emiliana Armano e Annalisa Murgia al libro da loro curato insieme a Maurizio Teli: Platform capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, appena uscito per Mimesis/Eterotopie.*

close look nam june paik 900x450 cQuesto testo si inserisce in un percorso di ricerca e di costruzione di spazi di analisi collettiva iniziato nel 2010 con il lancio del progetto Mappe della precarietà e proseguito nel corso degli anni intorno al tema della soggettività precaria, affrontata in differenti contesti, quali ad esempio gli spazi urbani in connessione all’emergere di nuove forme di lavoro gratuito1. All’interno di questo volume la prospettiva che adottiamo aggiunge un nuovo tassello e cerca di ampliare il nostro quadro interpretativo, tuttora in costruzione, ponendosi l’obiettivo di esplorare la soggettività non tanto - o quantomeno non solo - in relazione ai processi di precarizzazione, ma di discuterne le più ampie e intricate connessioni con il cosiddetto capitalismo delle reti. L’obiettivo di questo lavoro collettaneo è infatti quello di fornire alcuni elementi di conoscenza critica sulla costruzione sociale dei nuovi confini tra lavoro e attività che emergono nella produzione di valore negli spazi digitali2. Con la locuzione ‘spazi digitali’ ci riferiamo alla metafora interpretativa delle relazioni sociali mediate dalle tecnologie digitali di rete - l’esempio contemporaneo principale è quello dei social media - intese come spazio relazionale oltre che tecnologico.La storia di questa metafora spaziale aiuta a inquadrare la problematica di ricerca che il volume si pone: se negli anni ‘90 proliferavano documenti dai toni entusiastici - quali la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio3 - caratterizzati dai tratti libertari della californian ideology4, oggi la metafora che sembra meglio descrivere le grandi piattaforme social e tecnologiche è significativamente mutata fino ad assumere le sembianze dei walled garden5, vale a dire di un insieme di spazi chiusi nei quali accesso e circolazione dei contenuti sono controllati.

Tale trasformazione ci mostra come gli immaginari costruiti socialmente intorno alla rete siano passati da un orizzonte tecno-utopico di esplorazione, allargamento delle conoscenze e apertura, tipico degli anni ‘90 - quello degli incantati dalla rete - all’immaginario attuale, di segno opposto, fatto di inclusione selettiva e precarizzazione diffusa, che caratterizza il secondo decennio degli anni 2000, attraversato da una profonda crisi economica, dal ripiegamento dei desideri e da sentimenti di paura. In questa nuova cornice interpretativa, i confini del lavoro - e le pratiche sociali che lo caratterizzano - vengono radicalmente ridefiniti. Nascono forme di new enclosures - spazi recintati, per l’appunto - che si fondano sull’espropriazione di beni pubblici o comuni e sulla valorizzazione di attività gratuite o volontarie. Da un lato, quindi, viene messa in atto una mercificazione di testi, composizioni e immagini che sono presenti nella rete e di uso comune, dall’altro vengono messe a valore le interazioni sociali e le esperienze condivise in rete, in una logica che ricalca il diffondersi del lavoro volontario e non retribuito.

L’età dell’oro delle tecnologie digitali come macchina di emancipazione sembra dunque essersi esaurita. Nonostante ciò, tra chi con le tecnologie lavora, le produce, le osserva o vi è semplicemente immerso, c’è chi continua a essere impegnato in tentativi di trasformazione sociale che fanno leva sulle possibilità di organizzazione collaborativa di importanti ambiti dei processi economici. Questi tentativi non solo mettono in discussione i confini tra lavoro, opera e attività, per come sono stati finora intesi, così come il valore che viene loro attribuito, ma si estendono fino a toccare istituzioni che apparivano intoccabili, come la moneta o la finanza.

Il quadro interpretativo proposto in questo volume cerca di affrontare una serie di questioni centrali: Quali fenomeni globali sottendono i mutamenti degli spazi digitali? E come si sono trasformate le soggettività che li attraversano? Che forme assume il lavoro nel cosiddetto platform capitalism e - soprattutto - che forme di resistenza e di ripensamento sociale hanno luogo o sono possibili nelle piattaforme e più in generale negli spazi digitali?

Prima di introdurre i singoli contributi che compongono il volume, cerchiamo di tematizzare le principali questioni che sono state affrontate da autori e autrici, i quali provengono da prospettive e talvolta da mondi differenti.

Un primo elemento su cui vogliamo focalizzare l’attenzione ha a che fare con la mutazione della rete, che non solo ha reso evidente il lato oscuro del web, ma che - con il suo progressivo affinarsi e ingigantirsi di scala - è divenuta onnipervasiva, soprattutto perché governata da anonimi quanto inaccessibili algoritmi, intenti a selezionare informazioni, così come persone, secondo criteri di mercato. Ciò a cui si assiste è un processo di concentrazione e industrializzazione delle infrastrutture informatiche, in cui il cloud computing6 si trasforma in una sorta di piattaforma attiva su scala globale, per gestire sia persone - intese come risorse umane - sia i servizi più diversi7. Il flusso gigantesco di dati che ogni giorno attraversa globalmente la rete8 è infatti utilizzato dalle grandi corporations che operano nel web, che attraverso i processi di profilazione degli utenti e di data mining9 riescono facilmente a compiere una raccolta sistematica e cumulativa di dati10. Ciò dà luogo alla costruzione di un ambiente infrastrutturale che è al contempo un bacino di audience per la vendita di spazi pubblicitari digitali e che diviene il cuore dell’appropriazione e della messa a valore del lavoro inconsapevole svolto in rete, messo in atto attraverso la semplice presenza online degli utenti e il flusso spontaneo di scambi e interazioni. Da questo punto di vista l’interazione umana, come recentemente messo in luce da Andrea Fumagalli11, ‘è socializzata con la rete informazionale e digitale che sempre più avvolge l’attività di produzione e accumulazione’. Siamo dunque di fronte a dispositivi di neorendita digitale12 e di sorveglianza13 - mediati da algoritmi14 e big data15 - che costituiscono la trama sofisticata per la produzione e/o l’appropriazione di valore. Prendendo le mosse dal dibattito intorno a tali fenomeni, i contributi raccolti in questo volume vogliono contribuire alla discussione critica intorno al lavoro gratuito e al modo in cui il free work16 - nella sua duplice accezione di gratuito e libero - si caratterizza per l’indistinzione, dentro la rete, tra forme di lavoro emergente, attività, opera e socialità. Due sono infatti le facce del lavoro gratuito contemporaneo in rete: da un lato basato sull’informalità, sui desideri di condivisione, sulla confusione tra tempo libero e tempo di lavoro, sull’indistinguibilità tra rapporti personali, vita sociale e lavoro, dall’altro equivalente ad attività poco e talvolta per nulla retribuite, ma invasive delle vite e delle identità delle persone, sino a divenire totalizzanti17. L’accento dei capitoli è dunque non tanto sulla rete come macchina cibernetica, ma sulla logica della connessione/disconnessione e sulle ambivalenze della connettività e della soggettività come aspetti che caratterizzano strutturalmente le relazioni nel platform capitalism19. Le relazioni mediate dalla rete - e in particolare dai dispositivi mobili e dai social network - sono in quest’ottica collocabili in uno spazio che non è né pubblico né privato. La vita sociale e il lavoro vengono riterritorializzati nello spazio intermedio della connettività, e anche la tradizionale concezione spazio-temporale della geografia politica, così come i modelli di acquisizione della conoscenza, vengono riconfigurati nella socialità mediata. È così che l’esperienza della connettività always on - in ambienti quali i social network e le piattaforme digitali - disegna nuovi paradigmi di creazione condivisa della conoscenza, nuove appartenenze, ma anche inedite gerarchie sociali e con esse nuovi confini e ibridi politico-spaziali, oltre che culturali. Gli autori e le autrici che hanno preso parte alla discussione qui proposta si interrogano dunque su come la connettività si articola e soprattutto sulle complesse ambivalenze che la caratterizzano: da un lato l’essere connessi appare liberatorio e attrattivo e sembra fornire ulteriori gradi di autonomia ai soggetti, dando loro la possibilità di costruire relazioni al di là dei tradizionali vincoli di tempo e di spazio; dall’altro, è proprio la connettività ubiquitaria, la possibilità potenziale di ‘esserci sempre’, a comportare l’indistinzione tra tempo di vita e di lavoro, l’indistinguibilità tra spazio della casa e luogo di lavoro, tra relazioni personali e rapporti professionali, inglobando una forma di controllo, differente e più intensa, sia sul lavoro che sulla vita privata. Il tempo dalla connettività appare infatti introiettato e svincolato dal controllo formale esterno, ma ciò fa sì che diventi sempre più esteso, indefinito e dilatabile all’inverosimile in tutti i tempi e gli spazi attraversati dai soggetti20. Nella trama della connettività, sono in particolare i confini del lavoro a diventare incerti e problematici. Il punto è che se pensiamo al lavoro in maniera novecentesca, cioè a un’attività alla quale corrisponde una remunerazione e un contratto, rischiamo di non cogliere il mutamento e credere che con il digitale poco sia cambiato. Ma se pensiamo al lavoro come un’attività capace di attivare processi di valorizzazione capitalistica, in qualsiasi luogo e forma si diano, allora appare chiaro quanto il lavoro all’interno delle reti digitali vada ampliandosi in maniera sterminata, inglobando in sé anche attività e dimensioni della socialità che per i singoli sono solo produttive di senso e non di valore. L’analisi di tali processi consente peraltro di cogliere appieno fin dove si spingono le nuove frontiere della sussunzione dell’attività al capitale, sempre più capace di catturare l’eccedere del lavoro al di fuori della salarietà. Si tratta, in altri termini, di mettere a fuoco la formazione della soggettività che l’utopia neoliberista vorrebbe fabbricare21, un’umanità ‘imprenditrice di se stessa, flessibile, disposta ad accettare stipendi miserabili, scarsamente incline al conflitto, sottoponibile a controlli a distanza che ne misurino produttività e fedeltà’22.

Il modello organizzativo sotteso all’impresa on demand o gig economy23, è quello del lavoro ‘freelancizzato’ su scala digitale, con la messa al lavoro della folla24, la flessibilità massima dispiegata grazie alle tecnologie digitali e al trasferimento sul singolo del rischio che in passato era prevalentemente assunto dall’impresa25. Il soggetto viene dunque costruito come imprenditore di se stesso, apparentemente sceglie contenuti e orari di lavoro in quanto lavoratore autonomo, e però viene remunerato solo sulla base delle prestazioni e non gode di alcuna delle tutele tipiche del lavoro dipendente, quali la pensione, le ferie, la malattia, l’assicurazione infortuni o il diritto alla genitorialità. Questo tipo di attività freelance sconfinano dunque facilmente nel precariato più selvaggio, iperflessible e sfruttato, che consente alle imprese on-demand di ridurre i costi, flessibilizzare al massimo i volumi di produzione, mettere fuori mercato i concorrenti. La società fornisce la ‘piattaforma’ e la merce da vendere, definendo la tempistica e le modalità di lavoro, e accaparrandosi la maggior parte del ricavo. Ma è chi lavora a doversi fare carico del rischio e di mettere a disposizione le risorse e i mezzi per il lavoro: la casa, il cellulare, il tempo, il mezzo di trasporto, il proprio corpo. Il lavoro autonomo e tutte le sue problematiche inerenti la produzione di soggettività26 vengono così riposizionati in una trama di relazioni digitalizzate e connettività che contiene forme di sorveglianza e sfruttamento più raffinate, e quindi più difficili da riconoscere e da evitare. La soggettività al lavoro viene oggi fabbricata dall’immaginario e dalla retorica aziendale dell’essere free di queste forme di lavoro, che non cessano di diffondersi negli spazi digitali. Tuttavia la realtà esperita mostra che in questi lavori è strutturalmente prevista pochissima autonomia organizzativa; ogni singolo può rapportarsi con l’azienda, con i propri pari e con i clienti prevalentemente tramite protocolli digitali stabiliti dalla piattaforma. Poche o nulle sono poi l’autonomia e la contrattualità che dovrebbero essere tipiche dei freelance; al contrario è l’azienda che decide come, quanto, quando e soprattutto se remunerare. L’algoritmo che governa la piattaforma è al centro dell’organizzazione del lavoro, permette all’impresa on demand di strutturare il rapporto di lavoro impersonalmente e individualmente. Il singolo, pur essendo di fatto un dipendente precario, viene privato del diritto di associazione e di negoziazione collettiva27 . Così, se ad esempio il profilo di chi lavora scompare da un momento all’altro dal network aziendale, che in questo caso è una piattaforma digitale, significa che l’impresa sta notificando il licenziamento senza bisogno di nessuna altra comunicazione. È la disconnessione al posto del licenziamento, l’algoritmo e la connettività che prendono il posto del boss. Nuove forme di predazione vengono infatti agite dagli anonimi algoritmi che stanno alla base delle apparentemente trasparenti piattaforme e dei loro indiscutibili dispositivi di misurazione della qualità del lavoro. A fronte di questi mutamenti del lavoro - ancora poco esplorati e ancor meno regolamentati in termini di diritto del lavoro - cominciano ad emergere alcune prime forme di resistenza, principalmente negli spazi urbani in cui tali forme di lavoro si sono maggiormente diffuse, dagli Stati Uniti all’Europa28. E anche in Italia assistiamo alle prime mobilitazioni29, in cui uno degli aspetti maggiormente interessanti è la richiesta di riconoscimento e di diritti tipici del lavoro dipendente, a evidenziare il mutamento della soggettività che in questo caso sembra aver smesso di rincorrere il mito della flessibilità e dell’indipendenza. Queste embrionali esperienze di lotta ci mostrano l’attualità e l’importanza della questione delle piattaforme digitali e ci suggeriscono di guardare con attenzione al dibattito sul platform cooperativism30, e alla possibilità di ribaltare la logica estrattiva delle piattaforme digitali creandone di capaci di rovesciare la logica della valorizzazione capitalistica attraverso un contro-uso delle piattaforme stesse31. La strategia di queste pratiche di sovvertimento mira alla riappropriazione democratica dei modelli di socialità attraverso la creazione di piattaforme per Internet32 capaci di produrre valore d’uso e messa in comune di conoscenza, cooperazione e relazioni non mercificate. È anche intorno a questo tipo di esperienze che si articolano i contributi che compongono questo progetto editoriale, che ha per l’appunto l’obiettivo di riflettere sui processi di digitalizzazione, sul lavoro gratuito nel platform capitalism, sulla formazione della soggettività e sulle pratiche emergenti di resistenza. Più nello specifico, il volume si articola su tre livelli di analisi in dialogo tra loro.

La prima parte - in cui troviamo i saggi di Ursula Huws e Trebor Scholtz, per la prima volta tradotti in italiano - contiene riflessioni di taglio teorico volte a restituire le coordinate generali del dibattito e la dimensione globale del fenomeno in analisi, discutendo sia delle catene produttive globali che sostengono l’esistenza degli spazi digitali, sia della relazione che intercorre tra questi. Al centro dell’analisi sono dunque i processi di valorizzazione nell’economia finanziarizzata, il ruolo delle piattaforme digitali e della sharing economy, e la possibilità di immaginare altre piattaforme digitali possibili, in alternativa a quelle esistenti.

Il secondo livello di analisi, con contributi incentrati su ricerche empiriche e casi studio di approfondimento, è orientato a interpretare le soggettività che emergono in relazione agli spazi digitali. Alessandro Delfanti e Johan Soderberg propongono una lettura della trasformazione della figura dell’hacker, chiave di volta delle narrazioni anarco-liberatarie collegate alle tecnologie digitali. Marco Briziarelli concentra invece l’attenzione sui social media contemporanei, analizzati attraverso le categorie del volontariato 2.0 e dell’etica neoliberale.

Infine, un terzo livello di analisi discute i tentativi emergenti di riorganizzazione del lavoro e dell’economia negli spazi digitali. Bertram Niessen riflette infatti sulle nuove forme di associazionismo e di impresa culturale a carattere cooperativo e innovativo, mentre Andrea Fumagalli invita a riflettere sulle trasformazioni possibili delle istituzioni cardine dell’economia capitalista, quali la moneta e la finanza.

Il quadro complessivo che emerge dai diversi contributi è certamente quello di un discorso e un immaginario sul lavoro in continua trasformazione, in cui le percezioni dei soggetti su quali siano i confini delle attività lavorative vengono costantemente ridefinite e (ri)messe in discussione. La sfida interpretativa non è dunque confinata all’analisi del lavoro negli spazi digitali, ma piuttosto a comprendere - nell’era del platform capitalism - come nuove forme di sfruttamento si stiano imponendo e come mettere in atto pratiche cooperative e ricompositive capaci di contrastarle.


“Un libro collettaneo che offre uno sguardo critico sui processi di produzione del valore mediati dalla digitalizzazione e come i suoi confini sono socialmente costruiti”. “Si può parlare infatti di walled garden, giardini recintati in cui l’accesso e circolazione di contenuti non sono affatto liberi, ma soggetti a molteplici e cangianti forme di controllo”.
Contributi al volume di Ursula Huws, Trebor Scholz, Alessandro Delfanti e Johan Söderberg, Marco Briziarelli, Bertram Niessen, Andrea Fumagalli. Note conclusive di Maurizio Teli
Ringraziamo i curatori e l’editore, Mimesis, per averci messo a disposizione questo testo.

Note
1 E. Armano, A. Murgia, Mappe della precarietà, voll. I e II. Odoya, Bologna 2012. - Le reti del lavoro gratuito, Ombre Corte, Verona 2016.
2 U. Huws, Labor in the Global Digital Economy: The Cybertariat Comes of Age, Monthly Review Press, New York 2014.
3 J.P. Barlow, Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio 1996, disponibile alla pagina: http://www.olografix.org/loris/open/manifesto_it.htm [Data di accesso: 18/11/2016].
4 R. Barbrook, A. Cameron, The Californian ideology, in «Science as Culture», vol. 26, n. 6, part 1, 1996, pp. 44-72.
5 P. Arora, The Leisure Commons: A Spatial History of Web 2.0. Studies in Sci-ence, Routledge, London 2014.
6 Con cloud computing si intendono una serie di tecnologie che permettono di elaborare, archiviare e memorizzare dati grazie all’utilizzo di risorse hardware e software distribuite nella rete.
7 F. Santelli, Ipadroni delle nuvole, La Repubblica, 1 novembre 2016, p. 27.
8 Secondo CISCO, il traffico di dati su scala globale è arrivato a 4 Zettabytes all’anno, pari alla memoria di 158 miliardi di smartphone.
9 Il data-mining è costituito da: ‘l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di un sapere o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati (attraverso metodi automatici o semi-automatici) e l’utilizzo scientifico, industriale o operativo di questo sapere’, https://it.wikipedia.org/ wiki/Data_mining.
10 S. Dulli, S. Furini, E. Peron, Data Mining, Springer Verlag, Roma-Berlino 2009.
11 A. Fumagalli, Platform capitalism, oltre la dicotomia uomo macchina, 2016, http://effimera.org/platform-capitalism-oltre-la-dicotomia-uomo-macchina-andrea-fumagalli// [Data di accesso: 18/11/2016].
12 J. Rigi, R. Prey, Value, Rent, and the Political Economy of Social, in «The Information Society », vol. 31, n. 5, 2015, pp. 392-406; R. Sciortino, S. Wright, The Spectacle of new media: addressing the conceptual nexus between user content and valorisation, Westminter University Press, forthcoming 2017.
13 W. Christl, S. Spiekermann, Networks of control, Facultas, Vienna 2016.
14 Al riguardo, cfr: T. Terranova, Free labor: Producing culture for the digital economy, in «Social text», vol. 18, n. 2, 2000: pp. 33-58; A. Goffey, Algo-rithm, in Fuller M. (a cura di), Software Studies: A Lexicon, The MIT Press, Cambridge 2008; B. Neilson, N. Rossiter, The Logistical City, Transit La-bour, in «Digest», n. 3, 2011, disponibile alla pagina: http://transitlabour.asia/ documentation [Data di accesso: 18/11/2016]; M. Fuller, A. Goffey, Algo-rithms, Evil Media, in «Choice Reviews Online», vol. 50, n. 9, 2013, pp. 69-82.
15 E. Morozov, Ipadroni del silicio, Codice Edizioni, Torino 2016.
16 C. Fuchs, Digital Labour and Karl Marx, Routledge, New York 2014; A. Beverungen, B. Otto, S. Spoelstra, K. Kenny, a cura di, Special Issue on Free Work, in «ephemera, theory & politics in organization», vol. 13, n. 1, 2013; E. Armano, F. Chicchi, E. Fisher, E. Risi, a cura di, Boundaries and measure-ments of emerging work: Gratuity, precariousness and processes of subjectiv-ity in the age of digital production, in «Sociologia del Lavoro», n. 133, 2014; A. Ross, ‘Lavorare per nulla’: l’ultimo dei settori produttivi ad alta crescita, 2014, disponibile alla pagina: http://commonware.org/index.php/ neetwork/502-lavorare-per-nulla.
17 L. Zambelli, A. Murgia, M. Teli, L’autorganizzazione del precariato e i media sociali: un contributo metodologico dal caso della Rete dei Redattori Preca-ri, in «Sociologia della Comunicazione», vol. 46, 2013, pp. 113-130.
18 A.M. Brighenti, a cura di, Special Issue Connected and people, in «Lo squaderno» n. 13, 2009; E. Armano, E. Risi, C. Mattiucci, a cura di, Special Issue Precariousness and spaces in digital society, in «Lo squaderno» n. 31, 2014.
19 N. Srnicek, Platform Capitalism, Polity, London 2017.
20 P. Virilio, La macchina che vede: l’automazione della percezione, SugarCo stampa, Milano 1989.
21 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi, Roma 2014.
22 C. Formenti, La variante populista, Derive Approdi, Roma 2016, p. 60.
23 Gig economy significa letteralmente ‘economia del lavoretto’. Per approfondimenti si veda: I. Maselli, K. Lenaerts, M. Beblavy, Five things we need to know about the on-demand economy, in «CEPS ESSAY», vol. 21, n. 8, 2016.
24 C. Ceruti, Lo sciopero in Foodora: uno squarcio sul presente, 2016, disponi-bile alla pagina: http://effimera.org/lo-sciopero-foodora-uno-squarcio-sul -presente -claudio -ceruti/
25 E. Armano, Precarietà e innovazione nel postfordismo, Odoya, Bologna 2010.
26 D. Banfi, S. Bologna, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano 2011.
27 27 G. Giovannelli, Riflessioni sul caso Foodora, 2016, disponibile alla pagina: http://effimera.org/tag/ gianni-giovannelli/
28 https://www.ft.com/content/88fdc58e-754f-11e6-b60a-de4532d5ea35.
29 https://stmgglesinitaly.wordpress.com/2016/10/30/foodora-strikes-in-italy-the-dark-side-of-the-sharing-economy/.
30 T. Scholz, Platform Cooperativism Challenging the Corporate Sharing Economy, 2016, disponibile alla pagina: http://platformcoop.net/about,
31 M. Bauwens, J. Lieven, Sauver le monde, Vers une société post-capitaliste avec lepeer-to-peer, Edition Le liens qui liberènt, Parigi 2015; N.D. Withe-ford, Cyber-Proletariat. Global Labour in the Digital Vortex, University of Chicago Press, Chicago 2015.
32 Si veda a tal proposito il progetto descritto al link http://platformcoop.net/ about, che contiene riflessioni sui possibili futuri passaggi che in questa direzione dovrebbero portare alla costruzione di un movimento costituente tutto da farsi. Quello che sembra evocare è la possibilità di forme di lavoro e at-tività che sfuggano a processi di espropriazione e mercificazione.

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