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poliscritture

Appunti politici: Visalli e i migranti

di Ennio Abate

Questi appunti si confrontano con l’articolo di Alessandro Visalli, Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo. apparso sul suo blog e segnalatomi da Cristiana Fischer (E. A.)

Mulberry Street NYC c1900 LOC 3g04637u edit ridMa in sostanza che dice o suggerisce Visalli sulla questione dei migranti?

Vediamo prima il suo ragionamento. Con l’integrazione nell’Europa e la mondializzazione, Il sistema produttivo italiano (io aggiungerei ‘capitalista’), risulta «schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione e contemporaneamente basso costo del nord Europa […] e dall’altra da quelli a media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici». E si sta dividendo in almeno tre settori: uno piccolo che si trova delle nicchie nel gioco competitivo internazionale e occupa sempre meno lavoratori; un altro, che si rivolge al mercato interno, esporta prodotti poveri e a bassa tecnologia, non fa investimenti e sfrutta sempre più intensamente i lavoratori; e uno enorme – quello dei servizi – dov’è «massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli».

A questo punto entrano in scena i migranti. Visalli ricorre a uno studio del 2014 dell’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per dirci che per loro «l’Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione» proprio «a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari».

I migranti, cioè, vengono in Italia – « un paese che ha una delle disoccupazioni strutturali più alte dell’occidente» (e anche qui dovremmo precisare che la disoccupazione non è fenomeno “naturale” come non lo sono le migrazioni, ma un prodotto del sistema capitalista) – proprio perché disposti ad accettare questi bassi salari.

Poi pone – non senza qualche enfasi deterministica e in termini chiaramente “nazionali” – il problema che abbiamo sotto gli occhi da anni: « andare avanti su questa strada [s’intende della suddivisione o scissione del sistema produttivo capitalista italiano] determinerà le inevitabili conseguenze di una sempre maggiore polarizzazione, lotta tra poveri, incrudimento dei rapporti sociali, deriva verso destra del quadro politico, deflazione e indebolimento ulteriore del lavoro, in una spirale a scendere che danneggerà sempre di più il patrimonio sociale ed umano (e lavorativo) della nazione. Siamo, in altre parole, diretti contro l’iceberg».

Quando passa a delineare le soluzioni possibili, finisce per accogliere i suggerimenti dell’Ocse: bisogna «subordinare l’ammissione di nuovi lavoratori immigrati alle esigenze del mondo del lavoro italiano». Solo dopo si potranno avere «una serie di misure per l’integrazione» (verrebbe da dire: almeno degli immigrati che – pare di capire – avranno “vinto la lotteria” e saranno stati “accolti”: in quali ruoli lavorativi, a che livello della scala sociale, in quali condizioni di vita non è specificato). In sostanza mi pare che  Visalli accetti *questo* mondo del lavoro, *questo* sistema produttivo, così com’è, e cioè con le scissioni in tre settori, che pure ha indicato – mi pare – come rischiose.

Certo, affaccia anche l’ipotesi di « costringere […] il settore produttivo (includendo i servizi) a ricollocarsi su un maggiore livello di produttività, compiendo i necessari massivi investimenti». Però, nella classica logica dei due tempi, accetta che prima bisogna fermare il flusso dei migranti disperati e disposti ai salari bassi o bassissimi : « bisogna che sia fermata la strada facile di inseguire ogni volta un disperato di turno che accetti ancora meno».

Paradossalmente mi viene da pensare che, se l’attuale esercito di riserva di manodopera si suicidasse o fosse servito a pranzo in casa dei ricchi, come proponeva di fare a suo tempo Swift per risolvere il problema dei bambini poveri nell’inghiterra dei suoi tempi; o scomparisse almeno dalla vista degli italiani e degli europei, secondo Visalli i capitalisti sarebbero costretti ad investire e a portare il sistema produttivo italiano ad un livello di superiore produttività. Perché – aggiunge in proposito – «se ho un’ampia platea di persone disponibili a lavorare per 400 euro non avrò mai la spinta per cercare di fare un prodotto migliore, investendo milioni, sapendo che poi avrò bisogno di personale più specializzato che ne vuole 2000». Cosa non si è disposti a fare per convincere i capitalisti a investire! E pare che solo in questo modo – bloccando il « flusso costante richiamato dalla domanda di lavoro povero», cioè – diciamocelo – dando in un modo o in un altro (con Erdogan o magari con una missione militare italiana in Libia) addosso ai disperati o a quelli che sperano e cercano in qualsiasi modo di vivere un po’ meglio – la crisi sarà superata (e il cozzo contro l’iceberg evitato).

Visalli mi pare un intellettuale raffinato e bene e più di me informato. Egli vede che l’UE – degli Usa e delle altre potenze almeno in questo articolo nessun cenno – è espressione del «nuovo capitalismo» e che sta assolvendo al compito di «disciplinare la pretesa del mondo del lavoro di partecipare alla distribuzione delle risorse prodotte», eliminando «qualsiasi regola ai movimenti di capitale, merci e lavoratori» e contribuendo così a peggiorare «l’attuale insostenibile condizione del mondo, nella quale si sta giocando la “grande partita” dell’egemonia per il nuovo millennio».

E simpaticamente ricorre anche a un bel passo del primo libro de «Il Capitale» di Marx e ad una sua lettera in cui il fondatore del pensiero comunista moderno (possiamo ancora chiamarlo così?) sottolineava che « l’Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese». Con l’effetto prevedibile: « L’operaio inglese medio odia l’operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante».

Infine, tanto per orientare la riflessione in un senso più drammatico, suggerisce pure un paragone tra lo schiavismo, cui sono sottoposti oggi i nuovi migranti, con quello del Settecento, anch’esso alimentato « da un’autentica destrutturazione della società locale» non dissimile da quella attualmente messa in moto dalla mondializzazione: «Ora è possibile che si stia creando, spinta da molteplici fattori (tecnologia, guerre, cambiamenti climatici, avvio dello sviluppo con mercatizzazione e sradicamento), una economia della migrazione che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto». E conclude, avvertendo giustamente che, di fronte a questi «flussi incoraggiati e «funzionalizzati alla creazione e conservazione di un settore a bassi salari e grigio», è necessario « non cadere nella vecchia trappola della divisione tra deboli, essenziale strumento di governo e controllo» ( la classica “guerra dei poveri”).

Concordare allora in pieno con  questa analisi? No, e vorrei spiegare il perché delle mie riserve:

1. Marx parlando del conflitto indotto dai capitalisti tra lavoratori irlandesi e inglesi, indicava chiaramente che « questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E’ il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870).».

2. Visalli giustamente commenta questo passo di Marx dicendo: « Dunque si potrebbe dire che lotta di classe ha anche a che fare con la lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani del capitale.»

3. Però il suo discorso a me sembra rimanere ambivalente o lasciare aperti degli equivoci rispetto alla prospettiva nettamente anticapitalista di Marx.

4. Visalli, infatti, insiste a dire che non si può « negare che la creazione e conservazione di un settore a bassi salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di riequilibrare i rapporti di forza».

5. E’ vero che – lo afferma esplicitamente - non si tratta di chiudere le frontiere ma di «garantire l’equilibrio dei mercati senza che questo viva della sistematica svalutazione di un fattore produttivo. Ed in particolare del lavoro, che non è solo un fattore produttivo ma in modo inseparabile (Polanyi) è vita». E – altra precisazione importante – che la battaglia centrale non può essere condotta né con lo slogan «“accogliamo tutti” perché in questo quadro produce quegli effetti [guerra tra i poveri] e non altri, e lo fa per ragioni strutturali» né con quello «“aiutiamoli (solo) a casa loro”, ovvero respingiamoli tutti, perché non fattibile e foriero di spinta a creare un settore clandestino sempre più potente».

6. Ma la conclusione mi pare un po’ oscura, vaga e brusca:« dobbiamo chiederci quale è la nostra responsabilità, verso tutti noi».

E qual è questa « nostra responsabilità» ?

Dal saggio di Visalli non capisco se in questo «tutti noi» egli mette anche i migranti o mette – com’è di moda nella propaganda odierna che mira a costruire un “noi” tutto nazionalista e/o sovranista – solo i lavoratori italiani. In questo secondo caso «la responsabilità verso tutti noi» si avvicinerebbe pericolosamente a quella che intendevano a suo tempo i lavoratori medi inglesi nei confronti dei concorrenti irlandesi, di cui parla Marx. E quindi l’autore de «Il Capitale» verrebbe evocato – indirettamente e subdolamente secondo me – per dare addosso ai migranti d’oggi. (C’è anche gente “di sinistra” che su FB ne parla come *lumpenproletariat* per far vedere che Marx l’hanno studiato). La “lotta tra poveri” allora, invece di essere strappata dalle « mani del capitale», verrebbe usata contro i migranti come ottimo argomento per tirare i lavoratori (italiani ed europei) dalla parte dei capitalisti. Come stanno facendo, ormai quasi all’unisono, i “cattivisti” alla Grillo o i “buonisti” (o ex-buonisti) alla Renzi.

Io penso invece alla più ardua «responsabilità» di un *noi possibile* che contrasti proprio la divisione che i “nuovi capitalisti” stanno imponendo.

Farà ridere molti l’appello marxiano « proletari di tutto il mondo unitevi», ma perché unirsi ai capitalisti, invocando Marx, proprio non lo capisco. Il vero aut aut non è tra “accogliamoli tutti” o “«“aiutiamoli (solo) a casa loro” – slogan che dai verbi usati svela il paternalismo cattolico dei proponenti – ma nel riproporre la questione fondamentale del lottare contro *questa società capitalistica*, contro *questo sistema produttivo capitalistico*. Non si tratta di suggerire ai capitalisti come investire ma di costringerli a farlo sottraendo loro i capitali che usano a loro piacimento. Per tentare ancora di andare oltre la società capitalistica? Sì, malgrado i fallimenti dell’ipotesi socialista…

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Mario Galati
Sunday, 30 July 2017 21:04
Condivido le considerazioni di Eros Barone. Aggiungerei che, oltre alle guerre ed al saccheggio, la penetrazione del mercato capitalistico distrugge le economie di sussistenza e rende privi di mezzi grandi masse, costringendole a spostarsi verso le metropoli. Leggevo che ciò sta accadendo in Africa. Lo spostamento avviene non solo verso le città africane, con la formazione di enormi bidonville, ma avviene anche verso la metropoli capitalistica, cioè l'Europa. Sono i classici fenomeni di urbanizzazione dei processi capitalistici.
Le soluzioni come quelle di Visalli mi sembrano riprodurre lo schema riformistico socialdemocratico, della collaborazione, complicità, opportunistica di classe delle aristocrazie operaie europee, ammesse al lucro sui superprofitti coloniali in cambio del consenso alle politiche imperialiste. Frenare l'esercito industriale di riserva, cioè respingere gli immigrati "economici" nei paesi dove pagano le conseguenze del nostro sfruttamento, per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori autoctoni, il cui maggior benessere inevitabilmente continuerà a fondarsi sulla miseria dei popoli sottomessi, rientra nello schema opportunistico accennato. Mi rendo conto che questa è la vera tendenza della maggioranza dei lavoratori e che una prospettiva socialista è attualmente incomprensibile ai più. La difficoltà è riuscire a lavorare per essa senza staccarsi dalle masse. Capisco che il "realismo" di Visalli ha a che fare anche con questa esigenza, ma rischia di fuorviare.
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Eros Barone
Sunday, 30 July 2017 12:44
Dovrebbe ormai essere evidente che l’unico modo per eliminare in un sol colpo i diritti dei lavoratori nell’unica regione del mondo in cui esistono ancora, e cioè l’Europa, è quello di ‘scaricare’ sul continente 100 milioni di giovani africani disponibili a qualsiasi lavoro e a qualsiasi salario. Su questo tema nevralgico è possibile misurare tutta la straordinaria attualità scientifica e politica dell’analisi di Karl Marx. Infatti, la lettera inviata da quest’ultimo a Sigfried Meyer e August Vogt il 9 aprile 1870, di cui riporto i passi salienti, potrebbe infatti essere stata scritta oggi, tanto risulta attuale. Basterebbe sostituire “proletari inglesi” con “lavoratori italiani” (o di qualsiasi altro paese europeo) e “proletari irlandesi” con “immigrati od extracomunitari” e i conti tornerebbero perfettamente.

Scrive dunque Karl Marx: «Ogni centro industriale e commerciale possiede ora in Inghilterra una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L’operaio inglese medio odia l’operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l’Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei poveri bianchi verso i negri degli antichi stati schiavisti degli Stati Uniti d’America. L’irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell’operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull’Irlanda. Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. È il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente».

Oggi sono presenti ormai in tutti paesi europei forze politiche di destra, populiste o fasciste, la cui funzione è esattamente quella di strumentalizzare i ceti popolari, persuadendoli che la causa della loro condizione di precarietà e di impoverimento è dovuta alla ‘concorrenza’ dei lavoratori immigrati e non alle basi strutturali del sistema capitalistico. Come afferma Marx nella lettera testé citata, è proprio questo «il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere». In effetti, l’immigrazione è il prodotto dell’organizzazione del capitalismo nel mondo. Le potenze imperialiste sfruttano i paesi del Terzo Mondo, si appropriano delle loro ricchezze e, quando i popoli di quei paesi si ribellano, li massacrano con la “guerra celeste”. Perciò, è del tutto normale che da consimili situazioni di povertà, guerra e sfruttamento molte persone cerchino di fuggire e quindi decidano di emigrare. Ma tale scelta non è né naturale né romantica, come vorrebbe la ‘sinistra’ buonista, cosmopolita e filo-imperialista. Gli immigrati non sono animali, per loro non è naturale migrare. Sono uomini che scappano dalla guerra o più spesso dalla fame e dalla povertà. Ma la soluzione di questo problema esiste: ritirare tutti i reparti militari presenti in tutti i paesi, smascherare le operazioni di “peacekeeping”, fermare le guerre, le occupazioni militari ed ogni ingerenza in quei paesi. In poche parole: uscire dalla NATO. Insieme con l’interruzione delle azioni militari, occorre poi sopprimere il rapporto di dominio economico con quei paesi e, di conseguenza, smettere di sottrarre ad essi risorse e materie prime e di sfruttare in modo disumano la loro manodopera, come è prassi comune di tutte le imprese multinazionali. Solo ripristinando con quelle nazioni rapporti di cooperazione e non di rapina, si può regolamentare in modo risolutivo il fenomeno dell’immigrazione. Se questa politica fosse applicata nell’arco di un ventennio, il numero degli immigrati comincerebbe a diminuire fino a livelli normali. Ma ovviamente nessuna politica di questo genere può essere applicata in un sistema che è fondato sul potere dei grandi monopoli, in un sistema che vede gli Stati interamente asserviti ai loro interessi. Il socialismo (termine e concetto del tutto assenti nell'articolo di Visalli e negli appunti di Abate) è l’unica soluzione giusta e razionale di questo problema, poiché permette di realizzare con i paesi del Terzo Mondo una politica di cooperazione, non di rapina. Altre strade non esistono.
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alessandro visalli
Friday, 21 July 2017 21:32
Come ho fatto anche nel suo blog, ringrazio Ennio Abate per la sua acuta critica che mi consente di tornare a ragionare sul difficilissimo tema posto dai migranti. La ricostruzione dell’argomento è molto competente e acuta, e riesce ad evidenziare degli spazi di ambiguità che mostrano bene il conflitto che suscita in me questo tema. Parto dunque dalla fine: il “noi” che è indicato nella frase di chiusura (che, come abitudine del blog, è volutamente vaga, perché deve aprire a successivi approfondimenti in una sorta di non-discorso per rinvii paralleli) include, certo, anche i migranti. Ma anche i non ancora emigranti. Ovvero include entrambe le “economie politiche” messe in contatto, e frizione, dalla triplice apertura della mondializzazione (dei capitali, delle merci e servizi, delle persone). Il commento è particolarmente utile nel mostrarmi come sia riuscito a non spiegarmi in molti passaggi cruciali, contando troppo sulla lettura di contesto (questo è solo un post di 800). E non aiuta certamente l’aver usato un testo dell’Ocse, che è la più neoliberale delle istituzioni internazionali. Ma il mio punto, se posso semplificarlo così, è che non c’è mai un tempo del superamento del sistema di sfruttamento se costantemente gli sfruttati che si avviano a diventare consapevoli dell’insostenibilità della loro condizione vengono sostituiti con altri per i quali questa è un miglioramento. Per poter accumulare la forza di costringere il capitalismo ad arretrare dalle attuali, distruttive, condizioni, bisogna che l'”economia politica dell’immigrazione” sia distrutta. E’ chiaro che lo Stato dovrà avere un ruolo, anche negli investimenti (ma qui saremmo a Keynes), ma per costringerlo, a sua volta, ad orientarsi in questa direzione bisogna guadagnare la forza. E dunque rompere il gioco del controllo dei lavoratori attraverso i lavoratori.
Delle riserve avanzate direi questo:
– non pretendo di avere la ferrea determinazione e lucida chiarezza di obiettivi di Marx, una prospettiva nettamente anticapitalista mi pare non attuale, ma bisogna intendersi sui termini, essere contro questo capitalismo, e nettamente, ed anche contro “il capitalismo” nell’accezione di Braudel, mi vede concorde. Circa la fine del capitalismo come forma di vita, e quindi anche come tipo umano, ho riportato nel blog le posizioni di Streeck e di Mason, tra gli altri, cui rimando;
– non capisco bene come la frase riportata in punto 4, confermi un orientamento non anticapitalista, a me pare un semplice fatto;
– la possibilità che il discorso della protezione venga adoperato per portare consenso ad un populismo dall’alto (ho fatto un excursus sul populismo al quale rinvio), è concreta e sicuramente all’opera. Il “noi” è inclusivo e largo per questo, non bisogna cadere nella trappola dei “polli di Renzo”, come scritto nel post. Tuttavia neppure negare che ci sia un problema strutturale, nel contesto della “economia politica dell’immigrazione”, aiuta. Il mio post, provvisorio come tutti (ne ho fatto un altro sull'”economia politica dell’emigrazione”, ovvero su una sua parte limite, e ne farò almeno uno su quella dell’immigrazione) serviva solo a segnalare alcuni problemi ed avviare una riflessione. Per cui, di nuovo, sono lieto del feedback.

La chiusa mi vede concorde, ma ogni strada ha i suoi passi, e per cominciare bisogna averne le forze.
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