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essere comunisti

Rive gauche due anni dopo

 

Il 30 settembre del 2005 si tenne a Roma un convegno (Rive Gauche), promosso da «il manifesto» in collaborazione con gli economisti Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo, il cui obiettivo era quello di riunire a discutere economisti, politici e – in generale – donne e uomini «di sinistra» attorno al tema: “La critica della politica economica e le linee programmatiche delle coalizioni progressiste” (gli atti furono pubblicati nel marzo 2006 per la Manifestolibri a cura degli stessi Cesaratto e Realfonzo). Eravamo alla vigilia delle elezioni politiche del 2006 e viva era l’esigenza di ragionare sui programmi di politica economica che avrebbe dovuto realizzare una coalizione, auspicabilmente vincente, di alternativa alle destre. Sulla scia di quell’esperienza va anche considerata la successiva promozione di un Appello degli economisti (cui abbiamo aderito anche noi di Essere comunisti) rivolto al governo in carica e teso a modificare la linea rigorista di rientro dal debito pubblico ed un’ applicazione stretta dei dettami di Maastricht.


A due anni di distanza – e in vista di una seconda tornata di Rive Gauche dedicata a «L’economia della precarietà» che si terrà a Roma martedì 9 ottobre (promotore «il manifesto», con la collaborazione di Paolo Leon e Riccardo Realfonzo) – abbiamo inteso chiedere ad alcuni dei partecipanti (Riccardo Bellofiore, Emiliano Brancaccio, Giorgio Gattei, Giorgio Lunghini, Riccardo Realfonzo) le loro attuali valutazioni sia sulla strada da allora percorsa che sulla generale prospettiva economica.

Qui di seguito presentiamo le domande con le relative risposte. Ovviamente, consideriamo questo inserto come il capitolo di una discussione destinata a proseguire. Per questo abbiamo deciso di pubblicare i contributi così come ci sono pervenuti, anche scontando qualche difformità nei toni e nella lunghezza: nella convinzione che non mancherà l’occasione per ulteriori repliche. Che naturalmente consideriamo sin d’ora benvenute.

B.S.

 

Riccardo Bellofiore – Università di Bergamo

Emiliano Brancaccio – Università del Sannio

Giorgio Gattei – Università di Bologna

Giorgio Lunghini – Università di Pavia

Riccardo Realfonzo – Università del Sannio

 

In relazione al nostro paese, si è parlato spesso di «declino» economico e sociale: ci si riferisce in particolare alla fragilità del sistema industriale, alla crisi dei distretti e allo smantellamento dell’impresa pubblica, al basso livello degli investimenti in ricerca e sviluppo, alla caduta dei salari reali (e dunque allo stato asfittico della domanda interna). Poi «The Economist», nel suo rapporto annuale Il mondo in cifre, colloca l’Italia tra le economie più forti, ponendola ai primi posti della classifica per il Pil pro capite, il commercio di beni e servizi, il consumo di beni privati. Per non parlare dei dati degli ultimi anni sui profitti d’impresa, i quali non registrano alcun declino e anzi mostrano che il bicchiere è pieno fino a strabordare. Come stanno dunque le cose? Ci si chiede, in primo luogo: declino per chi?

 

Riccardo Bellofiore

Una risposta vera a questa domanda richiederebbe uno spazio ben maggiore di quello concesso. Si tratta di una questione alla quale gli economisti più attivi della Rive Gauche – di cui in realtà non faccio parte, se con questa sigla ci si riferisce ai firmatari dell’appello per la stabilizzazione del debito pubblico lanciato nell’estate del 2006: e trovo francamente la sigla già un problema, costruita con tutta evidenza con una troppo facile logica di tipo giornalistico – hanno prestato poca attenzione e con grande ritardo, ossessionati come erano da una battaglia male impostata e peggio condotta sulle questioni appunto del debito pubblico. Non mi convince neppure la considerazione, diffusa a sinistra anch’essa, che il «declino» avrebbe a che vedere con l’assenza di una vera classe imprenditoriale. È un po’ la tesi di ambienti Banca d’Italia. Rispettabile, coglie un grano di verità, ma a ben vedere non dice poi granché. Lungo quella linea si finisce poi nella ingenuità – che tenta, mi pare, anche Rifondazione – di una battaglia per separare la rendita e la finanza dall’economia reale sulla base di un intervento sulle banche centrali o di una introduzione isolata della Tobin tax. O all’illusione che una rinascita del «keynesismo» e del «conflittualismo incompatibilista» possa essere la risposta ai problemi che ci troviamo di fronte oggi, dopo i fallimenti delle politiche dell’offerta (illusione spesso nutrita sulle colonne del vecchio «Ernesto», e ora di «Essere Comunisti»). Si dovrebbe mettere in piedi una analisi ben più approfondita e una dimensione programmatica ben più seria di quella che è stata costruita dal 2001 a oggi. In questi anni, infatti, Rifondazione comunista – il più forte partito nella dispersa galassia della sinistra, ma dunque anche il più responsabile dei suoi limiti – ha semplicemente cancellato la riflessione sul programma che pure aveva messo in piedi alla fine degli anni Novanta, anche se innegabilmente con molte carenze. A un certo punto aveva iniziato a corteggiare, in economia almeno, una politica fatta di appelli e presenza mediatici, i cui risultati sono stati nulli se non deleteri. Credendo così di poter parzialmente recuperare rispetto a una scommessa sbagliata: che la spinta del «movimento dei movimenti» avrebbe senz’altro spostato in avanti gli equilibri della coalizione. Oggi si è costretti a pregare che qualcosa succeda sulle piazze, e il movimentismo si trasforma in politicismo. Il declino economico e sociale italiano lo si capisce molto bene con le analisi di De Cecco, o Graziani, o Halevi, o ancora Gallino.

Questo autore, in particolare, ha utilizzato una formula più corretta, la «scomparsa dell’Italia industriale», che è il titolo di un suo bel libro recente. È un fenomeno che va avanti, in realtà, dalla metà degli anni Sessanta. Quando il capitalismo italiano ha risposto in modo regressivo alle lotte nella distribuzione, prima, e nella valorizzazione immediata poi: lotte che avevano messo in evidenza tutti i limiti dello sviluppo dualistico del nostro paese. È di qui che progressivamente inizia la decadenza o l’eliminazione delle grandi imprese private, la mitologia dei distretti, il nanismo, l’insufficienza della ricerca e sviluppo, e così via. Non è stata intrapresa nessuna seria politica di programmazione o di piano del lavoro, dentro una riqualificazione della nostra posizione nella divisione internazionale del lavoro, ormai sempre più a rischio. Salvo rare eccezioni, la sinistra stessa l’ha progressivamente accantonata. Sono spariti il nucleare, l’elettronica, la chimica, l’aeronautica civile, l’acciaio, sono state o sono molto in difficoltà l’automobile e la telefonia. Ovviamente, i settori nascono e muoiono dovunque: il problema è che da noi sono solo morti, non ne sono nati altri sostitutivi e trainanti. I grandi monopoli pubblici sono stati quasi tutti privatizzati, diventando spesso nient’altro che strumenti per la percezione di rendite.

La politica industriale praticamente non c’è stata, se non adattiva alla pressione internazionale o alla politica monetaria restrittiva. La politica bancaria ha avuto andamenti alterni ma senza poter mai divenire orientativa dello sviluppo economico. Dentro un quadro di politiche macroeconomiche e microeconomiche quali quelle europee – politiche che un po’ furbescamente non si è voluto neanche nominare in un programma di più di 280 pagine: tanto i movimenti avrebbero «spinto» a sinistra, il che però fa un po’ specie se simultaneamente si impugna la battaglia del rispetto del programma dove fa comodo – l’unico margine di riaggiustamento a una competitività declinante e ai problemi di una produttività sempre più bassa non poteva che essere la pressione sul valore d’uso e sul valore di scambio della forza-lavoro. Forse bisognerebbe tornare all’Abc del marxismo.

La sinistra sa solo reagire con il lamento, non vedo nessuna seria riflessione o proposta. Prima si attesta sulla tesi di una globalizzazione che metterebbe fuori gioco lo Stato nazionale (come anche sull’illusione di un rapporto di lavoro salariato in crisi), poi recupera quest’ultimo come risposta solo verbale e subalterna alle politiche social-liberiste che danno il cambio a quelle neoliberiste. È ovvio, peraltro, che in un paese come l’Italia il «declino» non significa una caduta immediata e verticale. Ci sono fattori distributivi, ci sono fattori settoriali, ci sono fattori regionali, che spiegano come alcuni stanno meglio, molto meglio, mentre altri stanno peggio. Di più, si possono mantenere alti tenori di vita pur in una situazione generale che lentamente degrada. Vedi le aree dove il salario unitario può anche essere basso, ma con lo straordinario, o con il fatto che si vive più a lungo e di più insieme dentro la famiglia, o con il capitale familiare accumulato, il tenore di vita può essere da zona ricca, molto ricca. Insegnava poi Marx che non esistono crisi permanenti. Dobbiamo stare molto attenti ai mutamenti portati dalla ristrutturazione, se no si rischia di fare come il vecchio Pci togliattiano ancora contaminato dallo stalinismo, e ancora negli anni Cinquanta e Sessanta si favoleggiava di una stagnazione generale e di una crisi dietro l’angolo. Ci sono voluti i «Quaderni rossi», il gruppo del manifesto, lo stesso Trentin, e pochi altri a ragionare, all’inizio degli anni Sessanta sull’Italia come paese capitalistico non «arretrato».

 

Emiliano Brancaccio

Forse su questo tema bisogna uscire da un equivoco: il cosiddetto declino è relativo, non assoluto. Mi spiego. Da decenni in tutti i paesi Ocse registriamo uno schiacciamento della quota dei redditi da lavoro subordinato rispetto al reddito complessivamente prodotto. È una tendenza che registriamo sia in termini lordi che al netto dell’intervento statale. Essa si spiega principalmente col fatto che da tempo in fase di contrattazione i lavoratori subordinati non riescono a conquistare gli incrementi di produttività generati dal cambiamento tecnico, dall’aumento delle ore per unità di lavoro e dall’intensificarsi dei loro stessi sforzi produttivi. Per giunta, in molti casi la compressione salariale non è solo relativa ma anche assoluta: la diffusione dei contratti precari ha determinato vere e proprie cadute del monte salari, sia nel settore privato che in quello pubblico, e soprattutto nelle classi generazionali più giovani. I dati dunque segnalano che il lavoro è sotto attacco in tutti i paesi, anche in quelli più avanzati. Detto questo, però, bisogna pure aggiungere delle specificità che caratterizzano le cosiddette «periferie» dello sviluppo capitalistico, e in particolare l’Italia. Nel nostro paese sussistono problemi anche sul versante dei profitti.

I capitali nazionali sono frammentati, polverizzati, il che determina una crescita più bassa della produttività, e quindi alti costi per unità di prodotto e bassa competitività rispetto ai concorrenti esteri. La conseguenza è che, rispetto ai «centri» dello sviluppo capitalistico, in Italia i profitti crescono comunque, ma crescono di meno e oltretutto si perdono in una infinità di transazioni, di rivoli commerciali, e quindi non si concentrano. Possiamo dunque tranquillamente parlare di declino «relativo» del capitalismo italiano, senza per questo pensare che i padroni nostrani si siano ridotti in braghe di tela. È bene tuttavia comprendere che pure un declino «relativo» alla lunga può risultare deleterio. Ai tempi del «piccolo è bello» andava di moda farsi vanto della scarsa concentrazione dei capitali nazionali, quasi che questa fosse indice di un capitalismo più diffuso, più democratico, magari persino «dal volto più umano». Oggi sappiamo invece che assecondare una tale frammentazione è stato forse il più grande errore strategico dei decenni passati. Infatti ora il capitale nazionale non regge la concorrenza estera, e rischia ogni giorno che passa di essere eliminato dal mercato o assorbito tramite acquisizioni straniere. Questo è un fenomeno che in Europa caratterizza non solo l’Italia ma anche, per esempio, la Grecia, il Portogallo e la sopravvalutata Spagna. Questi paesi sono caratterizzati da una eccessiva frammentazione dei capitali, da una bassa produttività, da costi eccessivi di produzione, da una competitività sempre più compromessa e da crescenti disavanzi nei conti con l’estero.

 

Giorgio Gattei

Premesso che l’opinione dell’«Economist» è di parte (non è una rivista ultra-borghese, oppure la collocazione di classe non ha più ragione di essere?), chi ha mai detto che una economia che fa profitti è poi efficiente? Partiamo dall’inizio: in una economia si producono merci per rivenderle. Quindi per fare profitti ci vuole sia la produzione che il realizzo. Ora come si può fare produzione? Migliorando la produttività o aumentando la fatica. E dove si può fare realizzo? Sui mercati esteri o su quello interno. Di fronte a questo crocevia di alternative l’Italia cosa ha scelto?

Siamo tutti contenti che dal 2006 sia arrivata una ripresa, ma trascinata dalle esportazioni che sono cresciute del 5,3% in termini reali (le cifre sono tratte dall’ultima relazione del Governatore della Banca d’Italia; qui a p. 78). Così la domanda estera netta (esportazioni – importazioni), che era calata dello 0,3% nel 2005, è risalita dello 0,3% nel 2006 (p. 42).

Tuttavia per puntare sulle esportazioni si deve pagare il prezzo della «competitività» e la maniera più semplice per ottenerla è quella di tagliare il costo del lavoro. Ciò che si è fatto: le retribuzioni per unità standard di lavoro dipendente hanno ridotto il loro aumento dal +3,3% del 2005 al +2,8% del 2006 (p. 98) con la conseguenza di continuare a trasferire valore aggiunto dai salari ai profitti (la quota del lavoro, che era pari al 72,5% negli anni 1996-2000, è calata al 71,8% tra 2001 e 2005)(p. 98). Quindi la scelta di puntare sulla domanda estera ha consentito la contrazione dei salari, non essendo il mercato interno il luogo privilegiato di realizzo.

Poi c’è la maniera di produrre le merci. E qui si vede che l’occupazione è aumentata, sebbene per più della metà nei lavori «precari» che adesso toccano il 13,5% dell’occupazione dipendente (p. 88). Anche le ore di lavoro per dipendente sono salite: erano diminuite dell’1,1% nel 2005, sono +1,0% nel 2006, mentre la «vita lavorativa» è stata allungata dall’ennesima «controriforma» delle pensioni. Ma l’aumento della produttività? Non c’è stato: il prodotto per unità standard di lavoro, cresciuto dell’1,1% tra 1996 e 2000, è diminuito dello 0,2% tra 2001 e 2005 (per l’industria in senso stretto i valori sono simili: +0,8% tra 1996 e 2000, +0,7% tra 2001 e 2005) (p. 98).

Insomma, sembra che i nostri coraggiosi capitani d’industria, che hanno fatto certamente profitti, li hanno fatti più con l’aumento della fatica che con il miglioramento della produttività. Marx avrebbe detto: più con il pluslavoro assoluto che con il pluslavoro relativo. E questa sarebbe una economia efficiente? Lo si vedrà alla lunga, perché alla lunga le scelte regressive si pagano.

 

Giorgio Lunghini

Di «declino» si cominciò a parlare a seguito di un saggio del 2003 di Pierluigi Ciocca, L’economia italiana: un problema di crescita. In quel saggio Ciocca non usa mai la parola «declino», semplicemente mostra come nell’economia italiana, soprattutto dopo la crisi valutaria del 1992, sia prevalsa una tendenza al rallentamento di tutti gli indicatori: reddito (assoluto e pro capite, effettivo e potenziale), consumi, produttività, esportazioni.

Nel periodo tra il 1992 e i primi anni di questo secolo, le determinanti principali del rallentamento sono la dinamica della produttività del lavoro e la dinamica delle esportazioni. Il rallentamento nella produttività del lavoro, produttività peraltro elevata, è a sua volta determinato dalla minor crescita della produttività totale dei fattori, cioè dalla minor crescita della produttività del sistema economico-sociale nel suo complesso. Dal lato della domanda aggregata, il rallentamento dipende dal minor contributo dei consumi privati e pubblici, un minor contributo non compensato da sufficienti esportazioni nette. Dinamica della produttività e dinamica delle esportazioni, sono tutte e due conferme di «una economia strutturalmente meno capace di impiegare e organizzare il lavoro, innovare, applicare il progresso tecnico, competere».

Negli anni recenti il prodotto interno lordo ha ripreso a crescere, sia pure di poco, e molti ne hanno concluso che il «declino» si è arrestato. Se però il problema economico è un problema di crescita, il problema rimane irrisolto: l’economia italiana è ancora un’economia poco capace, sempre meno capace, di impiegare e organizzare il lavoro. Lo è tanto poco da guardare al lavoro non come al fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita, dunque come alla risorsa da valorizzare; bensì come a un fattore della produzione, il cui impiego dovrebbe essere massimamente flessibile e minimamente costoso. Di qui la ricetta «precarietà e bassi salari» come due condizioni necessarie e sufficienti per una crescita duratura del prodotto interno lordo. Ma se mai la flessibilità ne fosse condizione necessaria (e c’è ragione di dubitarne), certamente non lo sono i bassi salari.

C’è infatti il problema di una distribuzione arbitraria e non equa della ricchezza e del reddito; e dunque c’è anche un problema di domanda effettiva: occorre che le merci che si potrebbero produrre, trovino compratori all’interno e all’estero. All’interno dovranno trovare consumatori con sufficiente potere d’acquisto e imprenditori determinati a effettuare nuovi investimenti reali; mentre all’estero dovranno poter contare su paesi importatori in crescita costante e attratti dalla qualità e dai prezzi dei nostri prodotti. Tutte e tre queste componenti della domanda effettiva, consumi investimenti esportazioni, sono importanti; ma una importanza particolare hanno i consumi, poiché qui la questione economica è immediatamente questione sociale. La quota più importante della domanda per consumi è costituita dai consumi dei lavoratori, il cui reddito è dato dai salari. Gli imprenditori vedono nel salario soltanto un costo di produzione, da minimizzare, e si dimenticano che il salario è anche potere d’acquisto. Se i salari sono bassi, e lo sono, bassi saranno i consumi dei lavoratori; né basteranno a sostenere la domanda per consumi complessiva i consumi di lusso, finanziati con rendite e profitti, che invece sono a livelli elevati. Insufficiente è anche la crescita degli investimenti, poiché gli imprenditori spesso preferiscono impiegare gli alti profitti nella speculazione finanziaria anziché in nuovi investimenti reali; e d’altra parte l’andamento delle esportazioni è spiegato piuttosto dalla congiuntura favorevole degli altri paesi, che non dalla qualità dei prodotti nazionali.

Se mai si è arrestato il declino economico, negli ultimi decenni si è aggravato il declino sociale, e qui «declino» è la parola giusta. Ce ne sono molti segnali, non soltanto economici ma anche politici e culturali. In campo economico un sintomo secondario, ma assai chiaro, è lessicale: non si parla più di «lavoratori», bensì di «consumatori». La ragione vera è la dissociazione tra prestazione lavorativa e consumo. Il lavoratore fordista acquistava egli stesso ciò che aveva prodotto, oggi non è più così. Questa separazione tra produzione e consumo si dà anche all’interno dei singoli paesi, ma è particolarmente evidente a livello internazione: la si potrebbe chiamare «effetto Nike»: le costose scarpe da ginnastica sono prodotte da ragazzini sottopagati in qualche paese asiatico, e acquistate dai ragazzini benestanti dei paesi più ricchi.

 

Riccardo Realfonzo

Il declino italiano è talmente marcato da non potere sfuggire agli analisti internazionali; e d’altronde fu proprio «The Economist» che, un paio di anni or sono, descrisse l’Italia come «il vero ammalato d’Europa». Nessuno può stupirsi per questa definizione, i dati ufficiali parlano chiaro. Sono ormai oltre quindici anni che l’Italia cresce meno della media dei paesi europei, avvitata, come è, in una stagnazione che è il prodotto al tempo stesso di una bassa domanda aggregata interna e di una pesante arretratezza dell’apparato produttivo, con conseguente progressiva perdita di quote di mercato negli scambi internazionali. Al tempo stesso, l’Italia è il paese d’Europa in cui si assiste alla più intensa crescita degli squilibri distributivi e territoriali. Queste semplici annotazioni sono sufficienti per rispondere alla tua domanda in merito a chi sostenga il peso del declino. È innegabile che il declino stia scaricando gli effetti più nefasti sui lavoratori. I dati relativi alla caduta del potere di acquisto dei salari e alla riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai redditi da lavoro parlano chiaro. D’altronde come potrebbe essere diversamente? L’abolizione della scala mobile, gli accordi di politica dei redditi del luglio ’93 con la relativa introduzione del meccanismo dell’inflazione programmata, il varo del Pacchetto Treu e la famigerata legge 30, hanno progressivamente indebolito il potere contrattuale dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali. Lungi dal generare effetti positivi sulla occupazione, l’unico risultato tangibile di queste politiche è stato il freno alla crescita dei salari reali, che nel migliore dei casi sono aumentati meno della crescita della produttività del lavoro. Sono questi gli elementi che spiegano, nonostante il declino, l’andamento dei profitti.

 

 

In secondo luogo: a quanto pare la barca dell’economia italiana continua ad andare e a distribuire dividendi, pur in presenza di consistenti squilibri (economici e sociali). Da un lato, il governo sostiene che «la notte è passata» e che non resta che godere i frutti del «risanamento»; sul lato opposto, non si è per nulla ottimisti (e c’è ad esempio chi evoca, dati alla mano, imminenti crisi commerciali). Quale futuro prossimo possiamo prevedere per il nostro paese?

 

Riccardo Bellofiore

Qui bisogna intendersi. Innanzi tutto, scordiamoci che un governo, soprattutto se a predominanza «social-liberista» come questo, dica mai che la notte è passata e che finalmente si può godere il frutto del risanamento. Il risanamento, per loro, non finirà mai.

La ragione c’è. Quelli che vengono impropriamente chiamati «moderati», liberisti sì ma un po’ meno, non credono in realtà neanche loro ai parametri di Maastricht o al Patto di stabilità. Gli servono solo come copertura per far passare certe politiche, quasi come necessità naturale, imposte da uno stato di emergenza. I parametri sulla finanza pubblica, o il Patto che prevede a medio termine l’azzeramento dei disavanzi, sono semmai sostenuti per ragioni di reputazione, come norma sociale. Le conseguenze talora recessive sono in fondo benvenute, come frusta alla riorganizzazione produttiva e alla regolazione sociale, alla «modernizzazione». Di più, e qui si misura la cecità della sinistra, quei vincoli in larga misura autoimposti e quella deriva deflazionistica, servono perché si pensa che uno stato più «leggero» aiuti prima o poi a migliorare l’efficienza del settore pubblico. Che uno stato regolatore aiuti a elevare la produttività del sistema. Che la politica industriale si possa ridurre al gioco degli incentivi e disincentivi. Che il tenore di vita possa migliorare, così come le posizioni di rendita possano ridursi, grazie alle politiche di liberalizzazione dentro una riregolamentazione dei mercati. Magari mettendo in piedi una rete sociale di sicurezza che aiuti la precarietà spacciata per flessibilità. Il «social-liberismo» appunto.

Tutte cose in cui non credo, ma – vivaddio! – è qualcosa che non sta nel mondo dei sogni, dove si è rifugiata la sinistra. Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto porre, lei, la questione della «qualità» del sistema produttivo, economico, sociale: con un piano di intervento strutturale a cui si poteva e doveva lavorare da anni. Se no, perché, per cosa, ti candidi a governare?

Esiste un nuovo, chiarissimo ciclo economico-politico da molte parti. La destra, o centro- destra, chiamalo come vuoi, va al governo. Sinistra e centro-sinistra (qualcuno mi dice, centrosinistra senza trattino, ma non sono un esperto di queste cose) unite all’opposizione sono spesso in grado di non far passare il lato liberista selvaggio su mercato del lavoro e welfare del neoliberismo. Intanto spende e spande, e i disavanzi addirittura crescono. Se il centro-sinistra va al governo con un pezzo della sinistra, non c’è più niente o poco da ridistribuire, e allora bisogna puntare tutto sulla flessibilità (leggi, precariato) e qualche make-up, e ovviamente «risanare». La stessa sinistra di governo comincia a fare una operazione sulle parole: si voleva l’abolizione della legge 30? No, «superamento». E gli esempi si potrebbero moltiplicare. E lì a fare barriera sul nuovo confine: gli stessi intellettuali vicini al partito adattano subito la terminologia, non si sa mai. Chi si oppone viene presto bollato come nemico del popolo. Da quelli che voi chiamate «moderati» l’accusa viene mossa alla sinistra al governo, da questa con qualche cautela a chi rompe le scatole. Si decidono espulsioni, che anche rappresentanti della vecchia area dell’Ernesto mi pare abbiano votato. Dall’altro versante, ovviamente, da quella che si vuole sinistra della sinistra si finisce con il vedere come salvifica una opposizione pura e semplice, tanto la sinistra non deve andare mai al governo con i «moderati». Il conflitto e l’incompatibilismo divengono parole che sole garantiscono la salvezza. Non ci si parla più. Ci si spezza in mille anime. È successo anche a voi, mi pare. Si è già visto, lo si sapeva. Idealisticamente, il problema politico diventa l’egemonia «neoliberista» sulla componente «moderata», come ho sentito dire a Burgio in un dibattito a Torino.

Uno dei drammi della sinistra radicale è che non capisce che l’asse Stati Uniti-Asia costituitosi negli ultimi anni ha marginalizzato l’Europa, un continente che dipende ancora troppo dal neomercantilismo forte della Germania. Con il paradosso che la Germania ora cresce se cresce la Cina e l’Asia, ma se l’economia degli Stati Uniti va molto male le difficoltà rimbalzano lo stesso in Europa: o per gli effetti della globalizzazione finanziaria, o perché si hanno problemi nell’area asiatica. Tutti appesi, dunque e comunque, a un atterraggio morbido dell’economia americana. Nonostante alcune tesi, che a me paiono fantasiose e che sono circolate all’inizio dell’anno (i dati non basta citarli, bisogna saperli leggere), la ripresa europea è stata trainata dall’export netto e dagli investimenti tedeschi, non certo dai disavanzi del bilancio pubblico o dai consumi salariali. Lo abbiamo sostenuto a più riprese Halevi e io: ma si può leggere De Cecco su «Repubblica», oppure Nardozzi su «Il Sole 24 Ore». È chiaro che dentro l’Europa dell’euro, sotto il cappello delle politiche che conosciamo, va avanti una riarticolazione geografica e settoriale, che penalizza la nostra industria e il nostro manifatturiero: dove conta la posizione debole dell’Italia tra i «grandi» fondatori del Mercato comune europeo. Dobbiamo restare dentro, ed essere posti sotto stress.

Siamo doppiamente dipendenti da uno sviluppo europeo che è esso stesso non autocentrato. Se la crisi finanziaria di questa estate – le cui cause e il cui contesto sono ignote alla sinistra, che non l’ha vista arrivare, e che continua a ragionare in una ottica nazionale, ancora all’oscuro delle novità del capitalismo da un quindicennio a questa parte – se quella crisi, dicevo, dovesse dar luogo a un atterraggio duro dell’economia americana, dentro la possibile se non probabile crisi europea ci sarà una rinnovata e certa, drammatica stagnazione del nostro paese. È già successo nei primi cinque anni di questo decennio. Noi non possediamo né il sistema finanziario anglosassone, peraltro oggi in difficoltà, né la manifattura di qualità tedesca. Quello che però è chiaro è che le difficoltà attuali non sono state create dalla moneta unica, che si è limitata a renderle più visibili.

Per quel che riguarda l’imminenza di una crisi commerciale tipo 1992, non ne sono affatto convinto. E i «dati alla mano» di cui parla la domanda non si vede dove siano. Si applicano all’Italia dentro la moneta unica argomenti che valgono, quando valgono, fuori dall’unificazione monetaria. In generale, un grave disavanzo commerciale può spingere a un riaggiustamento via modificazione del tasso di cambio nominale. Ma non è detto. Oggi il dollaro si svaluta rispetto a Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda in serio disavanzo commerciale. Il perché è chiaro: gli alti tassi di interesse di questi paesi più che compensano sul piano dei movimenti di capitale, e consentono di rifornire di liquidità la speculazione col c.d. carry trade, indebitarsi in yen e investire dove i rendimenti sono elevati, senza più di norma un rischio di cambio. Non vale neanche sempre nei casi di ipervalutazione «reale». Si pensi al caso del Giappone dal 1985 al 1995, o negli ultimi anni, cioè nei periodi di grande svalutazione del dollaro. O si pensi alla Germania negli anni Settanta, prima del Sistema monetario europeo. Gli stessi cultori più seri dell’equilibrio economico generale hanno smontato la legge della domanda alla base dei meccanismi di riaggiustamento: le variazioni del prezzo agli eccessi di domanda netta non garantisco l’unicità o la stabilità dell’equilibrio, e smontano anche tutti gli esercizi di statica comparata.

Dentro l’area dell’euro, proprio i dati fanno dubitare dell’imminenza di una crisi tipo 1992. Secondo le stime Ocse la Spagna avrà nel 2007 un deficit della bilancia corrente rispetto al Pil del 10,1%, l’Italia si limiterebbe al 2,5%. Nel 1992 i valori erano rispettivamente del 3,5% e del 2,3%. Se deve saltare qualcuno, sarebbe la Spagna. E la causa sarebbe lo sgonfiamento della bolla immobiliare e le conseguenze della crisi dei subprime, non la bilancia commerciale. Nell’unione monetaria non c’è proprio il vincolo valutario. C’è evidentemente un problema di finanziamento dei disavanzi commerciale e corrente, e questo ha a che vedere con i trasferimenti nell’area, con le politiche fiscali, con afflussi di capitale, e così via. Rimane il rischio relativo alla qualità del debitore (un punto, ahimé, che resuscita in parte gli argomenti di quelli che sono preoccupati dello stato della nostra finanza pubblica). Ma non scommetterei su una crisi a breve. Né il disavanzo commerciale dell’Italia, in gran parte all’interno dell’area (escludendo la bolletta energetica), influenza l’euro più di tanto. L’Italia fa più paura fuori che dentro, e una crisi dell’Italia facilmente significherebbe che salta l’eurozona. Lo ha ricordato sensatamente Alfonso Gianni criticando Emiliano Brancaccio su «Liberazione»: Gianni si appoggiava su alcune email di Joseph Halevi a «Liberazione» che davano ragione a me su un punto criticato affrettatamente e fuori contesto da Brancaccio. Mi fa piacere che, per interposta persona, Alfonso Gianni e io si sia d’accordo almeno su questo.

Per quel che riguarda la nostra posizione con l’estero, si tratta di nuovo di un vincolo «pseudo-naturale» che spinge verso le politiche contro il lavoro che conosciamo. Il «riaggiustamento» può procedere per la via di una prolungata spinta alla deflazione dei salari, alla precarizzazione. Per un prolungamento del tempo di lavoro sociale nell’arco vitale. Per il dare alle imprese mano libera sugli orari. Per un attacco al contratto nazionale. Per un aumento dei salari solo su base territoriale e aziendale. Al limite, fallimenti e crisi degli investimenti: in un circolo perverso che aggrava i problemi. Ma scordiamoci che urlare alla crisi cambi la situazione.

È chiaro da quel che si è detto che dire questo non significa affatto sottovalutare il nodo della qualità delle nostre esportazioni e importazioni, le carenze dell’industria e del manifatturiero, e così via. Significa anzi l’esatto contrario. D’altronde quel nodo è al centro da sempre della mia riflessione, come di quella di Halevi.

 

Emiliano Brancaccio

Il rischio di un allargamento degli squilibri commerciali tra i paesi dell’Unione monetaria, fino all’eventualità di una crisi interna all’assetto europeo, è oggetto di indagini approfondite da parte di studiosi delle più svariate correnti di pensiero (cito ad esempio Roubini tra i neoclassici, e Graziani tra gli economisti critici). I dati di cui disponiamo oggi sembrano avvalorare l’eventualità che nei prossimi anni possa scatenarsi una crisi commerciale con possibili epicentri in Italia e negli altri paesi del Mediterraneo, vale a dire nei paesi in crescente disavanzo estero, soprattutto rispetto alla Germania. L’Unione monetaria soffre insomma di una struttura delle bilance commerciali fortemente squilibrata, che potrebbe improvvisamente entrare in crisi anche a seguito di uno shock esterno, come ad esempio un boom del costo delle materie prime o una crisi bancaria internazionale. Ora, noi sappiamo che i governi dei paesi in deficit commerciale – in primis il nostro – stanno cercando di rimediare a questi squilibri con la solita ricetta dell’ortodossia neoclassica: da un lato comprimere la spesa pubblica, in modo da contenere la domanda e le importazioni; dall’altro comprimere i salari monetari, in modo da compensare il divario di produttività e contrastare quindi l’aumento del costo del lavoro per unità prodotta delle merci esportate. Questa strategia deflazionista però a quanto pare non funziona: basti notare che il deficit nei conti esteri dell’Italia continua ad aumentare. Ora, nel criticarmi, Halevi (18 agosto, «Liberazione») e altri hanno sostenuto in modo forse ardimentoso che la deflazione non funziona perché ormai il nesso tra prezzi relativi e bilancia dei pagamenti non sussiste più. Ora, piacerebbe anche a me che avessero ragione, ma al momento questa idea non trova riscontri attendibili. È più probabile, invece, che il mancato aggiustamento delle bilance sia dovuto al fatto che nell’Unione monetaria la dinamica dei salari monetari risulta abbastanza omogenea tra i paesi, mentre l’andamento delle produttività tende a divergere. In altri termini, la compressione salariale nei paesi cosiddetti «periferici» non riesce a favorire il riequilibrio poiché una compressione analoga si sta verificando anche nei paesi «centrali», nonostante che in questi la produttività cresca molto. Al pari dei lavoratori italiano e greco, anche quello tedesco dunque non riesce più ad accaparrarsi gli incrementi di produttività, sebbene nel suo paese questi siano estremamente cospicui. Ora, se questo fenomeno dovesse trovare conferme anche in futuro, faremmo bene a dedicargli molte attenzioni. Infatti esso rappresenta al contempo un potenziale fattore di crisi, ma anche un sintomo di crescente omogeneità nei rapporti di forza in cui versano i lavoratori europei, che potrebbe magari preludere a una loro maggiore coesione rivendicativa. Se ci pensiamo bene, da un punto di vista marxista è difficile immaginare una contraddizione più feconda di questa, sul piano sociale e politico. Ma per sfruttarla bisognerebbe lavorarci su, e soprattutto iniziare a coordinarsi a livello europeo, sia sul piano sindacale che partitico.

 

Giorgio Gattei

È troppo presto per dire se l’economia italiana abbia ritrovato il sentiero dello sviluppo (intanto le stime sono state riviste al ribasso). Quello che sembrerebbe invece in ordine è il bilancio dello Stato, così che la prossima finanziaria potrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) «a costo zero». I conti andrebbero così bene che l’obiettivo dichiarato può essere l’azzeramento del disavanzo per il 2011, come imposto dal sempre più nefasto accordo di Maastricht (ma perché non costituire un movimento a dimensione europea per cambiarlo?). Ora azzerare il disavanzo significa che a quella data le spese statali saranno coperte soltanto dalle entrate fiscali, perché il deficit dovrà essere 0,0%. È una regola monetarista, che ormai non trova oppositori, che sancisce il principio che lo Stato spende solo in base a quanto i cittadini si fanno tassare. E se non si vogliono le tasse? Niente spesa pubblica! È questo il veleno delle campagne di stampa contro l’eccessivo peso fiscale che finiscono per essere la copertura della parola d’ordine neoliberista dello «Stato al minimo» così che tutto sarà iniziativa privata e (se va bene) sussidarietà – Stati Uniti docet.

Però, messa così, non la si racconta ancora tutta perché tra le spese dello Stato pesano, e non di poco, gli interessi sul debito pubblico che non si prevede affatto di azzerare mediante, che so?, un «annulla il debito» (evidentemente adatto solo ai cantanti e al Terzo mondo) che portasse a quella «eutanasia dei rentiers» preconizzata in altri tempi da Keynes. Ma oggi i rentiers sono «sacrosanti» (e poi ricattano anche), sicché il loro diritto a percepire interessi non si può discutere. Quindi, permanendo la spesa per interessi, il pareggio del bilancio statale necessita di un ammontare di entrate superiore alle «spese pubbliche al netto degli interessi». Per questo servono più tasse e meno servizi per formare quell’avanzo primario che deve pagare gli interessi sul debito. Siamo così tutti molto felici che, dopo 9 anni di riduzione, l’avanzo primario possa riprendere a crescere grazie alla pressione fiscale in aumento (dal 40,6 % del Pil nel 2005 al 42,3% del 2006)(p. 135), mentre la spesa pubblica corrente ha segnato il passo: 44,5% del Pil nel 2005 e 2006 (p. 138). E la spesa per interessi? È aumentata dal 4,5% del Pil nel 2005 al 4,6% nel 2006 (p. 138).

Si potrebbe comunque pensare che nel pagare quegli interessi lo Stato trasferisca reddito nazionale dai cittadini che pagano le imposte (che dovrebbero essere tutti) ai cittadini che hanno sottoscritto il debito, che sono soltanto una parte ma comunque cittadini sono. Ciò però non è proprio vero perché buona parte del debito è nelle mani di investitori stranieri (anche fondi d’investimento e fondi pensione americani) che approfittano di quell’avanzo primario per portarsi a casa interessi senza tasse. Messa così non è più soltanto una partita di giro interna, ma una fuoriuscita di capitali che «saccheggia» la ricchezza del paese, un’evenienza ben nota di cui ha scritto Karl Marx nel Capitale: «con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo», così che quando il credito pubblico (perché tale andrebbe meglio chiamato) «diventa il credo del capitale, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico». Guai dunque a deludere gli interessi del debito, specie se alle viste c’è una nuova stagione di «alti tassi del denaro» simile a quella di reaganiana memoria. A meno che l’imprevista (?) crisi dei mutui subprime non imponga invece di fargliela pagare proprio a «bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori, agenti di cambio e lupi di Borsa» (K. Marx).

 

Giorgio Lunghini

In questo momento – ma in verità sempre – è molto difficile fare previsioni: gli economisti possono fare buone diagnosi, ma di rado fanno buone previsioni. Si può però dire che proprio perché l’economia italiana dipende troppo dal contesto internazionale, essa è un’economia strutturalmente fragile; e che le prospettive economiche mondiali, in particolare le prospettive di quella parte del mondo cui siamo più legati, non sono affatto tranquillizzanti.

Il vero problema – ormai da quasi un secolo – sono gli Stati Uniti. In uno dei suoi tanti scritti profetici, Keynes scriveva, nel 1932, che: «il capitalista moderno è come un marinaio che naviga soltanto con il vento in poppa, e che non appena si leva la burrasca viene meno alle regole della navigazione o addirittura affonda le navi che potrebbero trarlo in salvo, per la fretta di spingere via il vicino e salvare se stesso. Se gli Stati Uniti risolvessero i loro problemi interni, ciò varrebbe come esempio e stimolo per tutti gli altri paesi e dunque andrebbe a vantaggio del mondo intero. Magari uno sguardo ravvicinato potrebbe attenuare il mio pessimismo, ma guardando da lontano non riesco a immaginare un corso degli eventi che possa risanare l’economia americana nel futuro immediato».


Riccardo Realfonzo

Credo che se non assisteremo a una svolta nella politica economica del governo il futuro prossimo del paese sarà sempre più cupo, soprattutto per i lavoratori. In primo luogo, c’è da dire che la politica di «risanamento» non produce alcun frutto. A una Finanziaria di rigore segue un’altra Finanziaria di rigore, a un avanzo primario (l’eccesso delle entrate pubbliche sulle uscite, interessi sul debito a parte) segue un altro avanzo primario, con la conseguente progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia, lo svuotamento dello Stato sociale, la sempre più grave carenza di beni pubblici. Secondo i piani dei «rigoristi» questa politica dovrebbe proseguire, ai ritmi attuali, almeno per 20-25 anni. Solo allora, infatti, una volta che il debito fosse sceso alla tanto fatidica quanto del tutto ingiustificata soglia del 60% del Pil, dichiarerebbero compiuto il «risanamento», metterebbero fine alla successione di avanzi primari e ci lascerebbero godere gli effetti di un bilancio pubblico alleggerito del fardello del debito. Solo che nel frattempo il sistema economico-produttivo italiano risulterebbe tragicamente immiserito, definitivamente smantellato, per non parlare degli inaccettabili costi sociali di una politica di questo genere. Una vera tragedia.

In secondo luogo, la crisi commerciale c’è già. In un articolo a firma mia e di Augusto Graziani apparso su «Liberazione» il 10 settembre 2006, significativamente intitolato L’alternativa alla politica di lacrime e sangue, precisammo che il declino ha ormai portato al disavanzo cronico della bilancia commerciale. E chiarimmo che la strategia «moderata» per rispettare il vincolo esterno (l’equilibrio dei conti con l’estero) punta sulle politiche di bilancio restrittive e sul contenimento dei salari. Infatti, le politiche di bilancio restrittive – la manovra di abbattimento del debito – determinano una contrazione della domanda interna e quindi dell’occupazione e delle importazioni, contribuendo per questa via a migliorare il saldo dei conti con l’estero; mentre il contenimento dei salari determina una contrazione dei costi di produzione, aumentando la competitività delle imprese e quindi rilanciando le esportazioni. Si tratta di una strategia che evidentemente scarica il prezzo del riequilibrio della bilancia commerciale sui lavoratori. E questa sembra essere, purtroppo, la strategia sulla quale il governo in carica sta di fatto puntando. L’alternativa che noi proponiamo consiste nello stabilizzare il debito rispetto al Pil (e qui non posso non rimandare al ben noto appello degli economisti che si trova sul sito www.appellodeglieconomisti.com), rilanciare gli investimenti nelle infrastrutture materiali e immateriali, rimettere in piedi una politica industriale degna di questo nome, valorizzare il lavoro. Insomma tentare una «via alta» al rilancio della competitività, giocata su ricerca, innovazioni, lavoro di qualità.

 

 

Al di là del caso italiano, è ricorrente la domanda sulla tenuta in generale del sistema capitalistico, sulla sua capacità di sopravvivere alle sue crisi e di mostrarsi resistente ai progetti di trasformazione sociale. Al riguardo della recente crisi di solvibilità, indotta dallo scoppio della bolla speculativa e propagatasi dal cuore dell’impero, qualcuno ha evocato la crisi del ’29. In effetti, la finanziarizzazione dell’economia ha accresciuto i punti di vulnerabilità dell’economia capitalistica. Secondo Federico Rampini, con opportune e severe correzioni, il mercato può recuperare un suo fisiologico equilibrio; al contrario, Joseph Halevi ritiene che la dimensione finanziaria e speculativa è insita strutturalmente nel sistema capitalistico. Non sembra una divergenza di poco conto.

 

Riccardo Bellofiore

Joseph Halevi ha assolutamente ragione. Non mi è difficile essere d’accordo con lui. Su questo punto, come su tanti altri, la sintonia con Halevi si è rafforzata negli anni, in un dialogo ormai ininterrotto, a partire almeno da un convegno che organizzai a Bergamo nel 1997 e a cui lo invitai. Lo si è visto nelle due interviste uscite quest’estate su «Liberazione», che sono state entrambe attaccate da economisti di grido e politici di rilievo come affette da «rassegnazione», e da «pessimismo» naturalmente «cosmico». In privato, addirittura, non si sa perché, di «negrismo» (cosa che ha un che di divertente: l’anno scorso, con Giovanna Vertova, Halevi e io abbiamo condotto una polemica proprio con il versante economico di questa ideologia italiana, in cui sono intervenuti filosofi come Tomba e sociologi come Sacchetto, o ancora Ferruccio Gambino e Fabio Raimondi; gli economisti della Rive Gauche, ma non solo, si sono fatti notare per il loro silenzio; e dire che il tema trattato era proprio la precarietà del lavoro). In realtà, però, forse una ragione c’è. Basta criticare i partiti della sinistra così come sono, la loro politica, ricordare che il cambiamento necessario non può che andare insieme a una rinascita dal basso, invitare a smetterla di far finta che lo scontento della «base» sia un mugugno di cui non si è responsabili per le analisi e le scelte sbagliate degli ultimi anni. A questo punto la vecchia tradizione «comunista», nel senso peggiore, si risveglia e vieni accomunato all’anti- politica, o sei neutralizzato con il richiamo vuoto alla psicologia.

Sul carattere specifico del capitalismo contemporaneo, e sulla sua connaturata deriva finanziaria e speculativa, proprio con Halevi avevamo già incentrato la nostra critica agli economisti della Rive Gauche nel nostro contributo al convegno di due anni fa, poi raccolto nel volume curato da Cesaratto e Realfonzo. La crisi recente di questa estate la si comprende solo su quello sfondo. Sempre con Halevi, in continuità con quella nostra analisi, ho appena ultimato un articolo per «Alternative per il socialismo» che tratta della crisi dei mutui ad alto rischio. In un paragrafo di quello scritto, la riconduciamo al quadro di insieme delle dinamiche macroeconomiche degli ultimi decenni.

Il punto d’inizio non può che essere la svolta neoliberista di Reagan e Volcker. La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la restrizione monetaria, lo smantellamento dello stato sociale, la concorrenza aggressiva dei global player, hanno messo in moto negli anni Ottanta una potente tendenza stagnazionistica. La quota dei salari si riduce e gli investimenti non crescono a sufficienza. Unica controtendenza, i disavanzi pubblici eccezionali di Reagan, a furia di politiche a favore del complesso militare-industriale e di sgravi fiscali per i ricchi. La congiunzione di politica monetaria restrittiva e di politica fiscale espansiva negli Usa, in contrasto con le altre aree, ha fatto balzare verso l’alto i prezzi delle attività finanziarie, e ha determinato un differenziale positivo dei tassi di interesse che produceva afflussi di capitale e rivalutazione del dollaro in quel paese. Si ingrossava così il disavanzo nel commercio con l’estero americano: ma il «rosso» nei rapporti con l’estero non è evidentemente un vincolo per un paese la cui moneta nazionale è la valuta di riserva mondiale.

Queste dinamiche, accompagnate da numerosi scossoni finanziari, non hanno instaurato subito un nuovo modello. È solo alla metà degli anni Novanta – dopo un decennio di politiche coordinate di svalutazione del dollaro, e mentre si sgonfiava l’onda dell’alto costo del denaro – che si assiste a un mutamento qualitativo di rilievo. Quelle novità che con Halevi abbiamo sintetizzato nella terna lavoratore «spaventato» – consumatore «indebitato» – risparmiatore «terrorizzato», e quelle dinamiche che hanno finito con il produrre una «sussunzione reale» del lavoro alla finanza e al debito che retroagisce sulle modalità dello sfruttamento in senso stretto.

Per capire queste novità conviene prendere le mosse dalla new economy: non intesa come nuova ondata tecnologica, ma come interazione «virtuosa», per gli Stati Uniti, tra rinnovata politica del dollaro forte e politica monetaria di fiancheggiamento alla nuova finanza da parte della Fed. Le innovazioni finanziarie, accoppiate allo spostamento dei risparmi globali dai mercati obbligazionari del debito statale ai mercati azionari, attivano allora una bolla speculativa nella speranza di profitti dell’economia virtuale del tutto irrealistici. La centralizzazione del capitale finanziario a Wall Street fu favorita dalla prolungata recessione del Giappone e dalla stagnazione dell’Europa, intrappolata tra riunificazione tedesca e unificazione monetaria europea, e venne accelerata dalle varie crisi della globalizzazione finanziaria. Grazie anche alla diffusione dei fondi pensione in giro per il mondo, la moneta è affluita sempre più negli Stati Uniti. L’euforia irrazionale dei mercati diviene parossistica, sino a che il repentino aumento dei tassi di interesse da parte della Fed a fine 1999 porta alla svolta nel marzo 2000.

La nuova «economia della borsa» va compresa nel quadro macroeconomico globale e nel suo ruolo di dispositivo di un efficace «keynesismo» finanziario. Fuori dall’area anglosassone vige un eccesso del reddito sulla spesa, in forza di politiche neomercantiliste forti o deboli, all’insegna di deflazioni o svalutazioni competitive. Acuta la necessità di trovare sbocchi alla produzione. Gli Stati Uniti svolgono il ruolo di principale fornitore della domanda globale. Questa domanda non può venire, per definizione, dal canale estero. Nel 1995-2000 neanche dal settore statale, in attivo sotto Clinton. Viene dunque dal settore privato, famiglie e imprese, la cui bilancia finanziaria va in passivo. In parte investimenti privati, in parte più significativa consumi che superano il reddito disponibile.

Il meccanismo ebbe come perno la rivalutazione delle attività finanziarie, in particolare le azioni, e diede vita a rapporti prezzi/utili eccessivi. Banche e intermediari trasformarono la ricchezza cartacea in spesa senza fondo. Un effetto ricchezza che aumentò la componente «autonoma» (cioè indipendente dal reddito corrente) della domanda di consumi.

Il processo, insostenibile, si sgonfia nel 2000-01, mentre riprende la svalutazione di lungo periodo del dollaro. La crisi si è prolungata sino a metà 2003. Fu tamponata con più moneta, spesa militare e meno tasse per i ricchi (il vecchio «keynesismo» di cui molti hanno nostalgia). Nel triennio, i disavanzi statali bruciarono 7 punti percentuali di Pil. Il disavanzo della bilancia corrente intanto peggiorava, raggiungendo il 7% del Pil nel 2005. Tende ora al 5%: grazie al rallentamento dell’economia americana, che migliora la bilancia commerciale; e alla svalutazione di oltre il 20%, che favorisce l’indebitamento netto, dato che le passività sono denominate in dollari e le attività in valuta estera.

Visto che le imprese hanno ripianato i propri bilanci e spendono meno del risparmio d’impresa, come è ripartita la crescita? Grazie a una dose più robusta della stessa droga, per far ripartire i consumi di famiglie ancor più indebitate. Il mercato immobiliare, favorito dal crollo dei tassi di interesse, è venuto in soccorso. Con prezzi che salgono, e rinegoziazione dei mutui ipotecari a tasso variabile, le case sono diventate un bancomat. Il deficit finanziario delle famiglie (misurato come i loro risparmi al netto dell’investimento residenziale) ha raggiunto il 4% del Pil, una novità assoluta nel dopoguerra. Come nel 1995-2000, non sarebbe potuto avvenire senza la compiacenza della banca centrale. La Fed ha favorito la domanda, prima sostenendo i prezzi dell’immobiliare, poi per il tramite dei nuovi strumenti di credito finanziati dalle banche commerciali. Una piramide la cui sostenibilità si regge sulla continua disponibilità degli acquirenti esterni di attività in dollari, in primis la Cina, di finanziare il «buco» americano con l’estero.

Dal 2004 i tassi di interesse riprendono a salire, l’immobiliare cede, e il meccanismo di trasmissione della nuova politica monetaria si fa più perverso. Compaiono i subprime, e si ingrossano sino a costituire, nel 2006, ben il 40% dei nuovi crediti ipotecari, e il 13% del totale. Bisogna far entrare nel gioco le famiglie povere e il lavoro precario, che non sarebbero in condizione di indebitarsi. La sussunzione reale del lavoro al debito promette l’accesso facile alla proprietà. Nessuno si curerà di chi resta sul terreno. Ma quando le cose vanno male per il debitore, il creditore non riesce a disfarsi della casa se non a prezzi inferiori ai suoi impegni. E si avvia la crisi che abbiamo descritto.

Non si capisce nulla del capitalismo contemporaneo se non si ragiona dentro questo quadro (in Italia Luciano Gallino è, di nuovo, chi sembra avere più coscienza di questa dinamica). Né si capisce nulla di quel che succede e succederà in Europa o in Italia se non legandolo a questo discorso. Le politiche sul lavoro e sulle pensioni, per esempio, nascono di qui. Il «keynesismo» reale è questo, oscillante tra il bellico e il finanziario. Il capitalismo è questo virus, e lo si affronta solo con politiche che mettano davvero in questione questo meccanismo unico. L’appello al «conflittualismo» incompatibilista, beh, fa sempre bene ma lascia il tempo che trova. Come la discussione governo sì-governo no. Con Halevi non ci facciamo illusioni su quello che porterà questo governo. La soluzione non sta però in un’opposizione pura e semplice. Una controversia che di nuovo oppone un politicismo a un altro. Sta, semmai, in un’opposizione che sia in grado di avere anche una cultura da classe dirigente, che ambisca a governare i processi. Oppure si dimostri coi fatti e con i risultati, non con le parole o le promesse, di poter ottenere che qualche punto essenziale del proprio programma venga realizzato. E la si smetta con una contrattazione continua e uno scontro ideale esasperato che non porta a niente.

 

Emiliano Brancaccio

La semplice dicotomia concettuale tra stabilità e instabilità, tra equilibrio e crisi del capitalismo, non mi ha mai particolarmente convinto. Di solito il concetto di «crisi» viene dalle nostre parti declinato come un sintomo dell’instabilità e quindi della debolezza sistemica del capitale. E invece, soprattutto ai giorni nostri, accade spesso che la crisi agisca paradossalmente da fattore di riequilibrio del sistema. Pensiamo ad esempio alla crisi valutaria italiana del 1992. La vendita in massa di titoli pubblici nazionali mise nell’angolo i sindacati, e li costrinse ad accettare una compressione della spesa e dei salari di tali proporzioni da rimediare al deficit nei conti esteri. La crisi, insomma, può agire sul grado di sfruttamento assoluto e relativo dei lavoratori, può ridurre questi ultimi a variabile residuale del sistema e può consentire, per questa via, di ripristinare l’ordine nelle condizioni di riproduzione del capitale. Si badi bene che questa «crisi disciplinante» può riproporsi, anche in Italia. Se il deficit nei conti esteri continua a crescere, potrebbe diffondersi il timore di un’uscita del nostro paese dall’euro e di una conseguente svalutazione. Il solo diffondersi di un tale sospetto potrebbe attivare una massiccia vendita di titoli pubblici, e di conseguenza anche i sindacati più combattivi potrebbero esser messi alle strette, così da ridurre il deficit estero attraverso una compressione dei salari unitari ancor più violenta di quella del 1992. La prospettiva è funesta, ma se si volesse davvero evitarla bisognerebbe forse cimentarsi nel recupero e nell’aggiornamento di una vecchia lezione di Lenin, a mio avviso non del tutto obsoleta: imparare ad anticipare la crisi, per annunciarne i rischi e per saperla poi sfruttare politicamente. Personalmente ho cercato di approfondire la questione (11 e 22 luglio, «Liberazione»), ma riflessioni di questo tipo mi sembrano ancora poco diffuse. C’è addirittura un certo imbarazzo nell’affrontarle. Eppure la loro attualità è evidente, così come è evidente che fino a quando non ci si attiverà per anticipare le crisi, queste piegheranno sempre in una direzione disciplinante e normalizzatrice.

 

Giorgio Gattei

La crisi di Borsa che si è aperta in agosto sarà per il capitale appena un «turbamento» oppure il suo «crollo»? Credo nessuna delle due. Certamente la crisi è gravissima e avrà ricadute sull’economia «reale», proprio come è stata la Grande crisi che nel 1929 ai commentatori appariva appena finanziaria e circoscritta (poi s’è visto cos’è successo). Tuttavia essa potrà mettere alle corde il capitalismo americano, non di certo il capitale nel suo complesso che adesso vede diversi soggetti inediti in competizione come Cina+India.

E che ne potrà succedere?

Per gli Stati Uniti non mi pare che ne possano uscire senza un’inversione radicale di tendenza che porti all’aumento dell’imposizione fiscale per ripianare il bilancio federale e alla svalutazione del dollaro per raddrizzare la bilancia dei pagamenti. Però le imposte ridimensionerebbero quel mercato interno americano che attualmente funziona da luogo privilegiato della domanda globale, mentre la caduta del dollaro lo spodesterebbe dal ruolo privilegiato di moneta mondiale. Sarebbe un disastro per tutti, che quindi proprio tutti si sforzeranno d’impedire.

Ma sarà proprio così? Fino all’altro ieri avrei detto di sì, perché a fronte della crisi americana ci sarebbe stata la vittoria dell’Urss nella «guerra fredda» con l’intero «mondo libero» a farne le spese. Oggi però l’Urss non c’è più e per il «mondo libero» la fedeltà all’America non è più una virtù. Fino a ieri c’era poi anche il fatto che al mercato americano e al dollaro mondiale non si davano alternative. Ma ora potrebbe aprirsi il grande mercato euro-asiatico, se Europa, Russia e Cina+India passassero a uno sviluppo continentale integrato, e poi c’è l’euro che, macinando guadagni sul dollaro, sconsiglia di comprarlo. Insomma, può darsi che stiamo vivendo, più che una crisi del capitale, un trapasso di supremazia capitalistica dagli Stati Uniti all’Eurasia all’incontrario di quello che dopo il 1945 portò alla detronizzazione (pacifica) dell’Inghilterra e della sterlina estenuate dalla «guerra dei trent’anni» contro la Germania. Può così darsi che il XXI secolo non sia più americano e al proposito raccolgo una notizia giornalistica passata in sordina: «La Cina vende T-Bond Usa? È la sua “opzione nucleare”. Un pesante calo nelle ultime cinque settimane del possesso di titoli del tesoro americano (Treasury bonds) ha fatto crescere i timori che Pechino stia silenziosamente ritirando i propri fondi in dollari dai mercati degli Stati Uniti» («Wall Street Italia», 7 settembre 2007).

 

Giorgio Lunghini

È vero che il capitalismo è capace di metamorfosi, di trasformazioni che però non ne intaccano il nesso interno, cioè il rapporto tra capitale e lavoro salariato. Metamorfosi che anzi sono intese a salvaguardarlo. L’esempio più chiaro è stato proprio il fordismo, come risposta alla crisi del ’29; e lo è anche questa globalizzazione, come risposta alla crisi del fordismo. Quale sarà la prossima metamorfosi, non lo so; ma credo che non avrà un bell’aspetto.

Circa i rischi della finanziarizzazione, cito di nuovo Keynes, il Keynes della Teoria generale: «gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male. Se alla borsa si guarda come a una istituzione la cui funzione sociale appropriata è orientare i nuovi investimenti verso i canali più profittevoli in termini di rendimenti futuri, il successo conquistato da Wall Street non può proprio essere vantato tra gli straordinari trionfi di un capitalismo del laissez faire. Il che non dovrebbe meravigliare, se ho ragione quando sostengo che i migliori cervelli di Wall Street sono in verità orientati a tutt’altri obiettivi».

 

Riccardo Realfonzo

Su questi temi preferisco continuare ad avere come punti di riferimento i contributi di Marx, Keynes e Schumpeter. Questi autori, insieme con la migliore e più recente letteratura postkeynesiana e sul circuito monetario, ci hanno insegnato che l’economia capitalistica possiede una natura intimamente monetaria, attraversata da incertezza sistemica, e quindi anche da una dimensione speculativa, e non a caso procede lungo sentieri di sviluppo ciclici e non lineari. Ormai sappiamo bene che lungo la fase crescente del ciclo gli atteggiamenti speculativi degli agenti – imprese e famiglie – si moltiplicano, assecondati dagli intermediari finanziari e dalle banche, facendo aumentare la fragilità finanziaria delle singole imprese, anche delle famiglie, e del sistema nel suo insieme. E sappiamo anche che in fondo il capitalismo non è riformabile, ma che lo Stato può ridurre gli scossoni e le crisi cicliche attraverso l’intervento diretto nell’economia e la regolamentazione dei mercati. Le vicende di questi giorni, con la crisi dei mutui subprime, mostra ancora una volta quanto sia fallace il mito liberista della piena libertà dei mercati, con i suoi assunti della perfetta informazione e della perfetta razionalità, con il suo mito dello sviluppo in equilibrio. In realtà i mercati finanziari dovrebbero essere regolamentati più intensamente, anche impedendo l’emissione di strumenti derivati ad alto rischio. I movimenti interni e internazionali di capitale, non associati allo scambio di merci e servizi, dovrebbero essere maggiormente controllati e limitati. E, naturalmente, la politica fiscale e la politica monetaria dovrebbero essere libere dai lacci in cui i modelli neoliberisti tendono a imbrigliarle.

 

 

Con il mutamento epocale del 1989, la crisi dei modelli social-democratici ha accompagnato l’eclissi del cosiddetto «socialismo reale». Anche a sinistra il «piano» è caduto in disgrazia, a tutto vantaggio dell’idea di «mercato», seppure regolato. Per chi oggi – nel mondo occidentale – fa riferimento a un impianto analitico marxiano, ciò è nella sostanza espressione di una sconfitta «di classe». Analogamente, quanti non ritengono Keynes una sorta di residuo archeologico sopravvissuto alla globalizzazione capitalistica vedono in tali sviluppi il presupposto di una verticale regressione sociale. È qui in gioco un pezzo essenziale dell’identità di una critica del modo di produzione capitalistico.

 

Riccardo Bellofiore

Credo, a questa domanda, di avere già risposto. Keynes è autore di grande utilità per capire gli aspetti monetari e finanziari, l’inadeguatezza della domanda effettiva, il ruolo di aspettative e incertezza, l’insufficienza di domanda effettiva nel capitalismo «puro», la disoccupazione di massa come stato permanente, la povertà in mezzo all’abbondanza, il costitutivo disequilibrio che caratterizza il capitalismo. Ma lui, come le politiche economiche costruite e costruibili dentro il suo quadro, resta in un ambito borghese. Solo una ridefinizione strutturale della domanda, ma anche dell’offerta, può superarne i limiti intrinseci. Lo sapevano molto bene Joan Robinson e Hyman Minsky negli anni Sessanta e Settanta, critici interni del keynesismo realizzato, che non scambiavano certo per l’anticamera del comunismo. Per quel che riguarda Marx, poi, in Italia davvero nessuno se ne preoccupa più, se non come filosofo: e, veramente, a quel punto Marx è ridotto a un classico o a oggetto di studio filologico che non mi interessa. Riprendere la critica dell’economia politica significa peraltro stare dentro la teoria del valore, dentro l’essenzialità del denaro come capitale. Queste cose, per alcuni economisti della Rive Gauche, sono un «pantano» e nulla più.

La domanda fa riferimento a un primato del «mercato», pur regolato, nella cultura prevalente nella sinistra cosiddetta moderata (ma è poi ancora sinistra?). È un buon punto di partenza, se si sviluppa sino a criticare il tic tipico di tutti, non ultimi il vecchio «Ernesto» e ora «Essere comunisti» (vedi i contributi di Burgio), che parlano sempre di liberismo o di neoliberismo come se fosse la riedizione del laissez faire. Quel liberismo non è mai esistito davvero. Oggi la retorica liberista dilaga nel centro-sinistra, anche in conseguenza del risultato elettorale risicato, sicché economisti di quell’impronta hanno larga eco. Ma il liberismo non è però più da tempo un’opzione reale, se mai lo è stato davvero.

Il neoliberismo, vedi Bush e Berlusconi, protegge i monopoli, usa i disavanzi del bilancio dello Stato e fa aumentare il debito pubblico senza problemi. È selvaggiamente liberista sul mercato del lavoro e contro lo stato assistenziale, questo sì. I social-liberisti, dal canto loro, si credono per più mercato e più stato perché vogliono liberalizzare per riregolamentare. In questo sono, per un verso, più liberisti, sul mercato dei beni e dei servizi. Ma sono anche, per l’altro verso, per un welfare universalista, per una qualche redistribuzione, per politiche industriali e del credito basate su incentivi e disincentivi. Cercano di riempire l’ampio spazio che si apre secondo loro tra liberismo e statalismo vecchio stampo. I primi si rifanno al monetarismo e alla nuova macroeconomia classica, ma più ancora agli austriaci Mises e Hayek. I secondi, partono da quell’«imperfezionismo» alla Stiglitz che nega l’utilità dell’equilibrio economico generale walrasiano come guida al come funzionano i mercati nella realtà. Siamo ben lontani dalla social-democrazia, ma anche da Keynes. Però, sia chiaro, tutti usano le politiche keynesiane quando ce n’è bisogno. Di nuovo, la sinistra ha su questo un’arretratezza culturale spaventosa, non sa cosa sia oggi il dibattito vero in economia o in politica economica. Lo dimostrano come meglio non si potrebbe la gran parte degli interventi degli economisti sulle pagine de «il manifesto» e di «Liberazione», un giorno sì e l’altro pure.

 

Emiliano Brancaccio

Io non so se la critica del capitale ponga effettivamente un problema di «identità». È chiaro che la pianificazione socialista o anche la socializzazione degli investimenti possono rappresentare delle valide prospettive attorno alle quali riunirsi, soprattutto se si riuscirà nuovamente ad approfondire il nesso tra queste forme di organizzazione delle relazioni economiche e le forme di espressione della democrazia. Contrariamente al mercato capitalistico, infatti, la pianificazione potrebbe costituire un vettore delle più grandi e disattese istanze di emancipazione sociale, dalla tutela dell’ambiente alla lotta al patriarcato. Ma al di là del discorso sugli obiettivi di riferimento, io credo che la critica del capitalismo, almeno da un punto di vista marxista, ponga in primo luogo un problema di metodo. Quel che oggi manca ai movimenti anticapitalisti è un metodo, vale a dire un criterio di analisi e di anticipazione degli avvenimenti concreti. La questione dell’efficacia del metodo di analisi è assolutamente cruciale dal punto di vista politico. Ad esempio, sempre riguardo alle vicende europee, io prima ho sostenuto che la duplice tendenza alla convergenza dei salari e alla divergenza delle produttività potrebbe rappresentare una contraddizione feconda sul piano politico. Tuttavia un buon metodo di analisi potrebbe farci scoprire che la divergenza delle produttività stia avanzando più speditamente della convergenza nelle retribuzioni e nelle condizioni di lavoro. Questo significherebbe che la crisi e la relativa normalizzazione dei sindacati possono sopraggiungere ben prima che si creino le condizioni per un ricompattamento del movimento dei lavoratori a livello europeo. La notizia non sarebbe delle migliori, ma mi pare sia meglio essere a conoscenza di simili evenienze piuttosto che continuare imperterriti a brancolare nel buio. Se non altro, saremmo ancor più consapevoli del fatto che l’ingranaggio dell’euro deve ancora dispiegare i suoi effetti più repressivi, e che forse, per sperare in un rafforzamento della sinistra europea, non ci si può limitare ad attendere che i movimenti dei lavoratori convergano spontaneamente, «dal basso», senza una guida politica capace di anticipare gli eventi.

 

Giorgio Lunghini

Di questo esito è responsabile la stessa sinistra, che ha rinunciato senza ragione ai suoi riferimenti teorici classici, Marx e Keynes, e ha aderito frettolosamente alla visione oggi imperante di un capitalismo del laissez faire capace di autoregolarsi: una visione priva di qualsiasi fondamento teorico robusto e foriera di gravi guasti economici, sociali e politici. È anche un segno di provincialismo, poiché in nessuna parte del mondo c’è oggi uno stato liberista.


Riccardo Realfonzo

Continuo a pensare che Marx e Keynes siano vivi e quanto mai utili per capire e per agire. Ed è per questo che occorre tornare faticosamente a evidenziare i tanti fallimenti del mercato e la necessità dell’intervento pubblico, della programmazione economica, del piano.

 

 

In questo quadro – a dispetto degli esiti referendari registrati a suo tempo in Francia e Olanda – il progetto europeo conferma nei fatti l’ispirazione e le politiche neoliberiste. E, al di là della «retorica europeista», va consolidandosi una conduzione comunitaria a misura degli stati più forti (in primo luogo, Germania e Francia). Al punto che Valentino Parlato, già nel convegno di due anni fa, prospettava per una politica delle sinistre la necessità di una scelta netta: o si procede nella democratizzazione del suddetto progetto, in direzione di un’«Europa dei popoli», o è meglio tornare a dare forza e autonomia ai governi nazionali. Una tale alternativa non si pone oggi con maggior radicalità?

 

Riccardo Bellofiore

No, quella proposta da Valentino Parlato è una falsa alternativa. La categoria di «popolo» è tra le più ambigue che conosca. Una sinistra autentica dovrebbe ripartire da una analisi di classe del capitalismo contemporaneo, e delle trasformazioni in Europa, quella cui ho accennato nelle risposte precedenti. Un’esigenza del genere è stata affermata all’inizio di questa estate tanto dallo stesso Parlato quanto da Rossana Rossanda. Bene, non si capisce perché il loro giornale, che non è un giornale qualsiasi, non se ne faccia promotore. Idem per «Liberazione», che sembra procedere sul terreno dell’economia con un approccio di tipo «pluralista» nel senso più deteriore: i tecnici dicano quello che vogliono, tanto la sintesi la tirano altri. Il punto è che una «analisi di classe», una volta fatta, imporrebbe scelte diverse, vincolerebbe le mani. Né si può pretendere che gli intellettuali che vi mettono mano non abbiano una loro politicità, non pongano una sfida cui occorre rispondere.

Le politiche «nazionali» in Europa certo che ci sono. Ma dal lato della classe operaia, come dal lato del capitale, non si può non osservare come «centri» e «periferie» divengano trasversali, e così la catena della creazione di valore in senso marxiano. Qualcosa che non si può pensare scorra lungo i confini delle «nazioni». Bisognerebbe allora avere il coraggio di dire che una sinistra autentica esiste davvero solo se ha un progetto di trasformazione radicale, e se è a partire da questo che va a una dialettica con i «social-liberisti». E che dunque, come dice Lafontaine, va al governo se su qualche punto discriminante del suo programma quel governo si impegna. Insomma, non vedo in nessun partito o aggregazione un discorso veramente europeo e di classe, se non a parole. Occorre abituarsi all’idea di una lunga marcia attraverso le contraddizioni reali per tornare a poter incidere davvero, smetterla con i cortocircuiti. Questi errori sono stati condivisi da praticamente tutti a sinistra, inclusa l’area dell’Ernesto. Sulle questioni che stiamo discutendo, si è appiattita, senza distinguo, alle analisi più correnti sul terreno dell’economia, che non hanno con tutta evidenza portato da alcuna parte. Ricordo bene come, quando posi più o meno queste questioni nella discussione al Cpn sulle Tesi del Prc, a fine 2001, la reazione fu una simmetrica sordità, tanto della maggioranza di allora, quanto degli emendatari. Mi votò praticamente solo il compianto compagno Rigacci, uno che sulle questioni dell’economia – come Maitàn – darebbe molti punti agli economisti vicini al partito. Si vede che avevo torto.

 

Emiliano Brancaccio

La contrapposizione tra europeismo e neonazionalismo viene presentata troppo spesso in modo semplicistico. Stando all’esperienza passata, credo sia lecito ritenere che la strada verso un’Europa più unita e democratica possa essere imboccata solo attraverso un maggior protagonismo dei paesi periferici. Il problema della maggiore forza e autonomia dei governi di questi paesi dunque si pone, e indubbiamente potrebbe esser fonte di complicazioni e di contrasti. Ma sarebbe ingenuo o strumentale considerare i conflitti interstatuali necessariamente disgreganti. Nulla toglie che essi possano invece rivelarsi il giusto stimolo per la ripresa del processo di unificazione politica europea. A ogni modo, è chiaro che i governi dei paesi periferici potranno acquisire maggiore forza solo se si rendono più autonomi rispetto al vincolo di bilancia dei pagamenti con l’estero (che non si vede più ma esiste eccome). Ciò può esser conseguito tramite una politica protezionistica, della quale mi farebbe senz’altro piacere discutere ma che non mi pare sia all’ordine del giorno. Oppure, si può cercare di allentare il vincolo dei conti esteri attraverso un allentamento del vincolo dei conti pubblici, e un utilizzo delle risorse statali per un programma di politica industriale selettivo, fondato sull’intervento pubblico negli assetti proprietari e orientato all’esportazione (questo, in sostanza, era il progetto insito nell’appello degli economisti contro l’abbattimento del debito). Si noti che, in misura più o meno radicale, tutte le soluzioni menzionate richiedono la violazione di almeno alcune delle regole europee (dal patto di stabilità alle norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato). Ma il problema chiave non è di ordine politico-istituzionale. Il problema di fondo è di capire se c’è il margine economico per agire in questa direzione. A tale riguardo, dall’esame della reattività dei tassi di interesse si scopre che questi sono scarsamente sensibili alla dinamica dei conti pubblici mentre risultano abbastanza condizionati dalla dinamica dei conti esteri. Dunque, contrariamente a quel che si pensa, se vogliamo capire quanto margine abbiamo, dobbiamo spostare l’attenzione dal deficit pubblico al deficit commerciale. Se l’allentamento del vincolo sul deficit pubblico viene sfruttato nel modo giusto – che è quello di accrescere i parametri di competitività nazionale – allora è possibile che il conseguente ampliamento del deficit commerciale venga assorbito prima di un attacco speculativo sui titoli pubblici nazionali, o comunque in tempo utile per evitare un’eccessiva instabilità finanziaria. Sarebbe un sentiero stretto, non particolarmente agevole. Eppure la ferma volontà dei paesi «periferici» di imboccarlo potrebbe aprire in sé nuovi scenari, magari pure convincendo la Germania e gli altri paesi «centrali» della necessità di costituire un ampio bilancio pubblico europeo per salvare il processo di unificazione. Ma, soprattutto, rinunciare a questa opzione politica alternativa significherebbe proseguire lungo la nefasta e già ampiamente sperimentata via crucis della deflazione, questo vediamo di non dimenticarlo mai.

 

Giorgio Lunghini

Penso anch’io che la prospettiva auspicabile sia quella di un’Europa degli Stati-nazione anziché di un mercato dell’Europa, ma non ne vedo le premesse politiche e culturali.

 

Riccardo Realfonzo

Purtroppo temo che la grande speranza in quello straordinario progetto di pace e solidarietà che chiamiamo «Europa dei popoli» rischi di tramontare. Sappiamo sin troppo bene, infatti, che il Trattato istitutivo dell’Unione Europea ha prospettato un modello ben diverso, incentrato sulla moneta e sul mercato. Un modello che ha preteso la progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia, l’indebolimento dello stato sociale, nonché una politica monetaria che guarda con ostilità alla piena occupazione, perché foriera di spinte salariali e conseguenti rischi inflazionistici. Tutto ciò ha determinato una significativa crescita degli squilibri e delle disuguaglianze. Le aree centrali e sviluppate sono diventate più ricche e congestionate, le aree periferiche e sottosviluppate più povere e desertificate; i profitti e le rendite sono aumentati, i salari si sono contratti; l’occupazione non è aumentata e invece si sono intensificati i flussi migratori. Eppure, per quanto tutto ciò abbia del paradossale, la moneta unica e l’abbattimento delle barriere alla circolazione delle merci avrebbero effettivamente potuto costituire il volano per un nuovo modello di sviluppo, per l’«Europa dei popoli». Con l’adesione alla moneta unica l’Italia e gli altri stati d’Europa hanno perso la sovranità monetaria, hanno rinunciato a importanti strumenti di politica economica, hanno accettato una serie di vincoli alle politiche di bilancio. Oggi non solo siamo lontani anni luce dall’«Europa dei popoli», ma abbiamo anche vincolato l’azione dei governi, e abdicato pezzi di democrazia economica a favore delle tecnocrazie della moneta unica.

 

 

Il convegno della Rive Gauche aveva provato a fornire indicazioni circa la politica economica che un governo progressista dovrebbe proporsi di attuare. Il fatto che, nella sostanza, nel nostro paese non si sia dato seguito a quelle sollecitazioni dipende da un difetto di ascolto da parte del versante moderato della coalizione di governo oppure esistono impedimenti «strutturali» al concretizzarsi delle suddette politiche? In altri termini, quale spazio c’è oggi – oggettivamente – per politiche progressiste?

 

Riccardo Bellofiore

Di nuovo, la domanda mi sembra malposta. È ovvio che esistono impedimenti «strutturali»: si chiamano rapporto di classe e relazioni di potere, ma ci si dovrebbe muovere per cambiare lo stato di cose esistente, no? La domanda non considera neanche la possibilità che le «sollecitazioni» sulla politica economica avanzate dagli economisti della Rive Gauche fossero superficiali e sbagliate. Ed è infatti questa la vera risposta. Non può non colpire che nelle vostre domande la questione su cui più si sono impegnati gli economisti della Rive Gauche più presenti su «il manifesto» e «Liberazione», ma anche sul vecchio «Ernesto» e ora «Essere comunisti», quella della battaglia sul debito pubblico, compaia marginalmente, sullo sfondo. D’altronde, è così nello stesso articolo che annuncia un secondo convegno di economisti promosso da «il manifesto» a Roma, di Leon e Realfonzo, dove non vi si fa praticamente cenno. Peraltro, si parla solo del neoliberismo, come se il social-liberismo non esistesse, e la crisi economica che dagli Usa rischia di tracimare, anzi lo ha già fatto, merita una riga come se non ci riguardasse, e non avesse a che vedere con le questioni della precarietà o delle pensioni.

Quella che si è fatta sul debito pubblico è stata per due anni una battaglia «gridata», su un approccio in fondo contabile al pari di quello della controparte: meglio la «stabilizzazione» del «risanamento finanziario». Questo lo sappiamo tutti. Ma è chiaro che la stabilizzazione di per sé non comporta alcun avvio di una diversa politica economica, è all’insegna di un’illusoria riduzione del danno. Un ministro bravissimo di suo, come Paolo Ferrero, si è in qualche misura sganciato. E si è attestato sulla linea del Piave dell’attuazione del programma. Costretto a questo punto a sostenere una tesi altrettanto debole: quella di spalmare il rigorismo su due anni. Illusoria, la pretesa riduzione del danno, perché la parola d’ordine della stabilizzazione è debole, tanto sul terreno dell’analisi, quanto sullo stesso terreno immediatamente politico, di una proposta efficace.

Sul terreno dell’analisi, dei contenuti, perché la sinistra dovrebbe, come ho detto, partire lei all’offensiva, non farsi mettere nell’angolo. Pretendere lei di partire dai problemi del «declino» economico e sociale da cui è iniziata la nostra conversazione. Denunciare lei l’inaccettabilità del come sono articolate spesa pubblica ed entrate statali, la qualità a rischio della nostra specializzazione produttiva, i limiti seri della nostra posizione verso l’estero, il pericolo del degrado strutturale che ne consegue. Dunque, presentarsi lei con una qualche proposta di dove e come intervenire, in un’ottica meno debole di quella della cosiddetta via alta alla produttività (ne ho scritto con Garibaldo su «il manifesto»). Se no i discorsi sulla programmazione, sulla lotta alla precarietà, la stessa battaglia contro la controriforma delle pensioni e lo scippo del Tfr, su un pieno impiego di qualità, sono tutti fiato sprecato.

Muoversi in quest’altra direzione (che va preparata da un lavoro vero: e un lavoro vero prende tempo, sta lontano dai riflettori, non si esaurisce in articoli, convegni e presenza mediatici, che vengono dopo) comporta una politica di maggiore spesa per «investimenti» pubblici in senso lato. È chiaro che con questa struttura dell’imposizione fiscale, si determina un peggioramento, nell’immediato, del rapporto disavanzo/Pil. A medio-lungo termine, però, se le politiche sono ben disegnate, il denominatore aumenta. Ovviamente ciò deve avvenire con una composizione della produzione che segnali l’impronta di sinistra, ed è qui che per esempio divengono essenziali l’ottica ambientalista e anche quella femminista: dovremmo smetterla di vedere queste questioni come separate, si tratta di far vivere la questione di genere e quella della natura dentro il proprio orizzonte di cambiamento dei modi dello sviluppo economico. È il cosiddetto «paradosso della produttività», che risale in fondo a Schumpeter. Per aumentare la produttività, per innovare, prima devi finanziare una politica di investimenti che avrà effetti, darà frutto, solo nel futuro.

A questo punto, se ti contrappongono l’esigenza di evitare un aumento del disavanzo, beh, si può replicare che si vadano a cercare delle entrate altrove che nel mondo del lavoro, che una politica di spesa pubblica è produttiva eccome. Graziani ha spesso ricordato che gli stessi parametri di Maastricht non impediscono affatto una politica espansiva, visto che un aumento delle spese finanziato da entrate di pari ammontare accresce reddito e occupazione. Su questa linea si sarebbe evitata la situazione prevedibile, e che si è poi effettivamente verificata, che la battaglia sul debito sarebbe stata etichettata come la solita da parte di una sinistra che difende l’esistente, insensibile ai problemi strutturali. Ammettiamolo, non del tutto a torto. D’altronde quello che chiedono i partiti della sinistra e qualche sindacalista è un po’ di respiro: si può capire, ma è cortoterminismo anche quello. Come ha detto con efficacia, qualche tempo fa, Giorgio Lunghini: nel breve periodo siamo tutti morti, anche e soprattutto a sinistra. La carica distruttiva del capitalismo odierno non è certo frenata dal piccolo cabotaggio.

Non è un caso che a Salvati, che ha posto da destra questi problemi, gli economisti della Rive Gauche non hanno saputo replicare praticamente niente. Avevamo in realtà risposto in anticipo due anni fa Halevi e io, nel contributo al convegno e poi volume di Rive Gauche. E su «il manifesto» abbiamo controbattuto Garibaldo e io, in un articolo sui nodi strutturali che ho messo al centro delle risposte in questa intervista. Essere «rassegnati» significa prendere questi ragionamenti sottogamba, come un discorso di utopia. Mi è stato detto a ripetizione, nei vari dibattiti a cui ho partecipato dall’anno scorso: sei, come Halevi, un «esagerato». Gli investimenti pubblici, sì, va bene, ma in realtà non si sa cosa siano. E comunque non ci sono le condizioni politiche. Se la sinistra non sa come dare carne e sangue a un discorso sulle politiche strutturali, è chiaro che perde. Perde per molte ragioni, ma anche perché non ha veri argomenti, non conosce i processi strutturali, non sa come ragionano gli altri.

Claudio Napoleoni nel 1987, in un intervento a un convegno del Cespe, e pur all’interno di una impostazione piena di limiti, in parte subalterna alla sirena del «risanamento», non ha però mai perso di vista un punto essenziale senza del quale non c’è politica economica di sinistra. Che si deve intervenire sulle questioni della spesa pubblica e del debito solo «all’interno di una operazione più complessiva che abbia come suo punto di partenza un punto immediatamente mobilitante: quello della redistribuzione del reddito». E aggiungeva subito che «le operazioni che si intendono fare mediante il bilancio pubblico sono quelle volte allo spostamento in avanti del vincolo interno»: in altre parole, che spazi per una diversa distribuzione del reddito si aprono soltanto se contemporaneamente si rimette in questione, a partire dalle politiche statali di spesa, la struttura economica e produttiva, se dunque con quelle politiche si allenta anche il vincolo «esterno». E questo, se deve avere contenuti di sinistra, richiede una vera e propria rivoluzione culturale. Richiede «di mutare in maniera radicale le prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di contrapporre veramente al modello degli altri un altro modello». La sinistra, quest’altro modello, ce l’ha o no? O si tratta di parole da spendere come moneta ormai svalutata senza dar loro un contenuto, prima o poi?

Uno come me, che è «pessimista» e «rassegnato», e per qualcuno poco meno o poco più che un traditore perché non convinto dall’economia della Rive Gauche, non capisce come sia possibile che Sarkozy possa dire e fare quello che da noi la sinistra non ha il coraggio nemmeno di bisbigliare a Prodi e Padoa Schioppa. Si tratta in fondo dell’ex Presidente della Commissione Europea e di un ex banchiere centrale della Banca Centrale Europea. Dovrebbero spendere il loro prestigio in Europa per far accettare un serio programma di intervento strutturale, anche se all’inizio finanziato in ulteriore disavanzo. Questo avrebbe almeno potuto, e dovuto, chiedere la sinistra, se fosse giunta all’appuntamento preparata sul piano programmatico. Così, alla resa dei conti, risulta più coraggioso – oggi come nel 1998 – Prodi con il suo discorso sull’utilizzo in Europa, a fini di investimento, dell’eccesso di riserve in oro delle banche centrali. Vola diecimila volte più alto della sinistra.

Né ci si può nascondere che la battaglia condotta da alcuni dei promotori dell’appello degli economisti, quelli più presenti sui giornali della sinistra, è stata pressoché integralmente autoriferita in modo imbarazzante, una sorta di grandiosa autopromozione di ceto. Non ci vuole molto a provarlo. Si vada sul sito www.appellodeglieconomisti.com, e si contino, tra i soli suoi firmatari, gli interventi raccolti (articoli, interviste, radio o televisione) dopo il lancio dell’appello sotto la rubrica «il dibattito». I dati sono questi: Emiliano Brancaccio, Università del Sannio, 19 ricorrenze: Riccardo Realfonzo Università del Sannio, 14 ricorrenze; Luigi Cavallaro, editorialista, 4 ricorrenze; Guglielmo Forges Davanzati e Rosario Patalano, 3 ricorrenze ciascuno; Paolo Leon, 2 ricorrenze; Artoni, Bosco, Cesaratto, Graziani (con Realfonzo), Palermo, Romano: 1. Se si tiene conto che Forges Davanzati e Patalano, di altre sedi universitarie, sono però legati da una lunga collaborazione a Realfonzo, gli interventi di quello che il «Corriere della Sera» ha denominato l’Mit del Sannio ammontano a 39 ricorrenze (senza Forges Davanzati e Patalano, sono comunque 33). Gli altri firmatari sono intervenuti, o per lo meno i loro interventi sono stati registrati, per 12 ricorrenze (con Forges Davanzati e Patalano si arriverebbe in ogni caso a 18). Si noti che uno dei quattro primi promotori, Ciccone, non compare tra gli interventi. Né è intervenuto in alcun modo, che non sia la firma dell’appello, Garegnani.

Lasciamo perdere dunque il versante «moderato» della coalizione, come lo chiamate, che non è comunque rinchiudibile nella caricatura che se ne dà nella polemica giornalistica su il «il manifesto» e «Liberazione», e neanche nei contributi che ho letto sul vecchio «Ernesto» o su «Essere comunisti». E d’altra parte, se gli economisti della parte «moderata» della coalizione fossero tutti «bocconiani» e «neoliberisti», magari «un po’ meno», davvero non capisco come si possa aver pensato di andarci al governo insieme.

Qui il problema sta nella sinistra. Come anche nella debolezza intrinseca, su diversi piani, dell’appello. E sta nel fatto che un certo modo di fare l’economista di sinistra, «consigliere del principe», è ormai giunto al capolinea.

 

Emiliano Brancaccio

Non definirei «moderato» il nascituro Partito democratico. Quel partito resta fedele alla deflazione da salari e da domanda per rimediare al deficit commerciale. In esso cova da tempo il desiderio di una resa dei conti con le frange più combattive del sindacato, magari proprio attraverso una «crisi disciplinante». Non mi pare che in questo anno e mezzo di governo le forze della sinistra abbiano avuto la possibilità concreta di scalfire l’egemonia dei cosiddetti «democratici» nel campo prioritario della politica economica. E non credo proprio che un convegno e un appello come i nostri, pur lodevoli, pur tempestivi sul piano politico, potessero cambiare lo stato dei rapporti di forza. L’unità degli economisti della Rive gauche, le loro iniziative, nel loro piccolo stanno sicuramente aiutando a fare chiarezza, e stanno mettendo in seria difficoltà gli esponenti dell’ortodossia liberista, i quali vedono finalmente un po’ scalfito il privilegio di poter diffondere il loro verbo senza alcun contraddittorio (a titolo di esempio, mi permetto di segnalare il confronto che ho avuto con Giavazzi e Ichino in tema di precarietà, su «Liberazione» dell’1, 4, 6 e 8 settembre). Questa rinnovata dialettica ci ha permesso anche di dare la sveglia ai numerosi esponenti e opinionisti della sinistra che si erano lasciati condizionare dai falsi dogmi dell’ideologia dominante, e che per questo motivo avevano preso ormai una velleitaria deriva etico-sentimentale (del tipo: le leggi economiche proprio non le conosco, ma le considero brutte e cattive). Ma al di là di questi pur apprezzabili risultati, l’illusione che delle belle teste pensanti si siedano a un tavolo, scrivano un gran programma e grazie a questo arrivino a cambiare il mondo la lascio volentieri all’amico Bellofiore, che si professa «marxiano» ma che spesso cade, curiosamente, in un idealismo alquanto ingenuo. Come ho detto e ripetuto, un’analisi accurata e un programma efficace ci servirebbero senz’altro, ma uno spazio per la politica economica alternativa potrà emergere solo dalla capacità di impiegare le conoscenze acquisite al fine di sfruttare la prossima congiuntura, la prossima emergenza. Pertanto la questione prioritaria è la seguente: se domani all’improvviso ci trovassimo nel bel mezzo di un momento «emergenziale», saremmo noi in grado di sfruttarlo, di piegare la direzione degli eventi secondo i nostri scopi? Io credo proprio di no, credo che risulteremmo ancora una volta impreparati e sguarniti, come nel 1992. È questo il grave problema politico sul quale bisognerebbe concentrarsi e lavorare. A partire forse da un interrogativo: fino a che punto si possono condividere le responsabilità di governo con degli alleati che puntano alla deflazione e che magari passerebbero volentieri per una «crisi disciplinante»? Visto che a sinistra non è ancora maturato un effettivo potenziale egemonico, mi domando molto sommessamente se non sarebbe opportuno assumere una posizione più critica e defilata rispetto a gestioni di cui non abbiamo ancora visto il lato più oscuro, e che al momento non abbiamo la forza di cambiare.

 

Giorgio Gattei

Scrive Marx che le parole d’ordine economico della Comune di Parigi (1871) furono l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, da sostituirsi con la proprietà collettiva degli stessi, e l’abolizione dell’anarchia del mercato, da sostituirsi con una direzione di piano. La sinistra del Novecento ha portato avanti queste due «bandiere», sicura che l’impresa pubblica fosse più efficiente della privata (il caso italiano dell’Iri si è giustificato a lungo così) e che col piano si potessero meglio governare le grandezze economiche fondamentali (l’esperienza italiana della «programmazione» si è giustificata a lungo così). E va detto che verifiche storiche concrete non sono mancate negli anni del «miracolo economico», poi però il giocattolo si è rotto. L’impresa pubblica è precipitata nell’inefficienza e corruzione, così che l’Iri è stata soppressa con il plauso di tutti e oggi quelle poche imprese pubbliche rimaste, che nel frattempo sono tornate efficienti, rischiano la privatizzazione (o lo «spezzatino» per renderle inefficienti e quindi privatizzabili). La programmazione invece è franata sotto l’urto della supremazia dell’impresa diventata «globale»: come governare un’economia nazionale quando i capitali finanziari e industriali che la compongono possono fuggire da tutte le parti? Per di più con l’Unione Europea si sono trasferite quote consistenti di sovranità economica agli organi comunitari, così che adesso un singolo governo, che fosse deciso a prendere iniziative d’indirizzo, dovrebbe misurarsi con gli inevitabili divieti europei.

Per questo, se di politica di piano si vuole tornare a parlare, non può che essere a livello europeo. Ma qui ci si imbatte in un altro ordine di problemi. I centri di decisione economica comunitaria, che non sono di nomina elettiva, sono stranamente (?) imbevuti della peggiore ideologia neoliberista: privilegiano il libero mercato (dei capitali), l’iniziativa privata (delle imprese), le rendite finanziarie (delle borse) a tutto danno di un «mondo del lavoro», peraltro in via di frammentazione, che patisce le conseguenze di una sconfitta storica (nei fatti, prima ancora che nelle idee) di cui non ha ancora preso piena coscienza (altrimenti non voterebbe come vota, anche perché nell’insieme non è affatto minoranza). Con simili rapporti di forza europei diventa difficile immaginare politiche di piano a livello nazionale perché prima ci vorrebbe un cambiamento nell’indirizzo economico della Ue, che lo rendesse almeno «eclettico», se è troppo sperare «di sinistra».

D’altra parte la Comune di Parigi aveva potuto alzare quelle sue bandiere sulla base del fatto politico che quella era «il governo della classe operaia», o piuttosto «il dominio politico dei produttori» (K. Marx). Oggi in Europa abbiamo a che fare con il dominio politico dei rentiers e con l’assenza (perfino) di una coscienza di classe lavoratrice, così che «a sinistra» non restano che dichiarazioni di principio e capitolazioni di fatto. A meno che la crisi finanziaria in corso non arrivi a produrre conseguenze economico-sociali tali da far paura a Lorpadroni, così che siano proprio loro a tornare a richiedere l’intervento «salvifico» dello Stato nell’economia. È già successo e può darsi che risuccederà.

 

Giorgio Lunghini

Oggi i governi nazionali non dispongono più della leva monetaria e sono soggetti a vincoli di bilancio per quanto riguarda la politica fiscale. Tuttavia dispongono ancora di un potentissimo strumento di politica economica e sociale, che è la produzione legislativa. Tutto dipende dunque dal potere politico. Forse per ragioni di età, io continuo a pensare che il miglior programma per un governo di sinistra sia già stato scritto nella Costituzione del 1947. Il problema è che non la legge più nessuno o che semmai la si vorrebbe mandare al macero. Dunque può essere utile, per i più giovani, ricordarne i passi di maggior rilievo economico-politico.

«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La scuola è aperta a tutti. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce a essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

Ecco, mi pare che la sinistra potrebbe trovare qui il proprio programma, un programma semplice e chiaro, dunque comprensibile, convincente, e seducente. Mi viene però in mente l’ultimo editoriale di Luigi Pintor, del 2003: «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa è fuori scena».

 

Riccardo Realfonzo

Dal convegno Rive Gauche era emerso con chiarezza il quadro complessivo delle linee di una politica economica progressista da perseguire nelle condizioni date dell’economia e della società italiana. Al di là delle questioni relative alle politiche sociali, gli economisti convenivano sulla necessità di agire per favorire un vero e proprio «salto strutturale», che consentisse al nostro apparato produttivo di superare le strozzature presenti dal lato della domanda e dal lato dell’offerta e appariva chiaro che la condizione di base per la messa in pratica di una politica economica incisiva – in grado di rilanciare l’economia del paese e spingerla nella direzione di un nuovo modello di sviluppo – era una politica delle finanze pubbliche che sapesse spogliarsi dei dogmi liberisti e «rigoristi» del pareggio del bilancio.

In altre parole, si rendeva necessario evitare di intraprendere la strada dell’abbattimento del debito pubblico e puntare viceversa sulla stabilizzazione del debito rispetto al Pil nell’arco temporale della legislatura. Personalmente posi la questione nel dibattito che anticipò il convegno sulle pagine de «il manifesto» raccogliendo subito molte adesioni. E non a caso, quando alcuni mesi dopo proponemmo l’appello per la stabilizzazione del debito, gli economisti di sinistra risposero compatti. L’appello raccolse rapidamente un centinaio di adesioni, tra cui quelle dei più autorevoli rappresentanti dell’economia politica critica italiana. Al di là di rare posizioni minoritarie, di cui non si comprendono né i punti di partenza politici né gli sbocchi, resta ancora oggi evidente per gli economisti di sinistra che la stabilizzazione del debito rappresenti l’unica strada capace di liberare le risorse necessarie per una svolta incisiva nella politica economica; ed è su questo punto che – prima di ogni altra cosa – registriamo l’inadeguatezza del governo Prodi. Va da sé che la stabilizzazione del debito rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per intraprendere la strada del «salto strutturale»; non si può certo ignorare il tema della qualità della spesa, come ci ricorda tutti i giorni la scarsa efficacia della pur ridotta spesa nel Mezzogiorno, improntata come è ai principi della programmazione negoziata. E va anche da sé – come diversi di noi hanno mostrato nel dibattito che ha fatto seguito all’appello – che non esistono ragioni tecnico-istituzionali che impediscano l’attuazione di un programma di politica economica di sinistra. Semplicemente non abbiamo avuto la forza per imporlo.

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