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lavoro culturale

Sui ricchi: capitalisti senza capitalismo

di Franco Galdini

Pubblichiamo una recensione di Franco Galdini a Sulla ricchezza, il nuovo libro di Flavio Briatore

flavio briatore bacia una moraCon le conseguenze della crisi economica mondiale ancora presenti nella realtà quotidiana di milioni di italiani, non c’è da stupirsi che un libro sul come creare ricchezza e benessere per tutti susciti interesse. A maggior ragione se l’autore è un personaggio ricco, famoso e controverso come l’imprenditore piemontese Flavio Briatore. La ricetta di Briatore è semplice: l’Italia dovrebbe «rilanciare il turismo e farne il traino della propria economia» (pg. 55). In quest’ottica, “il turismo dovrebbe essere la prima grande industria italiana, la turbina dello sviluppo, la forza propulsiva di un’intera generazione di giovani, che avrebbe non soltanto una fonte diretta di guadagno, ma anche una straordinaria occasione di crescita culturale e imprenditoriale grazie al confronto diretto con persone che vivono e operano in un mercato internazionale e globale” (pg. 54-5).

Anche se il turismo di massa può coesistere con l’accoglienza di qualità (pg. 23-7), Briatore preferisce concentrarsi su quest’ultima per il fatto che, a suo avviso, l’Italia si rifiuta di sviluppare questo ramo di crescita importante per un misto di invidia sociale verso i ricchi (pg. 2, 6, 57, 169) e miopia della classe dirigente che non ha «alcuna consapevolezza di quanto il settore del turismo sia importante ai fini dell’economia e del futuro» (pg. 33).

Ma questa clientela necessita di servizi impeccabili e strutture adeguate: alberghi di lusso, strade, aeroporti e porti (pg. 21-2, 39). «Non basta l’aeroporto di Brindisi, perché ci vuole un’ora e mezza di macchina per arrivare al mare. Il concetto di vicinanza per l’abitante del luogo corrisponde a un’ora, per il turista ricco a dieci minuti» (pg. 39).

Se da una parte, continua l’imprenditore, è «appurato che è meglio per tutti attirare i ricchi» (pg. 36) con l’obiettivo di creare «benessere per la collettività» (pg. 76), purtroppo «gli italiani non sono in grado di sfruttare a beneficio di tutti ciò che la natura e la storia gli hanno donato» (pg. 30), ovvero un paesaggio e un patrimonio storico e artistico unici al mondo. Per chiarire il suo punto di vista, Briatore presenta Singapore, gli Emirati arabi di Dubai e Abu Dhabi e la città di Milano – «[u]na della più grandi capitali del terziario a livello europeo» (pg. 163) – come esempi di successo della strategia che propone.

C’è un unico problema con la ricetta di Briatore: nessun Paese capitalista si è mai sviluppato puntando sul settore turistico. Dalla prima rivoluzione industriale nella seconda metà del Settecento all’attuale rivoluzione informatica, l’industria – manifatturiera prima, pesante poi, e infine d’alta tecnologia – è stato il motore di sviluppo del capitalismo nelle sue varie iterazioni storiche, per il semplice fatto che il settore industriale produce valore aggiunto in maniera esponenzialmente superiore a qualsiasi altro settore dell’economia. Questa considerazione vale tutt’oggi, visto che oltre all’industria sono i servizi ad essa legati – in particolari quelli finanziari – che sono al centro della crescita dell’economia capitalista, nonostante il divario tra economia reale e speculazione finanziaria sia cresciuto a livelli esponenziali negli ultimi decenni, creando sbilanci che causano crisi finanziarie sempre più acute e frequenti.

Partiamo da un paio di considerazioni generali per poi entrare nel merito della questione. Prima di tutto, Briatore non accenna nemmeno all’impatto ambientale della sua proposta: la crescita crea ricchezza, quindi deve essere perseguita come un bene oggettivo, senza sconti per il fragile ecosistema del pianeta. Porsi questa domanda è legittimo, visto che il 10% dei più ricchi al mondo sono responsabili per il 50% delle emissioni annuali globali di anidride carbonica relazionate allo stile di vita e, secondo la rivista medico-scientifica britannica The Lancet, l’inquinamento «minaccia la continua sopravvivenza delle società umane».

Secondo, l’autore non sembra porsi il problema strutturale di comparare l’Italia – una democrazia matura con 60 milioni di abitanti e uno dei Paesi più industrializzati al mondo – a ex colonie diventate città-stato (Singapore, Dubai, Abu Dhabi ) con un sistema politico autoritario e una popolazione che non supera i pochi milioni. A tutti i livelli – storico, politico, economico, sociale – il paragone non regge. Ma anche qualora ne accettassimo la validità, gli esempi presentati da Briatore ne contraddicono l’argomento centrale: al di là dell’apparenza, alla base dello sviluppo di Singapore e degli Emirati, così come di Milano, ci sono l’industria e i servizi a essa connessi, non il turismo, un settore che in Europa – la maggiore meta turistica al mondo – contribuisce intorno al 5% del prodotto interno lordo (PIL). Nella maggior parte dei casi il turismo crea impiego in «quel sottobosco che è il proletariato dei servizi» (pg. 71), espressione che l’autore usa ma non collega alla sua stessa proposta.  

 

Singapore & Co.

Di Singapore, Briatore elogia come abbia «investito e costruito, seguendo una strategia ben precisa, ovvero quella di diventare una destinazione ambita dai milioni di milionari di tutto il mondo che sono attratti dal mito del consumo, dall’irresistibile richiamo del brand, dalla potenza magnetica del marchio» (pg. 107). Ma l’autore confonde causa ed effetto: Singapore ha raggiunto un notevole sviluppo economico puntando prima sull’industria manifatturiera e poi progressivamente su quella di alta tecnologia. I turisti sono arrivati dopo, come conseguenza di questo salto in avanti. È sufficiente guardare alla struttura delle esportazioni di Singapore per capire come l’industria e l’alta finanza siano i perni dell’economia della città-stato asiatica, che vanta prodotti come circuiti integrati, computer e dispositivi a semiconduttore. Secondo dati ufficiali, oggi il turismo contribuisce al 4% del PIL.

Lo stesso vale per Milano, dove nonostante l’incremento del turismo in termine di contributi al PIL, i settori determinanti dell’economia sono altri, incluse varie industrie e alta finanza, secondo stime della Camera di Commercio della città.

Ritornando a Singapore, questa fa parte del gruppo delle cosiddette “tigri asiatiche”, il cui straordinario balzo in avanti nei decenni del dopoguerra viene attribuito all’intervento dello Stato nell’economia. Briatore evita di affrontare questo tema, che contraddice la sua visione di «uno Stato minimo, snello ed efficace, che si occupi della sicurezza e di pochissimi altri beni pubblici essenziali, lasciando tutto il resto al libero incontro della domanda e dell’offerta» (pg. 151-2). Lo Stato delle tigri asiatiche – Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong – ha fatto esattamente l’opposto, distorcendo domanda e offerta per indirizzare risorse verso l’industrializzazione del Paese.

Infine, l’autore si interroga su «[c]ome è potuto succedere [a Singapore] che le lotte intestine sociali non abbiano alla fine prodotto la piu classica delle impasse? Come si è riusciti a scavalcare gli alti burocrati, le procure, la pubblica amministrazione che si mette di traverso?» (pg. 107), senza realizzare che la risposta si trova nella pagina successiva: «bisogna chiarire che Singapore non è un modello di democrazia. Tutt’altro» (pg. 108). Di fatto tutte le tigri asiatiche hanno raggiunto notevoli livelli di sviluppo sotto dittatura, e Singapore non è un’eccezione. Governo autoritario e sviluppo capitalista sono un binomio inscindibile nell’esperienza asiatica.

Inoltre, quando Briatore afferma che «il miracolo economico [della città-stato asiatica] ha portato benessere a tutti i 5 milioni di abitanti» (ibid.), sembra ignorare il lavoro forzato che ne ha costruito le infrastrutture. Ancora oggi, molti lavoratori – spesso stranieri – a Singapore versano in condizioni pressoché disumane. Secondo il Dipartimento di Stato statunitense, «alcuni dei 1.4 milioni di lavoratori stranieri che costituiscono circa un terzo del totale della forza lavoro di Singapore sono vulnerabili alla tratta di esseri umani».

Lo stesso vale per gli Emirati arabi, dietro la cui ricchezza – incluso il Dubai Mall inneggiato dall’autore (pg. 51) – si stende un oceano di miseria umana. Non è un segreto che gli Emirati siano stati e continuino a essere costruiti grazie al lavoro forzato di immigrati tenuti in condizioni tanto disumane da essere definite una forma di schiavitù moderna. Ma anche se con un 9% circa il turismo negli Emirati rappresenta una fetta più consistente del PIL rispetto alla media, gas e petrolio rimangono il traino dell’economia di Abu Dhabi, mentre Dubai è un centro d’avanguardia dell’industria finanziaria e delle tecnologie della comunicazione.

 

Sui Ricchi

Se da una parte le dinamiche strutturali dello sviluppo capitalista sono assenti nel libro, dall’altra l’autore si mostra alquanto fiducioso nelle capacità gestionali di una certa classe di ricchi manager, due categorie che per Briatore sembrano di frequente coincidere: «molto spesso dietro un patrimonio accumulato ci sono idee, coraggio, capacità manageriali o imprenditoriali, fatica, dedizione, sacrifici» (pg. 2). La parola chiave qui è “classe”, un’espressione che l’autore non usa mai per definire i rapporti sociali all’interno del sistema capitalista, visto che il punto di partenza di Sulla Ricchezza è come questa possa essere concentrata nelle mani dell’elite ma allo stesso tempo utilizzata per il bene comune.

È sorprendente, dunque, che tra gli esempi di questi ricchi imprenditori Briatore annoveri Fahd al-Saud (pg. 2-3), uno delle migliaia di principi della dinastia saudita; Roman Abramovich (pg. 3-4), uno degli oligarchi russi arricchitosi durante la privatizzazione selvaggia seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e accusato, tra le altre cose, di frode e traffico di armi; e Donald Trump (pg. 180), attuale presidente degli Stati Uniti e rampollo di una famiglia di costruttori che gli lasciò in eredità tra i 40 e i 200 milioni di dollari. In effetti, Briatore parla di ricchi poi diventati imprenditori, invece che di imprenditori poi diventati ricchi. Questa non è una casualità, ma una tendenza strutturale del capitalismo attuale, come spiegato dall’economista francese Thomas Piketty, per cui “i patrimoni ereditati prevalg[o]no ampiamente su quelli costituiti nel corso di una vita di lavoro e [la] concentrazione del capitale raggiung[e] livelli estremamente elevati e potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che sono alla base delle società democratiche moderne.”

Negli ultimi decenni ci siamo allontanati radicalmente dalla situazione che ha prevalso nel secolo scorso, quando l’economia, segnata dai traumi delle due guerre mondiali, ha conosciuto tassi di crescita molto alti. Era però una situazione eccezionale, a cui si è aggiunta un’azione politica molto incisiva per far partecipare il capitalismo privato allo sforzo di ricostruzione. Così, nel periodo [19]45-’80 è stato possibile ridurre le disuguaglianze. Oggi però, finita questa fase, stiamo tornando al capitalismo delle origini, dove l’eredità aveva un peso preponderante. C’è un ritorno di prosperità patrimoniale che ricorda quella della Belle Époque, all’inizio del XX secolo.

In sostanza, il libro di Briatore dovrebbe intitolarsi Sui Ricchi. L’imprenditore parla della nuova aristocrazia del denaro senza inserirla però nel contesto delle dinamiche del capitalismo. Il malessere sociale che Briatore taccia d’invidia non è che il frutto della spropositata accumulazione di capitale ai vertici della società italiana, per cui l’1% dell’elite detiene il 25% della ricchezza nazionale, così che – secondo dati Istat – oltre 18 milioni di italiani (o un italiano su tre circa) sono a rischio povertà o esclusione sociale.[1]

Si può quindi essere d’accordo sul fatto che l’Italia versi in condizioni disastrate e che ci si debba rimboccare le maniche per uscire dalla crisi attuale. Ma se quello è l’obiettivo, questo non è il libro che aiuterà il Paese a raggiungerlo.


Note
[1] L’Italia, del resto, rispecchia perfettamente la tendenza internazionale, per cui – secondo l’ONG britannica Oxfam – «l’82% della ricchezza generata [nel 2017] è andata al’1% più ricco della popolazione mondiale, mentre i 3.7 miliardi di persone che costituiscono la metà più povera del mondo non hanno visto alcun aumento della loro ricchezza».

Tratto da il lavoro culturale a questo link: http://www.lavoroculturale.org/sulla-ricchezza-briatore-recensione/

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