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paroleecose

Un altro mondo è impossibile

di Lorenzo Marchese

Appunti su fantastico e utopia a partire da The Weird and the Eerie di Mark Fisher

Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir 4L’evoluzione del pensiero è oggi tale, che ogni passo verso la realizzazione di forme nuove sarà un passo per uscire dal vecchio mondo. Uscire! Ma dove andare? Che cosa c’è, di là dal muro? Un senso di orrore vi prende … il vuoto, lo spazio, la libertà … Come procedere senza saper dove? Come perdere ciò che si ha senza capire che cosa si acquista?[1]

1.

La raccolta di saggi The Weird and the Eerie di Mark Fisher (da poco uscita in italiano per una bella edizione Minimum Fax)[2] si propone fin dall’Introduzione un approccio inconsueto alla categoria del fantastico. Il sottotitolo dell’Introduzione, Weird e Eerie (oltre l’Unheimlich), inquadra il concetto di “strano” (trait d’union di due categorie contigue ma non sovrapponibili come weird e eerie) rifiutandone un’esclusiva accezione terrorizzante e distruttiva. Fisher chiarisce subito:

Il fascino di weird e eerie non è sintetizzabile nell’idea che «ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa». Ha piuttosto a che vedere con l’attrazione per l’esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune. Quest’attrazione comporta di solito una certa dose d’inquietudine, magari anche timore – ma sarebbe sbagliato sostenere che weird e eerie siano per forza spaventosi […] L’esterno ci mette a disposizione un’abbondante dose di terrori. Ma questi terrori non esauriscono tutto ciò che c’è da dire sull’esterno. (p. 8)

Ciò che Freud ha chiamato Unheimlich (tradotto solitamente in italiano come «perturbante») esprime «il modo in cui il mondo domestico non coincide con se stesso» (p. 9). Per Freud, entra in azione «quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato, e via di questo passo»[3].

Ma Fisher sceglie di deviare dalla concettualizzazione freudiana, ampiamente ripresa dagli studi successivi sul fantastico (si pensi solo al debito dell’Introduction à la littérature fantastique del 1970 di Tzvetan Todorov), nel momento in cui a weird e eerie viene conferita un’inedita carica costruttiva e politica. Nella letteratura fantastica moderna, le entità soprannaturali hanno spesso il potere di togliere senso al nostro mondo, portando in dote un altro senso estraneo, che né i personaggi né i lettori arrivano a comprendere appieno. Se scriviamo e raccontiamo storie perché la realtà non ci basta, la letteratura fantastica esprime alla lettera questa insoddisfazione: s’immaginano altri mondi per la penuria di quello ordinario, a cui siamo costretti ad aderire, e per la voglia di qualcos’altro che non si può mettere a fuoco.

Nel libro di Fisher questo doppio movimento del fantastico, demistificante e creativo, è al centro della trattazione, ma ad avere più spazio, in maniera inusuale, è il ruolo positivo dell’intervento anti-realistico. Il weird, macroconcetto applicato nel saggio ad arti disparate, dalla musica leggera alla letteratura passando per il cinema, è indubbiamente, sulla scia di Freud, «ciò che è fuori posto» (p. 10) nella rappresentazione artistica della realtà; l’eerie, analogamente, è «la liberazione dall’ordinario» e «la fuga dai confini di ciò che normalmente consideriamo realtà» (p. 13). La differenza fra i due concetti è spiegata più avanti nel saggio: «il weird è costituito da una presenza – la presenza di qualcosa che non è al suo posto[…] L’eerie, per contrasto, è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza» (p. 72, con una distinzione non del tutto chiara: un «fallimento di assenza» è di fatto una presenza – così l’eerie finisce per essere un sottoinsieme del weird). Ma quel che importa è che la consapevolezza di un elemento fuori posto nella realtà rappresentata non incute soltanto paura e destabilizzazione. Fisher insiste sul fatto che il weird sia «un segnale del fatto che i concetti e i sistemi di riferimento di cui ci siamo serviti in precedenza sono ormai obsoleti» (p. 13), così come sul carattere liberatorio e «non del tutto sgradevole» dell’eerie (Ibidem). Nell’articolazione dei due concetti, che nel corso della raccolta finiscono spesso per scambiarsi le parti, confondersi e contraddirsi (tanto che persino il capitale nel suo insieme sarebbe, per Fisher, «un’entità eerie», p. 11), rimane un punto fermo. Lo strano e l’inquietante sono, a loro modo, incoraggianti per il lettore: suggerendo uno scambio fra due dimensioni, una empirica e una fantastica, questi due elementi osano dire un altro mondo. Più che orrore e annichilimento, weird e eerie producono «un’interazione, uno scambio, un confronto» (p. 22), persino in quegli autori, come H. P. Lovecraft, che suggeriscono alla lettura tutt’altro che speranza – non stupisce che il Lovecraft di Fisher appaia un autore radicalmente diverso dal Lovecraft essenzialmente nichilista e disperato, più fedele, dipinto da Houellebecq nel saggio del 1991 Contro il mondo, contro la vita. Analizzando La porta nel muro di H. G. Wells, Fisher legge l’intero weird, che assomma fantastico, narrativa fantasy e fantascienza, come un «passaggio» (termine ricorrente per opere anche molto diverse) fra due mondi, e non come la negazione di questo mondo per l’irruzione di una sfera soprannaturale: «È evidente che se la vicenda di Wells si fosse svolta unicamente nel giardino al di là del muro non avrebbe posseduto alcuna carica weird» (p. 33).

 

2.

Tralasciando una lettura puntuale delle argomentazioni e delle ottime analisi di Fisher, ciò su cui mi sembra utile riflettere è la visione, sottesa all’intera raccolta, del fantastico come strumento di espressione di un altro mondo: purtroppo, secondo me, un’alternativa solo apparente. A un primo sguardo, weird e eerie rivestono in Fisher il ruolo assunto nel passato dalla letteratura utopica. Il mondo, così com’è, non va affatto bene, va ripensato e rivoluzionato: lo strano e l’inquietante, immaginando alternative che esulano dal principio di realtà, suggerirebbero per via figurale un ordine alternativo, assumendo su di sé il compito che tradizionalmente è appartenuto all’utopia. Raymond Trousson, in un saggio di più di quarant’anni fa, ha spiegato bene che il modo utopico

consiste nella facoltà di immaginare, dunque di modificare la realtà attraverso l’ipotesi, di creare una struttura distinta dal reale, parallela alla realtà dei fatti. Con questa azione immaginaria si modificano le costanti assiologiche del reale, si immagina ciò che sarebbe possibile se le cose fossero diverse da quello che sono. Si tratta quindi di un esercizio mentale sui possibili laterali[4].

Weird e eerie consisterebbero dunque in un analogo esercizio mentale sui «possibili laterali»: il passaggio a un’altra dimensione sarebbe un invito a reinventare questo mondo, grazie alla conoscenza acquisita sull’altro mondo. Qualcosa che l’utopia ha delegato, in linea teoica, ad altri generi e media. Se ci si pensa, il fantasy è su vari livelli, dalla narrativa fino alle forme di storytelling cooperative e di gruppo che si verificano nei giochi di ruolo, il tentativo più globale, dettagliato e coerente di proporre una narrazione utopica nell’epoca in cui di città ultraterrene, sul modello dei progetti politici di Thomas More, Campanella o Mercier, non se ne vedono praticamente più. Se prendiamo The Weird and the Eerie per un discorso frammentario e inconcluso sul fantastico come elemento critico-rivoluzionario e propedeutica all’ideazione di un nuovo progetto d’esistenza, potremmo concludere che il libro, in filigrana, risponde a un precedente saggio dello stesso Fisher, cioè Realismo capitalista, in cui la tesi fondamentale è espressa sin dal titolo del primo capitolo: È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo[5]. In quel saggio del 2009, Fisher notava come lo slogan thatcheriano «There is no alternative», utilizzato come scudo per molte delle riforme liberiste del mercato del lavoro venute nei decenni successivi, sia penetrato nell’immaginario collettivo, imponendo lo stato di cose presente come unica dimensione credibile persino nella rappresentazione artistica del mondo: «Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine»[6]. Weird e eerie interverrebbero così come correttivi del realismo capitalista: quando nella realtà capitalistico-democratica “non c’è alternativa”, l’unica soluzione pensabile è fuori dal mondo, attraverso la violazione del principio di realtà messa in atto nel fantastico. Mazza Galanti legge, parlando del cosiddetto weird italiano, The Weird and the Eerie proprio sotto questa luce dialettica: «il semplice fatto di sapere immaginare un fuori o di suggerire altre realtà possibili e non conformi al modello unico – che si tratti di epistemologie stranianti, entità aliene o involate misticheggianti – diventa un gesto intrinsecamente politico»[7].

Eppure, è difficile concordare fino in fondo con Mazza Galanti. Più in esteso, si può condividere una visione che attribuisca al weird, anche parziamente, il ruolo che l’utopia ha avuto fino all’Ottocento (quello di proporre un’alternativa radicale e credibile), solo a patto di forzare molto il concetto di fantastico moderno (che al weird parzialmente si sovrappone).

A mio parere, la visione propugnata da Fisher non è così incoraggiante come sembra e non propone davvero un’alternativa immaginaria allo stato di cose esistente. Invece finisce, non so quanto volontariamente, per negarla. La porta nel muro che per un istante supponiamo essere un valido passaggio per l’altro mondo è un trompe l’oeil: il fantastico non è la sublimazione di una scrittura politica, intrinsecamente dedita a intervenire sulla realtà rifiutandone alcuni presupposti. Non è neppure una declinazione contemporanea dell’utopia. A dimostrazione, da un lato, sta la natura anti-utopica delle categorie di Fisher; dall’altro, sta la fisionomia delle narrazioni dei «possibili laterali» prevalenti nell’immaginario narrativo contemporaneo.

 

3.

Il fantastico moderno si caratterizza innegabilmente, fra le altre cose, per la sua critica sotterranea alla realtà così com’è. Ma non oppone un modello compatto di un mondo nella sua interezza da affiancare alla realtà. Spesso, anzi, a sconcertarci nelle narrazioni non realistiche è la mancanza di vie di fuga, la sospensione fra due esistenze, una intravista e una che ci appartiene. I testi presentati da Fisher, il più delle volte, propongono non un altro mondo, ma lacerti e segnali contraddittori di quello che potrebbe esserlo: un cosmo intuito, inaffidabile, che nemmeno la pagina scritta sa ricostruire nella sua interezza. I personaggi della narrativa fantastica, nella modernità, attraversano confusamente una soglia di realtà, ma nel passaggio, che Fisher ritiene in ultima analisi positivo, rimangono drammaticamente incastrati: non riescono fino in fondo ad aderire a quel mondo ulteriore che hanno intravisto, perché esso rimane impossibile da comprendere appieno e forse non ha nemmeno uno statuto ontologico definito (le apparizioni inquietanti potrebbero essere causate anche da un’alterazione della soggettività: non si è mai sicuri ). Ma quando ritornano nella realtà ordinaria, nemmeno lì si trovano più a loro agio: la tenuta del mondo è sconfessata proprio dall’incontro sovrannaturale, e lascia dietro una scia di dubbio, nostalgia, paura.

La distanza del fantastico dall’utopia non potrebbe essere più ampia. Se l’utopia è globale, totale, radicale e collettivista (cioè elimina la componente individuale e le tracce della soggettività per sottomettere il singolo al disegno sociale), la letteratura fantastica per come la conosciamo fa esattamente l’opposto: la realtà che propugna è parziale, elusiva, atomizzata e incentrata sulla singolarità irriducibile, spesso antisociale, di chi arriva a scorgere l’altro mondo. I film di Lynch e i romanzi di Lovecraft suggeriscono alternative possibili alla realtà solo a patto di sovrascrivere alle opere una fiducia costruttiva che, se c’è, è sovrastata dall’orrore o dall’elemento inquietante. Quando Fisher chiude il suo saggio su Picnic a Hanging Rock (1967) di Joan Lindsay e nota che «la resa dell’eerie da parte della Lindsay presenta una positività, un fascino languido ed estatico che appare assente o represso in molti altri testi eerie», sta di fatto valutando il testo alla luce del capitolo Diciotto, rimosso dal libro prima della pubblicazione. Nel capitolo fantasma veniva raccontata con un’incursione nel territorio della magia creaturale la sparizione delle quattro studentesse (che invece, nel testo edito, è coperta da un’ellissi narrativa). Il problema è che appunto quel rimosso costituisce il vero elemento eerie del romanzo: nessuno sa cosa sia avvenuto davvero, una minaccia ignota attraversa tutti i personaggi, attratti dalla forza sciamanica della sparizione ad Hanging Rock, e il romanzo funziona davvero quando gira intorno a questo vuoto. Parlare di positività significa ignorare quel buco strutturale su cui la bellezza specifica del romanzo di Lindsay si fonda – viene il sospetto che Fisher esamini il libro sotto l’influenza dell’omonimo film di Peter Weir del 1975, in cui in effetti gli elementi estatici e anti-repressivi contro il puritanesimo vittoriano a sfondo della storia vengono accentuati, soprattutto nella sequenza della sparizione delle ragazze[8].

Nella Vita in tempo di pace, il protagonista Ivo Brandani rimugina ossessivamente:

Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d’accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema, ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale … Ora i film di fantascienza li girano nelle fabbriche abbandonate, è tutto uno sfasciume post-atomico & inselvatichito, in attesa dei germi di una rinascita che immancabilmente si intravede alla fine del film …[9]

Il pensiero apocalittico di Brandani riecheggia alcune ambientazioni fisse dell’eerie trattato da Fisher, che non ha nemmeno la consolazione dei «germi di una rinascita»: fabbriche abbandonate, deserti post-apocalittici e città libere dalla presenza umana tornano di continuo nel saggio (come nelle pagine su Tarkovskij, pp. 135-8). Con una variazione sulla tesi di Realismo capitalista, è più facile immaginare il mondo in rovina che un mondo ricostruito: la tesi si può estendere anche al rapporto mancato di weird e eerie con il fantastico “progettuale”. L’utopia infatti non ha mai ha goduto di poca fortuna come oggi. Il suo posto è stato preso dalla distopia, che rovescia i presupposti dell’utopia presentando il mondo non come dovrebbe essere, ma come probabilmente sarà se continuiamo a fare esattamente ciò che stiamo facendo, se cioè restiamo uguali fino in fondo a noi stessi. La distopia, isolando alcuni tratti esacerbati del mondo reale per proiettarli in uno scenario parallelo, non fa che ribadire il carattere imprescindibile e insostituibile del presente: non offre alternative, bensì ci mostra cosa succede quando vengono tutte rimosse.

È la distopia la vera forma transmediale dominante, che ha vampirizzato anche generi e forme apparentemente lontani. Per tacere di casi eclatanti come Black Mirror, il fantasy, in apparenza remoto dal genere, ha per giudizio comune il suo apice contemporaneo nella serie TV Game of Thrones. In onda dal 2011, la serie ci offre lotte spietate per il potere, violenze private, meschinità di personaggi troppo umani e intrighi politici nelle terre immaginarie di Westeros ed Essos: la narrazione in teoria più anti-realistica che esista riproduce le dinamiche proprie del mondo per come lo conosciamo, esasperandole dietro una coltre fiabesca.

Cambiando settore: il romanzo-saggio è sempre più spesso distopico, non più soltanto realista in senso stretto. Basti pensare a Infinite Jest di Wallace, a DeLillo, agli scenari post-apocalittici di Houellebecq, in cui gli unici spiragli di società “funzionanti”, come in Sottomissione, sono idillii perversi, patriarcati ultra-liberisti dove la freccia del tempo pare girata all’incontrario. Allo scivolamento del romanzo-saggio verso la distopia concorre, del resto, anche un passaggio di consegne: proprio dall’astrazione lenta del romanzo-saggio alla figuralità rapida e d’azione della science-fiction[10]. Una narrativa con ambizioni filosofiche importanti non passa più solo per la scrittura che abbia una forte componente saggistica al suo interno; al contrario la sua forma prediletta è la fantascienza, che nelle sue ipotesi niente affatto rassicuranti di sviluppo possibile ricade sempre più di frequente nella distopia. Ma se il futuro raccontato diventa un sintomo del presente, invece di offrirsi come uno scarto inatteso, ogni genere narrativo anti-realistico finisce per assumere tinte tinte fosche.

Dopo aver chiuso The Weird and the Eerie, l’impressione complessiva è una stima profonda per la capacità intellettuale del suo autore, unita a una sottile tristezza persistente. Non tanto per la sovrapposizione delle parole di Fisher con la sua vicenda biografica. Anche se il suo suicidio ha gettato sul testo (a leggere alcune recensioni non felicissime) avesse gettato un’ombra di predestinazione sventurata, essa è in fondo del tutto posticcia, non gli appartiene. Un certo pessimismo sorge, piuttosto, nel misurare la distanza fra l’analisi ideologica e costruttiva di weird e eerie (che finisce per eccedere in ottimismo della volontà) e la natura di quelle componenti fantastiche, che sfuggono alla speranza della costruzione di un sistema globalmente migliore della nostra realtà.

La raccolta di Fisher, insomma, finisce per instillare nel lettore una doppia consapevolezza. Se c’è un altro mondo, questo è impossibile. Ovvero, la letteratura non dà un’alternativa al reale attraverso un’esplicita inflessione politica data a una rappresentazione realistica; la dà solo a patto che tale rappresentazione violi i principi fondanti della realtà presente. Ma, su un piano più vasto, l’alternativa non può mai diventare un progetto utopico, una costruzione credibile: troppo sconnessa e inabitabile, priva di qualunque capacità di andare oltre il particolare e l’individuo, incline a ribadire il presente quando più vuole distaccarsene (come si è accennato per fantascienza e distopia). The Weird and the Eerie perfeziona la tesi di fondo di Realismo capitalista con la forza degli esempi. A leggere tra le righe, l’ipotesi meno rassicurante è che Fisher volesse esporre la positività dell’inquietante e dello strano, perché aveva intravisto qualcosa di duro da accettare: che un altro mondo, in ogni senso, è impossibile.


Note
[1] Alexander I. Herzen, Anno LVII. Della Repubblica una e indivisibile. Scritto a Parigi, Campi Elisi, ottobre 1848 in Dall’altra sponda, a cura di Bruno Maffi, Ortica, Aprilia (LT) 2011, p. 63.
[2] Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, postfazione di Gianluca Didino, traduzione di Vincenzo Perna, Minimum fax, Roma 2018. D’ora in avanti i rimandi da questa raccolta sono a testo, col numero di pagina fra parentesi.
[3] Sigmund Freud, Das Unheimlich (1919); trad. it. Il perturbante, a cura di C. L. Musatti, traduzione di S. Daniele, Theoria, Roma-Napoli 1990, p. 66.
[4] Raymond Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico [1975], traduzione italiana di Raffaella Medici, Longo, Ravenna 1992, p. 18.
[5] Mark Fisher, Realismo capitalista [2009], traduzione e prefazione di Valerio Mattioli, NERO, Roma 2018, p. 25.
[6] Ivi, p. 31.
[7] Carlo Mazza Galanti, Il canone strano. Da Calvino a Evangelisti, da Buzzati a Moresco: per una possibile storia della weird fiction in Italia, uscito l’8 maggio 2018 su «Not», qui: https://not.neroeditions.com/canone-weird-italiano/.
[8] https://www.youtube.com/watch?v=ON_dO1Oeaz8.
[9] Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano 2013, p. 147.
[10] Rimando per un primo spunto a Lorenzo Marchese, È ancora possibile il romanzo-saggio?, «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», n. 9, p. 151-170, maggio 2018. Disponibile all’indirizzo: http://www.ticontre.org/ojs/index.php/t3/article/view/214.
[Immagine: Peter Weir, Picnic a Hanging Rock].

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