Il dibattito (guasto) tra Fassina e gli anti-Fassina
di Militant
Sembrerebbe tutto un proliferare di patrioti, a giudicare dall’ennesima iniziativa promossa questa volta da Fassina e D’Attorre. In realtà, tutto si muove nel placido solco della virtualità, dove rossi, bruni e rossobruni se le danno di santa ragione a patto di non incontrarsi mai nella realtà. Fassina è però riuscito ad aizzare uno scombinato dibattito che merita d’essere commentato. Patria e Costituzione, dunque. Su cui si sono scatenati i cacciatori di rossobruni. Che partono da un dato incontrovertibile: Fassina è un essere squalificato. Basterebbe questo a chiudere il discorso (e noi la pensiamo proprio così: in politica non conta cosa dice chi, ma chi dice cosa). Eppure – come sempre – il dibattito sulla “questione nazionale” (perché, al fondo, di questo parliamo quando parliamo di “rossobrunismo”, “populismo”, “sovranismo” e “internazionalismo”) parte immediatamente per la tangente e il problema non è più Fassina, ma i temi politici che Fassina solleva malamente. Fassina è un pretesto, il problema è altrove. Vediamo cosa dice Fassina nel pezzo pubblicato sul manifesto del 6 settembre:
«da un lato, non regge più l’impalcatura mercantilista del mercato unico e dell’euro e, dall’altro, è venuta meno, in realtà è stata sempre un miraggio, la prospettiva della sovranità democratica europea. Così, gli europeisti, sia liberal conservatori, sia delle sinistre, in tutte le sfumature, sono senza programma fondamentale, cornice per un’opposizione convinta e convincente».
E’ la spudorata verità di questi anni, eppure tale contesto viene semplicemente eluso dagli europeisti di ogni risma, soprattutto di quelli provenienti da sinistra. L’Unione europea ha fallito, è un progetto politico-economico totalmente dentro logiche capitalistiche e ordoliberali, e va dunque combattuto e abbattuto.
Questo è il nodo che la sinistra europeista non affronta, occultando il quale, certo, ogni altra riflessione, sia di Fassina sia di altri, risulta incomprensibile e meramente nazionalista. Chi rimane unioneuropeista è uscito di fatto dalla cornice di comprensibilità politica delle masse. Non gli rimane che aggregare qualche bocconiano masterizzato, hipster quarantenni e ricercatori universitari. Ma il pezzo di Fassina prosegue:
«Noi europeisti di sinistra dobbiamo reimpostare la declinazione del nesso nazionale-sovranazionale. È esiziale dividere l’agone politico tra Fronte Repubblicano e Fronte Sovranista, ossia, tra continuità nella retorica del «più Europa» e cambiamento regressivo. È al contempo impolitico affidarsi a liste transnazionali segnalate da un radicalismo astratto «per democratizzare l’Unione europea».
Anche in questo caso possiamo più o meno essere d’accordo, ma una cosa sentiamo di condividere: il nesso nazionale-sovranazionale è oggi completamente capovolto. Viene definito come “sovranista” ogni moto che sottopone a critica radicale l’Unione europea, mentre viene confuso per “internazionalista” tutto ciò che invece prende le forme del cosmopolitismo liberista, che è un “sovra-nazionalismo” e non un “inter-nazionalismo”. Non sono le barriere, le dogane e le frontiere che il processo europeista abolisce, ma il controllo politico sui movimenti di capitale. Questo controllo politico è ancora oggi collegato alla statualità. Nessuna statolatria, per carità: quando un movimento reale allargherà i confini della rappresentanza politica, i suoi meccanismi, le sue corrispondenze tra volere popolare e volere politico, su di un piano più vasto ed effettivamente internazionale, tanti saluti allo Stato e alle sue logiche repressive. Oggi è di questo che stiamo parlando? O, piuttosto, stiamo nel mezzo di uno straordinario processo regressivo che sottrae poteri a popolazioni e territori per delegarli a forze economiche giuridicamente e fiscalmente irresponsabili, di fatto immaterializzate e deterritorializzate? Perché a un certo punto dobbiamo anche fare mestamente i conti con la realtà, e questa ci dice che stiamo nella merda, non a un passo dalla liberazione del famigerato “Stato-nazione”. Torniamo a Fassina:
«Tra l’insostenibile e incorreggibile europeismo liberista e la degenerazione nazionalista va costruito lo spazio culturale e politico per una alternativa: una comunità nazionale aperta, dove i conflitti, a partire da quelli di classe e ambientali, si combattono e si compongono in riferimento alla dignità del lavoro, alla giustizia sociale, al rispetto della natura; una comunità cooperativa per affrontare enormi sfide globali, innanzitutto la riconversione ecologica delle economie e delle società e il governo dei flussi migratori».
Ecco, le dice Fassina queste cose e quindi valgono zero. Ma nel merito, se per un attimo volessimo ragionarci, dove è lo scandalo? Dove l’assurdo nella volontà di costruire uno spazio alternativo tanto alla «degenerazione nazionalista» (all’anima del rossobruno…) quanto – soprattutto – allo «insostenibile e incorreggibile europeismo liberista»? Non c’è scandalo, ma se si oscura – come fa la sinistra unioneuropeista – il problema della Ue, tutto diviene effettivamente incomprensibile e ambiguo. Ma è un trucco usato per screditare non tanto il Fassina di turno – che è già screditato di per sé – quanto il tema della lotta alla Ue.
Siccome Fassina è un personaggio screditato per precisi motivi politici e non per ideologiche alterità esistenziali, dall’analisi – sostanzialmente giusta – si va a finire alla peggiore esaltazione – questa si – nazionalista:
«Dobbiamo riscoprire il sentimento positivo di Patria e Nazione per rilegittimare e, qui il punto politico decisivo, rivitalizzare nelle sue funzioni essenziali lo Stato nazionale e riconnettere, nella misura possibile all’avvio del XXI Secolo, popolo e democrazia costituzionale».
Qui casca il Fassina, se – ribadiamo – volessimo davvero entrare nel merito delle sue argomentazioni. La lotta alla Ue è una lotta al capitalismo liberista, all’imperialismo, alla torsione ordoliberale importata dal modello tedesco, non il ritorno ai “valori della Costituzione” e, ancor meno, scimmiottando patriottismi che nulla hanno a che vedere con le lotte per l’indipendenza dei popoli colonizzati e molto a che fare con declinazioni patriottiche à la grandeur francese. Ognuno ha le proprie tradizioni storiche. L’Italia, da questo punto di vista, non sarà mai la Francia. Potremmo anche rammaricarcene, sebbene lo “Stato forte” – che prevede anche una forte etica pubblica che si traduce in consenso di massa per lo status quo – sia uno strumento di dominio tanto interno – contro il proprio popolo – quanto esterno – contro popoli altrui. Che questo sia il desiderio di un Fassina è nell’ordine delle cose. Che una proposta di questo tipo possa davvero sostenere le basi di una nuova sinistra popolare, avremmo più di qualche dubbio.
Come detto, però, le obiezioni dei cacciatori di rossobruni non solo celano il contesto entro cui questi ragionamenti prendono piede, cioè le politiche liberiste della Ue e il conseguente rifiuto popolare di quelle politiche. Le obiezioni tacciano – esplicitamente o meno – di rossobrunismo, quindi di sovranismo, quindi di nazismo mascherato – in una catena che parte dalla critica alla globalizzazione e finisce con Hitler – tutto ciò che si oppone all’Unione europea e al controllo politico sui movimenti di capitale. Ci casca persino il nostro amico Giacomo Russo Spena, con un articolo volto a dimostrare la natura reazionaria e para-fascista di Fassina.
Titolo e sottotitolo sgomberano il campo da equivoci: «All’armi, son rossobruni! – Da Diego Fusaro a Stefano Fassina […] ritratto di un fenomeno politico sovranista, no euro, affascinato da Putin. […] Un populismo simile per non dire identico a quello della destra». Sono qui inquadrati i tre poli della fenomenologia rossobruna: sovranismo, no euro e Putin. Ecco come la lotta all’euro viene spacciata per deriva sovranista, quindi rossobruna, quindi…
«I punti di pericoloso contatto con i neofascisti – ma pure con la lega e il M5S – sono l’uscita dall’euro, il sovranismo, la politica estera (lo spinto antiamericanismo), la questione migratoria, la lotta al capitalismo e alla globalizzazione. […] Chi è rimasto persuaso dal rossobrunismo è passato sui social dal postare link di critica, da sinistra, all’Unione Europea al sostegno di Donald Trump. […] Questa è la loro base teorica: dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si sarebbe instaurato un pensiero unico dominante che si è appoggiato sul capitalismo totalitario, una struttura egemonica che ha escluso ogni alternativa. […] Vogliono rompere l’Europa e uscire dalla gabbia dell’euro».
Quelli che Russo Spena cita a titolo d’esempio come caratteri del rossobrunismo sono, in realtà, temi squisitamente di sinistra: l’antiamericanismo – inteso come lotta all’imperialismo statunitense – la lotta al capitalismo, alla globalizzazione, così come, oggi, il tema dell’uscita dall’euro, rompere la gabbia liberista della Ue, eccetera. Non sono “punti di contatto” con il fascismo, sono temi che storicamente si sono affermati dentro il movimento operaio, ma soprattutto – verrebbe da dire – dentro il proletariato italiano ed europeo. Il fatto che qualche fascista cavalchi alcune retoriche della sinistra non rende questa “meno sinistra”, così come la lotta per la casa non diviene “meno di sinistra” se viene fatta propria (a parole) anche da Casapound. Il problema è il calderone informe che viene orchestrato per escludere dal novero delle opzioni politiche praticabili la lotta alla Ue: «questione migratoria e uscita dall’euro», «critica all’Unione Europea e sostegno a Trump», «sovranismo, no euro e Putin», eccetera. Si parte dalla lotta all’euro e si finisce all’estrema destra. Anzi: chi parte per la tangente anti-unioneuropeista finisce necessariamente con la destra sovranista. Si parte dalla Ue e si finisce a Trump. Riecheggia il monito di Giovanardi: s’inizia con una cannetta e ti ritrovi con l’eroina iniettata nelle vene. E’ una conseguenza logica che però rimanda alla distruzione della ragione più che a presunti abboccamenti con l’estrema destra. Come minimo, non lamentiamoci dell’incomunicabilità tra “sinistra” e “popolo”.
Comments
Come ogni profeta che si rispetti Mardochai il paradiso in terra, pardon l'emancipazione, lo collocava alla fine della storia. Per arrivarci ci vuole la lotta di classe, cioè la guerra civile, e la guerra si fa coi campi cosparsi di cadaveri, i bimbi senza occhi o senza gambe, le città ridotte a paesaggi lunari. Ci vuole un'umanità capace di autosacrificio, della quale con il benessere di massa e il sessantotto - specialmente a sinistra - si è persa ogni traccia.
E’ stato Marx, che la seguì passo passo come corrispondente del “New York Daily Tribune” parteggiando per gli Unionisti contro i Confederati e che la definì icasticamente come “Iliade americana”, a individuare nella guerra di secessione un evento rivoluzionario che ha segnato in modo irreversibile la storia americana e la stessa storia contemporanea, ponendo peraltro in luce sia la formidabile funzione propulsiva che la guerra civile esercitò sullo sviluppo del capitalismo industriale del Nord sia le premesse del binomio imperialismo/razzismo che ne fu la risultante organica.
La stessa guerra per l’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese è stata, assieme all’illuminismo, alla rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale, un evento fondativo del mondo contemporaneo, che ha contribuito a suggellare in via di fatto, volgendolo in una direzione rivoluzionaria, quel principio lockiano del diritto di resistenza all’oppressione, affermato nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, che non trova posto nella nostra stessa Costituzione, che pure è nata dalla Resistenza contro l’oppressione nazifascista.
John Reed, uno dei fondatori del partito comunista degli Stati Uniti d’America, l’unico americano che sia sepolto nei giardini del Cremlino, è stato il brillante e appassionato cronista della rivoluzione d’ottobre cui egli ha conferito un’evidenza cinematografica nel classico testo intitolato “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, scritto in presa diretta con gli avvenimenti russi del 1917.
Una grande campagna a favore dell’americanismo e, in particolare, dell’organizzazione scientifica del lavoro nelle fabbriche, ossia del taylorismo applicato alla realtà russa, caratterizzò gli anni della costruzione del socialismo in Unione Sovietica ed ebbe fra i suoi più fervidi propugnatori personalità del calibro di Lenin e di Trotzky. Estremamente penetranti sono ancor oggi le note su “Americanismo e fordismo” stese da Gramsci in carcere, ulteriore riprova del costante interesse che un marxista non può non nutrire nei confronti di un paese che al carattere impetuoso, rapace e selvaggio dello sviluppo del capitalismo ha intrecciato la conquista del West e l’ascesa, a partire dalla guerra ispano-americana per Cuba (1898), di un imperialismo di tipo nuovo (essenzialmente economico) e del jingoismo ad esso strettamente associato. Un paese la cui realtà
socio-economica sembra costituire, se non si tiene conto della specificità dell’imperialismo americano e della composizione etnica e di classe che ha caratterizzato storicamente e strutturalmente la classe operaia, nonché della durezza della repressione che i ceti capitalistici hanno condotto nei confronti del movimento operaio (basti pensare che la festa del Primo Maggio, che trasse origine dai fatti di Chicago del 1886, viene ancor oggi celebrata negli Stati Uniti il primo lunedì di settembre), la smentita della classica tesi del marxismo volgare sul necessario rapporto fra i punti alti dello sviluppo capitalistico e la maturità della rivoluzione socialista.
Di straordinario interesse è poi il rapporto fra Stalin e Roosevelt, due personalità profondamente affini, che si ammiravano e si rispettavano e che condivisero, spesso in contrasto con il grande ma irriducibile anticomunista Churchill, gli obiettivi fondamentali della guerra vittoriosa condotta contro il nazifascismo dalla Grande Alleanza anglo-americano-sovietica.
In conclusione, se è vero che all’alto sviluppo del capitalismo e dell’imperialismo non hanno corrisposto, a causa degli alti livelli di espansione aggressiva all’esterno e di controrivoluzione preventiva all’interno, posti in atto dalle classi dominanti americane, né un pari livello di sviluppo del movimento operaio, tale da renderlo capace di superare lo stadio economico-corporativo, né un pari sviluppo del movimento socialista, tale da renderlo egemonico al di là dei “campus” delle università, è però vero che il marxismo statunitense ha offerto pregevoli e importanti contributi all’analisi economica e sociale grazie a studiosi del calibro di Sweezy e di Baran, autori del classico “Monopoly Capital”, descrizione e spiegazione ancor oggi insuperata della struttura e della dinamica del capitalismo americano degli anni Sessanta del secolo scorso.
Il compito dei comunisti di tutto il mondo e, in primo luogo, degli stessi comunisti nord-americani, è pertanto quello di combattere su tutti i piani le ideologie e le pratiche del capitalismo monopolistico americano, unendo ciò che esso divide e dividendo ciò che esso unisce, guidati dalla consapevolezza sia del fatto che gli Stati Uniti mostrano ai paesi più avanzati il futuro che questi raggiungeranno nel volgere dei decenni sia l’enorme e crescente carico di contraddizioni economiche, sociali, politiche e culturali, interne e internazionali, che, a causa della legge dello sviluppo ineguale, fanno sì che all’abbattimento del dominio di questo grande paese imperialista e democratico prendano parte, oltre alle classi sfruttate americane, i popoli del mondo intero.
politico-ideologiche che il concetto di sovranità nazionale è giunto anche alla sua crisi. Ciò è accaduto perché esso ha corrisposto ad un tentativo plurisecolare di riorganizzazione delle varie frazioni nazionali della borghesia trionfante, tale però che l'illimitata espansione di ciascuna ha messo in crisi la possibilità della convivenza di tutte. Da questa aporia è scaturita quella cessione della sovranità in particolari campi ad enti o istituzioni internazionali (ONU, UE ecc.) che è, finora, sembrata essere la caratteristica dell'attuale periodo storico. Va da sé che, come la storia contemporanea dimostra, l'alternativa a siffatta cessione della sovranità è la guerra interimperialista. In effetti, la contaminazione, oggi più che mai evidente, del concetto di sovranità popolare con il concetto di nazione ("prima gli italiani") ha l'immediato effetto di svuotare il primo delle sue potenzialità democratiche, coartandolo entro le maglie di un populismo tanto vago quanto isterico. Va quindi seguito con attenzione il processo attraverso cui il concetto di sovranità nazionale svuota di ogni radicale istanza lo stesso concetto di sovranità democratica (o popolare). Ciò è tanto più paradossale perché è proprio nel corso di questo processo di svuotamento del concetto di sovranità popolare che si sviluppa la mobilitazione reazionaria delle masse e la partecipazione di queste alla vita del sistema complessivo diviene, in generale, sempre più decisiva. Ma questo paradosso, va detto, è altresì necessario se il concetto di sovranità deve mantenersi entro l'àmbito del suo uso borghese. In definitiva, è nel movimento congiunto di un concetto di sovranità nazionale che tende al suo superamento nella dimensione sovrannazionale e di un concetto di sovranità popolare che si nega del tutto svuotandosi nello ‘stato di eccezione’ permanente, che va vista la crisi del concetto stesso di sovranità in generale. Se si volesse riassumere in una formula questo processo, si dovrebbe dire che l'obsolescenza del concetto di sovranità è del tutto connessa all'obsolescenza dei rapporti reali che registra. In altri termini, la crisi congiunta del concetto di sovranità popolare e del concetto di sovranità nazionale mette a nudo, come non mai, la natura borghese del concetto di sovranità. Pertanto, la sovranità non va "riconquistata", ma condotta al termine della sua traiettoria storica, cioè distrutta. In questo senso, l'autogoverno dei produttori associati si configura come l'unico vero ed effettivo superamento delle irrisolvibili antinomie ìnsite nel concetto borghese di sovranità, vuoi declinato in un'accezione di destra vuoi ritradotto in un'accezione di sinistra.
Ma davvero ? Il comunismo per te sarebbe quella schifezza li ? E dove l'hai letto ?
Guarda che ti sbagli . Marx e' il teorico della libertà e dell'emancipazione dell'essere umano .
Ma qualcuno che invece di richiamarsi a sessantottinismi libertari (cioè alla dissoluzione atomistica che ci ha portati dritti nella dittatura dei consumi) si rifaccia a un po' di socialismo serio, come quello in vigore nella Leningrado assediata dai tedeschi, colle file di disertori impiccati ai lampioni, la stessa razione di cibo per il comandante della guarnigione e l'ultimo fantaccino e la pena di morte anche per il furto di un laccio da scarpe?
Quando ricomincerete a identificarvi con quel socialismo lì sarete di nuovo in grado di fare massa e di fare la storia.
Social-ismo e comun-ismo esprimano - già semanticamente - la prevalenza dell'elemento sociale/comunitario sul suo opposto antitetico, la tutela dei diritti individuali. Da quando ha smarrito (anzi invertito) questa consapevolezza la sinistra si è convertita nell'apostolo ammiccante del turbocapitalismo.
In effetti allora molti fecero notare che lo slogan "no-global" era fuorviante , perchè sarebbe stato facilmente strumentalizzato da eventuali reazionari neofascisti . Ma lo slogan "no-global" di Genova non voleva dire muri , frontiere , chiusura nazionalista ecc.. ma "altermondialismo" : alter rispetto a quello neoliberista .
Ma vedo che gli argomenti di Militant vengono elusi e si ripropongono astrattamente (il Lenin de "Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa" non insegna nulla?) e ossessivamente i soliti argomenti che, in realtà, finiscono per svolgere il ruolo di apologia surrettizia dell'esistente (e che, oltretutto, spesso pretendono di rifarsi a Marx, o a Gramsci, e di interpretarlo genuinamente, mentre invece vi appiccicano il pensiero postmodernista e oggettivamente antimarxista e reazionario. Operazione speculare a quella della nuova destra, direi. Ma anche più pericolosa, perchè, mentre la strumentalizzazione e falsificazione delle destre è evidente, l'operazione della sinistra postmodernista, presentandosi come progressista, è subdola, neutralizza dall'interno il pensiero rivoluzionario e lo piega alle esigenze del capitale. Tutto ciò dovrebbe essere chiaro dopo oltre cinquanta anni di postmodernismo e di "nuova" sinistra, che hanno accompagnato e favorito la trasformazione capitalistica che ci ha consegnato il mondo attuale).
Fra rossi sovranisti che corrono dietro a patria e nazione ed antisovranisti trasformatisi in alfieri della globalizzazione turbocapitalistica, l'unica cosa che manca è qualche briciola di socialismo serio, ormai dileguatosi dall'orizzonte del divenire storico.
Il fatto che gli uni e gli altri vogliano gestire "umanamente" l'invasione extracomunitaria garantisce che la loro influenza politica rimanga pari a zero, salvo il fatto che il capitalismo di rapina presta i propri media ai secondi perché gli rifacciano un sembiante di verginità.
Certo che e' di sinistra criticare il capitalismo di sinistra , ma i rossobruni non si limitano a questo . I rossobruni storpiano Marx facendolo passare come un nazionalista antiimmigrati ( usano senza vergogna il marxiano "esercito industriale di riserva" contro gli immigrati , facendo rivoltare Marx nella tomba ) ; fanno retorica comunitarista/nazionalista con tanto di misticismo identitario , di reificazioni culturaliste , di apologie delle "radici" e del "carattere del popolo" ; contrappongono i diritti sociali a quelli civili e lo fanno ovviamente con gli strumenti/argomenti parafascisti del complottismo , da "i sinistrati sorosiani" a "la teoria del gender" ( gli studi di genere a' la J.Butler , per citarne una , da critica decostruttiva per l'emancipazione e l'uguaglianza , trasformati e subito cestinati come compĺotto diabolico contro la famiglia tradizionale , spacciata ovviamente come naturale ) ; il tutto ovviamente condito con il militarismo nazionale piu' o meno celato o con la decontestualizzazione di passi di Gramsci trasformato in un autore buono anche per la destra sociale/estrema destra ( e' il Gramsci di destra di Benoist e della Nouvelle Droite , da cui ha preso spunto il Gramsci di Fusaro ) etc , etc , etc , etc .
In sintesi , non si tratta semplicemente di critica al neo e ordo liberismo , ma di critiche con finalita' politiche reazionarie .