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liberazione

La sinistra secondo Massimo D’Alema

O è subalterna al riformismo o è inutile

di Dino Greco

In un’intervista a Piero Sansonetti del 30 luglio scorso, Massimo D’Alema, impegnato a contrastare la solipsistica (e autolesionistica) presunzione con cui Walter Veltroni aveva reciso ogni rapporto alla sinistra del PD, svolgeva il seguente ragionamento. Il PD è l’erede del più fecondo patrimonio politico e culturale del PCI: il riformismo. Il PRC, soprattutto quello uscito da Chianciano, rappresenterebbe invece la vocazione minoritaria, la fuga nell’estremismo protestatario, sterile di politica, unito all’arroccamento identitario, figlio di un’altra storia che, in ogni caso, del più grande partito comunista dell’occidente fu la parte più caduca.

Al contrario, D’Alema è propenso a concedere una chance al PRC purchè esso sia disposto ad interpretare il ruolo di una sinistra “compatibile”, enzima edulcorato, stimolo di un centrosinistra rigorosamente imperniato sul PD, utile soltanto in quanto necessario ad evitare che quest’ultimo sia ricacciato nel ruolo duraturo di una strutturale opposizione. Insomma, un PRC visto tutt’al più come contrappeso alle pulsioni più moderate che albergano nel partito di Veltroni. Ma niente di più.

La sinistra, per D’Alema, o è subalterna ad un disegno riformista o non serve a niente.

Ora, alla disinvoltura con cui D’Alema avoca a sé la migliore tradizione comunista si dovrebbe rispondere che non c’è identitarismo più sterile e malato di quello che si nasconde dietro il termine “riformismo”, artifizio letterario verso il nulla, scorciatoia verso la più indeterminata delle formule: la modernità, vero equivoco ideologico. O, per meglio dire, espressione della sudditanza ad un pensiero e ad una pratica politica essi sì ossificati, perché interamente racchiusi nella realtà data, assunta come immutabile nelle sue strutture portanti. Un pensiero di risulta, parassitario, rinunciatario, capace solo di mitigare, correggere, blandire lo stato di cose presente: è il “menopeggismo”, fatalmente nemico non solo del comunismo, nel senso marxiano del termine, bandito dalle categorie dalemiane come un’aporia, ma refrattario ad ogni ipotesi di radicale trasformazione.

Peraltro, la teoria dell’arroccamento identitario ha reclutato molti proseliti, anche a sinistra. Non che il settarismo, il nascondimento delle proprie impotenze culturali e politiche dietro simboli rassicuranti non siano pericoli reali, farmaci placebo che alimentano facili illusioni. Ma la questione non può essere così banalizzata.

Mi sono a lungo interrogato, anche per ragioni di biografia familiare, sul senso di questa urlata crociata antidentitaria. E mi scuso in anticipo se -per farmi capire- ricorro proprio ad un riferimento personale.

Sulla parete rocciosa di Ponte Casletto in Valgrande (Verbania) è posta una lapide che ricorda l’uccisione di Luigi Abbiati, mio nonno materno, combattente nella brigata Valdossola, massacrato dai nazifascisti nel rastrellamento del’44. Lì si trovano, accanto al nome, tre sole parole: operaio, comunista, partigiano.

Operaio specializzato, cioè capace di usare le mani come prolungamento di una intelligenza creativa; comunista, sin dalla fondazione del partito, delegato bresciano per la corrente ordinovista al congresso di Lione, in quanto convinto che la soggettività operaia potesse esprimere una speciale qualità politica, quella di saper guardare al tutto dal punto di vista di una parte, di saper progettare e costruire un nuovo mondo; impegnato per vent’anni nella militanza clandestina, quando tutto sembrava perso e il nome comunista non suscitava certo fra i giovani e fra i meno giovani più appeal di quanto non ne riscuota oggi; infine, partigiano, nella certezza di unire, in quell’ingaggio totale, lotta di liberazione e lotta di classe.

Questo profilo identitario che fu di una generazione e che transitò in non piccola parte nella Costituzione antifascista ha rappresentato per decenni il crogiolo di un grande processo di innovazione politica democratica.

Quella spinta propulsiva, che tanto ha dato all’Italia, si è progressivamente esaurita, non per interna consunzione, ma per l’incapacità di portare avanti quella trasformazione democratica dell’economia, della politica, della cultura che solo una forte innovazione teorica e strategica avrebbe potuto consentire.

Le soluzioni trovate si sono mosse entro le colonne d’Ercole dello statalismo sovietico e della socialdemocrazia. Al crollo del primo e alla progressiva afasia della seconda è corrisposta la planetaria affermazione di un capitalismo ormai libero di sprigionare i suoi spiriti animali, totalmente autoreferenziale, unico orizzonte pensabile, culturalmente egemone, soprattutto in occidente. Ma mentre di là dall’Atlantico, nel continente centro e sud americano, le dirompenti contraddizioni sociali hanno innnescato un ripensamento profondo e un’attiva ricerca di strade e soluzioni alternative, sorrette da un esteso consenso popolare e da forme nuove di partecipazione democratica, ad ovest, ed in particolare in Europa, il ristagno di ogni forma di pensiero critico ha steso una fitta coltre di conformismo adattivo, che ha irretito, in diversa misura, tutte le forze politiche e sociali che avevano nel passato incarnato un’idea di cambiamento.

Il cosiddetto riformismo è il punto estremo cui è giunto questo processo di straniamento, di degenerazione trasformistica approdata a forme di vera e propria abiura ideologica, di “fuga nell’opposto” (si pensi a cosa imputridisce sotto l’ideologia securitaria…).

Il riformismo non ha bisogno di declinazioni identitarie, da un lato perché si propone come pragmatismo, come pura navigazione a vista ma, più profondamente, perché il suo profilo fondamentale è già perfettamente inscritto nella bella realtà che ci circonda.

Si guardi al modesto perimetro categoriale che ispira la politica riformista. Non vi si troverà più l’uguaglianza ma, al contrario, la meritocrazia, appena temperata dalla necessità, più evocata che praticata, di assicurare pari opportunità di partenza nel gioco competitivo. Perchè la corsa competitiva è il vero architrave, l’alfa e l’omega: traslata dai rapporti fra le imprese, fra i sistemi economici, fra gli stati, a tutte le relazioni umane. Non vi si troverà alcun riferimento al lavoratore, dissolto nella aclassista dimensione del cittadino o in quella sublimata del consumatore. Vi si troverà, invece, l’impresa, essa sì riconosciuta ed elevata, insieme al mercato, a fattrice positiva dell’ordine sociale.

Lo stesso concetto di democrazia subisce una violenta torsione: il cittadino è spogliato di reale sovranità, che non sia quella di vestire, per un giorno solo, quello delle elezioni, “la pelle del leone”, per poi subito reimmergersi nella passività.

Il leaderismo, la selezione (anch’essa ridotta a rito plebiscitario) delle oligarchie dirigenti è divenuto il solo modo di concepire la contesa politica fra schieramenti antagonistici ma ormai assimilabili per cultura, orizzonte progettuale, persino per i propri vizi autoritari, per le proprie degenerazioni burocratiche. Un’implosione che ha del grandioso, che ha esteso il suo contagio alle organizzazioni di massa, a non piccola parte dei sindacati, in progressiva transizione verso una strutturale subalternità del lavoro al capitale.

Ora, l’impresa ricostruttiva di un pensiero critico è faticosa, perché non vi sono ricette pronte per l’uso e perché serve vincere una incallita pigrizia intellettuale. Dobbiamo fare da noi, dice Marco Revelli.

Dobbiamo fuoriuscire da una concezione puramente redistributiva della ricchezza (proprio mentre non rinunciamo a combattere per salari più alti e per migliori condizioni di lavoro).

Dobbiamo far vivere l’idea (e quindi la prassi vivente) secondo cui le merci ed i servizi prodotti attraverso il lavoro sociale non possono più essere un affare privato del padrone, una pura derivata delle esigenze di riproduzione del capitale.

Dobbiamo elaborare una critica del concetto di sviluppo, sottraendolo all’idea malsana che lo fa coincidere con la crescita ininterrotta e indifferenziata del PIL e dei consumi.

Dobbiamo conquistare alla cultura della sinistra la consapevolezza che la lotta contro la compromissione dell’equilibrio ambientale, la questione ecologica, la “rinaturalizzazione dell’umano” non è un’ubbìa da perditempo, ma una condizione essenziale non solo per la trasformazione dei rapporti sociali, ma per la stessa sopravvivenza della specie umana.

Dobbiamo ridare spessore alla battaglia per la riappropriazione dei beni comuni, per rovesciare la corsa alla privatizzazione che altro non è se non l’espropriazione, la mercificazione, la messa a profitto dei diritti sociali e di tutto ciò che esiste in natura. Dobbiamo aggredire le politiche razziste e di apartheid che stanno radicando a macchia d’olio in una società stratificata, fatta di caste incomunicanti, fondata sul privilegio militarmente protetto e sull’esclusione.

Tutto questo non lo si fa stando chiusi in un laboratorio asettico, ma per immersione. La diatriba fra autonomia del politico e autonomia del sociale è una disputa bizantina, che non porta da nessuna parte: niente è autonomo da niente. Ma è certo che senza uscire dai palazzi, dalle camere stagne dove spesso si consumano le nostre discussioni, non c’è possibile percezione della realtà, non c’è materiale su cui seriamente lavorare. E non c’è possibile risonanza con le masse, con i problemi, con i bisogni cui intendiamo dar voce e fare valere, non c’è una vera chance di riaggregazione di ciò che è frantumato e ripiegato in una dimensione privata. Perché altrimenti anche i sussulti sociali, i momenti intermittenti di conflitto, quando pure riescono ad esprimersi, finiscono per spegnersi come fuochi fatui.

Ecco, dunque, l’identità possibile, non settaria, non autistica, che dobbiamo ricostruire: essa parla dell’universo simbolico e insieme del progetto: l’uno si specchia nell’altro e se ne alimenta. Ecco come -dentro questo più denso, più articolato, più aggiornato paradigma- le antiche parole: operaio, comunista, partigiano, continuano ad avere una pregnanza evocativa, una potenza euristica e costituente formidabile. Chi crede di sbarazzarsene nel nome di una farsesca modernità temo sia perduto.

Come scriveva Oscar Wilde, “non vi è maggior pericolo che quello di essere troppo moderni. Si corre il rischio di diventare da un momento all’altro fuori moda”.

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