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Bozze per un'analisi della teoria dello Stato in Marx (breve risposta a Riccardo Dal Ferro)

di Bollettino Culturale

athusser098gh6Riflettere su un argomento così complesso come lo Stato in Marx comporta diversi tipi di problemi. Un primo problema è la vastità dell'opera di Marx, un altro la complessità del suo pensiero e l'erudizione delle sue esemplificazioni. Tuttavia, questi problemi possono diventare secondari o minori rispetto ad altri di dimensioni maggiori: cosa intendiamo cercare e trovare quando parliamo di "Stato in Marx"? Un problema teorico della massima importanza, poiché riguarda la definizione dell'oggetto da indagare.

Partendo da una prima approssimazione potremmo, ad esempio, dire: l'oggetto di questa indagine è il concetto di Stato che esiste nell'opera di K. Marx. Ma poi, poco dopo, ci imbattiamo in un problema: se c'è un “concetto” è chiaro che si tratta necessariamente di una teoria. Quindi l'"oggetto" della nostra ricerca non è semplice. È complesso e potrebbe essere una "cosa" diversa da come pensavamo che fosse. Appaiono una serie di domande sollevate anche da Riccardo Dal Ferro nella sua riflessione critica sul pensiero di Marx, a cui proverò a rispondere, e che grosso modo sono: esiste una teoria dello Stato in Marx? E se sì, di quale "tipo" di teoria stiamo parlando? Qual è il suo grado di sviluppo? Implica un "concetto" di Stato?

Le preoccupazioni per il problema dello Stato in Marx avevano forse raggiunto il loro culmine negli anni Sessanta con l'affermazione di Bobbio che non solo Marx non aveva elaborato una teoria dello Stato capitalista, ma non l'aveva nemmeno fatto in relazione al futuro Stato socialista, questo perché il suo interesse centrale era stato il problema del partito.

Più tardi, in un congresso tenuto a Venezia sullo Stato nelle società post-rivoluzionarie, Althusser affermò che in Marx (e ancora in Lenin) non c'era una vera teoria dello Stato.

Ciò ha scatenato una serie di polemiche molto ricche che, secondo la nostra comprensione, sono state messe da parte (probabilmente a causa di problemi più urgenti) tra i pochi teorici marxisti attuali che si occupano di Stato.

Queste affermazioni e le successive polemiche denotavano un problema: la scarsa chiarezza che la questione dello Stato aveva in Marx stesso o, per meglio dire, la differenza tra la forza delle sue analisi economiche nel Capitale e le attese ma mai concretizzate analisi sullo Stato.

Il problema dello Stato in Marx ha molti spigoli e, in senso stretto, si dovrebbe cominciare da tutti contemporaneamente, ma poiché ciò è impossibile, cominceremo facendo alcune "ipotesi provvisorie". Questi presupposti ci permetteranno di porre alcune domande che aiutano a spianare la strada. Un primo presupposto provvisorio che proponiamo è che in Marx esista una teoria dello Stato (non domandiamoci, per ora, se esista una vera teoria o di che tipo di teoria stiamo parlando).

Se diamo davvero per scontato che in Marx esista una teoria dello Stato, ciò che resta da chiedersi è di quale Stato esiste una teoria. E questa domanda, come vedremo, non è di poco conto.

Se l'affermazione di Bobbio, o anche l'affermazione di Althusser, significa che in Marx non c'è una teoria generale dello Stato, ciò non implica in alcun modo una critica, ma al contrario, indica coerenza. Cioè, dal punto di vista del marxismo, l'esistenza di una teoria generale "marxista" dello Stato è impossibile.

Per essere più chiari in questo aspetto nodale, segnaliamo che: "non può esserci una teoria generale dello Stato, contenente leggi generali che regolano le trasformazioni del suo oggetto attraverso i vari modi di produzione" (N.Poulantzas, “L' État, le pouvoir, le socialisme”, pagina 19). Potrebbe esserci solo la teoria di ogni Stato particolare in ogni modo di produzione.

Ci sono serie difficoltà nel definire l'oggetto di ciascuna di queste particolari teorie, poiché lo Stato non appare, fino all'emergere dello Stato capitalista, "relativamente" separato dai rapporti di produzione; in questo modo, nel marxismo, è possibile solo una teoria, nel senso forte del termine, dello Stato capitalista.

Ma chiariamo un po' di più cosa intendiamo quando affermiamo che una teoria marxista generale dello Stato non è possibile. Nella misura in cui lo spazio dello Stato e quello economico, così come i loro rapporti, sono presentati in modo diverso in ciascuno dei diversi modi di produzione, non può esserci un corpus teorico assoluto di un oggetto chiamato Stato che rimane invariabile, attraverso i vari modi di produzione. Questo non è solo, come dice Poulantzas, un formalismo teorico, ma anche un idealismo essenzialista che cerca di vedere nello Stato il proprio spirito o motore che determina le sue leggi di funzionamento al di là dei diversi modi in cui vengono presentati i rapporti sociali di produzione da cui è "relativamente" separato, ma che alla fine lo determinano.

È vero, tuttavia, che è possibile avanzare in "proposizioni teoriche generali riguardanti lo Stato". Ma avranno uno status inferiore a una vera teoria e serviranno solo nella stessa misura in cui, nel Capitale, sono utilizzate le nozioni generali della produzione.

Affermare che una "teoria generale dello Stato" è impossibile, in Marx, è anche un modo per riaffermare che il marxismo, o più precisamente il materialismo storico, non può essere una sociologia (nel caso dello Stato, una sociologia politica), né neppure un'economia, che analizza “separatamente” le leggi sociologiche della politica o quelle economiche. Ecco il formalismo teorico così tipico della nostra università.

Un'altra conclusione di ciò, non meno importante, è che se l'esistenza di una teoria generale dello Stato è impossibile, nella misura in cui non è separata dalle relazioni economiche che alla fine la determinano, sarebbe anche impossibile per-stabilire le fasi della transizione come mere fasi dello stesso oggetto. Assioma, questo, così comune a un certo marxismo dogmatico che cerca di affermare e programmare le fasi di quel passaggio, sapendo da dove parte ma anche dove finisce. Massima del pensiero teleologico: si conosce la vita terrena e, anche, ... il paradiso.

L'impossibilità di una teoria - come dice Balibar - di quella "aberrazione" che sarebbe uno Stato marxista o comunista, ancora una volta non implica una critica ma mostra invece un successo di Marx. La presa del potere statale da parte del proletariato consentirà, secondo Marx, la fase di transizione - "dittatura del proletariato" - dove inizierà il processo di abolizione delle classi e con esso l'estinzione di tutti i tipi di Stato, cioè la società comunista.

Tutte le sue polemiche con gli anarchici della Prima Internazionale e con i riformisti dopo, furono combattute su questa premessa. Qualsiasi opzione che rivendichi una sorta di "teoria di uno Stato comunista" sarebbe contraria a questa tesi. Tuttavia, è degno di nota che molte volte Marx dovette ricorrere, per ragioni politiche, alla nozione di "Stato comunista". Un chiaro esempio sono le sue dichiarazioni sul programma Gotha riguardo al confronto tra la falsa "democrazia" di natura borghese e la futura democrazia comunista. Ma queste nozioni non costituiscono in alcun modo una teoria e in ogni caso possono essere attribuite a carenze di traduzione o, al massimo, a errori teorici, tipici di una scienza all’"inizio", che non incidono sul senso del problema generale.

È, quindi, un'impossibilità teorica, all'interno del marxismo, di "immaginare" o "creare" uno Stato mediante un piano determinato in anticipo o di "sostituire" un ordine sociale con un altro sulla base di un confronto ideale tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

Qui ci troviamo di fronte a un problema. Un problema, perché il marxismo, da Marx e Lenin in poi, ha sempre affermato che la fase di transizione implica necessariamente l'esistenza di uno Stato costruito sulle ceneri di quello precedente. Uno Stato, l'inizio di un percorso veramente democratico, dove le maggioranze esercitano il loro potere sulle minoranze, ma a condizione che questo Stato contenga i meccanismi della propria estinzione. Uno Stato che è già un "non-Stato".

Un problema complesso quindi e della massima importanza, non solo dal punto di vista teorico ma anche dal punto di vista politico, poiché riguarda direttamente il problema della presa del potere statale (oggetto di ogni pratica politica) e dell'infinità di problemi successivi nella transizione. Affermeremo fin dall'inizio che: una formazione sociale capitalista, e con essa il suo Stato, sviluppa una fase di transizione propria delle sue condizioni politiche materiali, riguardante in ultima analisi la lotta di classe concreta in un momento specifico.

Insieme a questo, e nella misura in cui non può esserci una teoria generale dello Stato che contenga leggi che regolano le sue trasformazioni, non può esserci nemmeno una teoria generale della transizione. Lo ripetiamo: non è possibile, all'interno del marxismo, una vera teoria (nel senso che Althusser dà a questa parola, cioè: scientifica) e generale del passaggio dallo Stato capitalista a quello socialista e da esso verso il momento dell'estinzione di tutti i tipi di Stato.

Tuttavia, ciò non significa che la teoria dello Stato capitalista non fornisca elementi fondamentali per quanto riguarda la transizione. Ma questi elementi, pensati come tendenze inscritte in una struttura complessa (quella capitalista), attraversata, prodotta e riprodotta dalla lotta di classe, non sono di per sé una teoria, ma solo “... nozioni teorico-strategiche in uno stato pratico, funzionante , certamente come guida all'azione, ma nel senso, al massimo, di pannelli indicativi ”. (N. Poulantzas, “L'État, le pouvoir, le socialisme”, pag.19)

Queste nozioni non sono minori nel senso della loro importanza, poiché corrispondono al problema generale dell'organizzazione della dittatura del proletariato e della separazione tra il partito e lo Stato, tra gli altri problemi fondamentali. Per questo motivo l'analisi dello Stato capitalista, la comprensione dei suoi limiti, il suo assetto istituzionale, il suo funzionamento, l'esercizio del suo potere… sono questioni sostanziali.

Infine non è nemmeno difficile capire perché in Marx ed Engels non si potesse trovare una teoria che analizzi, anzi spieghi, le forme politiche assunte dalla società capitalista nel corso della "transizione" rivoluzionaria al socialismo. Questo problema, che può essere posto legittimamente ai marxisti del nostro tempo (dall'ottobre 1917), non riguarda Marx ed Engels che a volte credevano troppo presto nell'imminenza della rivoluzione proletaria, ma che infine non assistettero che a tentativi falliti (1848, 1871) di cui in seguito riconobbero l'immaturità.

Ora, se l'affermazione che non esiste una teoria dello Stato in Marx si riferisce a una teoria generale dello Stato e / o una teoria dello Stato comunista e / o una teoria dello Stato di transizione, è, come abbiamo visto, una conferma della coerenza di Marx, piuttosto che una critica. Tuttavia, questa riflessione indica anche un problema. Ed è che lo Stato, più precisamente lo Stato capitalista, esiste, è reale, ed è lì, secondo la nostra ipotesi, dove la teoria di Marx è carente.

Riassumo l'origine del problema senza la pretesa di avere una soluzione.

Nei modi di produzione precapitalisti, il produttore diretto (il servo della gleba nel feudalesimo, per esempio) non aveva (come non ha il proletario) la proprietà economica dell'oggetto e dei mezzi di produzione. Tuttavia (a differenza del proletario) aveva un certo "legame" con questo oggetto e con questi mezzi, che gli permetteva di dominare il processo produttivo. Ciò forniva il dominio al lavoratore diretto: controllo, "know-how" e possibilità di avviare - da solo - il processo produttivo. Questa seconda relazione sociale, costitutiva del processo di produzione, è ciò che Poulantzas ha chiamato il rapporto di possesso e ciò che Marx chiamava "appropriazione reale".

Questo possesso del lavoratore diretto sull'oggetto e sui mezzi di produzione ha avuto l'effetto di quella che Marx chiamava la "sovrapposizione" tra Stato e sfera economica. In altre parole, lo Stato doveva “intervenire” direttamente, o meglio, era direttamente coinvolto nel processo produttivo stesso, poiché doveva “rendersi presente”, “costantemente”, per garantire, in modo “esterno”, l'estrazione del pluslavoro. per coercizione diretta: tasse o appropriazione diretta, da parte del feudatario, di porzioni della produzione ottenuta dal servo. Chiariamo quindi: per il marxismo esistono due rapporti sociali di produzione: quello della proprietà e quello del possesso. Sono decisivi per stabilire i limiti sia dello Stato che dell'economia.

È solo con l'emergere del capitalismo che anche questo rapporto di possesso viene strappato al dominio del lavoratore diretto. Per questo motivo l'estrazione del plusvalore in questo modo di produzione avviene interamente nella sfera economica, apparentemente senza l'intervento di alcuna forza esterna.

Il plusvalore che il lavoratore produce viene estratto all'interno del processo produttivo, in modo “indiretto”, “invisibile” agli occhi del proletariato. Perché il proletariato, come classe, "veda" questa estrazione, è necessaria la teoria (il marxismo).

In altre parole, il lavoratore diretto sotto il capitalismo, non solo non è il proprietario, ma non ha nemmeno il controllo, né il "know-how", né può mettere in moto il processo produttivo da solo senza il concorso del capitalista. Domanda fondamentale non solo per il problema dello Stato, ma in generale per la caratterizzazione e spiegazione del capitalismo e delle sue fasi e stadi.

Questa "estrazione" dell'operaio diretto dal possesso, da parte del capitalista, e quindi l'inutilità di una competizione "esterna" per l'estrazione del plusvalore a vantaggio della classe dominante, produce una distanza "relativa" tra l'economico e lo statale, o più precisamente: tra i rapporti di produzione e processo produttivo da un lato, e l'apparato statale dall'altro, sotto il modo di produzione capitalistico.

Dopo questa deviazione, siamo in grado di chiarire perché nel marxismo è possibile solo una teoria dello Stato capitalista.

È proprio questa "separazione relativa" che consente la distinzione, per la prima volta, di un oggetto isolabile, con leggi interne ed intrinseche "relativamente" proprie. Ciò non significa che non sia possibile parlare di uno Stato feudale, schiavista…, piuttosto l'analisi di questi stati precapitalisti non implica, a causa dell'impronta della loro "imbricazione" con la sfera economica, una loro teoria, ma sono "sotto" una teoria del modo di produzione feudale, schiavista...

D'altra parte, lo Stato capitalista può avere, per le ragioni sopra esposte, una teoria "relativamente separata" da una teoria del modo di produzione capitalistico, ma le cui fondamenta si trovano in quest'ultimo. Teoria dello Stato capitalista, intesa come: la formulazione di un corpus sistematico e organizzato che da proposizioni generali e necessarie può spiegare l'origine, la riproduzione e le trasformazioni di uno specifico oggetto teorico che si definisce. Per questo "... è perfettamente legittima una teoria dello Stato capitalista, che costruisce un oggetto e un concetto specifico: ciò è reso possibile dalla separazione tra lo spazio dello Stato e l'economia sotto il capitalismo". (N.Poulantzas, “L'État, le pouvoir, le socialisme”, pag.16).

Infine, il vero statuto scientifico di una teoria dello Stato capitalista può essere dato solo nella misura in cui ci consente di spiegare la riproduzione e le trasformazioni storiche del suo oggetto laddove effettivamente si verificano, nel campo concreto delle formazioni sociali concrete. In altre parole, "La teoria dello Stato capitalista non può essere isolata dalla storia della sua costituzione e della sua riproduzione". (N.Poulantzas, “L'État, le pouvoir, le socialisme”, pag.23)

È ora quindi il momento di sollevare un secondo presupposto provvisorio: le affermazioni, le proposizioni e le tesi di Marx che ci interessano e che possono essere considerate "valide" sono quelle riferite allo Stato capitalista. Accettando questa seconda ipotesi provvisoria, ci resta da chiederci: queste affermazioni, proposizioni e tesi costituiscono una vera teoria? Rispetto al primo problema, questa domanda non è minore.

Per definizione tutta la teoria scientifica è incompiuta per natura ed è permanentemente e infinitamente in costruzione. Tuttavia, l'assenza di una teoria dello Stato capitalista nell'opera di Marx ed Engels presenta un problema più complesso.

È noto che Marx ha inserito nel "piano" del Capitale una trattazione del "rapporto tra le varie forme di Stato e le diverse strutture economiche".

Questa previsione si trova nell'Introduzione del 1857, nella Prefazione alla critica dell'economia politica del 1859 e soprattutto nell'importante passaggio del Capitale, libro III, capitolo 47: "Genesi della rendita fondiaria capitalistica". In quest'ultimo, principalmente, Marx spiega che è nell'immediato rapporto tra il proprietario dei mezzi di produzione e il produttore diretto che va ricercato il segreto più profondamente nascosto dell'intero edificio sociale e di conseguenza della forma politica adottata dal rapporto di sovranità e dipendenza; in breve, la base della forma specifica che lo Stato assume in un dato momento. Tuttavia chiarisce anche che, sebbene la base economica sia fondamentalmente la stessa, sotto l'influenza di innumerevoli diverse condizioni empiriche può presentare infinite variazioni e sfumature. Questa ipotesi non è stata sviluppata.

Pertanto, e questo è di vitale importanza, si pongono due domande in relazione a due diverse realtà:

1) La prima "realtà" è che Marx in molte delle sue opere è avanzato, più in uno "stato pratico" che come un "corpus teorico sistematico", sul tema dello Stato. La domanda che si pone di fronte a questa "realtà" è: da questo progresso si possono estrarre proposizioni sistematiche, cioè teoriche in senso forte?

2) La seconda "realtà" è che in Marx il tema dello Stato appare come un'analisi necessaria, ma sempre rimandata. La domanda corrispondente, quindi, è: questo "vuoto", questo "punto cieco" nelle parole di Althusser, è il prodotto di una "dimenticanza", di una mancanza di tempo o, in realtà, denota un problema teorico?

In relazione alla nostra tesi iniziale, nel senso che in Marx c'è una "evoluzione" del tema dello Stato dove, da una concezione idealista (umanista), si introduce tendenzialmente una concezione dello Stato come apparato, pur senza lasciare quest'ultima totalmente da parte (“Prevalentemente materialista”), affermiamo che essa, pur contenendo gli elementi essenziali di una vera teoria dello Stato, rimane in uno stato “descrittivo”. Qui seguiremo, essenzialmente, l'approccio di Althusser.

Cosa intendiamo quando affermiamo: le proposizioni sviluppate da Marx sullo Stato capitalista costituiscono una teoria descrittiva dello Stato capitalista?

Principalmente comprendiamo che questa teoria è giusta, poiché lo Stato capitalista è uno Stato di classe, l'apparato repressivo per eccellenza, e "descrive" gli eventi e le azioni dello Stato capitalista in tutte le formazioni sociali concrete in cui il modo di produzione capitalista è dominante. Descrive le azioni della repressione non solo dal punto di vista della repressione manifesta quando le lotte di classe entrano nel loro culmine e la situazione non può essere controllata e allora la borghesia deve fare appello alle "forze di sicurezza" (polizia , esercito...), ma anche tutta quella violenza più sottile e quotidiana che Foucault descriveva così bene, anche se con un altro senso.

Allo stesso modo, descrive chiaramente, per mezzo della parola "apparato", il funzionamento "come macchina di repressione" dello Stato capitalista, affermando che non è una "istituzione omogenea" ma che è composta da parti che funzionano in modo organizzato per ottenere un obiettivo, che è estraneo all'obiettivo di ciascuna parte e riguarda solo l'intero apparato.

Inoltre, la teoria descrittiva dello Stato di Marx non solo ci permette di riconoscere un meccanismo funzionante (come una macchina) e il modo repressivo in cui questo meccanismo agisce; ma anche che questa teoria ha permesso di apprezzare la distinzione tra potere statale e apparato statale.

Quest'ultima discriminazione non è minore nell'analisi dello Stato. Si tratta di un punto nevralgico che permette di stabilire le forme di conservazione e, addirittura, di presa del potere statale, permettendo di comprendere perché l'apparato statale possa rimanere esattamente lo stesso anche quando ci sono eventi politici che incidono sul possesso del potere statale. Si può dire che questa distinzione tra potere statale e apparato statale è stata esplicitamente parte della "teoria marxista" dello Stato sin dai tempi di "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte" e "Le lotte di classe in Francia".

“... Tutto suggerisce che le grandi scoperte scientifiche non possono non passare attraverso lo stadio di quella che chiameremo “teoria” descrittiva. Questo sarebbe il primo stadio di qualsiasi teoria, almeno nel campo della scienza delle formazioni sociali. Questa fase potrebbe essere - e secondo noi dovrebbe essere - vista come transitoria e necessaria per lo sviluppo della teoria. La nostra espressione "teoria descrittiva" denota il carattere transitorio facendo apparire l'equivalente di una sorta di "contraddizione" nella congiunzione dei termini usati. In effetti, il termine teoria "collide" in parte con l'aggettivo "descrittivo" che lo accompagna. Ciò significa esattamente:

1) che la "teoria descrittiva" è, senza dubbio, l'inizio ineludibile della teoria, ma 2) che la forma "descrittiva" in cui la teoria è presentata richiede, per effetto stesso di questa "contraddizione", uno sviluppo della teoria che va oltre la forma di "descrizione".” (L.Altussher; Idéologie et appareils idéologiques d’État, pag.20 )

Ma perché questa teoria è descrittiva e non solo una teoria, cioè una teoria scientifica? Qui dobbiamo affermare che: “Tuttavia, la teoria descrittiva dello Stato rappresenta una tappa nella costituzione della teoria che a sua volta richiede il 'superamento' di quella fase. Ebbene, è chiaro che se la definizione in questione ci fornisce i mezzi per identificare e riconoscere gli atti di oppressione e collegarli con lo Stato concepito come apparato statale repressivo, questa "connessione" dà luogo a un tipo di prova molto speciale, ... ". Quella prova "speciale" è ideologica. (L.Altussher; Idéologie et appareils idéologiques d’État, pag.20 e 21 )

Questa forma teorica dello Stato, che esiste in Marx e che Althusser fa notare, è ancora una teoria che si impone come ideologica in quanto non consente di spiegare il funzionamento generale di quello Stato che lo stesso Marx chiamava apparato. E non può spiegarlo perché questa teoria è, in Marx, ancora, una forma "invertita", "negativa" delle nozioni e delle proposizioni classiche sullo Stato.

Fermiamoci un momento su questa affermazione, poiché è un punto centrale della nostra proposta di analisi. Una teoria scientifica non nasce nell'ambito di un universo già scientifico precedente, ma al contrario, nasce in un universo di parole, asserzioni, pratiche non scientifiche (ideologiche). Il grande sforzo di qualsiasi scienza nascente (da Talete a Freud) è quello di lottare con nozioni precedenti che minacciano e imbavagliano nuove conoscenze. Quale esempio migliore di Galileo, che pagò la sua audacia con la persecuzione. Questo rischio può essere politico (o come nel caso di Galileo o Marx: politico e teorico allo stesso tempo), ma è anche e fondamentalmente teorico.

La "lotta teorica" ​​di Marx con i classici dell'economia è ben nota, leggendo e persino rileggendo completamente Smith e Ricardo, sottolineando i loro difetti, i loro successi e i loro limiti teorici. Questo vero lavoro di "screening", che non solo implica la critica di nozioni precedenti, ma anche e allo stesso tempo, lo sviluppo di nuove, ha portato a quella monumentale opera che è il Capitale. Questo lavoro fondamentale Marx non l’ha svolto, allo stesso modo, con la stessa profondità, con i classici della teoria politica borghese: Machiavelli, Rousseau, Hobbes, Locke, Burke, Montesquieu...

Tuttavia, lasciò in eredità le indicazioni essenziali fondamentali per quest'opera, di cui Lenin fece il primo passo. Ciò che Marx ha fatto, non solo nella sua pratica teorica ma anche in molti dei contenuti teorici della sua pratica politica (sebbene questa sia stata più volte avanzata rispetto alla prima), è una "negazione", un'inversione in opposizione alle affermazioni dei classici borghesi sullo Stato capitalista. Se lo Stato era in loro un'istituzione creata dall'uomo come arbitro della società civile, è, in Marx, un'istituzione della classe dominante che assoggetta la società civile. Investimento, negatività, insomma opposizione, che per lo stesso motivo resta sullo stesso terreno (divisione Stato - società civile), e non segue dai suoi fondamenti ideologici.

Ma potremmo anche dire che in questa teoria "descrittiva", ancora in uno stato ideologico, c'è tendenzialmente, in gestazione, una teoria arida dello Stato capitalista. In altre parole, una teoria che ci permette di passare dalla fase descrittiva a quella esplicativa, scientifica.

“Ma quello che si trova nei nostri autori [Marx ed Engels], è soprattutto, sotto le forme di rapporto dello Stato con la lotta di classe e il dominio di classe (indicazioni decisive, ma non analizzate), un ripetuto monito a partire delle concezioni borghesi dello Stato: quindi una demarcazione e definizione essenzialmente negativa ”. (Potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie; R.Rossanda e L.Althusser, pag.228)

Sinteticamente, questa teoria descrittiva dello Stato che esiste in Marx ci permette di riconoscere i problemi legati alla repressione, il modo in cui funziona e la distinzione tra potere e apparato statale. O quando Althusser ha detto: “Per riassumere questo aspetto della 'teoria marxista dello Stato', possiamo dire che i classici del marxismo hanno sempre affermato che: 1) lo Stato è l'apparato repressivo dello Stato; 2) occorre distinguere tra il potere statale e l'apparato statale; 3) l'obiettivo della lotta di classe riguarda il potere dello Stato e, di conseguenza, l'uso dell'apparato statale da parte delle classi (o alleanza di classi o frazioni di classi) che hanno il potere dello Stato in base ai loro obiettivi classe e 4) il proletariato deve prendere il potere statale per distruggere l'apparato borghese esistente, sostituirlo in una prima fase con un apparato statale proletario completamente diverso, ed elaborare in fasi successive un processo radicale, quello della distruzione dello Stato (fine del potere statale e di tutti gli apparati statali).” (L.Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État, pag.22).

Ma questo e solamente questo è lo Stato capitalista? Ovviamente no. Gli studi di Gramsci, Althusser, Poulantzas, gli autori delle cosiddette teorie strumentali e anche quelli della cosiddetta scuola logica del capitale, partono da un presupposto comune, che va oltre Marx e anche Lenin, e cioè che lo Stato capitalista non è solo un apparato di repressione.

Nonostante il fatto che Marx menzioni che ci siano vari tipi di Stato, non dice come si distinguono, come è assicurato il dominio di classe da parte dello Stato, come funziona l'apparato statale, qual è la natura dello Stato. Su questi problemi Marx non ha sviluppato un'analisi profonda né ha lasciato linee generali. Per questo motivo, questa teoria descrittiva, una forma negativa delle nozioni borghesi, è incompleta, deve ancora essere sviluppata, ci fornisce l'essenziale ma non implica una teoria scientifica nel suo senso forte.

Tutto ciò non impedisce che la teoria arida (cioè quella esplicativa, quella scientifica che permette di rendere conto del funzionamento “totale” dello Stato capitalista) non sia “abbozzata” da Marx ed Engels in numerosi problemi concreti, non solo teorici ma anche politici :

1) Da un lato, come riferimento per l'analisi storica che tratta delle lotte di classe europee degli anni dal 1840 al 1890, cioè dei rapporti delle forze politiche in una data congiuntura: questi esempi mostrano che la “teoria dello Stato ”si riferisce ai problemi dello sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico e della singolarità delle formazioni sociali nazionali nel quadro stesso di un modo di produzione il cui spazio di espansione è tendenzialmente il mercato mondiale.

2) D'altra parte, questa teoria viene invocata implicitamente nell'analisi delle forme della lotta di classe proletaria e nella critica delle ideologie del socialismo utopico, del sindacalismo, dell'anarchismo, del socialismo riformista di Stato. Due punti importanti possono essere menzionati qui:

La conclusione tratta da Marx che la lotta di classe puramente "economica" (sindacale), conseguenza necessaria della rivoluzione industriale, può contrastare la tendenza alla diminuzione dei salari, ma non portare alla trasformazione rivoluzionaria dei rapporti di produzione (cfr. "Salario, prezzo e profitto"): da qui la tendenza del proletariato, come classe rivoluzionaria, alla conquista del potere politico, che a sua volta suppone specifiche forme di organizzazione che tendono a distinguersi dalle forme sindacali.

La conclusione di Marx e soprattutto di Engels che la lotta di classe politica suppone a sua volta una lotta di classe teorica, destinata a costituire e propagare nel proletariato una “concezione del mondo” scientifica e rivoluzionaria (socialismo scientifico). Marx ed anche Engels capiscono che il dominio di classe non è solo dominio economico, è anche ideologico, come dice Engels in “Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca” : "Lo Stato è il primo potere ideologico". Diremo, quindi, a conclusione di questa risposta a Dal Ferro, che abbiamo esposto due ipotesi provvisorie, che possiamo riassumere con la seguente formula:

• In Marx c'è una "teoria" dello Stato.

• Il “valido” di questa “teoria” sono le analisi riferite allo Stato capitalista e alcune indicazioni sullo Stato di transizione.

Ora dobbiamo chiederci: di che Stato è questa teoria e di che tipo di teoria si tratta. Dobbiamo stabilire cosa cerchiamo e cosa speriamo di trovare nelle opere di Marx in riferimento allo Stato. Per questo dobbiamo rettificare le nostre ipotesi provvisorie e diremo:

In Marx c'è una teoria "descrittiva" dello Stato capitalista e indicazioni generali sullo Stato di transizione. Questa teoria, sebbene descrittiva e con seri ostacoli ideologici, ci fornisce gli elementi essenziali, i fondamenti dell'inizio del percorso che ci permette di arrivare a una teoria ("scientifica") dello Stato capitalista. Marx è stato in grado di elaborare questo "inizio" - anche se non lo dice esplicitamente - nella misura in cui è possibile solo una teoria scientifica dello Stato capitalista, poiché è in questo modo di produzione, per la prima volta nella storia, che esiste una relativa separazione dello Stato dalla base economica.

Pertanto occorre "cercare" e sistematizzare nel lavoro di Marx:

a) questa teoria descrittiva dello Stato capitalista, indicandone i limiti e la portata;

b) le indicazioni sullo Stato di transizione (dittatura del proletariato) che ci permettono di analizzare alcuni aspetti riguardanti lo Stato capitalista;

c) la periodizzazione di questa teoria dai suoi inizi nell'opera marxiana al suo culmine, ponendo come punti di riferimento di questa periodizzazione le fratture nodali che consentono il passaggio da nozioni prevalentemente ideologiche a quelle prevalentemente scientifiche;

d) la relazione causale o meno con le vicende politiche del tempo.

Comments

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Eros Barone
Thursday, 03 December 2020 23:25
Occorre paretire da questo dato, e cioè che nel pensiero di Marx la critica della politica ha preceduto la critica dell'economia. Vediamo allora di impostare correttamente il problema che viene discusso in questo articolo. Orbene, la critica della politica, che si incentra sulla coppia opposizionale ‘società civile-Stato politico’, è stata scandita da tre tappe: 1) il liberalismo radicaleggiante del periodo della "Rheinische Zeitung" (1842); 2) il democratismo puro testimoniato dalla inedita "Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico" (1843); 3) il passaggio al comunismo (ma non ancora al materialismo storico) attestato dai "manoscritti parigini" del 1844. Partirei però, ai fini di questa disamina, dal “Capitale” e, in particolare, da una pagina del capitolo sulla “cosiddetta accumulazione originaria”, dove Marx scrive quanto segue: “Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente [in questa proposizione teorica è racchiusa l’essenza del rapporto di ‘dominio/libertà’ tipico della società borghese]. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle ‘leggi naturali della produzione’, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del ‘potere dello Stato’, e ne fa uso per ‘regolare’ il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la ‘giornata lavorativa’ e per mantenere l’operaio stesso a un ‘grado’ normale ‘di dipendenza’. È questo un momento essenziale della cosiddetta ‘accumulazione originaria’” (“Il Capitale”, l. I, cap. 24, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 800-801). I concetti qui espressi da Marx, pur essendo elementi costitutivi della sua analisi del capitale, determinano una situazione paradossale, poiché Marx qui ci dice a chiare lettere che la borghesia ha bisogno dello Stato solo nella fase di instaurazione del modo di produzione capitalistico, ma che per riprodurre il suo dominio di classe è sufficiente, nel “corso ordinario delle cose”, il funzionamento del meccanismo interno di questo modo di produzione. La domanda che sorge è allora questa: perché lo Stato politico non solo esiste, ma si è continuamente perfezionato fino a diventare nella fase monopolistica e imperialistica una funzione organica del dominio borghese? Se si tiene conto dell’importanza che hanno, nella elaborazione storico-politica di Marx, i concetti teorico-pratici di “dittatura della borghesia” e “dittatura del proletariato”, la rottura della “macchina” dello Stato borghese e la sua sostituzione con una forma di Stato che ha in sé il principio della propria estinzione, non sarà difficile ritrovare in tali concetti la coppia opposizionale ‘società civile-Stato politico’ che Marx ed Engels non hanno mai cessato di adoperare. Il blocco della teoria politica marx-engelsiana (più nel primo, però, che nel secondo) non nasce pertanto dal divario tra gli obiettivi che marx si era proposto e i risultati efgfettivamente raggiunti, ma dalla tendenziale inconciliabilità fra questa coppia opposizionale e la ben nota coppia opposizionale di ‘struttura-sovrastrutture’. Concludendo, abbiamo qui un caso esemplare in cui un problema irrisolvibile nei termini della teoria marxiana (benché la geniale “Critica del programma di Gotha” fosse molto vicina al suo corretto scioglimento) sarà risolto nei termini della teoria marxista. Così, se è vero che nel “Capitale” è arduo trovare un passaggio dalla critica dell’economia politica alla problematica dello Stato, è altrettanto vero che, quando la borghesia capitalistica si è trasformata in monopolistica e imperialistica, si è dovuta creare quasi ‘ex novo’ la teoria dell’imperialismo (da parte di Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg ecc.) perché mancava alle spalle un presupposto teorico sufficientemente elaborato. Ciò nondimeno, si potrebbe fare ancora un passo avanti nella presente disamina e chiedersi dove potrebbe essere, all’interno dell’apparato categoriale del “Capitale”, l’aggancio ad una teoria dello Stato capitalistico. A mio avviso, assumendo l’ipotesi euristica secondo cui la critica della politica è inscritta nella critica dell’economia politica e considerando anche l’esperienza storica di questi ultimi decenni (globalizzazione imperialistica, predominio del capitale finanziario, politiche neoliberiste ecc.), l’aggancio va ricercato in quella che Marx chiama l’“unità” del processo di produzione diretto e del processo complessivo di circolazione.
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