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I gilet gialli. Modernità “à la Macron”, democrazia diretta e ideologia

di Maurizio Gribaudi

Rilanciamo un articolo uscito per storiamestre.it a proposito delle lotte dei cosiddetti “gilet jaunes”, di Maurizio Gribaudi, direttamente da Parigi, . Questo è il primo di una serie di interventi sul tema che Effimera ospiterà, quale occasione di approfondimento riguardo a delle proteste tanto discusse quanto facilmente liquidare e liquidabili nei dibattiti correnti

XVM4ce43f3c ef1a 11e8 99d2 2e515e75ef5c1. Ecco che persino la Francia, a quanto sembra, comincia a imboccare le stesse strade percorse dai vari demagoghi che hanno occupato la scena pubblica in molte democrazie occidentali. Con uno slancio tanto forte quanto inedito, i messaggi lanciati in rete da cittadini e cittadine disperati hanno dato vita a un movimento nazionale che scuote la maggioranza di governo e preoccupa, a ragion veduta, la Francia umanista e libertaria, inquieta per gli sviluppi che questo movimento potrà avere. Infatti, dietro la massa indistinta dei gilet gialli, alcuni credono di scorgere i foschi contorni della destra conservatrice e reazionaria e dei populismi.

In un contesto del genere, c’è davvero molto su cui interrogarsi. La Francia si sta forse accodando, inesorabilmente, a Orban, Putin, Trump, Salvini, agli inglesi della Brexit o ancora al sinistro Bolsonaro? Interpellato direttamente dai manifestanti, il presidente Emmanuel Macron ha risposto con un messaggio che voleva essere allo stesso tempo fermo e rassicurante. Fermo nell’ostentata certezza di non aver commesso né «errori strategici di governo» né «errori di fondo», e quindi di non dover fare alcun «cambiamento di rotta». Rassicurante nella promessa di impegnarsi, nei mesi a venire, a «riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti».

Eppure il suo messaggio contiene tutte le aporie insite nella visione del presidente, come del resto in quella della quasi totalità dei responsabili politici delle democrazie occidentali.

 

2. Cominciamo dalla forma. Con il suo modo di porsi, con il suo linguaggio e le sue metafore, il messaggio di Macron si inscrive direttamente in un modello di democrazia, detta rappresentativa, sostenuto dalle forze conservatrici e liberali sin dai tempi della Rivoluzione del 1789 e fino ai giorni nostri. Quando il presidente Macron parla del “popolo francese” e dei “suoi dirigenti”, nelle sue parole riecheggiano quelle dell’abate Sieyès, che sottolineava la necessità di lasciare il fardello politico ai soli cittadini “illuminati”. “La grandissima parte dei nostri concittadini – scriveva nel settembre 1789 – non ha né abbastanza istruzione né abbastanza tempo libero per volere occuparsi direttamente delle leggi che devono governare la Francia”.

Da Sieyès in poi, la democrazia rappresentativa è stata concepita in buona sostanza come lo strumento politico che permette di “illuminare” e “dirigere” una moltitudine di per sé incapace di difendere i propri interessi, che verrebbero invece presi in considerazione – così si sostiene – nel quadro dell’interesse generale. È per questo che, negli ultimi due secoli, continuiamo a trovare le medesime immagini, ricorrenti non solo nel comportamento e nei discorsi che appartengono al pensiero liberale e conservatore ma anche, ahimè, nel pensiero di una parte consistente e importante della sinistra europea.

Quando Macron, rincrescendosi di non aver saputo «riconciliare il popolo con i suoi dirigenti», afferma con forza di non aver fatto né «errori strategici» né «errori di fondo» e dichiara che proseguirà imperturbabile sulla sua linea, si inscrive in questa antica forma di governo degli uomini che innalza l’eletto alla funzione di trasmettitore di decisioni e di disposizioni concepite al “vertice” dai cittadini “illuminati”, verso i livelli inferiori della “piramide sociale”.

Bisognerà forse ricordare a Macron – e agli altri responsabili politici che si comportano allo stesso modo in scenari analoghi – che nel corso degli ultimi decenni si è assistito, in Francia come altrove, all’esaurimento del modello della democrazia detta rappresentativa, mentre emerge, sempre più forte e giustificata, la richiesta di democrazia diretta?

Sono cose risapute, ma forse si sono dimenticate. Sin dalla prima repubblica nata in Francia, quella del 1792, era presente un’altra idea di democrazia, una democrazia fondata sulla partecipazione attiva dei cittadini che controllano e gestiscono direttamente lo spazio locale, in cui i rappresenti andavano eletti per periodi brevi e con mandati sempre revocabili. Questa idea si era espressa chiaramente, ma senza potersi affermare, nella costituzione del 1793 e riappare, sin dal periodo della Restaurazione, nell’orizzonte concreto delle lotte operaie e nel progetto di repubblica democratica e sociale che si esprime nelle rivoluzioni del 1848; risorge ancora con la Comune del 1871 e torna a risuonare nelle lotte del 1936 così come nell’esperienza della Resistenza partigiana.

Da allora, è riapparsa a diverse riprese, in modo sporadico ma insistente, in Spagna, in Grecia e ovunque i cittadini e le cittadine abbiano avuto il sentimento di essere stati abbandonati e traditi dal potere. Ora si manifesta con forza di nuovo in tutta la Francia, e si afferma non a causa dell’ignoranza degli strati popolari, ma a causa dello scollamento tra le assemblee nazionali e le concrete realtà che esse dovrebbero rappresentare.

Le origini di questo scollamento sono note. Sin dall’inizio del XX secolo, con una brusca accelerazione nel corso degli ultimi decenni, i parlamentari sono stati scelti a livello centrale, dagli apparati dei partiti, e non a livello locale. La figura dominante dell’uomo politico assomiglia più a quella dello stratega, grande conoscitore delle reti di relazione politiche, che a quella di un uomo o di una donna dotati di una conoscenza profonda e diretta di un luogo, di un territorio, di una comunità.

Lo scollamento del mondo politico dalle realtà locali è diventato completo da quando le democrazie occidentali hanno spalancato le porte all’azione delle lobbies. La triste avventura ministeriale di Nicolas Hulot[1]; nei parlamenti delle nostre democrazie nascono ormai innumerevoli alleanze che legano saldamente, e nella più completa opacità, i rappresentanti politici e gli attori dell’economia di mercato e dei gruppi corporativi. Con il paradosso che, a forza di progressivi scollamenti, il concetto di “comune” si è spostato dall’orizzonte concreto dei cittadini a quello dei partiti nazionali e quindi a quello delle grandi corporazioni internazionali.

 

3. Passiamo ora al contenuto del verbo presidenziale. Chiediamoci quali sono, concretamente, le proposte di Emmanuel Macron. Quale sarebbe la forza di una “strategia politica” di cui il popolo non avrebbe saputo cogliere tutta l’importanza? Si sa che si vorrebbe moderna e modernizzatrice: è quello che tutti i giovani eletti associati al presidente continuano a ripetere instancabilmente.

Bisogna constatare che, lungi dall’essere “moderna”, tutta la strategia sviluppata dal presidente e dal suo governo da diciotto mesi a questa parte non è altro che la pedestre e rigida applicazione delle teorie dell’economia di mercato, nate trecento anni fa e di cui ora conosciamo i funesti risultati.

Come ha sottolineato Larry Elliott, il corrispondente economico del giornale britannico Guardian, nel suo editoriale del 26 settembre scorso, Emmanuel Macron riprende direttamente la politica seguita da Bill Clinton e Tony Blair negli anni Novanta del Novecento, che vedeva nella globalizzazione e nell’apertura dei mercati una forza naturale e positiva in grado di determinare una solida crescita economica e, con essa, un diffuso benessere sociale. Elliott ricorda invece che l’apertura degli scambi a livello mondiale, lungi dall’avere avuto un impatto positivo, ha sensibilmente rallentato la crescita nell’insieme delle economie occidentali. Essa ha anche permesso che le decisioni economiche passassero nelle mani degli attori del mercato, favorendo gli interessi del capitale a scapito di quelli del lavoro. Allo stesso modo, l’insieme dei meccanismi istituzionali di integrazione e di collaborazione politica a livello mondiale è diventato preda degli attori della globalizzazione.

La modernità “à la Macron” ha naturalmente imboccato questa stessa via, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’abolizione dell’imposta sulle grandi ricchezze (Impôt sur la fortune), l’introduzione del Crédit d’Impôt Compétitivité Emploi (“Credito d’imposta competitività occupazione”), la diminuzione delle imposte sulle società hanno drenato molti capitali verso i possessori di grandi patrimoni, senza alcuna ricaduta positiva sull’occupazione e i bassi salari. Invece, come ricorda il sindacato Solidaires Finances Publiques, secondo il rapporto 2018 del Crédit Suisse la Francia è diventata il quinto paese per numero di milionari (aumentato di oltre 280.000 in un anno). Dall’elezione di Macron, secondo l’Institut des politiques publiques, lo 0,1% dei più ricchi ha incrementato il proprio reddito, mediamente, di 86.000 euro all’anno, grazie all’abolizione dell’imposta sulla fortuna e all’introduzione della “flat tax”, un dispositivo che permette “l’ottimizzazione fiscale” (in altre parole una forma “moderna e più flessibile” di evasione fiscale).

Si potrebbe continuare l’elenco delle decisioni nefaste adottate o in corso d’adozione. Ricordiamo solo che, di fronte all’incredibile arricchimento dei più ricchi, si ha un reale impoverimento dei più poveri. In questi stessi giorni i cosiddetti esperti di economia e di conti pubblici si affannano a dimostrare che “statisticamente” il potere d’acquisto è aumentato anche se la “percezione” popolare non se ne accorge. È un po’ come il freddo d’inverno, ci dicono: ci sono cinque gradi ma, poiché c’è vento, si ha l’impressione di essere sotto zero. Per l’economia succederebbe la stessa cosa. I più poveri dei nostri concittadini non riescono a fare la spesa, ma gli si dice che è solo virtuale, solo una “percezione”. Non si sono accorti che il taglio di 5 euro nella voce “contributi” della loro busta paga, gli ha permesso di guadagnare potere d’acquisto. Dopodiché, se pretendono di continuare a comprare le patate, le uova, la carne e tutto quello che è aumentato a causa delle nuove tasse sui consumi – e non parliamo della benzina e del gasolio –, la loro incapacità di fare questi acquisti sarebbe solo di ordine psicologico. E se non è solo un problema psicologico, allora basta tener duro perché il governo pensa a noi, ma su un arco di tempo che va da cinque a dieci anni. È allora che i benefici si vedranno.

E non abbiamo detto della distruzione sistematica del territorio e delle sue risorse. Anche in questo caso l’elenco potrebbe essere lungo. Ricorderò solo il glicofosfato, il nucleare, le ferrovie, le piattaforme logistiche e i centri commerciali. Altrettanti temi della modernità annunciata da La République en Marche[2]. Invece di pensare a come favorire uno sviluppo armonioso del territorio francese, nel suo insieme e a tutti i livelli, dal più piccolo al più ampio, lo si consegna all’aggressione delle lobbies agricole, del nucleare, dei grandi interessi finanziari, dei costruttori e di centinaia di altri interessi corporativi. Tutto è pensato unicamente in funzione degli interessi dei gruppi finanziari e industriali, che lavorano nel quadro e nell’ottica della globalizzazione. Tutto è pensato per favorire la circolazione nel mondo dei più svariati prodotti, cosa che implica non solo un enorme consumo di combustili fossili ma anche l’apertura di nuove strade, aeroporti, ferrovie ad alta velocità, che segnano il territorio e lo disgregano.

 

4. È peraltro in questi paesaggi dominati dal cemento, dagli aerei e dai camion che, come hanno rivelato vari studi dell’IFSTTAR[3], esiste una classe operaia del tutto occultata dalle tradizionali categorie statistiche, e invece ben presente e numerosa. Una classe operaia sfruttata secondo i soliti meccanismi tradizionali, e frammentata in una nebulosa di attività professionali che articolano, in un reticolo di dipendenze reciproche, il trasporto delle merci, l’industria manifatturiera, l’edilizia, l’artigianato, il trasporto dei viaggiatori, la pulizia industriale, e ancora l’agricoltura. È un insieme di persone che lavorano, mal pagate, intorno alle piattaforme logistiche, le nuove cattedrali di acciaio e cemento della globalizzazione, che ricevono e redistribuiscono le merci delle grandi strutture multinazionali del commercio. Costruite in un raggio da 50 a 70 chilometri dalle metropoli e dalle grandi città francesi, queste strutture sono le prime responsabili dei lunghi tragitti in macchina a cui la massa dei lavoratori deve sottostare quotidianamente per raggiungere il posto di lavoro, con spese conseguenti.

Le voci che si sono alzate, negli ultimi giorni, per accusare di pugiadismo[4] il movimento dei gilet gialli sembrano ignorare la complessità delle questioni che segnano questo momento storico. Trump, Salvini, Orban, i sostenitori della Brexit, Bolsonaro… tutti questi personaggi non sono altro che tragiche marionette, che cavalcano l’onda di un fenomeno più profondo, espressione dell’esaurimento di un modello politico ed economico che ha perso tutta la sua sostanza. Le folle che hanno scelto di seguirli l’hanno fatto, nella maggior parte dei casi, con l’angoscia provocata da un’esperienza concreta e diretta di questo vuoto, di ciò che la modernità evocata dai cantori della globalizzazione ha significato nelle loro vite, nei loro territori e per il loro futuro.

Il movimento dei gilet gialli sembra nascere a partire da queste medesime dolorose constatazioni e angosce. È rispondendo a queste, con azioni concrete, che si potrebbe sperare di non vederli catturati dai discorsi vuoti e carichi d’odio degli estremisti reazionari. È agendo collettivamente per costruire una società più giusta e realmente democratica che si potranno evitare, allo stesso tempo, le trappole della globalizzazione e quelle delle chiusure nazionaliste.


Note
[1]L’ambientalista Nicolas Hulot si è dimesso, nell’agosto 2018, dalla carica di ministro dell’Ecologia che deteneva dal maggio 2017 nel governo designato dal presidente Macron.
[2]Il partito fondato da Macron nel 2016 in vista della sua candidatura alle presidenziali.
[3]L’Institut français des sciences et technologies des transports, de l’aménagement et des réseaux è un ente pubblico, creato nel 2010, che dipende dal ministero “della transizione ecologica e solidale” e dal ministero dell’Università, Ricerca e Innovazione.
[4]Il poujadisme, dal nome di Pierre Poujade che ne fu il promotore, è stato un movimento sociale, sindacale e politico che ebbe breve fortuna nella Francia degli anni Cinquanta; spesso accostato al Qualunquismo italiano, oggi è impiegato per indicare movimenti considerati populisti e demagogici.

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