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La nottola ancora sonnecchia

di Augusto Illuminati (Università di Urbino)

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

paola marzano voglia di ieri da wixLa pandemia ha sconvolto non solo i modi di vita e l’economia su scala globale, ma in qualche modo anche le nostre categorie interpretative. Di qui tanto l’urgenza quanto la difficoltà di una convincente ristrutturazione teorica. Le sole cose che però possiamo chiaramente definire sono l’entità della crisi della produzione e dei consumi, cui cerca di porre rimedio un riscoperto interventismo statale apertamente in deficit, e il delinearsi di una contraddizione fra il lavoro di cura e la difesa dei profitti industriali e commerciali spinta fino al limite del negazionismo. Intendendo per “cura” il terreno conflittuale del Welfare e della riproduzione sociale (dalla sanità all’allevamento ed educazione degli umani) e non alla manutenzione selettiva della forza-lavoro, come nella Sorge heideggeriana o nelle dottrine e pratiche neoliberali.

* * * *

La nottola non si è ancora levata in volo perché il crepuscolo è lontano, perché stiamo proprio all’inizio di un ciclo, neppure in una fase di interregno fra due assetti di realtà – uno agonico e l’altro a grandi linee già definibile. Scriveva nel 1820 un cane morto che la filosofia giunge sempre in ritardo, apprende il proprio tempo nel pensiero dopo che la realtà è bell’e fatta. Forse si sottovaluta la forza del momento in cui l’ideale si oppone al reale e propende un po’ troppo per il riconoscimento più che per la modificazione del mondo, ma insomma resta pur sempre una messa in guardia contro le fughe in avanti, le sintesi frettolose che anticipano lo svolgimento storico mentre le contraddizioni sono ancora tutte aperte e indecidibili.

Certo, non bisogna rinunciare a tentare di interpretare il succedersi degli eventi, siamo marxiani e comunisti e crediamo che le interpretazioni, quando le moltitudini se ne impadroniscono, possano agire sugli stati di fatto. Però quell’avvertimento di giusto due secoli fa ha il suo senso, se non altro per indurci a non teorizzare sulla vita e sulla storia in astratto, just in time, complici i social e la noia da lockdown. Infatti, gran parte dei libretti e delle speculazioni sulla pandemia, scrutinata da S.G. Azzarà1 con meritoria quanto spesso immeritata attenzione, ci sembra appartenere più che alla storia della filosofia a quella dell’editoria, ramo instant books, ovvero libri usa-e-getta, se non alle cronache dell’umana stoltezza – inevitabili deiezioni del primo genere di conoscenza.

Quindi esponiamo qualche riflessione parziale, senza avventurarci in premature interpretazioni complessive, che rischiano pronte smentite e soprattutto discrediterebbero ogni approccio teorico.

 

L’ospite inatteso

Il virus è frammento di vita (nel nostro caso di RNA) “ospite” (nel senso di chi gode l’ospitalità) di altre specie vivente, trasmettendosi per processi di spillover. Rispetto all’involontario ospitante è ospite e nemico (hospes e hostis) secondo un’ambivalenza ben nota agli antichi e presente anche nel greco xenos, straniero rispetto alla comunità locale o parentale, che può essere ostile o amico. Nel caso del suo ultimo approdo umano Covid-19 è decisamente ostile.

Ma è ambiguo anche l’aggettivo “inatteso”. Certo, tutti affermano che è arrivato di sorpresa, un black swan che ha mandato all’aria la vita quotidiana e l’economia, ma a ben guardare non solo da molto tempo si temeva un cigno nero che avrebbe insidiato la globalizzazione, ma lo si evocava per metafora attraverso l’ossessivo richiamo ai disastri combinati dai virus informatici oppure descrivendolo in dettaglio in forma spettacolare – e non parliamo dei b-movies catastrofistici e degli zombi, ma di una calligrafica anticipazione tipo Contagion di Steven Soderbergh (2011!). Lì la zoonosi ci sta tutta e ogni dettaglio è al suo posto, giorno per giorno.

Un ospite-nemico, atteso e inatteso, dunque, versione moderna dell’arrivo temuto e auspicato dei barbari. Che, dopo tutto, per Kavafis, «erano una soluzione».

Questa stessa oscillazione di significato ci rinvia a una fase incoativa del processo, quando ancora il quadro non è ben delineato e ci si possono aspettare sviluppi in parte prevedibili, in parte no. L’attesa della catastrofe è giustificata e perfino isterica, ma poco sappiamo di quanto avverrà.

 

Ce n’est qu’un début…

Un cominciamento assoluto, il varco di una soglia critica, il primo passo verso qualcosa di ignoto o non previsto nelle strategie finora adottate. Beninteso, senza l‘entusiasmo aurorale di cui quello slogan si adornava nel maggio 1968. Constatiamo con freddezza che questa pandemia, che avrà il suo decorso e un giorno terminerà con farmaci efficaci e vaccini, è la prima di una serie – già avviata negli anni scorsi con aviaria, Sars e Mers – in cui il virus diventa pericoloso per il salto di specie favorito da fattori ambientali che permangono: monoculture agricole, allevamenti intensivi di massa, invasione dell’ambiente forestale, riscaldamento climatico. Un fenomeno già da lungo tempo pronosticato dagli scienziati e che ora si è manifestato in modo massiccio, favorito dalla grande mobilità della popolazione mondiale e delle merci. Quindi il primo di una serie, nella grande famiglia dei Coronavirus.

Per ora le vaccinazioni devono fare i conti con la mutabilità del virus e il controllo farmacologico è tuttora empirico; spesso anche i farmaci sviluppano ceppi resistenti, come accade per i batteri rispetto agli antibiotici. Non a caso le misure di contenimento replicano alla lettera quelle già indicate per l’aviaria e, in buona sostanza, rimandano alle ruvide pratiche medievali di confinamento e distanziamento. Il dato più significativo è però l’esplosione di epidemie a intervalli sempre più brevi, con sovrapposizioni fra loro e con altre patologie preesistenti.

Trattandosi di affezioni dei corpi, la pandemia ha inciso sull’economia reale, mentre su quella finanziaria avevano agito, caso mai, i virus informatici e gli algoritmi di accelerazione degli scambi borsistici.

I primi e in prospettiva i più durevoli effetti si sono mostrati nell’accorciamento delle catene di produzione e consumo, nel blocco parziale o totale della delocalizzazione e frammentazione della fabbricazione e distribuzione delle merci, nella paralisi della mobilità interna e internazionale “legale” delle persone (mentre non si è arrestata, anzi va aumentando l’emigrazione “illegale” per guerre, miseria, catastrofi climatiche). Di colpo à crollata buona parte dell’economia informale, fondata sul lavoro per strada, il contatto, il bricolage – prima vittima delle misure di contenimento. Ci siamo anzi resi conto altrettanto di colpo della sua presenza pervasiva, del ruolo da essa svolto nella circolazione delle merci e del consumo – sia al livello “presentabile” del lavoro autonomo, partite Iva, gig economy, ecc., sia a quello “impresentabile” del lavoro nero e dell’economia criminale. I dati sulla frana dell’occupazione giovanile e femminile, dei contratti a termine e delle ore lavorate sono al riguardo i più emblematici.

Di conseguenza – laddove non ci si è dedicati allo sterminio neo- malthusiano dei poveri e all’immunità di gregge – è cresciuto, davanti a una domanda generalizzata di “protezione”, l’intervento pubblico, che in genere ha adottato i due canali “riparativi” della regolazione della disoccupazione formale (blocco dei licenziamenti, cassa integrazione, ecc.) e di quella informale (sussidi a fondo perduto ad alcune categorie non contrattualizzate in chiaro), nonché dello sconto o rinvio dei carichi fiscali e contributivi per gli imprenditori. A livello nazionale ed europeo non si nomina più il patto di stabilità e la parola austerità è bandita e rimossa2. Che era il fiscal compact? Qualcuno ha mai votato l’inserimento rafforzato in Costituzione del pareggio di bilancio? Quando mai qualcuno ha detto che era la medicina per la crisi e per la ripresa?

Si potrà tornare indietro su questi aspetti, una volta che la curva della pandemia e dei suoi contraccolpi economici si sia appiattita? Concordo con É. Balibar3 non solo per «l’incertitude des temps» ma anche sulla probabile irreversibilità della rottura che si sta producendo. Se già era difficile tornare a prima della recessione del 2008, puramente economica e anzi con un prevalente profilo finanziario e bancario, il nesso attuale con una crisi sanitaria rende tutto più complicato, perché ogni “segnale di ripresa” procede in parallelo a scenari di incremento di morbilità e decessi. I fattori che hanno paralizzato scambi e prestazioni persistono e ogni allentamento per rilanciare la produzione di merci e servizi si traduce in incremento dei contagi ed endemizzazione della malattia.

Mentre le precedenti crisi avevano un centro di irraggiamento specifico (la crisi dei subprime in Usa, per esempio), consentendo quindi interventi per settore e area geografica, adesso i dati della diffusione pandemica e del collasso economico procedono in simultanea o per ondate ricorrenti in tutti i paesi, pur accentuando gli squilibri già esistenti. La “naturalizzazione” della crisi ne sfuma i contorni politici ma rende impervio il consueto ventaglio di interventi anticiclici. L’apocalisse esce fuori controllo. Quella stessa naturalizzazione è il riflesso ideologico del fatto che la crisi ha già intaccato il rapporto fra umani e loro ambiente e il presunto alibi è un segnale di collasso, non più un abile espediente mistificatorio.

Quando diciamo “irreversibilità” non vogliamo trascurare né gli alti lai retorici sul “ritorno dello statalismo” che hanno infestato la stampa padronale e centrista italiana né i vigorosi tentativi di continuare come prima, cioè di intensificare e accelerare i processi neoliberali che sembrano inceppati da Covid-19 (vedi la strategia “rivoluzionaria”, cioè controrivoluzionaria, della Confindustria di Bonomi che vorrebbe smantellare ogni forma di regola sindacale o l’infame pretesa di Letizia Moratti di ancorare la distribuzione dei vaccini al contributo regionale al Pil), oppure di redistribuire la crisi secondo meccanismi geopolitici che scarichino le difficoltà sui paesi più deboli – sebbene Covid-19 abbia colpito equamente i territori quanto inegualmente le classi.

Tuttavia, in complesso e soprattutto dopo le stragi compiute dalla prima e seconda ondata pandemica, la riaffermazione della priorità del profitto senza riguardo alla salute è stata contrastata, nell’opinione pubblica media, dalla priorità della salute e dell’istruzione, del lavoro di cura e della salvaguardia dei beni comuni, anche se poi la ripartizione degli interventi finanziari non ha sempre seguito i buoni propositi riscoperti sotto il flagello del contagio e delle drammatiche insufficienze ospedaliere e dei servizi di base territoriali. Ha inoltre preso concretezza il ruolo specifico della categoria del “comune” (e non solo dei servizi e proprietà pubblica) e la strategia delle privatizzazioni ha mostrato il suo volto negativo, per non dire criminale. Certi discorsi apologetici neoliberali non potranno essere riproposti a cuor leggero ma neppure uno schema neo-keynesiano esaurisce l’insieme degli interventi attuali e delle richieste di “ristoro” delle vittime a vario titolo della quarantena. Al carattere “comune” più che “pubblico” degli interventi si aggiunge il fatto che l’erogatore in ultima istanza non è lo stato nazionale ma l’Europa. Per meglio dire, tutti i tabù dell’austerità e del pareggio di bilancio sono saltati soltanto grazie al fatto che sono pervenute precise indicazioni debitorie dalle autorità europee nonché, con il Next Generation EU, cospicui finanziamenti in termini di prestiti e a fondo perduto. Il rovesciamento rispetto al post-2008 non poteva essere più netto. Questo alla lunga non favorisce il sovranismo dei singoli paesi europei, che non se lo possono permettere.

Infine, l’accettazione temporanea e frammentata in una miriade di bonus del “reddito di quarantena” richiesto dai movimenti ha sdoganato nel dibattito pubblico – ben più del truffaldino e workfaristico reddito di cittadinanza di stampo pentastellato – il tema del reddito garantito universale incondizionato. L’enfasi sul “ritorno della politica” indica e in parte occulta un riassestamento del potere e degli interessi, una mutata gerarchia dei bisogni da soddisfare o da reprimere; a volte è una formula per auspicare il ritorno del Welfare o anche la tentazione a usarlo in senso disciplinare. Il reddito di base è diventato, per vie traverse, il tema principe di ogni discorso universalistico che voglia sciogliere le contraddizioni di una società fondata su una coazione al lavoro insostenibile dal punto di vista ecologico e logistico. Attendiamo con ansia, a risarcimento delle spietate statistiche, un piano di pieno impiego, magari con greenwashing.

 

Ciclo epidemiologico e ciclo economico

La crisi sanitaria si è innestata su una crisi economica latente della globalizzazione (già avviata con la guerra dei dazi e il mercantilismo di Trump) e l’ha assai amplificata. Si potrebbe addirittura sostenere che per un periodo non breve la pandemia ha mascherato il collasso (almeno temporaneo) della globalizzazione e la caduta generalizzata del Pil. La crisi economica si è presentata come catastrofe naturale e questa messa in scena potrebbe riprodursi a ogni tappa di una crisi ecologica più generale i cui sintomi si stanno moltiplicando e che è la cornice entro cui si svilupperà sempre più la lotta di classe, richiedendo complicate formule strategiche.

Non vogliamo contribuire a una fenomenologia del lockdown che è già diventata luogo comune antropologico e letterario, ma solo segnalare quegli aspetti che sembrano destinati a una più lunga permanenza, arrivino o non arrivino altre ondate, funzioni stabilmente o meno il vaccino nei paesi in cui sarà disponibile. Confinamento, diffusione dello smart working, dell’insegnamento a distanza e delle riunioni via Zoom, esplosione delle vendite on line, paralisi dei viaggi aerei e ferroviari, bando delle crociere hanno inciso fortemente sulle “città globali” e su quelle a vocazione turistica, con la perdita di pendolari, fuorisede, vetrine, locali, turisti esteri e interni e svalorizzazione della rendita fondiaria in particolare per uffici, sedi commerciali, affitti brevi, B&B, Airbnb. Incalcolabili gli effetti in aree “periferiche” – per ora più in America Latina che in Africa.

New York, San Francisco, Londra, Milano per un bel po’ di tempo non saranno più le stesse; Roma è rarefatta e stralunata; Firenze e Venezia sono alla canna del gas. Cinema in sala, concerti e teatri subiscono la stessa sorte delle cene di lavoro o delle pause pranzo (crollate del 70%) o delle presentazioni in presenza. La generazione Erasmus è aggiornata a tempi migliori, per non parlare dell’emigrazione accademica all’estero. Lo sballo della movida vira con prontezza verso la rissosità diffusa.

Al di là del crollo del 15-20% di tutti gli indicatori economici (Pil, occupazione, produzione industriale), l’accorciamento delle filiere logistiche produttive e distributive e la caduta generalizzata dei consumi non lasciano prevedere una sostanziosa ripresa in tempi medi o lunghi: quello a cui assisteremo sarà, in genere, l’effetto rimbalzo del gatto morto, altro che ripresa a V. Agiscono in questo senso le interruzioni del flusso logistico e la generale tendenza a difendere i bilanci nazionali con l’imposizione di dazi. Alcuni rami industriali e ancor più commerciali soffrono di calo poco reversibile di domanda e obsolescenza strutturale.

A parte la contrazione del reddito disponibile e la sua destinazione primaria alle spese mediche e agli imprevisti, si è creata assuefazione al lockdown: alcune abitudini (per ora quelle a consumare e a muoversi nello spazio) sembrano in declino e quella a lavorare non se la passa certo meglio, riducendosi ad acchiappare un reddito in gara con la paura di contagio. Non si sfalda soltanto l’indotto legato al lavoro in presenza ma si svela l’inconsistenza dei presunti “spiriti animali” a farsi di lavoro. La primavera del 2021 sarà chiarificatrice, una volta prosciugati i contributi che hanno prorogato cassa integrazione e blocco dei licenziamenti e degli sfratti: è allora che gli effetti recessivi si dispiegheranno e si capirà quanto il sistema possa reggerli senza radicali mutazioni.

Intanto la socialità, in misura variabile secondo età e genere, risulta sensibilmente corrosa dal distanziamento e dalle chiusure forzate e questa è l’unica “interpretazione” finora possibile – oltre l’ovvia constatazione che a rimetterci materialmente sono gli addetti a tutte le attività sopra menzionate e al momento sospese. Per uscire da letture psicologizzanti, la drastica caduta del reddito da lavoro autonomo e dipendente non pubblico non rinsalda i legami sociali e non promuove la felicità. A breve vedremo quanta forza sovversiva possegga.

In senso inverso al lavoro produttivo e alla sua ideologia si è mosso il lavoro di cura – non che sia meglio retribuito e che ignori la gratuità familiare (femminile) e l’estrazione in nero dalle badanti immigrate, ma ha ottenuto una visibilità e un riconoscimento di cui non aveva certo goduto ai tempi dei tagli selvaggi al Welfare e del suo confinamento domestico. Per di più, per la sua indole di relazione corporea non smartabile e non digitalizzabile, finisce per costituire il nucleo più stabile e in espansione di una forza lavoro in presenza non sostituibile per razionalizzazione e automazione.

Ponendosi come un Welfare dal basso – sia quello “istituzionale” (ovvero “sacrificale”) del personale sanitario sia quello “extra-istituzionale” delle attività volontarie di soccorso ai quarantenati e agli “scarti” della crisi – la cura ha introdotto una conflittualità dialettica nel servizio pubblico e prodotto quelli che Balibar4 ha chiamato «effetti di comunità», costringendo lo stato a servire il pubblico o integrandone l’azione. Il servizio pubblico (con il duplice carattere “istituzionale” ed “extra-istituzionale” di cui sopra) si è posto insieme come «arbitro fra statale e comune» e posta in gioco del loro confronto. La stessa cura si propone quale istituzione del comune.

La logistica del lavoro di cura ha preso la preminenza su quella del traffico di merci (una logistica spesso tanto “femminista” quanto “maschile” era l’altra, quella dei porti, dei container, dei tir e dei centri di smistamento5) e questo si è riflesso nella consapevolezza che occorre investire molto più che in passato in questo settore, magari intendendolo più come preveggente manutenzione della forza lavoro che come restauro dei legami fra esseri vulnerabili e vulnerati. Produzione e riproduzione sono categorie generalmente umane, ma qualificate al momento dal modo di produzione capitalistico. Anche nella versione riduttiva di investimenti sulla formazione professionalizzante e sulla medicina di base preventiva avremmo tuttavia un omaggio del vizio alla virtù, nel senso di una ritrattazione delle strategie privatizzanti e neoliberali, improvvidamente sostenute dalla “sinistra”, del primo ventennio del secolo.

Resta peraltro insoluto il vero problema, iscritto da Covid all’ordine del giorno: quanto produttivismo e lavorismo sono il vero incubatore della crisi ecologica ed epidemiologica? Il lavoro, in senso generico, è la cura migliore? Oppure la cura è una forma alternativa di lavoro meno sfruttato?

I meccanismi della riproduzione e manutenzione della forza lavoro sono il punto debole di un sistema che si pretende eterno ed esente da storia e che forse, su questo terreno, sta sperimentando un accumulo critico di difficoltà e inciampi, un diradamento di stimoli che già un tempo avevano fatto presagire a Schumpeter l’estinzione dello spirito imprenditoriale.

 

Maschere e invulnerabili

Difficile che la contraddizione principale di un’epoca e di un modo di produzione si presenti in diretta, spesso non solo è sommersa dalle contraddizioni secondarie ma si esprime attraverso queste ultime. Di qui la rilevanza che assume la contrapposizione fra lavoro produttivo e lavoro di cura nelle sue diverse estrinsecazioni: ripartizione ipotetica degli stanziamenti, prevalenza del ritorno al lavoro sulle precauzioni di distanziamento, infine aperto negazionismo delle destre globali vs “sudditanza” delle sinistre alla dittatura sanitaria emergenziale – per usare, nel secondo caso, la fraseologia dei filosofi allocchi e dell’anarchismo da quattro soldi.

Non è il caso di perdere tempo confutando – anche alla luce del cospirazionismo suicida di Trump e dei disastri di Bolsonaro – le ragioni del negazionismo, ci preme invece rimarcare che esso è il supplemento inevitabile di un’apologia della società del lavoro quale al momento configurata (lavoro sfruttato compulsivo, proposta incessante di stage gratuiti, ritorno al cottimo e prolungamento dell’orario). L’elogio del rischio “virile” e la svalutazione del contagio (complotto, levità delle affezioni, virus clinicamente morto, immunità di gregge per diffusione incontrastata del contagio) sono gli strumenti mediatici variamente modulati con cui si copre il rifiuto di ridurre il margine di profitto per salvaguardare la forza lavoro – a costo di esporre al frangente anche parte dei percettori di profitto, per esempio gli esercenti e i professionisti (marionette politiche comprese). Questo spiega la diffusione di un negazionismo “soft” ben maggiore da quello conclamato nelle piazze da un grottesco aggregato di psicopatici di destra e complottisti assortiti. Il vero negazionismo, a casa nostra, è quello della Confindustria e si è esercitato proprio nei giorni e nei luoghi più massacrati da Covid-19, per esempio nel bresciano e nel bergamasco. A rimorchio si sono aggiunti elementi del ceto medio autonomo in decadenza, che vivacchiano di attività parassitarie in presenza danneggiate dal lockdown, con l’aggiunta di un settore generazionale più giovane che mescola la spensieratezza dell’età con illusioni di futuro accesso a professioni “creative”. Il resto è folklore, ricaduta immonda di una necropolitica di fondo6. Così a livello internazionale era Trump più che il terrapiattista Bolsonaro il vero leader globale della corrente, quello che poteva permettersi sia l’apertura sconsiderata no-mask sia i suggerimenti micidiali di farmaci dannosi. Sempre denunciando il “China virus” fabbricato in laboratorio e diffuso ad arte. Il negazionismo incorpora ma non si esaurisce nelle paranoie specifiche, il Rettiliano in Chief era maggiore della somma indistinta dei credenti nei rettiliani, dei terrapiattisti, QAnon e no-vax – che tuttavia sopravvivono alla sua caduta.

La discriminante ontologica corre fra vulnerabilità e invulnerabilità – intesi come assunti, non come dati di fatto. In effetti la prima è una constatazione e una piega della condizione umana, la seconda un risarcimento immaginario della fragilità creaturale. Tutte le religioni hanno cercato di compensare con l’immortalità ultraterrena l’esperienza inaggirabile della morte. La religione del capitalismo pretende di applicare al singolo la presunta immortalità del capitale. L’eterno presente neoliberale genera la sfida dell’invulnerabilità personale e quindi la pretesa di esenzione dalle regole.

Vulnerabilità implica invece esposizione all’altro, aiuto, solidarismo, politica della cura. Invulnerabilità è requisito per reggere e vincere la concorrenza neoliberale estesa a ogni campo della vita. Le forme lavorative corrispondenti non ricalcano esattamente la distinzione fra libera attività e lavoro sfruttato e alienato, ma si avvicinano molto.

Nel ciclo costruzione del Welfare-suo smantellamento-riabilitazione del Welfare per motivi pandemici il lavoro di cura (pericoloso, sfruttato, gratuito e volontario per necessità) allude ma non equivale al lavoro liberato dallo sfruttamento – è bene tenerlo presente! Tant’è vero che sul terreno del Welfare si sono svolte alcune delle lotte sociali più significative degli ultimi anni, in significativa connessione con quelle sindacali sul salario. Tuttavia, nella palese contrapposizione al lavoro “socialmente utile” proclamato da organizzazioni padronali e governi la cura definisce un’alternativa etica e logistica alle forme prevalenti di sfruttamento e oppressione, soprattutto se congiunta alla rivendicazione di aumenti retributivi, di un reddito di base, di una riduzione dell’orario e della diffusione negoziata dello smart working7.

 

Di cosa parliamo quando parliamo di “cura”?

Il termine stesso di “cura” è ambiguo, pendolando fra “ansia”, “preoccupazione” e intervento positivo per aiutare fisicamente o moralmente qualcuno in sofferenza. Può dunque essere introverso o estroverso, solidale o angosciato. Nel nostro caso non parliamo di epimèleia heautoú (cura sui) né di Sorge heideggeriana – argomenti degni di attenzione ma che ci allontanerebbero dal corso principale della riflessione, che insiste sulle relazioni collettive e sul Welfare sconvolto prima dal neoliberalismo poi da Covid-19. Nel primo caso per il carattere individuale e autoriflessivo che esso ha assunto nella cultura greca, latina e cristiana8; nel secondo perché il filosofo predilige, sotto il titolo di “autenticità”, un “prendersi cura” che lascia essere le possibilità degli altri di assumersi le proprie cure, la libera realizzazione nella “gettatezza”.

Soffermiamoci in prima battuta sulla Sorge di Heidegger, porta girevole per diversi scenari. Essa è un “personaggio filosofico” di genere ontologico, è l’essere dell’Esserci nella duplice modalità dell’aver cura degli Altri (Fürsorge) e di prendersi cura degli utilizzabili (besorgen). La Sorge è la struttura ontologica fondamentale, che indica l’originaria apertura dell’esserci verso il mondo e il futuro, è la possibilità libera orientata verso l’avanti-a-sé (sich-vorweg), il suo poter-essere protendendosi verso lo scoprimento dell’ente intramondano9. L’Esserci comporta un non-ancora, una mancanza o debito irredimibile e la Cura, unità degli esistenziali, è la designazione ontologica della totalità delle strutture dell’Esserci, oscillando fra l’inautentico del quotidiano e l’autenticità essenziale del morire come essere-per-la-morte10. Di qui il seguito ben noto e “destinale”: la chiamata della Cura verso la pienezza ha a che fare con lo spaesamento, l’angoscia e la morte, è coscienza della propria colpa originaria, non di questo o di quello; l’Esserci stesso è colpevole nel suo fondamento, anzi «l’esser-colpevole costituisce l’essere che noi chiamiamo Cura». La rottura della sfera inautentica del “si” avviene mediante la decisione come «autenticità possibile della Cura stessa», «autoprogettarsi tacito e angoscioso nell’esser-colpevole più proprio»11.

Sul piano ontico, dell’umile commercio con la Umwelt dove è sempre istruttivo osservare le ricadute pratiche dei personaggi filosofici, Heidegger riprende le lezioni anti-paternalistiche e protoliberali del vecchio Kant e procede in parallelo alle furie ordoliberali del giovane von Hayek. La Geworfenheit è gettatezza sul mercato e l’essere-per-la-morte prende connotati più lavoristico-disciplinari che eroico-nazisti, più Taylor che SA (anche se der Arbeiter di Jünger performa meglio in proposito). La Fürsorge, deposte le vesti curiali, ridiventa la soziale Fürsorge, il Welfare, tanto per volare raso terra.

L’esperienza del mondo condiviso, Mitwelt, porta con sé quella dell’incontro con gli altri, la presa d’atto del con-Esserci (Mit-Dasein), e l’altro Esserci ci viene incontro appunto nel quadro dell’aver cura, non del prendersi cura – ma nel quotidiano le distinzioni si ingarbugliano:

«Anche “il prendersi cura” del nutrimento, dell’abbigliamento nonché la cura del corpo ammalato sono forme dell’aver cura. […] L’aver cura, com’è ad esempio l’organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell’Esserci in quanto con-essere. La sua urgenza empirica deriva dal fatto che l’Esserci si mantiene innanzi tutto e per lo più nei modi difetttivi dell’aver cura [l’indifferenza, la noncuranza, la semplice-presenza di più soggetti]. I modi positivi dell’aver cura ci sono due possibilità estreme. L’ aver cura può in un certo modo sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro, ciò di cui si deve prendere cura. L’altro in questo modo risulta espulso dal suo posto, retrocesso, per ricevere a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendeva cura, risultandone del tutto sgravato.

In questa forma di aver cura l’altro può essere trasformato in dipendente e in dominato, anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce. Questo aver cura, che solleva l’altro dalla “cura”, condiziona largamente l’essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli utilizzabili»12.

Dio ne scampi dall’aiutare le troppo prolifiche mamme nere, o distribuire buoni pasto a homeless e sfaccendati – direbbe un reaganiano, usando un linguaggio meno sofisticato. Meglio sollecitare, direbbe un neoliberale “progressista”, le loro capacità con politiche proattive del lavoro e tirarli via dai divani del reddito di cittadinanza per spedirli in strada a sbattersi sotto la sferza della Sorge:

«Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la “Cura”, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendono cura e divenire consapevoli e liberi per la propria cura»13.

Non sarà il maggior merito del capolavoro heideggeriano, ma dalla Foresta Nera il Nostro fiutava già l’odore dei Navigator. Occorre incoraggiare gli altri ad attivarsi, non scodellare la pappa già pronta. Il workfare punitivo è un ottimo stimolo alla condivisione della cura.

Tutta la grande e suggestiva confutazione del “si” anonimo e livellante, della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco dei §§ 27 e 35-37 – e cioè della democrazia discutidora weimariana – poggia su quella critica dello Stato sociale e del sistema previdenziale, su quell’appello-chiamata alla “responsabilità” di uomini veramente “coesistenti” nel Mit-Dasein. La Sorge, “bene intesa”, va in direzione opposta alla democrazia e al Comune.

Il lavoro di cura che abbiamo in mente poco condivide, invece, con la grande allegoria progressista e lavorista del vecchio Faust di Goethe, quando la Sorge, scaturita dal senso di colpa per aver lui indirettamente commissionato a dei mafiosi l’assassinio di Bauci e Filemone, tormenta e acceca il protagonista, inducendolo a pianificare un lavoro di dissodamento delle paludi costiere, per insediarvi un libero popolo su libera terra in un progetto prometeico. Tanto meno con la Sorge heideggeriana, che presiede all’autoprogettazione destinale dell’Esserci.

Riprendiamo allora in mano la Fabula 220 di Igino, che ispirò sia Goethe che Heidegger. La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango argilloso (cretosum futum), ne raccolse un po’ e incominciò a plasmarlo.

Mentre pensa cosa farne, arriva Giove e la Cura lo prega di infondere la vita a quel manufatto. Giove acconsente volentieri, ma quando la Cura pretese di imporgli il suo nome, il dio si oppose volendo riservarsi il diritto di farlo lui. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato la materia del corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il quale così deliberò: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte lo riavrai indietro; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. La Cura, infine, che per prima diede forma a questo essere, lo possederà per tutta la durata della vita. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (terra)».

Rileggiamola così, togliendo etimologia del nome comune asessuato, creazione e immortalità dello spirito: nell’intervallo fra il concepimento e l’ultimo respiro, per tutta la vita (quamdiu vixerit) ogni umano sarà condizionato dalla cura riproduttiva – allevamento, educazione, terapie del corpo e degli affetti, gestione relazionale del conatus, interdipendenza con gli altri e con istituzioni del Comune. E questo solo resta, nella sua potenza e nella sua fragilità, una volta tolta un’origine e una destinazione trascendente del soffio vitale.

Così deliberò Saturno, principe detronizzato dell’età dell’oro, riconoscendo l’ansiosa fragilità delle creature destinate a vivere in età successive. Ma in qual conto dobbiamo tenere questo rischioso dono?

 

Di cosa parliamo quando parliamo di “vulnerabilità”?

La Sorge e l’epimèleia heautoú miravano a riparare la vulnerabilità e potremmo riconoscere loro la bontà delle intenzioni, se non l’adeguatezza dei mezzi. Ma dovremmo prima intenderci su ciò che vulnerabilità significa, trattandosi di parola che in sé e nella preistoria del suo uso (la “creaturalità” cristiana) tiene insieme molte cose divergenti appena ci si voglia metter mano. Essa infatti è una condizione individuale, per quanto determinata da un evento universale (la Geworfenheit o la Creazione, il fango argilloso con cui la Cura o Dio plasmano l’uomo). Questo produce parecchi effetti interessanti – la percezione delle antinomie umane, da Pascal a Dostoevskij, il realismo nel descriverle (Auerbach), i temi dell’angoscia e della colpa, la psicologia esistenziale, il nesso fra esposizione e socialità in Bataille e Arendt – ma fallisce proprio sul piano delle terapie, del sanare, per quanto possibile, le cicatrici. Meglio ancora sarebbe non solo riparare il danno ma prevenirlo, ridurre sistemicamente la diffusione di vulnerabilità per preservare e migliorare la vita.

Riorganizzando la tematica della vulnerabilità, che aveva trattato con accenti a volte diversi in precedenti scritti, Judith Butler offre nel suo ultimo libro una genealogia dell’interdipendenza, che parte dal rifiuto del mito fondativo della civilizzazione (Robinson o Leviathan), cioè dall’immagine di un maschio adulto, che sta per i fatti propri in condizione di autosufficienza, preso cioè nel mezzo di una storia che non viene affatto raccontata dall’inizio, come se non fosse stato mai un bambino, nutrito dai genitori, oggetto di cure e inserito in relazioni di parentela e istituzioni per sopravvivere, crescere e apprendere a come cavarsela da solo14. L’uomo eretto, che mai ha dovuto aggrapparsi a qualcuno per conquistare quella postura, è una favola. Da un lato viene preso l’individuo quale dato originario, mentre invece è il prodotto di un meccanismo di individuazione, dall’altro vengono predefiniti i ruoli del maschio adulto civilizzatore e della madre come specializzata nel lavoro riproduttivo e di cura. Lo stesso adulto, peraltro, vedrà ripetutamente messa in discussione la sua autosufficienza nel corso della vita sperimentando una vulnerabilità che non dipende soltanto alla sua condizione mortale ma dalle perturbazioni del sociale relazionale in cui è inserito e che determina la continuità della nostra stessa vita, attraversata e mediata dal conflitto15.

Nella controtesi butleriana, alle immagini correnti dello stato di natura si sostiene che «nessun corpo può provvedere da sé al proprio sostentamento e chiunque viene al mondo affidandosi ad altri» e che tale processo di “affido” non si esaurisce con l’età adulta ma che continua in varie fasi e livelli, tanto che «noi siamo sia coloro che vengono “affidati” sia coloro che “ricevono in affidamento”, con reciproca asimmetria. «L’esposizione differenziale di un corpo alla possibilità di subire un danno o alla morte corrisponde esattamente al mostrare una forma di precarietà, ma anche al patire una forma di disuguaglianza che esprime ingiustizia»16. È dunque a partire dalla non- autosufficienza e dall’asimmetria dell’aiuto e non dal diritto originario degli individui che occorre porre il problema dell’eguaglianza come fatto relazionale e sociale. Per estensione potremmo ipotizzare che quella stessa interdipendenza non è soltanto intra-umana ma riguarda anche il rapporto fra gli umani e la Terra, che esiste un problema di cura dell’ambiente o di amore del mondo che ha a che fare con la nostra finitezza, fino alla più brutale minaccia di estinzione della specie.

Allo stesso modo, la vulnerabilità «non costituisce un attributo del soggetto, bensì una caratteristica delle relazioni sociali» e quindi Butler «esclude automaticamente che essa possa costituire un’identità, una categoria o una base per l’azione politica». Si tratterrebbe di un’identità vittimaria affidata alla paternale benevolenza di entità più forti autorizzate a scegliere quali individui o gruppi soccorrere. L’unico modo giusto per ridurre la vulnerabilità è agire conflittualmente sull’insieme di relazioni preesistenti che la determinano: insomma resistere e ribellarsi17. Solo attivando in un percorso di lotta i gruppi vulnerabili (migranti, donne, non bianchi, queer e trans), rendendo le vittime degne di lutto si può contrastare la violenza ordinaria e istituzionale che le precarizza e cancella. La loro è tutt’altro che una “nuda vita” agambeniana, è piuttosto una “vita vivente”, sopravvissuta a discriminazioni e persecuzioni, che si oppone alla sparizione e fa di questa protesta e resistenza una forma efficace di presenza mediatica e politica, di cambiamento delle infrastrutture che finora hanno condizionato quella dolorosa minorità individuale e collettiva18.

Collocando la vulnerabilità all’interno e non ai margini del mondo (ed erano margini trascendentali sia la gettatezza che la creaturalità) possiamo meglio articolare la sua funzione nel quadro di una devastante crisi economica e pandemica, farne la base per una progettazione cooperativa, con il minimo ricorso alle retoriche dell’esposizione, dello scarto e dell’immunità. Anzi, addirittura riconducendo al suo interno i casi limiti della cura di sé e della relazione autentica con gli altri che passano proprio attraverso il conflitto e le istituzioni e non si acquietano nell’isolamento autoriflessivo. La cura di sé nel senso di accrescimento spinoziano di potenza implica invece proprio la moltiplicazione delle relazioni e la loro composizione gioiosa – la laetitia sostituisce in tal caso il mito dell’autenticità.

 

Socialità, futuro, paura

«La più bella impresa, per un umano, è aiutare gli altri, con quello che può, con quello che ha».

SOFOCLE, Edipo re, vv. 314-315

L’epidemia sul piano collettivo, come la morte su quello individuale, restringe l’orizzonte del futuro, inibisce l’ordinario progettarsi – è «the end of our elaborate plans» e tutto l’insieme di voucher, saldi, rimborsi, bonus non risarcisce il vuoto che si spalanca all’improvviso – invero non proprio a sorpresa, tanto che di no future si parla da decenni, ma finora non l’avevamo toccato per mano, tutti e tutti insieme.

Lo sfondo su cui interviene la politica della cura è segnato insieme da un coefficiente ineliminabile di angoscia collettiva e dalla consapevolezza pragmatica dei mezzi, pur ridotti, con cui fronteggiarla. Edipo pronuncia l’elogio del soccorso nel corso di una terribile pestilenza (di cui è ignaro essere lui stesso la causa) e pone subito l’accento sulla limitatezza dei mezzi (af’hôn echoi te kai dúnaito). Il meccanismo ordinario della cura (assistenza alla crescita e manutenzione dei corpi) viene esaltato in situazioni di catastrofe e acquista anche un valore di resistenza materiale e psicologica allo smarrimento, alla crisi della presenza. La cura va in coppia con l’apocalisse, senza perdere la sua connotazione materialissima – che va dall’allattamento alla terapia ospedaliera al conforto morale, in tutta la scala spinoziana del perfezionamento del Corpo e della Mente. Come, del resto, si conviene alla materialità negativa in tristitia dell’apocalisse – affollamento nelle terapie intensive, svuotamento dei supermercati, perdita di fonti di reddito, fallimento di attività. Alla base sta il carattere sociale della vulnerabilità e dell’interdipendenza su cui ci siamo prima soffermati e in questo senso la miglior cura è la cooperazione e la resistenza.

Valorizzando il lavoro di cura nei confronti del lavoro produttivo non stiamo a negare il valore della produzione o il rispettivo contributo al bilancio nazionale, bensì – oltre ad auspicare una pronta correzione della cattiva ripartizione passata degli investimenti, che avevano penalizzato i comparti sanità ed educazione – enfatizziamo l’affinità fra il primo e la cooperazione come fra il secondo e lo sfruttamento. La logica confindustriale secondo cui è più importante produrre che star bene, che il primo campo è di interesse pubblico nazionale, il secondo un affare privato, in gran parte coperto dal lavoro femminile gratuito e da meccanismi assicurativi, beh tutto questo va preso molto sul serio e capovolto19.

L’unità di lavoro di cura e lavoro industriale, di riproduzione e produzione in termini generali, si esprime nella pratica sociale come unità di lotte sul Welfare e lotte sul salario e a quel livello, non attraverso analisi econometriche e sociologiche sulla composizione del lavoro e suo contributo differenziale e regionale al Pil, e va impostata una riflessione sui cambiamenti epocali che una crisi sanitaria o ecologica impone al sistema produttivo, in termini di compatibilità e priorità nell’uso delle risorse e negli investimenti. Acquistano tutto il loro peso, in questo ridisegno, la valutazione del mutualismo dal basso, dimostratosi indispensabile per la sopravvivenza fisica di vasti strati della popolazione, e l’esigenza un reddito di base universale e garantito, che ricomponga la frammentazione dei benefici settoriali e dei ristori una tantum e compensi gli sconvolgimenti geologici del mercato del lavoro di cui abbiano avvertito finora solo avvisaglie.

In linea di massima non disponiamo di una definizione plausibile del significato filosofico dell’evento-Covid (o del degrado ambientale), abbiamo soltanto dei pezzi di spiegazione, senza sapere come tutto questo andrà a finire – né la pandemia, né i contraccolpi economici, né la radicalità e l’esito delle resistenze e delle reazioni. Possiamo però scartare risposte sbagliate ed estrapolazioni bizzarre per distopia o per utopia, insomma la nottola è ancora lontana dal levarsi ma non disturbiamola nel nido.


Riferimenti bibliografici
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Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione, Mi- mesis, Milano.
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La forza della nonviolenza, un vincolo etico e politico, a cura di F. Zappino, Nottetempo, Milano.
CAVARERO, ADRIANA, 2007
Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano.
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MBEMBE, ACHILLE, 2016 (2003)
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TSING, ANNA, 2017
The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton Universitiy Press, Princeton NJ.

Note
1 AZZARÀ 2020, pp. 125 sgg.
2 Sulla discontinuità profonda con la logica austeritaria e il congedo dalle ossessioni monetarie anti-inflazionistiche, tanto negli Usa quanto in Europa, cfr. MEZZADRA 2020, che sottolinea altresì come ciò possa configurare «un’ipotesi non neoliberale di stabilizzazione capitalistica della crisi» più che il collasso di un sistema.
3 BALIBAR 2020, pp. 107-108.
4 Ivi, pp. 124 sgg.
5 Sul tema, liberamente détourné, cfr. RISPOLI icp. L’opposizione “femminista”- “maschile” non è simmetrica negli aggettivi (altrimenti avremmo usato “femminile”), naturalistica come se certe cose fossero spettanza di un genere, ma usa su un versante un termine politico in cui i genere è costruito e motivato ideologicamente.
La letteratura femminista sulla cura è assai vasta e variegata. Joan Tronto, pur nel quadro di un’argomentazione liberale, ne ha offerto una definizione canonica: «In 1990, Berenice Fisher and I offered this broad definition of care: “On the most gen- eral level, we suggest that caring be viewed as a species activity that includes every- thing that we do to maintain, continue, and repair our ‘world’ so that we can live in it as well as possible. That world includes our bodies, ourselves, and our environment, all of which we seek to interweave in a complex, life-sustaining web» (TRONTO 2013, p. 19). In polemica con approcci di questo tipo, un ormai classico articolo di Nancy Fraser ripensa la cura in termini di riproduzione sociale e di crisi sistemica del capitalismo produttivo e riproduttivo: FRASER 2017. Cfr. anche FEDERICI 2019.
Il tema del capitalismo come distruzione e rovina è ripreso soprattutto dal filone “eco- femminista”, tra cui spiccano specialmente TSING 2017 e HARAWAY 2019. Per un aggiornamento sul rapporto fra pandemia e lavoro di cura, cfr. https://tinyurl.com/sc7bzttk.
6 Per il concetto cfr. MBEMBE 2016.
7 SCIORTINO 2020 indica due quasi-partiti, «quello economicista-neomalthusiano contro quello dell’individuo sociale, che sa mettere al primo posto la riproduzione della specie umana». Ben saldo al potere Il primo, il partito borghese sottomesso alla valorizzazione ma attraversato dalle contraddizioni del processo di accumulazione, mentre il secondo, post-operaio, «allo stato molecolare si staglia fragilissimo sullo sfondo di un confuso humus sociale», capace tuttavia in alcuni recenti episodi di contrapporre di fatto la riproduzione sociale a quella sistemica.
8 E naturalmente in Foucault, sulle cui componenti neoliberali cfr. BROWN 2015.
9 HEIDEGGER 1980, pp. 224, 241-243, 289.
10 Ivi, pp. 296-297, 307, 316. Il rivolgersi all’autentico della propria morte come all’inautentico del quotidiano e del “si” (man) dipende dal fatto che l’«Esserci è co- originariamente nella verità e nella non-verità» (p. 274).
11 Ivi, pp. 336 sgg., 343-347, 362 sgg.
12 Ivi, pp. 157-158. Al con-essere degli altri e al con-essere quotidiano è dedicato l’intero § 26. Sulla difettività era stato ancor più preciso il corso di Logica del 1925:
«L’aver cura è guidato dal riguardo e dall’indulgenza; nell’aver cura questi due modi possono subire modificazioni difettive e di indifferenza, fino alla mancanza di riguardo e nella negligenza che guida l’indifferenza» (HEIDEGGER 1986, p. 154).
13 HEIDEGGER 1980, p. 158.
14 BUTLER 2020, pp. 49 e 55 sgg.
15 Ivi, pp. 63 e 68-69.
16 Ivi, pp. 72-75.
17 Ivi, p. 268; cfr. 247-249.
18 Ivi, pp. 253-256, 261-265. Sulla vulnerabilità cfr. anche CAVARERO 2007 e GUARALDO 2012.
19 Abbiamo fin ora usato l’aggettivo “produttivo” nel senso di produttivo di valori di scambio: è chiaro che la contrapposizione al lavoro di cura cambia completamente se ci si immagina una produzione orientata ai valori d’uso delle merci o addirittura che non produca merci in quanto tali.

Comments

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Eros Barone
Thursday, 13 May 2021 00:09
I dati relativi al Pil e alla produzione industriale citati dall'autore dell'articolo non corrispondono alla realtà: la produzione industriale è aumentata quasi del 38% nel primo trimestre del 2021 e si prevede che il Pil del 2021 aumenterà più del 4%. La nottola di Minerva è ancora assai lontana dal levarsi....
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