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nuovadirezione

Documento preparatorio della Tesi sul socialismo del XXI secolo

di Carlo Formenti e Alessandro Visalli

Contributi e revisioni: Andrea Zhok, Mimmo Porcaro, Onofrio Romano, Thomas Fazi

soc xxi sard1. Socialismo o barbarie

Viviamo una fase storica in cui il socialismo appare, al tempo stesso, impossibile e necessario. Mentre la prospettiva socialista sembra oscurata da secoli di errori politici, teorici e culturali, l’alternativa socialismo o barbarie non è mai stata attuale come oggi. Questo perché quarant’anni di rivoluzione neoliberista hanno trascinato il mondo sull’orlo del collasso economico, politico, sociale e ambientale. Il capitalismo contemporaneo, in misura superiore a tutte le forme che lo hanno preceduto, distrugge a ritmo accelerato ogni struttura sociale e comunitaria, fino alle famiglie e agli stessi individui; genera disuguaglianze crescenti, che crescono su se stesse fino ad assumere proporzioni intollerabili; appiattisce il potere politico sul potere economico, distruggendo i fondamenti della democrazia; sconvolge l’ambiente in misura tale da minacciarne le condizioni di compatibilità con la specie umana.

Il combinato disposto della rivoluzione tecnologica – in particolare nei settori della comunicazione, dei trasporti, dell’intelligenza artificiale e della robotica industriale -, della deregulation finanziaria e della globalizzazione dei mercati di merci, forza lavoro e capitali genera effetti devastanti sulle condizioni di lavoro e di vita di miliardi di esseri umani. In tutto il mondo sono in atto “riforme” del lavoro che prevedono la riduzione delle tutele dal licenziamento, la proliferazione di mercati del lavoro che contemplano livelli diversi di tutele giuridiche, sanitarie, infortunistiche, assistenziali, ecc. dei lavoratori, l’autorizzazione di forme di lavoro precarie e a bassa retribuzione, l’accettazione di elevati tassi di disoccupazione, il depotenziamento dei diritti sindacali e la conseguente decontrattualizzazione dei rapporti di lavoro.

Per fronteggiare la crisi che si è aperta al termine del primo decennio del XXI secolo, che giunge alla fine un lungo ciclo di espansione della liquidità e quindi dell’economia del debito, il capitalismo tenta di proseguire l’espansione accentuando la privatizzazione di servizi pubblici, incoraggiando l’ulteriore espansione dei debiti privati e pubblici, ostacolando la necessaria ri-regolazione (onde rimediare all’annullamento della separazione tra banche commerciali e d’investimento voluto da Clinton), sostenendo disperatamente ogni tipo di titoli ad alto rischio, (future, derivati, ecc.). La radice di questa crisi è da ricercare nella soluzione data a quella precedente, quando il boom degli anni sessanta terminò nell’affannoso tentativo di rinviare la crisi da realizzo causata dagli squilibri nella ridistribuzione del reddito (carenza di domanda) attraverso l’espansione della spesa pubblica e delle classi intermedie, le ripetute distruzioni “creative”, l’estrazione di risorse dai Paesi più deboli del mondo. Questo sforzo titanico fu alla fine vanificato dalla resistenza di questi ultimi, dalle spese crescenti per la riproduzione dei lavoratori e dall’aumentata competizione inter imperialistica.

La risposta è stata la svolta degli anni Settanta, grazie alle quale, in condizioni monetarie e regolatore mutate, il nuovo protagonismo di capitali e imprese multinazionali ha imposto su scala allargata le condizioni di oligopolio di cui usufruivano in patria. Ne è sortito un assetto regolatorio più insostenibile del precedente: ancora più fondato sullo squilibrio redditi/consumi, e quindi sul debito, ancora più dipendente dalle spese militari e dalla capacità di imporre accordi asimmetrici, ancora più capace di estrarre plusvalore dal lavoro, ancora più capace di orientare lo sviluppo tecnologico e scientifico contro la resistenza sociale alla modernizzazione capitalistica.

La privatizzazione dei servizi pubblici, oltre a contribuire all’aumento della disoccupazione a causa dei tagli al pubblico impiego, fa sì che oggi sia divenuto pressoché impossibile distinguere ciò che è stato da ciò che è mercato, mentre il peggioramento della qualità e l’aumento dei prezzi dei servizi, progressivamente asserviti alla logica del profitto, fa sì che i cittadini si aspettino sempre meno dallo stato e siano quindi sempre meno disposti a pagare le tasse, il che contribuisce ad aggravare le dimensioni del debito pubblico, già gonfiato dalla concorrenza fra i governi che abbassano le tasse alle imprese per attirare gli investimenti sul proprio territorio, e dai tassi di interesse imposti dalle banche private che subentrano alle banche centrali come finanziatori del debito. Così, per garantire la fiducia dei creditori, i governi costringono i cittadini a limitare le pretese in termini di bilancio pubblico sostenendo che, per superare la crisi fiscale, occorre difendere la finanza pubblica dalle “pretese” democratiche, occorre, cioè, accettare robusti tagli alla spesa pubblica ridimensionando radicalmente le prestazioni del welfare.

Il succo del discorso è che negli ultimi quarant’anni il neoliberismo non ha tentato di liberarsi dal giogo dello stato (che anzi ha continuato a svolgere il suo insostituibile ruolo di comitato di affari della borghesia), bensì dal giogo della democrazia, il tutto per sgombrare la strada al processo di ridistribuzione della ricchezza dalle comunità più varie (classi sociali, aree regionali e nazionali, famiglie, consumatori, risparmiatori ecc.) agli agenti che controllano il capitale mobile, per mettere in atto, cioè, quella che David Harvey, Nancy Fraser e altri teorici marxisti definiscono “accumulazione per espropriazione”. Questo progetto ha avuto pieno successo, perciò non vi è alcun motivo per pensare (come molti intellettuali di sinistra) che la crisi del 2008 ne abbia segnato la fine, o possa almeno rappresentare il primo passo verso un’inversione di tendenza. È pur vero che esistono segnali di inversione di tendenza del processo di globalizzazione (soprattutto sul piano degli scambi commerciali, vedi la ripresa di politiche protezioniste), ma ciò, mentre aggrava la concorrenza interimperialistica fra potenze e blocchi regionali, non impedisce di proseguire sulla via di un ulteriore consolidamento del potere della classe capitalistica: le élite dominanti continuano ad attingere a bacini di mano d’opera meno cara e più docile, incoraggiano l’immigrazione e la femminilizzazione e la precarizzazione del lavoro per dividere le classi subalterne, sfruttano le tecnologie labour saving per indebolire il potere contrattuale lavoratori, indirizzano i flussi di capitale liquido verso le destinazioni dove può risultare più redditizio, sfruttano in modo intensivo le risorse naturali ignorando qualsiasi vincolo ambientale. In conclusione: il futuro ci riserva più disoccupazione, più sfruttamento, più miseria, meno democrazia, più guerre (corollario inevitabile dell’aumento della competizione fra blocchi imperialistici), più disastri ecologici. Ecco perché, come volevasi dimostrare, l’alternativa socialismo o barbarie resta più attuale che mai.

 

2. I tre “peccati originali” del socialismo otto/novecentesco

Le teorie “classiche” del socialismo, sia nella versione riformista che in quella rivoluzionaria si fondano su tre assunti di base: 1) la sfera economica (le relazioni “strutturali” contrapposte alle relazioni “sovrastrutturali”, politiche, ideologiche e culturali) è il terreno privilegiato, se non l’unico, su cui si gioca lo scontro fra padroni e lavoratori, fra capitalismo e socialismo; 2) la battaglia per il socialismo ha come proprio protagonista e referente una forza antagonista (la classe operaia) che, in quanto parte integrante della sfera economica, preesiste a ogni progetto politico; 3) la vittoria finale del socialismo è scontata in quanto “storicamente necessaria”, cioè in quanto inevitabile esito di leggi immanenti alla realtà economico-sociale e alle sue dinamiche evolutive. La proiezione ideologica di queste tre assunzioni ha generato una lunga serie di “ismi”: economicismo, storicismo, progressismo, universalismo, illuminismo, ottimismo tecnologico e antropologico, ecc. Opzioni ideologiche che costituiscono un patrimonio comune che la cultura socialista classica condivide – ancorché con diverse sfumature – con la cultura borghese, per cui non c’è da stupirsi che la prima abbia finito per appiattirsi sulla seconda.

Gli “ismi” appena citati sono strettamente intrecciati e si rafforzano l’uno con l’altro. L’elenco dei disastri che hanno provocato e continuano a provocare sarebbe interminabile. Basti qui richiamarne alcuni particolarmente devastanti.

L’economicismo ha fatto sì che i Paesi del socialismo reale abbiano tentato di sfidare il capitalismo sul suo stesso terreno, superandolo in efficienza e produttività grazie alla presunta, superiore razionalità di un’economia pianificata a livello centrale rispetto all’anarchia dei mercati autoregolati; una sfida clamorosamente persa anche perché gli obiettivi del socialismo sono stati ridotti all’accelerazione dello sviluppo delle forze produttive e alla ridistribuzione egualitaria dei redditi, mettendo fra parentesi l’identificazione fra socialismo e il raggiungimento di una tappa superiore della civiltà. Sempre in nome del “realismo” economico, dell’oggettività delle leggi del sistema economico, i socialismi occidentali hanno accettato la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia come processi “naturali” e irreversibili (e non come strategie capitalistiche di attacco ai rapporti di forza delle classi subalterne) ai quali la politica può solo adattarsi. Allo stesso tempo, benché la rivoluzione liberista stesse spazzando via le conquiste ottenute grazie al compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, partiti e sindacati socialdemocratici hanno continuato a garantire la lealtà di massa al sistema liberista in cambio di consumi e livelli occupazionali sempre più ridotti.

Storicismo e progressismo: l’idea che la storia sia un processo direzionato, che marcia naturalmente verso il progresso, è il legame sotterraneo e potente che connette marxismo e liberalismo. Marx esaltava la spinta modernizzatrice del capitale, una postura ideologica giustificata dal contesto storico in cui il grande maestro si trovava a operare, ma che, nel corso della storia dei movimenti socialisti e comunisti, si è venuta progressivamente accentuando, senza tenere conto delle contraddizioni crescenti che generava e, che, negli ultimi decenni ha assunto toni parossistici, in particolare attraverso l’esaltazione del progresso scientifico e tecnologico, del quale si ignora il carattere “demonico”, se ne rimuove, cioè, completamente il contenuto di classe (vedi la fascinazione nei confronti della rivoluzione digitale, celebrata acriticamente come strumento di ampiamento della democrazia economica, politica e sociale). L’idea che lo sviluppo delle forze produttive è sempre e comunque foriera dell’avvento di un mondo migliore (la crescita economica per i liberali, il socialismo per i marxisti) ha collaborato con l’economicismo nell’alimentare quei miti dello sviluppo, della modernizzazione e del progresso che hanno fatto smarrire qualsiasi capacità di interpretare le crisi capitalistiche come opportunità per il superamento del capitalismo.

Nel combinato disposto di storicismo, economicismo, progressismo e modernismo affondano le radici della visione radicalmente eurocentrica dei socialismi otto/novecenteschi, alimentando in particolare la convinzione che lo sviluppo capitalistico europeo (e poi nordamericano), oltre ad essere un prodotto storicamente necessario delle leggi dell’economia, rappresenta la via obbligata che tutti popoli e le nazioni del mondo dovrebbero percorrere per entrare a far parte del “mondo civile. Ne seguirebbe che c’è una sola via al “mondo civile” e che tutti i paesi del mondo, con le loro diverse storie e culture, sono in cammino per adeguarvisi. Ogni movimento di resistenza, e di creazione di nuove sintesi, è visto come reazionario, rispetto al mondo libero che il capitalismo prepara. Una visione universalista figlia dell’illuminismo e tipica della concezione borghese del mondo e dell’uomo che il socialismo ha fatto interamente propria (non a caso i partiti socialisti e comunisti occidentali non hanno mai sostenuto le lotte di liberazione dei popoli coloniali, legittimando nei fatti la mascherata di un particolarismo delle élite metropolitane che si spacciava per universalismo della “razionalità”, senza attributi di classe).

Prima di descrivere in che misura questi pregiudizi ideologici hanno influito sulla radicale mutazione che le sinistre occidentali hanno subito negli ultimi decenni, è il caso di elencare una serie di postulati che oggi vanno adottati per rettificare gli errori di prospettiva appena descritti (postulati che cercheremo di chiarire ulteriormente nelle tesi successive):

  • finché si resta incapsulati in una visione economicista non esistono vie di uscita alla riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile,
  • affermare che l’alternativa fra socialismo e barbarie è più che mai attuale non implica l’esistenza di alcuna necessità storica dell’avvento del socialismo,
  • l’idea che per costruire il socialismo si debba o si possa essere più moderni del capitalismo non è solo illusoria: è suicida,
  • la modernità contemporanea non è stata il prodotto di leggi necessarie della storia ma il prodotto contingente di conflitti sociali, politici e geografici (geopolitici). Ne consegue che essa è un evento storico fra gli altri e che, a un certo punto, si concluderà, potrà essere oltrepassata insieme al tempo astratto e vuoto, della valorizzazione, che oggi ne ipnotizza i poteri,
  • la comprensione del proprio tempo è da connettere con ciò che si fa attuale, e perciò presente, tramite un atto politico, egemonico, che non è iscritto a priori nel presunto ‘progresso’ lineare,
  • Senza volersi addentrare in dispute storiche, tra i molti fattori quello decisivo è che i capitalisti, nel loro sviluppo storico, hanno preso inizialmente il potere solo in Europa non perché i Paesi europei erano più “evoluti” degli altri, ma perché altrove l’economia era più integrata nel sistema sociale (secondo la formula di Polanyi) per cui essi non potevano assumere il comando,
  • La metafora del movimento e del progresso è tipica della borghesia, che è la sola vera classe rivoluzionaria, viceversa il socialismo non dovrebbe essere più di quanto non sia conservatore, non dovrebbe predicare la convergenza di tutta l’umanità, non dovrebbe definire una forma culturale ideale (il tentativo di costruire “l’uomo nuovo” ha provocato i peggiori crimini del socialismo reale). Non a caso, tutte le rivoluzioni socialiste non sono finora avvenute nei punti più avanzati di sviluppo delle forze produttive e, più che esprimere aspirazioni di progresso, rappresentavano forme di resistenza all’invasione del moderno e dei barbarici spiriti del capitalismo.

 

3. La mutazione culturale delle sinistre vecchie e nuove

Che le sinistre non rappresentino più le classi subalterne è un dato di fatto. Non ne rappresentano più gli interessi materiali: dopo gli anni Ottanta si sono arrese al liberismo facendo proprio lo slogan thatcheriano “There is no alternative” e adottandone valori, principi e indirizzi economici, fino a legittimare politiche che hanno causato il crollo dei salari e dei livelli di occupazione, un peggioramento generale delle condizioni di lavoro e di vita e lo smantellamento del welfare. Non ne rappresentano più la cultura: il linguaggio della gente “incolta” viene disprezzato perché rozzo, volgare, sessista, omofobo e razzista, e sanzionato in nome della “correttezza politica”, cioè di un codice di neologismi coniati per non ferire i sentimenti di un insieme di minoranze religiose, culturali, etniche, sessuali, ecc. I loro leader, i loro militanti, i loro elettori non abitano gli stessi luoghi in cui abitano le masse popolari: gli uni vivono nei quartieri gentrificati delle metropoli, le altre vengono espulse verso le periferie e le piccole-medie città di provincia. Ma soprattutto hanno un rapporto diverso con lo spazio (e quindi un’idea diversa di Paese): da un lato, le élite godono di elevata mobilità, spostandosi frequentemente da una città all’altra, spesso in Paesi diversi, dall’altro le masse sono inchiodate ai posti in cui devono guadagnarsi da vivere, i quali, essendo periferici, non usufruiscono dei vantaggi della globalizzazione ma ne pagano il prezzo in termini di reddito, precarietà, servizi sociali costosi e di scarsa qualità.

I risultati elettorali degli ultimi anni fotografano questo divorzio: i centri urbani votano a sinistra, le periferie, non trovando rappresentanza sociale, economica e culturale nelle sinistre si rivolgono altrove: ai populismi di destra, e in minor misura a quei populismi di sinistra che hanno tentato di smarcarsi dalle sinistre tradizionali. Ciò ha determinato un rovesciamento delle modalità di aggregazione dei blocchi di potere politico: il capitale globale tende ad affidare il compito di mediare politicamente i propri interessi alle sinistre o – quando queste entrano in crisi – a formazioni centriste prive di precisi connotati ideologici perlopiù provenienti dalle fila della socialdemocrazia (è il caso di Macron in Francia) o a formazioni che, come i Verdi, pur provenendo dalle sinistre radicali, hanno deposto le velleità antagoniste per transitare nell’area liberal- progressista. Viceversa, le destre rappresentano gli interessi di strati piccolo-medio borghesi che operano su scala locale e faticano ad adattarsi ai processi di globalizzazione. Si tratta di destre di tipo nuovo che – come la Lega – riescono a intercettare anche i consensi di strati popolari in cerca di rappresentanza.

A orientare la mutazione delle socialdemocrazie è stata la mentalità economicista descritta nel precedente paragrafo: preso atto che la rivoluzione liberale aveva indebolito politicamente e numericamente la classe operaia, e che l’alternativa socialista era svanita, i socialdemocratici hanno accettato l’ineluttabilità di un mondo unificato dalle leggi del mercato e si sono candidati a gestirlo in pacifica alternanza con i conservatori, ai quali contendono il consenso elettorale rivolgendosi a un elettorato trasversale, ma sostanzialmente egemonizzato dai “ceti medi riflessivi”. Diverso il percorso delle sinistre radicali: l’onda lunga del 68 ha partorito movimenti (ecologisti, femministe, Lgbqt, animalisti, pacifisti, ecc.) che, muovendo da istanze emancipatorie settoriali, hanno rimosso il problema del potere politico, concentrandosi sulla liberazione qui e ora di minoranze e individui. Una cultura per cui lo statalismo socialista non è meno nemico del capitalismo, e che tende a ridurre la lotta anticapitalista a quella contro le gerarchie, il patriarcato e l’autoritarismo. Rivendicazioni libertarie che il nuovo modo di produzione ha saputo integrare, trasformandole in altrettanti strumenti per costruire gabbie ancora più sofisticate di dominio e controllo su una forza lavoro frammentata e individualizzata.

Un discorso a parte, in questo contesto, merita il movimento femminista, se non altro perché esso appare di gran lunga lo spezzone politicamente e culturalmente egemone, oltre che numericamente maggioritario, dell’area movimentista testé evocata. C’è chi, come Mario Tronti, ha giustamente definito la rivoluzione femminile come una delle grandi rivoluzioni fallite del Novecento, nella misura in cui il progetto liberatorio fondato sulla cultura della differenza ha progressivamente lasciato il campo alla prospettiva “emancipazionista”, alla mera rivendicazione della parità di diritti fra generi. La teorica marxista e femminista Nancy Fraser ha elaborato una versione più complessa e articolata – ma sostanzialmente analoga – di questa tesi. Il nodo cruciale, sostiene, consiste nel fatto che il femminismo della seconda ondata si è progressivamente concentrato sui temi del riconoscimento proprio nel momento in cui il neoliberismo dichiarava guerra all’uguaglianza sociale. Ciò ha determinato il divorzio fra socialismo e femminismo: da un lato, l’immissione massiccia di forza lavoro femminile nei processi produttivi ha fatto sì che le donne divenissero oggettivamente alleate del tentativo capitalistico di deregolamentare il mercato del lavoro (le retribuzioni più basse a parità di mansioni hanno svolto un ruolo di dumping nei confronti della forza lavoro maschile e la sacrosanta rivendicazione della parità di salario è stata usata per legittimare l’alienamento dei salari verso il basso invece che verso l’alto); dall’altro lato, la gender theory ha definitivamente troncato i legami storici con il marxismo e, più in generale, con la teoria sociale e l’economia politica. Paradossalmente il femminismo, mentre rompeva il fronte anticapitalista, rilanciava il mito sull’esistenza di un unico Soggetto (vedi sopra) in grado di incarnare e realizzare le aspirazioni umane universali di uguaglianza, giustizia e libertà, mettendo semplicemente il genere femminile al posto della classe operaia.

In seguito alla grande crisi che ha scosso gli equilibri sistemici nel primo decennio del XXI secolo, queste culture politiche e il loro blocco sociale di riferimento appaiono in grave difficoltà. I ceti medi che negli anni Ottanta si erano convertiti ai miti dell’autoimprenditoria e della meritocrazia, e che negli anni Novanta si erano autocelebrati profetizzando l’ascesa al potere di una “classe creativa” in grado di governare autonomamente i meccanismi di un’economia smaterializzata e fondata su conoscenze e informazioni e sulla competenza tecnologica, appaiono oggi spaccati fra una minoranza di privilegiati, integrata nelle élite dirigenti, e una massa proletarizzata che, nella migliore delle ipotesi, campa stentatamente nelle catene di subfornitura del terziario avanzato, nella peggiore, sprofonda negli inferi del terziario arretrato a fianco degli operai espulsi dall’industria e degli immigrati.

Questa evoluzione avrebbe potuto favorire una saldatura fra questi strati intermedi declassati dalla crisi e una massa proletaria frantumata, impoverita, individualizzata, precarizzata e priva di rappresentanza sindacale e politica. L’esistenza di questo potenziale di rivolta anticapitalista, ha trovato conferma, da un lato, in una serie di mobilitazioni spontanee di massa (Primavere arabe, Occupy Wall Street, 15 M, gilet gialli) che esprimono la rabbia trasversale di un ampio ventaglio di strati sociali colpiti dalla crisi, dall’altro, nella nascita di formazioni neopopuliste di sinistra che, tentando di offrire sbocco e direzione politica a questi movimenti, hanno tentato di andare al di là delle sinistre tradizionali, sperimentando nuovi linguaggi e nuove forme organizzative e rimpiazzando l’asse destra-sinistra con l’asse alto-basso, popolo-élite. Un progetto nato per contendere ai populismi di destra l’egemonia su un popolo concepito non come un’entità data e preesistente, ma come un soggetto politico da costruire, un blocco sociale da aggregare attorno alla lotta contro il comune nemico di classe. Nelle tesi successive (in particolare in quelle dell’ultima parte) tenteremo di spiegare perché questi esperimenti – da Sanders a Corbyn, da Podemos a France Insoumise, passando per l’atipico e ambiguo M5S – dopo una fase di crescita impetuosa sembrano oggi attraversare un momento di crisi e arretramento. Qui anticipiamo solo che una delle cause (se non la causa) di questo fallimento è il fatto non sono riuscite a sbarazzarsi pienamente dell’eredità ideologica delle vecchie sinistre: scambiando l’internazionalismo proletario con il cosmopolitismo borghese, non hanno compreso la necessità di difendere la sovranità nazionale come baluardo della democrazia contro il globalismo liberale; in nome di un anacronistico antifascismo, hanno ceduto alle lusinghe frontiste di socialdemocratici e liberali; in omaggio ai movimenti femministi hanno sposato il linguaggio politicamente corretto.

 

4. Ridefinire il termine socialismo

Un secolo di storia del movimento operaio – inaugurato dalla rottura fra Seconda e Terza Internazionale seguita alla Rivoluzione d’Ottobre – ha cristallizzato il significato del termine socialismo associandolo irreversibilmente a due modelli: 1) il modello sovietico, e relative varianti, caratterizzato da un sistema economico pianificato e centralizzato, e da un sistema politico altrettanto centralizzato, strutturato secondo una rigida gerarchia controllata dal partito unico; 2) il modello socialdemocratico, caratterizzato da politiche economiche ridistributive a favore delle classi meno abbienti, dall’accettazione dei valori e delle procedure della democrazia liberale e dalla rinuncia al rovesciamento del sistema capitalistico. Entrambe queste due idee di socialismo, classicamente definite rivoluzionaria e riformista, risultano oggi incompatibili, non solo con i rapporti di forza fra capitale e lavoro instaurati dalla rivoluzione neoliberista, ma anche con il senso comune condiviso dalla maggioranza della popolazione mondiale.

Per restituire attualità all’obiettivo – che poco sopra abbiamo affermato essere imprescindibile per la salvezza del genere umano – di una trasformazione in senso socialista del mondo, occorre perciò sganciare l’idea di socialismo dai cliché appena evocati. Prima di affrontare tale impresa, tuttavia, è opportuno fare i conti con l’esistenza di alcuni sistema-paese che tuttora si definiscono socialisti, a partire dalla Cina. Non si tratta di andare in cerca di “modelli”, dato che le peculiarità storiche, culturali e sociali dei Paesi in questione appaiono assai distanti dalle nostre, ma di interrogarne le esperienze per verificare le possibilità di esistenza di sistemi sociali non capitalisti.

Cosa significa, tuttavia, non capitalista? Per rispondere occorre in primo luogo ricordare che un’economia di mercato non deve necessariamente avere carattere capitalista. Economie di mercato sono esistite ben prima della nascita del capitalismo, ma erano prive delle caratteristiche specifiche – come la ricerca illimitata di accumulazione di capitale e la forma prevalentemente liquida dello stesso quale suo presupposto – che fanno sì che un’economia di mercato possa essere definita capitalista a tutti gli effetti. Né l’esistenza di un’economia di mercato implica che essa debba per necessità storica (vedi sopra) evolvere verso il capitalismo.

 

5. Esistono ancora Paesi socialisti? Sulla Cina

Quanto affermato nel precedente paragrafo è uno dei motivi per cui la realtà cinese risulta così difficile da interpretare in base alle tradizionali nozioni di socialismo e capitalismo. Tanto è vero che le diagnosi dei teorici marxisti sulla natura della società cinese divergono significativamente: David Harvey parla di “neoliberismo in salsa cinese”; Samir Amin di “un capitalismo di stato che lascia aperte diverse alternative di sviluppo futuro”; Giovanni Arrighi di ”uso del mercato come strumento di governo da parte delle élite politiche”; Rémy Herrera ricorre alternativamente alle definizioni di “socialismo con presenza di mercato” o di “economia non capitalista con capitalisti e lotta di classe”.

Vediamo su quali argomenti si basa l’ ”ottimismo” delle ultime tre diagnosi, che si contrappone al “pessimismo” di Harvey. In primo luogo occorre tenere conto dei fattori storici, culturali e dimensionali (geografici e demografici) che fanno della Cina un caso unico. È noto che lo sviluppo del mercato e della produzione cinese sono fenomeni antichi che ancora nel XVIII secolo avevano dimensioni superiori a quelle dei Paesi occidentali. Altrettanto noto è che il Paese ha una storia millenaria di centralismo politico e amministrativo che ha sempre conservato uno stretto controllo sulle attività economiche. L’economia cinese non è stata in grado di competere quando si è trovata a dover affrontare l’aggressiva concorrenza occidentale, sia perché aveva sempre seguito una via di sviluppo autocentrata, contrariamente all’espansione “estroversa” degli imperialismi europei, sia perché il suo sviluppo si è dipanato in un contesto sociale dato senza modificarlo in modo significativo, diversamente dallo sviluppo di tipo schumpeteriano-marxiano, che implica la “distruzione creativa” del contesto sociale in cui avviene, il che ha fatto sì che si privilegiassero tecnologie ad alta intensità di lavoro, ritmi e abitudini di vita poco adatti ad affrontare la velocificazione corrosiva imposta dal capitalismo occidentale. Non da ultimo va tenuta presente la tradizionale politica di convivenza pacifica con i popoli e le nazioni confinanti, che ha impedito alla Cina di innescare quella sinergia fra capitalismo, industrialismo e militarismo che viceversa ha consentito lo sviluppo accelerato delle potenze europee, stabilmente in guerra fra loro per spartirsi il dominio politico ed economico sia sul proprio continente che sui territori d’oltremare.

Perché la Cina è riuscita in tempi brevissimi, dalla rivoluzione del 1949 ad oggi, a cambiare radicalmente a proprio favore i rapporti di forza con l’Occidente? La risposta di Harvey è secca: perché è diventata una grande potenza capitalistica a tutti gli effetti. Ma le cose non sono così semplici. Gli stessi esperti economici occidentali ammettono che il successo del modello cinese non è attribuibile tanto alla sua presunta adesione al capitalismo, quanto al persistere del ruolo di intervento, coordinazione e riorganizzazione dei flussi di capitali ad opera dello stato che, invece di frenare lo sviluppo del mercato, si sono dimostrati straordinariamente efficaci. Una contraddizione che per i teorici neoliberisti resta un mistero inspiegabile che essi tentano di decifrare insistendo sul peso di elementi extraeconomici, come il fattore dimensionale (l’immenso mercato interno), la tradizionale “laboriosità” del popolo cinese, il fortissimo sentimento nazionale, ecc.

Più attendibili suonano le analisi di tre degli autori sopra citati (Arrighi, Amin ed Herrera), i quali sottolineano i seguenti elementi: anche da quando è iniziata l’era delle riforme di Deng (1977) non si è abbandonato il tradizionale gradualismo, né si sono sposate le terapie del Washington Consensus: privatizzazioni e deregulation sono state selettive e spalmate su tempi lunghi, evitando di turbare gli equilibri e la pace sociali; l’industrializzazione per esportazioni (legata soprattutto agli investimenti stranieri) è proceduta di pari passo allo sviluppo di un’economia nazionale centrata sui consumi interni; si è avviata una ricerca scientifica di alto livello (anche sfruttando il rientro dei cervelli da Stati Uniti e altri Paesi della diaspora). E ancora: la pianificazione è stata resa flessibile ma non abbandonata (soprattutto nei settori strategici, molti dei quali restano in mano pubblica); sussiste un ampio sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; le imprese di stato riconoscono la necessità di rispettare standard minimi di efficienza, ma non assumono in toto la logica del massimo profitto; le comuni sono state abbandonate ma la terra non è stata riprivatizzata, per cui 450 milioni di contadini continuano a goderne l’accesso (e riescono a nutrire il 20% della popolazione mondiale con il 10% delle terre coltivabili del pianeta); malgrado le disuguaglianze provocate dalla nascita di grandi imprese private, negli ultimi anni i redditi da lavoro sono cresciuti più rapidamente di tutti gli altri; la maggior parte del sistema bancario resta sotto controllo statale e, anche se viene tollerata la crescita di un sistema sotterraneo di shadow banking, il tasso di interesse resta amministrato e la banca centrale non gode di autonomia dal sistema politico. A tutto ciò si aggiunge il fatto che, pur in assenza di forme di democrazia formale, esiste una peculiare relazione democratica fra stato e classi subalterne, nella misura in cui la resistenza operaia interloquisce con il potere, il quale ne recepisce le spinte verso il compromesso sociale incanalandole ai fini dello sviluppo.

Tutto ciò significa che la Cina è socialista, o che può offrirci un modello positivo su cui ridefinire la nostra idea di socialismo? Assolutamente no. Significa solo che, per usare le parole di Arrighi, si possono aggiungere capitalisti a piacere in un’economia di mercato, ma se lo stato non è subordinato al loro interesse, quell’economia mantiene carattere non capitalistico. Forse la definizione più corretta è quella suggerita da Herrera: economia non capitalista con capitalisti e lotta di classe, un punto di vista compatibile con il giudizio di Amin, il quale considera la società cinese aperta a diversi sviluppi futuri.

A corollario di quanto sin qui sostenuto, va ricordato che il “globalismo” cinese non è – al contrario di quanto sostenuto anche da alcuni teorici marxisti – una forma di imperialismo speculare a quella occidentale, non solo perché rispettoso della sovranità altrui, ma anche perché non orientato a realizzare forme di accumulazione per espropriazione (per usare il termine proposto da Harvey nel definire la logica degli “aiuti” occidentali ai Paesi in via di sviluppo e le interferenze giustificate con la necessità di tutelare i diritti umani). Con i suoi massicci investimenti in Africa, per esempio, la Cina mira a favorire lo sviluppo reale di quei Paesi, ad avviare una rivoluzione industriale che dia vita a un quarto blocco economico mondiale per accelerare gli scambi interafricani e integrarli nelle nuove vie della seta, accerchiando l’Occidente e sottraendogli risorse naturali.

Per inciso, va notato che, pur se orientato a un’effettiva modernizzazione dell’Africa, anche l’intervento cinese – e a maggior ragione quello occidentale – incontra, secondo alcuni economisti africani, il limite invalicabile di una “alterità” antropologica che consiste nel fatto che in quel continente la dimensione economica appare tuttora inestricabilmente intrecciata con le dimensioni relazionali, culturali e ambientali. Per dirla con Polanyi, in Africa non si sarebbe realizzata la completa autonomizzazione della sfera economica, che resterebbe “embedded” nelle tradizionali strutture sociali: il capitalismo impone le sue forme, ma la gente non vi si riconosce perché è consapevole che si tratta di forme concepite contro e non per loro, quindi reagisce costruendosi delle nicchie di resistenza attraverso forme di economia informale. Quest’ultima tesi, come vedremo nel prossimo paragrafo, svolge un ruolo fondamentale nell’analisi del secondo esempio di economie post neoliberiste che viene qui proposto, cioè quello delle rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Bolivia ed Ecuador).

 

6. Esistono ancora Paesi socialisti? Sulle rivoluzioni bolivariane

La crisi che ha determinato il giro a l’izquierda (la svolta a sinistra) di molti Paesi latinoamericani nell’arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni Novanta a oggi, fase in cui assistiamo a una controffensiva generalizzata delle destre liberiste tornate quasi ovunque al potere, è un classico caso di crisi di egemonia politica su scala continentale: le sollevazioni popolari contro le politiche del Washington Consensus, imposte dal Fondo Monetario Internazionale, ha potuto ottenere significativi successi grazie alla profonda crisi delle istituzioni della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti (ivi compresi i partiti marxisti di sinistra), delegittimati dal proliferare della corruzione e dall’assoluta incapacità di offrire risposte alle rivendicazioni avanzate da un ampio e composito ventaglio di soggetti sociali. Dopo anni di lotte, caratterizzati dall’emergere di nuove formazioni populiste di massa guidate da leader carismatici come Hugo Chavez, Rafael Correa e Evo Morales, si è assistito a una ricomposizione del sistema politico che è passata attraverso una serie di processi costituenti che hanno modificato radicalmente – almeno sul piano formale – le regole del gioco politico nei Paesi coinvolti.

Limitandoci alle cosiddette rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Bolivia ed Ecuador), occorre valutare se i regimi nati da questi movimenti, al di là dell’autodefinizione di “socialismi del secolo XXI”, possano essere effettivamente considerati come una prima tappa di un processo di transizione passibile di evoluzione in senso socialista, oppure rappresentano l’ennesima variante di quel presidenzialismo populista di sinistra che si riaffaccia periodicamente sullo scenario latinoamericano, per essere puntualmente riassorbito sotto l’egemonia delle élite nazionali asservite all’imperialismo americano. Per rispondere, occorre tenere conto di alcuni significativi elementi di novità, sia sul piano socioeconomico, sia sul piano della cultura politica, di questa nuova ondata di sollevazioni rispetto ad analoghi episodi del passato. In tale senso è di notevole importanza il contributo teorico del vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera. In particolare costui spiega: 1) come i meccanismi di subordinazione delle economie locali da parte del grande capitale internazionale siano cambiati: si è passati dalla classica “distruzione creatrice” dei sistemi economici locali e dalla loro sostituzione da parte di forme capitalistiche moderne, all’integrazione delle tradizionali economie informali (reti famigliari, lavoro a domicilio, ecc.) in un modello di accumulazione ibrido che unifica in forme gerarchizzate strutture produttive e modelli di relazione sociale arcaici; 2) questo processo genera effetti ambivalenti sul piano della soggettività sociale e politica: nel paragrafo precedente si è visto che l’integrazione nel mercato capitalistico non impedisce alle popolazioni africane di “usare” il mercato per conservare le strutture tradizionali; Linera descrive la stessa dinamica analizzando le comunità degli indios andini ma si spinge oltre, sostiene, cioè, la tesi secondo cui i membri di comunità che in qualunque forma si trovino in una relazione di dominazione da parte di altre formazioni sociali rappresentano a tutti gli effetti una classe sociale antagonista. “Diversi sviluppi non capitalisti della storia, scrive, sono costretti a essere parte integrante del divenire storico capitalista, ma se permane resistenza c’è possibilità di continuità in condizioni nuove di comunità non capitalistica”. Una comunità capace di riprodursi senza lasciarsi integralmente dissolvere dal mercato, il che non significa ri-discendere la scala del progresso (non si prende la macchina del tempo), ma, al contrario, ancorarsi alla costante attualità della capacità socializzante dell’umano e della logica del dono.

Nell’ultima citazione di Linera è facile riconoscere l’influenza delle riflessioni dell’ultimo Marx in merito al ruolo che le comunità contadine russe avrebbero potuto svolgere ai fini di un passaggio diretto al comunismo, senza passare per la “necessaria” fase di sviluppo capitalistico. Per restare ancorati all’attualità, troviamo qui elementi di comprensione delle ragioni del fallimento delle sinistre marxiste tradizionali a fronte del successo dei neopopulismi andini di sinistra. Le prime, fedeli ai dogmi della necessità di creare le condizioni per il socialismo sostituendo ai modi di produzione “arcaici” le moderne relazioni capitalistiche, hanno sempre pensato che le comunità indigene, che non conoscono la proprietà privata della terra, andassero sciolte favorendo la nascita di una classe contadina fatta di piccoli proprietari, considerando la cultura tradizionale andina come un residuo reazionario (in quanto freno allo sviluppo delle forze produttive) piuttosto che come una fonte di resistenza alla modernità capitalista. Ciò ha fatto sì che l’impresa di aggregare un blocco sociale fra operai e altre classi e movimenti urbani, piccole e medie imprese e movimenti indigeni sia spettata alle formazioni neopopuliste di sinistra, lasciando alle sinistre tradizionali un ruolo del tutto marginale.

Ciò detto occorre sottolineare che i governi bolivariani, non solo quello ecuadoriano, ben presto rifluito su posizioni riformiste radicali senza alcuna velleità di cambio di sistema socioeconomico (e poi definitivamente rientrato nella normalità liberista con la presidenza di Lenin Moreno), ma anche quelli boliviano e venezuelano: 1) non hanno sottratto se non in minima parte il controllo dell’economia al grande capitale nazionale e internazionale, nelle cui mani restano gran parte dei settori strategici; 2) non hanno sostanzialmente modificato i meccanismi di funzionamento dello stato borghese, tuttora controllato da burocrazie spesso corrotte; 3) non hanno fondato un nuovo potere di classe, nella misura in cui il principio di alternanza associato alla democrazia rappresentativa li espone al rischio permanente del ritorno al potere delle vecchie élite. Come si vede, siamo lontani anche dal pur controverso modello cinese, al punto che, nel dibattito teorico fra marxisti latinoamericani, si è rispolverata la classica opposizione fra riformisti e rivoluzionari, per cui la attuale crisi del progetto bolivariano viene attribuita alla timidezza con cui si è affrontato il nodo politico del potere. Il tema resta ovviamente cruciale e aperto, tuttavia non dovrebbe far dimenticare le conquiste formali contenute nelle nuove Costituzioni approvate nel 2008 dai Paesi di cui ci stiamo occupando, che, fra le altre cose, riconoscono e promuovono istituti di democrazia diretta e partecipativa, riconoscono e promuovono forme di proprietà e mezzi di comunicazione alternativi, garantiscono assistenza sanitaria e accesso all’educazione superiore per tutti; così come non andrebbero dimenticate le politiche di investimenti pubblici promosse dai governi in questione. Riformismo? Certamente, ma come chiarito da Rosa Luxemburg, il vero nodo non è riforme o rivoluzione, bensì la consapevolezza che la lotta per le riforme ha senso se concepita come mezzo per realizzare il fine della rivoluzione, perciò le riforme che accrescono il potere sociale, economico, politico e culturale delle classi subalterne hanno un potenziale oggettivamente rivoluzionario. Da questo punto di vista, le rivoluzioni bolivariane non vanno valutate in relazione agli obiettivi limitati finora realizzati, bensì ai loro potenziali sviluppi evolutivi, i quali dipendono da complessi fattori interni e internazionali.

 

7. Sul soggetto rivoluzionario: una parola da declinare rigorosamente al plurale e con iniziale minuscola

La ridefinizione del progetto socialista passa dalla ridefinizione di quali gruppi sociali e comunità umane condividono (almeno potenzialmente) bisogni, interessi, valori che possono alimentare la volontà politica di andare oltre la civiltà capitalista. Più sopra si è sostenuto che l’economicismo e lo storicismo dei movimenti socialisti e comunisti otto/novecenteschi postulavano l’esistenza di un’unica classe sociale “oggettivamente” (si potrebbe dire ontologicamente) rivoluzionaria, un Soggetto della storia con la esse maiuscola, la cui condizione di oppressione senza possibilità di riscatto nell’ambito del modo di produzione capitalistico la candida a svolgere il ruolo di protagonista del suo rovesciamento. Questa classe è la classe operaia e, a fare da corollario alla tesi alla visione appena descritta, è l’idea che la rivoluzione sia necessariamente destinata ad avvenire laddove lo sviluppo delle forze produttive raggiunge i livelli più elevati e dove, di conseguenza, la classe operaia è più forte sia numericamente che in termini di consapevolezza politica.

L’accumulo di smentite storiche cui questo punto di vista è andato incontro è schiacciante. In primo luogo, come già ricordato, è un dato di fatto che nessuna rivoluzione socialista è mai accaduta in un Paese avanzato: tutte sono avvenute in Paesi arretrati sotto giogo coloniale o semicoloniale e in fasi storiche in cui il capitalismo non si era pienamente sviluppato (di qui la famosa battuta secondo cui Lenin fece una rivoluzione “contro” il Capitale di Marx). Né regge il tentativo di mascherare questa verità sostenendo che si trattò di rivoluzioni contadine “sotto la guida della classe operaia”, tesi che sfiora il ridicolo nel caso della rivoluzione cinese, Paese in cui la classe operaia si è sviluppata in misura significativa solo “dopo” la Rivoluzione, grazie alle politiche industriali del PCC. Persino la Comune di Parigi, esaltata da Marx (e da Lenin) come il modello ideale delle future rivoluzioni socialiste, non fu, come ricorda giustamente David Harvey, opera degli operai di fabbrica, bensì di un composito movimento sociale urbano (comprese larghe fasce di piccola borghesia) che rivendicava il diritto a controllare e possedere la città che aveva prodotto con il proprio lavoro.

A fronte di queste smentite storiche, sono stati proposti diversi paradigmi alternativi: dalla tesi “terzomondista”, secondo cui la lotta degli operai dei centri ha cessato di essere il motore di sviluppo della storia perché il surplus economico viene dallo sfruttamento imperialista dei popoli periferici, alla “scoperta” di nuovi soggetti (lavoratori della conoscenza, operaio sociale, moltitudini, donne, ecc.) eletti a protagonisti privilegiati della lotta anticapitalista. Tutte queste tesi, alcune più altre meno, hanno il limite di riproporre la logica che presume l’esistenza di un Soggetto “oggettivamente” rivoluzionario. Viceversa, occorre lavorare alla definizione di una complessa rete di gruppi sociali e comunità umane integrabili in un progetto comune di cambiamento radicale. Rete della quale fa ovviamente parte anche quella classe operaia che non è affatto sparita (a livello mondiale esistono oggi più operai che in ogni precedente epoca storica) ma ha subito un radicale indebolimento in seguito ai processi di ristrutturazione tecnologica e di decentramento produttivo, nonché ai processi di finanziarizzazione e mondializzazione dei capitali – processi che hanno segmentato i mercati nazionali e mondiali del lavoro secondo linee di età, genere, etnia e distribuzione geografica.

Il primo compito è dunque quello di tracciare una serie di linee oppositive in grado di sostituire la classica opposizione bipolare fra padroni e operai, un complesso reticolo di linee di confine che “contenga” il materiale sociale, culturale e antropologico di una massa umana mobilitabile contro il capitalismo. Tali linee di confine passano: 1) lungo i differenziali di reddito (sia in termini quantitativi, sia rispetto alla composizione e alla fonte del reddito); 2) lungo i differenziali di mobilità (soggetti nomadi versus soggetti stanziali); 3) lungo confini territoriali: sia a livello globale (conflitti fra popoli e nazioni), sia a livello nazionale (regioni ricche versus regioni povere).

Com’è noto la rivoluzione neoliberista ha tracciato un solco profondo fra una minoranza di super ricchi e una larga maggioranza di poveri e poverissimi: working poor, disoccupati e semioccupati, lavoratori precari (sia dipendenti che “autonomi”), piccoli e medi imprenditori e professionisti in via di proletarizzazione, indebitati, ecc. La povertà è tuttavia un attributo troppo vago per definire il tipo di soggettività che ci interessa. Un criterio più rigoroso consiste nel distinguere fra coloro che vivono prevalentemente del proprio lavoro (il cui prezzo è determinato da fattori sottratti al loro controllo) e coloro che vivono di rendita. Ovviamente, dai primi sono esclusi coloro che svolgono lavori che consistono nell’organizzazione di capitali da investire, tenendo presente che in tutti i Paesi le disuguaglianze fra patrimoni (e fra i redditi che ne derivano) sono sempre molto più forti di quelle fra salari e redditi da lavoro.

Un altro modo di tracciare una linea di confine fa centro sui meccanismi di creazione di gerarchie sociali fra chi, per posizione geografica o per livelli di mobilità fisica e virtuale, è in grado di determinare da sé il proprio valore e di scambiarlo, e chi, catturato in aree periferiche di scarsa mobilità e minore densità di valore, è deprivato di strumenti di potere individuali e collettive per cui è costretto ad accettare la determinazione del proprio valore di scambio d chi controlla il “centro” del mercato. Ovvero fra chi “fa” e chi “subisce” il prezzo. Questa divisione è scalabile a livello di divisione internazionale del lavoro (metropoli/periferie), nazionale (aree ricche, dense e connesse/aree povere, diradate e isolate), territoriale (città/campagna), sociale (borghesia/proletariato), culturale (progressisti/tradizionalisti). Dalla tradizione teorica che ha istruito il dibattito sui rapporti centro/periferie va ripresa l’idea che le aree centrali hanno il potere di concentrare e valorizzare ulteriormente le risorse materiali e umane, mentre le aree periferiche si indeboliscono attraverso forme di concorrenza interna in un meccanismo di causazione circolare. La diagonale fra chi può “fare il prezzo” e posizionarsi al centro e chi “subisce il prezzo” e staziona in un’area periferica, definisce il campo della lotta di classe attorno alla quale di può organizzare il suddetto reticolo di linee di confine.

Tornando alla prima distinzione proposta, non va trascurato il fatto che, anche in conseguenza dell’arricchimento relativo delle classi medie negli anni del trentennio dorato, una quota non indifferente di coloro che vivono del loro lavoro sono in varia misura coinvolti in piccole attività di rendita (assicurazioni sulla vita, affitti, piccole proprietà mobiliari e immobiliari, ecc.). In questi casi il punto consiste nel definire qual è la percentuale di reddito proveniente da rendita rispetto a quella proveniente da lavoro. Il punto in questione è dirimente, visto che uno degli effetti della ridistribuzione dei redditi negli anni del secondo dopoguerra è stato l’apparizione di una classe media patrimoniale. La ridistribuzione ha premiato soprattutto questa classe, la quale, malgrado i processi di impoverimento generati dalle crisi succedutesi dagli anni Settanta a oggi, nei Paesi occidentali detiene tuttora in media un terzo del patrimonio nazionale (il prolungarsi di questi privilegi al di là degli anni delle vacche grasse è favorito dai dispositivi ereditari). Questi strati solo alleati delle élite dei super ricchi sia perché ne condividono parzialmente gli interessi, sia perché svolgono un importante ruolo simbolico, incarnando una promessa di mobilità sociale per gli strati inferiori. Come controtendenza all’assottigliamento di questa classe dovuto alla crisi, agisce la crescita percentuale dei quadri superiori e intermedi nelle imprese che si è verificata dagli anni Ottanta a oggi (soggetti ancora più strettamente legati agli interessi delle élite in quanto retribuiti in stock option o con altre forme di cointeressenza ai profitti generati dalla finanziarizzazione).

L’opposizione fra gruppi integrati e gruppi esclusi dai vantaggi del capitalismo è come detto proiettabile in termini di opposizione fra aree territoriali, in particolare in termini di opposizione fra metropoli e periferie. Gli spazi metropolitani sono infatti i più integrati nell’economia mondiale. Ad esempio, a seguito dei radicali processi di gentrificazione che hanno espulso dalle grandi città le classi subalterne, a causa della rapida crescita degli affitti e dei prezzi degli immobili, consegnando i centri nelle mani di classi “creative”, manager, lavoratori della conoscenza, professioni emergenti, ecc., le metropoli sono divenute vetrine della mondializzazione felice e della società “aperta”, deterritorializzata, in cui la mobilità di merci e persone è fonte di lavoro, ricchezza e “progresso” sociale. Ma le luci delle vetrine non riescono a nascondere – anzi rendono ancora più evidente – una polarizzazione della ricchezza e del potere che appare ormai inscritta nelle stesse forme spaziali della città. I processi di urbanizzazione sono sempre stati utilizzati per assorbire l’eccedenza di capitali, ma la finanziarizzazione dell’economia ha ulteriormente esasperato il ruolo del mercato immobiliare come stabilizzatore dell’economia (ruolo che si è rovesciato nel suo contrario con l’esplosione della bolla dei subprime nel 2007/2008). Le grandi città sono così diventate una merce riservata ai ricchi, anche se nei margini e negli interstizi delle metropoli sopravvive un nuovo proletariato di addetti ai servizi alle persone, in cui si mescolano lavoratori precari autoctoni (non di rado qualificati ma impossibilitati e trovare lavori all’altezza delle competenze acquisite) e immigrati delle banlieue.

Alla mobilità fisica e sociale metropolitana si oppone la sedentarizzazione delle piccole e medie città periferiche. Questi agglomerati più modesti vivono soprattutto di pubblico impiego nonché attività tradizionali (piccola e media industria, artigianato, commercio, ecc.), presentano tassi di disoccupazione assai più elevati di quelli metropolitani, usufruiscono di servizi sociali costosi e di qualità inferiore, e dispongono di chance di mobilità fisica e sociale inferiori anche del 100% rispetto a quelle delle metropoli. In queste aree (paradigmatico il caso del Meridione italiano) il tasso di disoccupazione giovanile è elevatissimo, mentre una quota crescente di giovani rinuncia ad accedere ai livelli superiori di istruzione (da cui il taglio degli iscritti e il rischio di drastico ridimensionamento se non di chiusura per molte università periferiche) mentre chi può permetterselo si trasferisce a studiare nelle metropoli che in tal modo operano un drenaggio delle risorse intellettuali a spese delle aree periferiche. Per concludere: le differenze di classe non si misurano solo attraverso le diversità di reddito, ma anche attraverso i processi di marginalizzazione culturale e geografica.

La soglia oppositiva fra centro e periferia è per sua natura scalabile. Fin qui ne abbiamo descritto le caratteristiche a scala “locale” (a livello di singole nazioni) ma il discorso vale, a maggior ragione, su scala mondiale. A partire dagli anni Ottanta, le sinistre occidentali hanno iniziato a liquidare con il termine dispregiativo di “terzomondismo” la teoria della dipendenza e le categorie di sviluppo ineguale e sottosviluppo, elaborate da autori come Paul Baran, Samir Amin, Gunder Frank e Giovanni Arrighi. Un pensiero che si collegava alle teorie che, da Rosa Luxemburg a Nancy Fraser, sostengono l’indispensabilità dei fattori esogeni al processo economico (economie non capitalistiche del Terzo Mondo, ma anche processi riproduttivi e altri settori non compiutamente mercificati all’interno degli stessi centri capitalistici) per alimentare l’accumulazione allargata. Osservando la storia del capitalismo da questo punto di vista, risulta evidente che il colonialismo non è stato solo indispensabile per realizzare l’accumulazione originaria, ma si prolunga in quella che David Harvey chiama “accumulazione per espropriazione”, un processo che non si è mai interrotto e prosegue oggi in forme nuove.

Dopo gli anni Settanta si era data per acquisita la decolonizzazione del Terzo Mondo e l’avvio di un processo che avrebbe trasformato i Paesi che ne facevano parte in moderne economie industriali, per cui la vecchia opposizione fra Paesi imperialisti e Paesi coloniali o semicoloniali avrebbe lasciato il posto all’opposizione capitale/lavoro su scala globale. Nei suoi lavori Samir Amin ha viceversa dimostrato che la maggior parte delle periferie sono diventate industriali senza cessare di essere periferiche, e che esse, pur essendo integrate nel sistema capitalistico, restano (con significative eccezioni come la Cina) inchiodate al sottosviluppo. Questo perché Stati Uniti, Europa e Giappone usufruiscono dei “cinque monopoli”: dominio e controllo esclusivi su flussi finanziari, tecnologie avanzate, mezzi di comunicazione di massa, risorse naturali strategiche, mezzi di distruzione di massa. Questi monopoli garantiscono ai detentori rendite parassitarie mentre inchiodano gli altri Paesi alla condizione di “subappaltatori”. Estraggono insomma un tributo coloniale dal resto del mondo e se lo dividono pro-quota. Sintomi rivelatori di tale condizione sono la struttura monopolistica dei commerci, il peso strategico degli investimenti stranieri, l’industrializzazione subalterna alle metropoli, la concentrazione della proprietà terriera, l’ipertrofia del terziario, una polarizzazione fra centri e periferie ancora più radicale di quella vigente nei Paesi occidentali. A mediare la relazione di dominio neo coloniale dei centri sulle periferie sono quelle borghesi nazionali che, dopo avere guidato le lotte di liberazione nazionale, si sono trasformate in mafie locali che gestiscono gli interessi del capitale straniero, e inibiscono le possibilità di sviluppo autocentrato sprecando consistenti quote di surplus in importazioni voluttuarie o esportandolo all’estero.

Se tutto ciò è vero, è evidente che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche è a tutti gli effetti una forma di conflitto di classe. Perciò nessun astratto internazionalismo può occultare il fatto che l’interesse delle classi subalterne dei centri non coincide – se non lungo termine – con quello delle classi subalterne delle periferie. Nicola Zitara, analizzando il caso della colonizzazione del Meridione d’Italia da parte delle regioni del Nord, spinge alle estreme conseguenze questo punto di vista laddove scrive che occorre “il coraggio di riconoscere che oggi non esiste coesione non dico di forze, ma di interessi fra le classi subalterne delle due Italie”. La colonizzazione interna, sostiene Zitara, ha creato al Sud un esercito di consumatori anziché di lavoratori. Lo strato superiore di questi consumatori (intellettuali, professioni liberali, burocrati di stato, politici locali e nazionali ecc.) funge da valvola di sfogo alle eccedenze demografiche delle classi dominanti, che svolgono un ruolo di “borghesia compradora” assimilabile a quello dei paesi del Terzo Mondo. Viceversa, gli strati inferiori costituiscono una sorta di “proletariato esterno” (termine utilizzato anche da Samir Amin) coinvolto nell’economia capitalistica di mercato attraverso la mediazione di forme di produzione ibride (vedi sopra le tesi di Linera sulle comunità andine). Questo antagonismo di classe fra centro e periferia, che implica un conflitto di interessi fra proletariato interno e proletariato esterno, non è solo scalabile dal livello nazionale al livello mondiale, ma è applicabile alle stesse aree centrali del sistema mondo. in particolare, Samir Amin classifica come semiperiferiche le nazioni dell’Est e del Sud Europa, nella misura in cui si sono progressivamente trasformate in economie estrovertite, costrette dalla divisione ineguale del lavoro a produrre merci di rango inferiore il cui lavoro è meno remunerato.

In conclusione: le maglie della rete che abbraccia i soggetti potenzialmente rivoluzionari appaiono complesse e intrecciate secondo linee oppositive di reddito, territoriali e geografiche, e contornano un’area ricca di conflitti interni, pur se complessivamente contrapposta agli interessi delle élite capitalistiche mondiali. In breve: non esiste alcun Soggetto privilegiato in grado di sostituire la classe operaia nel ruolo di antagonista “oggettivo” del dominio capitalistico. Si tratta perciò di capire come unificare questa galassia di soggetti per creare le condizioni, se non di una transizione immediata al socialismo, di un ambiente economico, sociale, politico e culturale in cui la transizione diventi concepibile e progettabile. Il che comporta la necessità di riaprire una riflessione a tutto tondo sui concetti di nazione, popolo, stato, e partito.

 

8. Sganciamento e sovranità nazionale

Il primo errore da correggere, se si vogliono creare le condizioni per la costruzione di un fronte anticapitalista internazionale, è quello secondo cui, di fronte alla crisi del capitalismo globale, la risposta delle classi subalterne dovrebbe essere a sua volta globale. È un errore antico, che rinvia alla tesi troskista dell’impossibilità di realizzare il socialismo in un solo Paese, e al concetto di superimperialismo elaborato da Kautsky e ricucinato in salsa postmoderna da Antonio Negri. Occorre al contrario ripartire dal punto di vista leninista oggi riproposto da Samir Amin: la lotta anticapitalista non può che partire dai luoghi dove il controllo è più debole e in cui le contraddizioni sono più forti. Internazionalismo non significa alimentare l’illusione folle di un’insurrezione contro il capitale che dovrebbe avvenire quasi contemporaneamente in tutti i Paesi del globo (o almeno in quelli più “avanzati”, secondo la logora dogmatica vetero marxista), ma mettere in atto una catena di lotte locali che, nel tempo, possano saldarsi le une con le altre spostando i rapporti di forza globali, e quindi rafforzandosi vicendevolmente.

Samir Amin ha sintetizzato questo punto di vista attraverso il concetto di sganciamento (delinking), il cui contenuto è sintetizzabile nell’affermazione secondo cui ogni Paese che voglia incamminarsi sulla via del socialismo, sia che appartenga al Sud che al Nord del mondo, dovrebbe sganciare i criteri di razionalità delle proprie scelte economiche interne da quelli che presiedono alla governance del sistema economico mondiale. Si tratta di passare da un modello di sviluppo eterosostenuto a un modello autosostenuto, proteggendo la dimensione locale dalle potenze sconvolgenti suscitate dall’infinita accumulazione di capitale, ovvero dalle sue leggi di movimento. In un processo di costruzione economica autocentrata le relazioni con l’estero dovrebbero servire gli obiettivi dell’accumulazione interna e non viceversa, il che implica inevitabilmente la necessità di ridurre la dipendenza in misura significativa dal commercio con l’estero, nonché dagli investimenti e dal controllo straniero. In misura significativa, non del tutto, perché è evidente che i livelli di interdipendenza dell’economia mondiale sono oggi tali da impedire la possibilità di una politica di protezionismo e autarchia assoluti; il nodo è l’inversione della linea di comando: l’obiettivo strategico è cioè quello di passare da una situazione in cui un Paese è costretto ad adeguarsi passivamente alle esigenze della mondializzazione, a una situazione in cui riesce a costringere la mondializzazione ad adeguarsi alle esigenze dello sviluppo locale. A tale fine è necessario che lo stato venga messo in grado di controllare il surplus economico e di ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, di controllare le risorse naturali del Paese e di regolare i flussi di capitali, merci e persone in modo da renderli funzionali alle strategie di sviluppo endogene.

È chiaro che la visione appena esposta è strettamente legata al tema della sovranità nazionale, già affrontato nella prima sezione di queste tesi, laddove si sostiene la necessità di riconquistare la sovranità nazionale – a partire dalla sovranità monetaria – del nostro Paese sganciandolo dall’Unione europea. Già in quella sede si è richiamata l’ovvia verità storica secondo cui l’esercizio della democrazia politica – il diritto di una comunità di decidere autonomamente sui temi che ne determinano le condizioni di lavoro e di vita – non è possibile laddove uno stato nazione abbia rinunciato al potere di scegliere autonomamente i propri indirizzi di politica economica. Ciò detto, ci limitiamo a ribadire, contro le critiche delle sinistre tradizionali che ci accusano di seguire una linea nazionalista di destra: 1) che esiste una differenza assoluta fra chi, come le destre, concepisce popolo e nazione come il prodotto preistituzionale di legami di sangue, suolo e tradizione, e chi, come noi, li vede come il prodotto dell’attività politica della stessa sovranità, chi concepisce cioè stato, popolo e nazione come esito di un processo di costruzione politica fondato anche su premesse condivise, l’amore per un territorio, per una cultura e tradizione, una memoria comune (una differenza che si potrebbe definire in termini di opposizione fra una visione nazionalista e una visione statalista della sovranità, o, detto altrimenti: nazione e popolo non preesistono allo stato); 2) dalla differenza in questione discende che sovranità come volontà della nazione non è necessariamente nazionalismo e che la distinzione fra interno ed esterno non è necessariamente xenofobia, ma volontà di definire uno spazio in cui il soggetto politico (cioè il popolo come insieme di chi vive, lotta e lavora sullo stesso territorio, senza distinzioni di etnia, religione, genere, generazione, ecc.) abbia diretto potere e responsabilità.

 

9. Il momento populista

Le campagne politiche e mediatiche che, negli anni successivi alla crisi del 2008, le élite neoliberiste hanno scatenato in tutto il mondo contro l’ideologia populista che minaccerebbe il sistema democratico, rendono necessarie alcune precisazioni preliminari. La prima è che non esiste alcuna “ideologia” populista. I movimenti e i partiti populisti che si sono succeduti dalla fine Ottocento a oggi (dai Narodniki russi al People Party americano, al peronismo e agli altri populismi latinoamericani di metà novecento, agli attuali partiti populisti occidentali, di destra come di sinistra) presentano forti differenze di composizione sociale, programmi politici e valori ideali, né si ispirano a una comune “filosofia” codificata nelle opere di determinati autori (paragonabili, per esempio, al ruolo di Marx e allievi nella definizione delle tradizioni comuni del movimento operaio).

La seconda è che il populismo inteso come set di tecniche e stili di comunicazione politica (linguaggio semplificato e politicamente scorretto, estrema polarizzazione del conflitto), come instaurazione di un rapporto diretto fra leader e base mediato da mezzi di comunicazione piuttosto che da una rete di quadri intermedi (che viene sempre più bypassata, o addirittura eliminata), come mobilitazione di un “pubblico” trasversale fatto di appartenenti a gruppi sociali disparati, come polemica contro le “caste” economiche, politiche e intellettuali tradizionali (professionisti ed esperti), come appello alla contrapposizione fra alto e basso, popolo ed élite, ecc. non è attributo specifico di particolari formazioni politiche bensì di tutti i partiti oggi esistenti, a partire da quelli che invitano alla crociata antipopulista (basti pensare a Berlusconi in Italia o a Macron in Francia). Questa tendenza generale è dovuta, oltre che ai processi di disgregazione sociale provocati dal neocapitalismo (vedi sopra), alla mediatizzazione (e alla conseguente personalizzazione) della politica.

Un discorso a parte meritano le formazioni politiche che, almeno a parole, esprimono velleità antisistema, e si propongono di assumere la direzione politica di quelle spontanee rivolte di massa (sollevazioni popolari in America Latina, Occupy negli Stati Uniti, Indignados in Spagna, gilet gialli in Francia, ecc.) che i devastanti effetti della rivoluzione neoliberista generano ininterrottamente da un decennio a oggi. Prima di entrare nel merito dei limiti di queste esperienze politiche, certificati dalla crisi che quasi tutte stanno oggi vivendo dopo un’effimera stagione di successi, occorre riconoscere a Ernesto Laclau, il filosofo di origine argentina che più di ogni altro autore si è misurato col populismo, il merito di avere elaborato i concetti di momento populista e catena equivalenziale, che hanno una notevole capacità di analisi empirica dei fenomeni in questione.

Per momento populista si intende quella situazione in cui il sistema liberal democratico non riesce più a offrire risposte differenziali alle rivendicazioni di diverse classi, gruppi e categorie sociali. A fronte di questa incapacità, il mosaico di soggetti che abbiamo descritto al paragrafo 7 tende a convergere, istituendo quella che Laclau chiama una catena equivalenziale che può partire da una qualunque delle rivendicazioni in campo che finisce per innescare un effetto domino trainando con sé tutte le altre (tipico il caso dei gilet gialli, in cui alla mobilitazione contro l’aumento dei prezzi del carburante ha fatto seguito la stesura di un vero e proprio cahiers de doléances contro il regime liberista). Secondo Laclau, se una formazione politica riesce a far leva su questo spontaneo processo di aggregazione per “costruire un popolo”, per tracciare cioè un confine amico/nemico, fra popolo ed élite, esiste la possibilità di innescare un vero e proprio cambio di regime regolatorio, andando al di là della logica della mera alternanza alla guida del governo (ovvero del cambio di regime politico) Quest’analisi non si occupa del segno ideologico del cambiamento, che dipende esclusivamente da quali rivendicazioni assumeranno un ruolo egemonico nella catena equivalenziale (se prevalgono, per esempio, la richiesta di abbassamento indiscriminato delle tasse, il separatismo fiscale delle regioni ricche, l’aggressività contro gli immigrati, ecc. la bilancia penderà a destra, viceversa penderà a sinistra se prevalgono le domande di ri-statalizzazione dei servizi pubblici privatizzati, di protezione contro i licenziamenti, di un salario minimo garantito per tutti, di politiche di piena occupazione).

In base a questa visione, si può dire che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in un’epoca storica in cui non esistono più identità sociali abbastanza forti e strutturate per riuscire ad assumere “naturalmente” un ruolo egemonico. Nel calderone della rivolta populista, categorie che hanno interessi immediati e culture diverse, se non in conflitto reciproco (occupati e disoccupati, giovani e pensionati, operai, contadini, artigiani, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi, ecc.) si ritrovano unite, se non da una comune coscienza di classe, dalla stessa percezione degli effetti negativi della mondializzazione; nasce una larga alleanza di soggetti sociali incerti sulla propria identità, privi di una effettiva autonomia e autocoscienza. Si potrebbe aggiungere che questo “populismo del popolo” (intendendo con questa espressione uno spirito di rivolta spontaneo che sta a monte di qualsiasi progetto politico organizzato) è alimentato anche, se non soprattutto, dall’aspirazione a ricostituire una comunità integrata in una società che non funziona più come tale (la partecipazione a mobilitazioni di massa, per esempio, svolge il ruolo che un tempo era svolto dalla concentrazione nel medesimo luogo di lavoro).

Fin qui l’analisi di Laclau regge il confronto empirico con i fenomeni descritti, oltre ad avere il merito di fungere da attualizzazione dei concetti gramsciani di blocco popolare ed egemonia. Del resto Laclau riconosce esplicitamente il proprio debito nei confronti del grande teorico marxista italiano, e va sottolineato come esista una significativa analogia fra le sue tesi e l’approccio di Mao, il quale ha sempre rappresentato la lotta sociale come proliferazione di contraddizioni non tutte riconducibili all’analisi di classe. Del tutto insoddisfacente appare al contrario il suo tentativo di definire il tipo di soggettività politica che dovrebbe affrontare il compito di indirizzare le rivolte popolari verso un esito rivoluzionario. Il modello organizzativo che ci propone, infatti, non differisce sostanzialmente da quelli adottati dai tradizionali partiti liberal democratici dopo la loro modernizzazione in senso populista (vedi sopra). In effetti, tutte le versioni del “primo populismo”, si sono adeguati, chi più chi meno, alla filosofia del partito “agile” (privo cioè di una solida struttura intermedia e di radicamento territoriale), leaderistico (fondato sul dialogo diretto fra leader e base mediato da televisione e/o social media) e aggregativo di istanze eterogenee (accostate le une alle altre per pura sommatoria, senza tentare di farne sintesi politica).

Gli esempi di maggior successo – come Podemos, France Insoumise e il Movimento 5Stelle – sono accomunati dall’aver scelto la strada di costruire dei “non partiti”, progettati per ottenere consenso elettorale senza idee chiare su come tradurlo in scelte operative concrete. Questo modello ha raggiunto successi notevoli, regalando alle forze in questione consensi attorno al 20% dell’elettorato, ma l’idea che il discorso politico – le “narrazioni” costruite per via mediatica – siano autosufficienti per estrarre un popolo da gruppi sociali differenti può approdare, nella migliore delle ipotesi (ciò che si è verificato per l’M5S in Italia) a conquistare il governo, ma non per governare una volta ottenuta la vittoria elettorale. La parola d’ordine “antipolitica” onestà versus casta si è infatti dimostrata ad alto rischio per i grillini che, incapaci di esercitare una vera leadership politica e di imporre strategie coerenti in materia di ambiente, occupazione, spesa sociale, rapporti con la Ue, nazionalizzazioni, ecc. si sono ritrovati a navigare a vista, finendo per svolgere un ruolo subalterno nei confronti dell’alleato di destra, quella Lega in grado viceversa di mantenere un saldo rapporto con la propria base sociale, a sua volta composita ma egemonizzata dagli interessi delle imprese del Nord.

Quanto a Podemos e France Insoumise, hanno imboccato la strada di un riallineamento con i principi, i valori e le strategie politiche delle sinistre tradizionali, cedendo alle sirene del frontismo contro i populismi di destra in nome di una difesa della democrazia contro immaginari pericoli di fascistizzazione dei rispettivi Paesi, una svolta che è loro costata il dimezzamento dei consensi elettorali e la reintegrazione nello schema bipolare fra destra e sinistra (in realtà due destre entrambe neoliberali) chiamate a gestire alternativamente gli interessi delle élite mondializzate. Mentre anche l’M5S sembra avviato a subire lo stesso destino, bisogna capire le ragioni della crisi, di questa impossibilità a mantenere un consenso aleatorio nel momento in cui si è chiamati a gestire il potere. Le ragioni del fallimento affondano nella mancata scelta fra il compito di riconquistare l’egemonia sulle classi subalterne e marginali, strappandola a una destra che appare oggi in grado di riscuotere un consenso largamente maggioritario da parte di questi strati sociali, e l’illusione di poterlo realizzare agitando temi morali (lotta alla corruzione, correttezza politica, eccetera) o, peggio, alleandosi con i residui di una sinistra ormai del tutto invisa al popolo che ne sconta i ripetuti tradimenti sulla propria pelle.

 

10. Forma partito e forma stato

Samir Amin, nei suoi lavori, afferma in varie occasioni che per imboccare la via del socialismo non è sufficiente accrescere la quota di surplus economico controllata direttamente e indirettamente dallo stato: occorre anche e soprattutto che lo stato venga riportato sotto controllo popolare e democratico. Un’affermazione che evoca immediatamente quella di Antonio Gramsci, secondo cui le classi subalterne non devono “prendere il potere” bensì “diventare stato”. Questo punto di vista non è solo in contraddizione con la vocazione meramente “governista” dei populismi di sinistra di cui sopra, cioè con l’idea che basti assumere il controllo sul governo per avviare una trasformazione radicale della società, ma indica una prospettiva radicale: per riuscire a esercitare la propria egemonia, le classi subalterne devono niente di meno che creare un nuovo tipo di stato. Non è un caso se tutte le rivoluzioni bolivariane (vedi sopra) si sono date come obiettivo prioritario l’adozione di nuovi principi costituzionali. Non importa se quei principi restano a tutt’oggi largamente inapplicati: è la loro stessa esistenza che consente di lottare perché vengano messi in pratica (di qui l’importanza della Costituzione italiana del 1948 e la necessità di proteggerla contro i tentativi di snaturarne lo spirito “criptosocialista”, al centro degli attacchi da parte delle destre liberiste mondiali). Ciò che va difeso a ogni costo è il potere costituente nelle mani della sovranità popolare, tenendo conto che il potere costituente non è mai del tutto costituito, in quanto incarna la presenza concreta e attiva di un popolo che può in ogni momento “sfondare” lo spazio pubblico, agire contro la sovranità esistente per generarne una nuova.

In effetti, sia la questione del rapporto fra stato e popolo che la questione della democrazia, se concepite secondo la prospettiva appena suggerita, che postula un rapporto dialettico fra sovranità e conflitto, richiedono un’adeguata riflessione critica sul tipo di organizzazione territoriale del potere più consono a una transizione in senso socialista. Rigettare l’ideologia anti statalista che le sinistre hanno adottato a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, non significa riabilitare la visione centralista e gerarchica dello stato che ha caratterizzato le esperienze del socialismo reale (e che tuttora inspira il socialismo cinese). Affermare che le classi subalterne devono farsi stato, vuol dire che occorre trasferire il massimo possibile dei poteri alle classi popolari. Come conciliare questo obiettivo con l’inevitabile esigenza di centralizzazione delle decisioni sulle politiche economiche e sociali imposta dal processo di transizione? A tale scopo vanno evitati, da un lato, la subordinazione della società civile fino una sua quasi totale integrazione nei dispositivi del potere politico (il modello sovietico), sia le utopie neoanarchiche che presumono di poter rimpiazzare il potere politico con “l’amministrazione delle cose”.

Quest’ultima pretesa è doppiamente ingenua: da un lato, perché ignora completamente il livello di complessità sistemica raggiunto dalle strutture sociali, dall’altro perché misconosce il fatto che a nulla servono i cambiamenti nelle strutture economico sociali, se non sono accompagnati da cambiamenti nei costumi e nei valori che determinano i desideri e i comportamenti individuali (socialismo non significa solo costruire un sistema distributivo più giusto, ma anche costruire una forma di vita comunitaria fondata sul porsi l’uno per l’altro), e un impulso in tale direzione può venire solo dall’azione dello stato, in particolare dalle sue istituzioni formative.

Invece di contrapporre il centralismo statalista all’utopia che auspica lo scioglimento dello stato nella società, andrebbe salvaguardata l’autonomia reciproca di stato e società, prevedendo istituzioni di democrazia diretta e partecipativa da affiancare alle procedure della democrazia delegata: alla seconda resterebbe il compito di selezionare i gruppi dirigenti incaricati di assumere decisioni politiche generali, mentre alle prime spetterebbe la rappresentanza di interessi di parte, anche in conflitto con le scelte statuali.

Un problema aperto, e cruciale, resta quello del partito (o dei partiti?): la soluzione del partito unico presta il fianco al rischio – drammaticamente certificato dalla storia del socialismo reale – della sostanziale fusione fra stato e partito, con tutti gli effetti devastanti che si sono visti e che non bisogna ripetere; d’altro canto, il mantenimento senza variazioni delle procedure antimaggioritarie liberali, storicamente ostili alla democrazia, finalizzate a garantire il carattere elitista del sistema, grazie ad una architettura fondata su un serie di contrappesi finalizzati ad impedire il potere popolare, presenta l’altrettanto grave sfida della possibile riconquista del potere da parte delle élite liberali, il che potrebbe neutralizzare in tempi brevissimi tutti i passi avanti compiuti nel corso di un lungo e faticoso processo di transizione. I meccanismi antimaggioritari, propri della tradizione anglosassone ed in particolare americana (Hamilton e Adams), hanno esattamente la funzione di neutralizzare la democrazia come potenziale espressione della maggioranza, favorendo il controllo di qualificate minoranze di fatto espressione delle élite economico-culturali. Non è casuale che ogni movimento antisistemico che si trovi in condizione di tentare di modificare l’assetto dato venga messo in condizioni di impotenza da parte di una rete di regole, procedure e controistituzioni non democraticamente legittimate, con il risultato di disattivare la partecipazione popolare dimostrandone l’inutilità fino a ridurre la stessa partecipazione al voto rappresentativo. La risposta a tale dilemma ridiede, probabilmente, nella capacità di creare e conservare nel tempo una schiacciante egemonia politico culturale sull’avversario di classe e nell’espandere sistematicamente i meccanismi contro rappresentativi di attivazione diretta. Ma qual è la forma partito che può realizzare tale obiettivo? Sicuramente non è quella – comunicazionista, fondata sul carisma del leader, priva di radicamento territoriale e sociale nonché di un ampio strato di quadri intermedi – adottata sia dai populismi di sinistra, sia dalle sinistre tradizionali. Questa forma è il prodotto, sia delle mutazioni socioeconomiche, tecnologiche e culturali sin qui descritte, sia del tentativo di metabolizzare l’immaginario della sconfitta subita da parte della rivoluzione neoliberista adattandosi ai valori e ai sentimenti del vincitore, alla sua visione individuale ed edonistica. Questa sinistra che “si prende cura” di esclusi e minoranze, piuttosto che organizzarne le lotte, che si adatta ai nuovi linguaggi è a tutti gli effetti un nemico.

Ne segue che, per andare oltre questa asfittica base sociale residuale (fatta di ceti medi riflessivi, nuove professioni, lavoratori della conoscenza, ecc.) bisogna liberarsi della malattia che ha contagiato anche il “primo populismo”, vale a dire della passione per l’agilità, la leggerezza, la semplificazione, la comunicazione, il governismo, e disporsi ad affrontare con pazienza e determinazione il faticoso lavoro di montaggio dell’arcipelago delle soggettività potenzialmente antagoniste e di sintesi (non sommatoria) fra le loro differenti visioni del mondo. La forza per compiere la trasformazione va trovata nella pazienza delle discussioni molecolari e delle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali, non necessariamente omogenee sin dall’inizio, per cercare la pesantezza di una nuova “base sociale” quanto più larga possibile.

Guardando al “dilemma Kuzmanovic – Autain” bisogna accettare il rischio di scegliere la prima alternativa per tornare all’offensiva, individuando una nuova costituente sociale. In altri termini, bisogna fare leva sulle nostre capacità di creare comunità di discorso e di condivisione di obiettivi, capacità che rappresentano la radice stessa del socialismo. Occorre, infine, sviluppare nuove abilità di costruire una “parte”: 1) da un lato, sfruttando il potenziale di interconnessione reticolare dei social, promuovendo larghe discussioni orizzontali per volgere in forza la flessibilità, ricostruire militanza e allargare l’adesione; 2) dall’altro, ricostruendo capacità di mobilitazione diretta, plurale, faccia a faccia e nei luoghi, in particolare periferici. Occorre farlo avendo come primo obiettivo la ricostruzione di socialità, oltrepassando l’individualismo liberale e riattivando il gusto di condividere obiettivi che oltrepassano la singola e piccola prospettiva, la gioia di essere – per – l’altro, ricostruendo le condizioni della libertà sociale che può scaturire solo dall’interno in una comunità integra. Il socialismo è principalmente questo: una nuova antropologia, più umana.

 

11. Verso la transizione: strategie socioeconomiche

Veniamo così all’ultimo e più complesso dei punti per una ridefinizione del socialismo: quali lineamenti di politica economica occorrerebbe seguire per riorganizzare l’economia e la società in forme che si proiettino al di là del capitalismo? Si tratta di una questione colossale che richiederebbe uno studio monografico dettagliato. Non possiamo tuttavia esimerci dal fornire alcune suggestioni di partenza. Il nucleo centrale di una proposta socialista deve consistere nell’inattivazione del meccanismo di autoperpetuazione del capitale. Finché questo meccanismo non è disattivato, quali che siano le intenzioni espresse, si resta a tutti gli effetti all’interno di un sistema capitalista. Il meccanismo in questione, com’è noto, coincide con il combinato disposto delle decisioni dei detentori di capitale privato in competizione tra di loro, i quali cercano di accaparrarsi capitali crescenti, come precondizione per una crescita illimitata di capitale futuro. L’alternativa socialista classica a questo dispositivo consiste nella socializzazione dei mezzi di produzione, i quali verrebbero in questo modo sottratti alla proprietà e all’uso privati, permettendo di regolare e progettare la produzione. Vediamo ora in quali forme si è fin qui tentato di concepire e realizzare questa socializzazione. Di due dei tentativi tuttora in atto, e dei loro limiti, si trattato nei paragrafi 5 e 6, dedicati rispettivamente, al caso cinese e alle rivoluzioni bolivariane. Qui analizzeremo altri due modelli storici, fra loro radicalmente diversi, e ne aggiungeremo un terzo, di mediazione.

Il modello più semplice dal punto di vista teorico è rappresentato dall’idea lineare di una pianificazione centralizzata totale. Si tratta di un modello che è esistito in forme approssimate in alcune grandi civiltà antiche, e poi nel sistema sovietico (replicato in America Latina dal regime socialista cubano). Un tale sistema di produzione soffre di problemi noti: al crescere delle dimensioni e della complessità di un’economia (e di una società) una pianificazione che sostituisca la pluralità di produttori privati sul mercato richiede una burocrazia imponente dedicata alla produzione di una conoscenza capillare di bisogni e desideri, e alla pianificazione delle attività che dovrebbero farvi fronte. Nonostante le odierne capacità computazionali possano consentire predizioni e pianificazioni molto migliori di mezzo secolo fa, la critica del liberista Hayek su questo punto sembra fondata: la quantità (e qualità) di informazione sugli andamenti dell’economia estraibile dalle operazioni di mercato non è adeguatamente riproducibile in forma di calcolo centralizzato. Un sistema di produzione a pianificazione centralizzata integrale può funzionare per grandi opere tecnologiche o per grandi produzioni standardizzate (cemento, acciaio, energia, ecc.), ma è destinato a rimanere troppo rigido e lento per governare i settori produttivi rivolti al consumo. Inoltre, la mancanza di stimoli competitivi nelle produzioni che non offrono redditi elevati né prestigio sociale genera scarsa motivazione negli agenti economici.

Una strada nettamente diversa è quella del “socialismo di mercato” (definizione da intendersi in modo diverso da quella, apparentemente simile, che Herrera e altri applicano al caso cinese – vedi paragrafo 5) abbracciato da molte socialdemocrazie nordiche. Questo modello rinuncia alla socializzazione dei mezzi di produzione e accetta il ruolo centrale del mercato, cercando però di correggerne le storture a valle, con interventi di welfare, regolamentazione degli eccessi, ammortizzatori sociali, fornitura statale di servizi fondamentali; aumenta cioè i consumi collettivi a spese di quelli privati e individuali. Questo sistema ha il vantaggio di conservare una mobilità produttiva rivolta al consumo, riducendo al contempo la capacità di ricatto del capitale nei confronti del lavoro, ma presenta seri problemi: in primo luogo, conservando la natura privata del capitale, permette al capitale di continuare a fare ciò che fa spontaneamente, ovvero di accrescersi illimitatamente. I fattori correttivi (tassazione progressiva, azionariato diffuso, partecipazione decisionale dei lavoratori alle imprese, ecc.) possono essere aggirati e travolti dalla reazione del capitale e delle classi medie superiori, sopratttutto in corrispondenza di crisi congiunturali. Ciò può comportare un progressivo sbilanciamento dei poteri a favore degli interessi del capitale, esercitando pressioni politiche crescenti sulle istituzioni democratiche. Ciò ha fatto sì che, col passare del tempo, gli interessi del capitale hanno preso ovunque il sopravvento sull’interesse pubblico, subordinando il controllo democratico ai propri fini. Inoltre, il principale modello premiale supportato da queste società rimane quello del successo nella competizione di mercato; tale modello, nelle condizioni di mondializzazione culturale a egemonia anglosassone, informa i valori sociali (spirito competitivo, individualismo, carrierismo, ecc.) e simultaneamente tende a screditare tutte le prospettive che non si conformano all’impianto liberale e liberista. Per tutte queste ragioni i “socialismi di mercato” storicamente hanno teso a degenerare nel tempo, abbandonando la linea di sviluppo socialista per rientrare nel paradigma capitalista.

Proviamo ora a immaginare un modello che conservi elementi di flessibilità nella produzione di consumo, ma al tempo stesso non ricada nelle dinamiche capitaliste. Le linee che tratteggiamo qui di seguito per realizzarlo rappresentano, ovviamente, alcuni suggerimenti di massima degli indirizzi da percorrere, e non un effettivo progetto sociale, che può nascere solo dalla concreta esperienza della lotta politica e sociale.

1) Il primo problema è rappresentato dalla necessità di togliere al capitale indipendenza d’azione rispetto alle decisioni democratiche. Tale indipendenza dipende da due fattori: dalla natura privata del capitale e dalla sua natura liquida (infinitamente trasformabile e mobile). Tuttavia, visto che in una società moderna di capitale, e specificamente di capitale in forma liquida, non è possibile fare a meno, ogni necessità di capitale liquido per impieghi di investimento, produzione o anche consumo andrebbe soddisfatta attraverso erogazioni controllate da istituzioni collettive. Ciò significa che la funzione fondamentale del denaro come capitale, cioè il suo ruolo di riserva di valore da impiegare nella produzione futura, dovrebbe essere integralmente avocata a sé dallo Stato. Il che significa, in sostanza, che la sfera bancaria, e in generale finanziaria, non dovrebbe esistere più in forma privata (come si è visto questa condizione è sia pure parzialmente soddisfatta in Cina). Condizione preliminare per mettere in atto tali obiettivi è, ovviamente, che lo stato mantenga la propria sovranità monetaria e la banca centrale non sia indipendente. Il controllo statale sugli investimenti consentirebbe, fra le altre cose, di eliminare e contenere le spese improduttive, cambiando gli equilibri fra lavori produttivi e improduttivi a favore dei primi (com’è noto, per il capitale lavoro produttivo è solo quello che genera profitto, viceversa, dal punto di vista sociale, tutte le attività che producono beni e servizi la cui domanda può essere attribuita a rapporti specifici del solo sistema capitalistico, sono per definizione improduttive). La società nella quale viviamo è particolarmente vocata a moltiplicarle (si pensi alla funzione della pubblicità, alle varie forme di dissipazione e intermediazione, alla finanza meramente speculativa, alle bolle immobiliari o mobiliari, ad alcune forme di intrattenimento). Bisogna, insomma, ricominciare a distinguere tra chi produce effettivo valore, socialmente utile, e chi se ne appropria, tra “chi fa e chi prende”. Concentrarsi sulle “predistribuzioni” e non solo sul costante fallimento nella redistribuzione (che va comunque potenziata). Questa nozione emerge interamente dal confronto con l’alternativa di una collettività socialista “guidata dalla ragione e dalla scienza”, che implica, come scriveva Baran, da “una profonda razionalizzazione dell’apparato produttivo della società (liquidazione delle unità inefficienti, massime economie di scala, ecc), l’eliminazione di un’eccessiva differenziazione dei prodotti, l’abolizione del lavoro improduttivo, una politica scientifica di conservazione delle risorse umane e naturali, e così via”. In questo modo “il volume della produzione non sarebbe determinato dal risultato casuale di un certo numero di decisioni non coordinate di singoli uomini d’affari e di singole società, ma da un piano razionale esprimente ciò che la società vorrebbe produrre, consumare, risparmiare e investire in ogni dato momento”. La nozione è particolarmente rilevante in relazione alla protezione dell’ambiente e del clima dalle pressioni antropiche.

2) Un secondo problema, connesso al primo, riguarda i flussi internazionali di capitale deregolamentati dalla rivoluzione neoliberista, flussi che generano una concorrenza fra stati (riduzione di tasse, abbassamento delle tutele al lavoro, ecc.) per attrarre capitali e che conferiscono ai detentori di capitale un potere straordinario, fondato sulla minaccia di ritirare i capitali investiti. Per porre argine a questo meccanismo, devastante per qualunque organismo politico e per ogni istituzione democratica, i movimenti di capitale dovrebbero essere sottoposti a rigoroso controllo, evitando il ricorso a capitali esteri per il finanziamento di attività interne, o condizionandolo con vincoli estremamente restrittivi che ne limitino drasticamente la mobilità. Samir Amin insiste su questo punto in relazione ai Paesi del Sud del mondo, i quali non possono realizzare strategie di sganciamento dal mercato globale se non attraverso un rigoroso controllo dei trasferimenti di capitale e degli investimenti esteri. Insiste inoltre, ma questo vale anche per i Paesi del Nord, sulla necessità di impedire che il debito venga usato come strumento di subordinazione delle politiche pubbliche da parte degli investitori privati.

3) Una volta messo in sicurezza il piano dei movimenti del capitale e della sua capacità di ricatto, le attività produttive rivolte al consumo e che approssimano le condizioni teoriche del cosiddetto ‘mercato perfetto’ potrebbero essere lasciate all’iniziativa di mercato di agenti privati. Dunque, nei casi di attività produttive dove l’ingresso nel mercato è semplice, dove i consumatori hanno (o possono avere) buona conoscenza delle caratteristiche del prodotto, dove esternalità e costi di transazione sono trascurabili, qui l’economia può essere delegata al funzionamento ordinario del mercato (un esempio caratteristico di queste attività può essere la ristorazione). Per inciso quest’apertura alla privatizzazione di attività produttive rivolte al consumo è al centro dei progetti di riforma economica del regime cubano.

4) L’esistenza di una sfera (ampia) di mercato genera naturalmente tendenze alla divaricazione della ricchezza. I margini di crescita della ricchezza individuale, consentita in questa sfera di economia libera, dovrebbero essere condizionati da una tassazione progressiva asintoticamente convergente verso il 100%, in maniera che oltre un certo livello (da definire collettivamente) la crescita degli introiti sia destinata quasi integralmente all’erario pubblico. Come sottolineato da Piketty, nel suo lavoro sulle disuguaglianze, l’imposta progressiva sul capitale (che tende spontaneamente a generare rendite che crescono assai più rapidamente dei redditi da lavoro) è lo strumento più adatto a fronteggiare la sida delle disuguaglianze crescenti (mentre un altro potente strumento in questo senso potrebbe essere la messa in discussione del diritto di successione). Altra dimensione necessaria è la lotta costante e determinata alla creazione di posizioni dominanti, di sfruttamento della asimmetria informativa, di monopsoni e di monopoli, di qualunque capacità di imporre i prezzi indipendentemente dai costi di produzione e riproduzione, di manipolazione dei bisogni. Lo scopo è quello di separare la funzione monetaria del medio di scambio da quella di riserva di valore. Il denaro come medio di scambio è ciò che consente l’accesso al consumo personale. Come tale può essere lasciato operare liberamente, entro limiti ragionevoli definiti dalla tassazione progressiva convergente verso il 100%, motivati dal fatto che un individuo ha limiti personali a quanto può personalmente consumare (contenendo e orientando fini culturali il consumo ostentativo, per sua natura illimitato). Le funzioni tipiche che motivano il soggetto all’accumulo di una riserva di valore, ovvero l’assicurazione rispetto agli accidenti futuri (incidenti, malattia, vecchiaia) e la disponibilità di capitali da reinvestire vanno riservate integralmente allo Stato, togliendo in questo modo ogni giustificazione all’esigenza di una crescita indefinita nel possesso privato di denaro.

5) Lo Stato dunque dovrebbe consentire una circoscritta competizione individuale rivolta a un accrescimento di ragionevoli forme di consumo personale, ma bloccandone gli esiti in due direzioni: non consentendo una uscita dalla società dall’alto, grazie ad un accumulo privato indefinito di capitale, e non consentendo una uscita dalla società verso il basso, come esclusione sociale, impoverimento ai limiti della miseria. A tale scopo occorre adottare politiche economiche che garantiscano elevati livelli di occupazione, dignitosi livelli di reddito, assistenza sociale alle classi subalterne. In questa cornice includente, la spinta motivazionale di tipo competitivo può continuare ad esprimersi, ma in una forma affine a quella del gioco, ovvero con tutta la serietà che la specie umana sa mettere da sempre nella competizione ludica, ma senza la prospettiva che la sconfitta significhi la fine senza remissione (l’esclusione, la morte) e/o l’asservimento.

6) Compiuta una prima fase di transizione, i progetti che richiedono grande impiego di capitale su lunghi periodi dovrebbero essere integralmente assegnate all’iniziativa statale (magari in forme policentriche). Lo Stato dovrebbe dunque dedicare strutturalmente una parte molto significativa della ricchezza nazionale all’innovazione scientifico-tecnologica, e alla difesa (oggi settori in buona parte sovrapponibili), giacché tali settori rimangono cruciali sia per il miglioramento delle condizioni di produzione, sia per la preservazione delle condizioni di equilibrio interno. Tutte le grandi attività industriali, e di ricerca e sviluppo, devono perciò essere promosse dallo Stato, orientandole secondo l’interesse pubblico. Cruciale, in tale contesto, è rivendicare allo stato il potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le città vengono costruite, onde evitare che il settore (oggi utilizzato come valvola di sfogo per fronteggiare le crisi da eccesso di capitale liquido e moltiplicare le occasioni speculative) continui a generare processi di gentrificazione delle grandi città. Simultaneamente, lo Stato, non avendo alcuna compulsione a perseguire la massima produzione, può contenere eccessi produttivi in vista della preservazione dell’equilibrio ecologico. A preservare peraltro un incentivo ad una produzione qualificata rimane la competizione internazionale nei settori indispensabili a conservare uno statuto tecnologico e difensivo elevato.

7) Nei Paesi del Sud la via socialista fondata sulle strategie di sganciamento dal mercato globale passa necessariamente da una soluzione radicale del problema agrario. Per garantire la sovranità alimentare (problema gravissimo, come dimostra la crisi del Venezuela, strangolato dall’assedio del capitalismo globale). Samir Amin suggerisce, fra le altre cose, di evitare la trappola della modernizzazione (che finisce per spalancare alle multinazionali agroalimentari la possibilità di appropriarsi di immensi territori per sviluppare forme di monocultura con ricorso a ogm e tecnologie avanzate, finalizzate all’esportazione e non alla soddisfazione dei bisogni interni) ma di favorire piuttosto la sopravvivenza di agricolture di sussistenza.

8) Un’ultima questione, di principio ma essenziale: lo Stato deve coltivare e incentivare tutti i meccanismi sociali che identificano le sorti dell’agente individuale con quelle della collettività. In quest’ottica la cura della dimensione culturale diffusa, la sicurezza e il rispetto rigoroso della legge devono procedere di pari passo, come precondizioni essenziali per far fiorire un progetto socialista. Corruzione e free riding devono essere sistematicamente ostacolati, con incentivi e sanzioni.

Comments

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alessandro visalli
Saturday, 14 March 2020 23:28
Che ti devo dire. Grazie, auguri e saluti.
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Eros Barone
Saturday, 14 March 2020 22:14
Leggendo questo scritto, pomposamente denominato “Documento preparatorio della Tesi [sic!] del socialismo del XXI secolo” (in realtà frutto della giustapposizione di articoli già apparsi e criticati in questo sito), mi è venuto in mente, a proposito della concezione del socialismo e delle vie che, secondo i due autori, conducono ad esso,
un apologo di Bertolt Brecht, il quale racconta di aver visto una volta un ragazzo lavorare da un giardiniere. Questi gli dette le cesoie, dicendogli di ritondare una pianta d’alloro. La pianta era in un vaso e veniva noleggiata in occasione di cerimonie, ragione per cui doveva avere una forma sferica. Il ragazzo cominciò subito a tagliar via i rami sovrabbondanti, ma per quanto si sforzasse di arrivare alla forma sferica, la cosa non gli riusciva. Ora spuntava troppo la pianta da una parte, ora dall’altra. Quando alla fine divenne una sfera, la sfera era piccolissima. Il giardiniere, deluso, disse: “Bene, questa è la sfera, ma dov’è l’alloro?”. Altrettanto si può dire al termine della lettura del documento in parola: “Bene, questa è la vostra ‘Tesi’, ma dov’è il socialismo?”. Occorre perciò ribadire, dal punto di vista marxista e comunista, la critica del populismo di sinistra. Orbene, un tratto distintivo dei populisti di sinistra è, proprio nei paesi imperialisti, la negazione del carattere imperialista del proprio paese (una posizione che, nonostante taluni accenti marxisteggianti riscontrabili nelle analisi contenute in questo documento, apparenta, all’insegna di una visione feticistica della Costituzione, il populismo di sinistra, tanto per fare un esempio storico significativo, al partito russo dei Cadetti, principale avversario borghese dei bolscevichi, la denominazione completa del quale era quella di Partito Democratico Costituzionale). In effetti, come si può riscontrare anche in questo scritto, Formenti e Visalli, nonostante le dotte disquisizioni sul 'delinkig' e le citazioni di Samir Amin e di David Harvey, disgiungono nettamente la questione della fuoriuscita dalla UE dalla questione della rivoluzione socialista e disconoscono le responsabilità della propria borghesia nella determinazione del grave stato attuale in cui si trova il paese, attribuendo tutte le responsabilità alle altre borghesie imperialiste. Per la verità, come si nota anche nel documento in parola dove il sintagma apologetico della “rivoluzione neoliberista” compare più volte, essi non si soffermano affatto sul ruolo svolto dagli Stati Uniti d’America rispetto al nostro paese (40 basi militari e 90 testate nucleari del tutto al di fuori di ogni controllo da parte del governo) e non spendono neppure una parola per denunciare, assieme alla UE, che ne è il braccio politico-finanziario, la NATO, che è invece il braccio politico-militare dell’imperialismo statunitense. Sennonché, essendo incapaci di comprendere che la borghesia di ciascun paese aderente alla UE, anche se partecipa alla spartizione delle spoglie in proporzione al suo peso specifico e alla sua posizione nella piramide imperialista, è ugualmente responsabile delle politiche di rapina ai danni del lavoro e delle politiche di massacro dei servizi sociali a danno di tutta la popolazione (come stiamo verificando nel corso dell'attuale pandemia), i populisti di sinistra individuano il nemico principale sempre “fuori dal paese”. Essi, peraltro, non conducono (al di là di un uso analogico del marxismo) analisi di classe marxiste, ma interpretano le contraddizioni economiche esistenti in termini sociologici e, anche quando riconoscono la centralità della classe operaia, tendono a diluirla nell’aggregato interclassista del ‘popolo’ e delle 'mezze classi', negandone, di fatto, l’antagonismo, l’autonomia e l’egemonia. In definitiva, i populisti di sinistra avversano la rivoluzione e il socialismo, poiché la loro prospettiva (del tutto illusoria) è quella di una ‘terza via’ definita attraverso una sommatoria di elementi di destra (i valori) e di elementi di sinistra (il progetto), la quale, come ha dimostrato a suo tempo Lukács, si risolve inevitabilmente, dal punto di vista ideologico, in una apologia indiretta del capitalismo e, dal punto di vista politico, in una politica di collaborazione con questa o quella frazione della borghesia, destinata a trasformarsi ben presto in subordinazione a questa intera classe. Qualcuno potrebbe obiettare che esistono differenti versioni del populismo (quella di destra, rappresentata per l’appunto dalla Lega e, in parte, dal M5S, e quella di sinistra, rappresentata, nella sua accezione più colta, dal gruppo politico-intellettuale che ha prodotto il documento in esame), e che vi sono, pertanto, fra di esse differenze sostanziali, che vanno tenute presenti. Rientrano in tali differenze gli stati d’animo che le diverse forme di populismo tendono a suscitare per mobilitare gli elettori: la xenofobia e il razzismo sono utilizzati dai populisti di destra; la promessa di un miglioramento delle condizioni di vita e l’appello alla solidarietà, ‘garantiti’ dalla Costituzione borghese, sono utilizzati dai populisti di sinistra. I primi si distinguono per il loro ruolo nefasto di imprenditori della paura, di promotori del rancore, di suscitatori dell’egoismo proprietario e dell’indifferenza sociale; i secondi parlano invece, quanto meno sul piano ideale, di “giustizia”, di “uguaglianza”, di “Stato sociale” e, addirittura, di “socialismo del XXI secolo”. In realtà, si tratta di differenze che rivelano il carattere ancipite della piccola borghesia: “una nuova piccola borghesia, sospesa fra il proletariato e la borghesia, che torna sempre a formarsi da capo, in quanto è parte integrante della società borghese” (come si legge nel secondo paragrafo del terzo capitolo del “Manifesto” marx-engelsiano, dedicato alla critica del “socialismo piccolo-borghese” quale sottospecie del “socialismo reazionario”). In conclusione, se è vero che la socialdemocrazia è apertamente divenuta partito del capitale in tutta Europa, è altrettanto vero che la funzione di classe svolta da essa risulta per il capitalismo tanto più preziosa e necessaria in questa fase e deve essere assunta da forze di sinistra che oggi agiscono a tutti gli effetti come ‘nuova socialdemocrazia’. Questa funzionalità – diretta o indiretta – ai meccanismi dello Stato borghese e dello sfruttamento capitalistico spiega anche lo spostamento di alcuni partiti comunisti europei su posizioni opportuniste. Tali partiti comunisti hanno infatti individuato i propri margini di azione nel contendere alle forze socialdemocratiche tradizionali la loro area di consenso; perciò non radicalizzano la loro azione per dislocare settori delle masse popolari sul terreno di parole d’ordine rivoluzionarie, bensì rabbassano la loro funzione ad un ruolo di supplenza o di complemento della socialdemocrazia. Il ruolo di queste forze oggi (si pensi all'azione di Syriza in Grecia e alle conseguenze che ha determinato) è un ruolo socialdemocratico e apertamente anticomunista, funzionale in ultima istanza agli interessi del capitale. La natura, il programma e i contenuti della corrente politico-ideologica del populismo di sinistra sono chiaramente omogenei alla strategia e alle concezioni delle forze opportuniste e revisioniste, di cui rappresentano una variante più o meno sofisticata. Nessuna compromissione dei comunisti è possibile con queste forze.
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carlo
Saturday, 14 March 2020 17:59
ma questo modello alternativo tiene conto della sostenibilità ambientale?
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Pantaléone
Saturday, 14 March 2020 04:24
Il movimento rivoluzionario di aspirazione verso la comunità umana dell'Essere, liberarsi del salariato e dello Stato e, d'altra parte, denunciare tutte le sinistre e le sinistre estreme del Capitale che, come fase suprema del feticismo della merce, non ha mai avuto altra funzione se non quella di elaborare i più perniciosi laboratori di ricerca e di modernizzazione per il trionfo modernista della dispotica libertà della tirannia del denaro.

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Pantaléone
Saturday, 14 March 2020 04:08
Vedi: revisione del programma di Gotha in risposta a Lassale.
Il ruolo storico del proletariato è quello di autoabbronzarsi e
se l'inizio del nuovo secolo ha visto il radicalismo proletario paralizzato da un'economia dell'illusione che ha ancora i mezzi per allontanare la gente da se stessa, limitata a rarissime aree interessate da ristrutturazioni ancora circoscritte, poiché nonostante la loro piena estensione queste si sono sviluppate solo in modo scaglionato e discontinuo, gli anni a venire tenderanno, generalizzando intensamente le riconfigurazioni, a rendere sempre più possibile un ingresso massiccio nella lotta della classe operaia mondiale.
La carneficina imperialista della caduta del tasso di profitto è diventata la verità organica della società del denaro. Una volta che il globo terrestre è stato interamente appropriato dal Capitale, la presa di possesso di nuovi spazi è impossibile se non sul terreno chimerico dei crediti.
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