Print Friendly, PDF & Email

orizzonte48

"Sei lezioni di economia"

Tra marginalismo, Sraffa e... il vincolo costituzionale

di Quarantotto

http://www.imprimatureditore.it/index.php/2016/08/25/sei-lezioni-di-economia/

Lezioni economia low1. Il libro di Sergio Cesaratto, la cui copertina vedete nell'immagine di apertura, è una piacevole lettura, solida e scorrevole, sia dal punto di vista storico che, ovviamente, teorico-economico. 

Si può non concordare in toto con talune implicazioni che, d'altra parte,  sono comunque dimostrate nel quadro di una rigorosa ricostruzione economica, senza però debordare sul dato istituzionale; ma, nondimeno, anche in questo caso, il libro ci offre una fondamentale spiegazione, particolarmente rilevante per i lettori di questo blog.

La spiegazione di come, e perché, la parte della sinistra in origine comunista, poi in mutevole e variegata definibilità nominalistica e ideologica, sia risultata solo marginalmente - e comunque in modo costantemente "selettivo"- ascrivible al "partito della Costituzione del 1948": su di essa la stessa sinistra marxista avrebbe nutrito una costante "diffidenza", scientifica e, prima ancora, politica (Cesaratto, preoccupandosi del profilo scientifico, ritiene, con ampie argomentazioni, più attendibile Sraffa rispetto a Keynes; ma il primo, a differenza del secondo, è inevitabilmente al di fuori del processo Costituente, come vedremo tra breve).

 

2. Cerchiamo di evidenziare i passaggi del libro da cui scaturisce questa utile, e comunque interessantissima, spiegazione: nella parte in cui ricostruisce, - con l'occhio lealmente dichiarato di un insider -, le vicende della scienza economica italiana "vista da sinistra", Sergio attribuisce un giusto rilievo a Marx, ed alla sua sopravvivenza rispetto al tramontare di alcune, ma non altre, delle sue analisi, e conferisce, come accennato, un grande rilievo a Sraffa.  

Nel far ciò, implica una sottile ma estesa critica a Keynes,  denunciando l'insufficienza e la contraddittorietà delle sue "poliedriche" premesse teoriche ed empiriche (tacciate di essere oscure se non confusionarie: sulla definizione del modello classico K. sarebbe anzi un "arruffone" che, come sappiamo, finisce per essere fagocitato come sub-ipotesi del marginalismo e, aggiungiamo, del dichiarato neo-classicismo dei...neo-keynesiani).

Ma questa accurata descrizione di una traiettoria culturale, certamente importante, ci fornisce indirettamente anche una spiegazione del distacco, (inteso come "distanza da"), che, in tutte le sue varie e non proprio coerenti fasi, ha avuto la visione economica "di sinistra", marxista ortodossa e anche più "avanzata," rispetto alla rigorosa difesa della legalità costituzionale.

 

3. Si riesce cioè a cogliere il meccanismo causale di come tale visione si sia distaccata "da", e abbia avuto la tendenza, non tanto a negare, ma a rendere (politicamente) irrilevante, il legame essenziale tra il principio fondativo "lavoristico" della Costituzione e la Costituzione economica.

Un legame che, ne "La Costituzione nella palude" abbiamo ricostruito come "funzionale" e riassumibile nella visione keynesiana della piena occupazione, quale oggetto di obbligo (costituzionale) di attivazione, "tipizzato" nei suoi strumenti, da parte dei massimi organi espressivi dell'indirizzo politico e, ciò, punto importantissimo, al di sopra dello stesso processo elettorale, in sè assoggettato al Potere Costituente (v.p.4), quale mero "potere costituito" (incluso quello di revisione costituzionale "derivata"). 

Da tale non accettazione, o assunzione in termini di irrilevanza, del "vincolo costituzionale", si sono poste le premesse per lasciare enormi spazi alla penetrazione del neo-ordo-liberismo filo-europeista: e, citando la parabola di Luigi Spaventa, inizialmente "fervente sraffiano" e poi "difensore del monetarismo", Sergio ne pare indirettamente consapevole.

 

4. Insomma il libro ci rende testimonianza di una spiegazione culturale fondamentale: quella su come la Costituzione sia stata considerata "superata", e comunque superabile, in quanto keynesiana, dalla "sinistra"; e quindi non solo dalla reazione immediata e violenta del "Quarto partito", sempre in armi fin dal 1947.

Non bisogna dimenticare, infatti, che per fondare un'interpretazione sistematica e "armoniosa" dei principi e dei diritti inderogabili della Carta del 1948, occorre rifarsi alla teoria economica di Keynes, quale obiettivamente recepita in Costituzione, nel suo complessivo tessuto normativo.
Ciò avvenne attraverso l'elaborazione-guida di Meuccio Ruini e Federico Caffè (del keynesismo del secondo, Sergio dà espressamente atto), di cui abbiamo traccia certificativa diretta, nonché attraverso le varie anime "sociali" che facevano, anzitutto, capo a Lelio Basso e ad altri (Ghidini, Dossetti, gli stessi Moro e Fanfani, ecc.: sul punto rinviamo alla ricostruzione selettiva compiuta in "La Costituzione nella palude"). E questo, in un'ottica istituzionale dai risvolti molto pratici ed attuali, ben al di là della confutazione della Legge di Say "marginalista", ovvero, della sua anteriore versione ricardiana.

 

5. Questa realtà fondativa, su un piano normativo del massimo livello, darebbe (il condizionale è d'obbligo) alla democrazia italiana un'indicazione molto più "certa" quanto alla individuazione univoca di un "pensiero" di Keynes, di cui, pure, Cesaratto segnala, qualificandola come "notoria", l'assumibilità "multiverso" (nel senso che avrebbe espresso, Keynes stesso, molteplici approcci ed analisi, non sempre precisamente dimostrati e non necessariamente unificabili in una sola visione).

In un'ottica istituzionale, fondativa della nostra democrazia, infatti, come qui s'è evidenziato, Keynes, o una sua "determinata" versione, certamente intrisa, - via Lelio Basso (e Caffè)-, di richiami a Myrdal, Kaldor e al socialismo di Rosa Luxemburg, è tuttavia oggetto di una scelta vincolante e ritenuta perciò irreversibile, in quanto fondatrice del diritto, fondamentalissimo e assolutamente centrale, "al lavoro". 

 

6. By the way, la nostra Costituzione ritiene tutt'altro che "marginale" l'osservazione generale per cui si può supporre che, in un'economia caratterizzata da un rilevante accumulo di capitale pregresso, gli investimenti trovino nell'azione dello Stato un costante strumento di sostegno verso la piena occupazione e che la redistribuzione (specialmente ex ante!) ne costituisca un essenziale elemento complementare. Non escludendo neppure quelle che Caffè richiama "misure di razionamento", a tutela dell'equilibrio dei conti esteri (anche all'interno dell'allora "mercato comune", in base a regole che egli lamenta non essere legittimamente rivendicate a favore dell'Italia; qui, p.4).

E questo processo di "positivizzazione normativa" avviene proprio fissando la Grund-Norm del sistema italiano su una correzione permanente dei "rapporti di forza", come evidenziano Basso, autore dell'art.3, comma 2, della Costituzione, lo stesso Caffè - qui,p.7- e, naturalmente, Calamandrei. Il quale, va ri-sottolineato, costituì un caso unico di capacità di cambiare visione, sul piano delle categorie generali di interpretazione del "reale-razionale", almeno in Italia; l'altro raro esempio è quello di Hansen nell'ambito del New Deal.

 

7. Ma il libro, nel ridare fondamento teorico vasto e ben argomentato, alle teorie economiche "critiche", cioè non ortodosse, - evidenziando appunto l'importanza del problema "strutturale" dei rapporti di forza (che sono tanto più decisivi nel diritto internazionale dei trattati) compie una rassegna che, per i lettori di orizzonte48, potrà risultare particolarmente congeniale, data la "famigliarità" con i temi affrontati.

 

8. Il libro, poi, conferma un'altra cosa: fare divulgazione è più difficile che rimanere su un piano accademico.

Infatti, l'intento divulgativo impone di giustificare, in termini specialmente storici - gli unici capaci di portare in luce i "fatti" rilevanti per spiegare quanto importante sia l'aspetto politico nelle scienze sociali- dei passaggi che, nella letteratura didattico-accademica, (specie delle scienze sociali), sono l'oggetto riduzionistico di un metalinguaggio, che non si cura più di incorrere nel pericolo di divenire un preteso "dato" cognitivo, cioè arbitrario e storicamente contestualizzabile.

Si potrebbe dire che proprio la divulgazione è, probabilmente, il mezzo più eloquente per cercare di spiegare la complessità che viene (orwellianamente) "ridotta" dalla sede accademica, andando alla ricerca del consolidamento "scientifico" di un pensiero unico e, come tale, (in apparenza) semplificato.

Cesaratto rifugge da questo difetto e sviluppa un discorso costantemente attento alle fondamenta (Alberto direbbe "le bbasi"), storiche, abbiamo detto, politiche e persino antropologiche del discorso.

Quindi un percorso altamente istruttivo, nel senso migliore del termine, e che vale la pena di affrontare: col conforto di sapere che qualche "professore" è ancora dotato dello spirito indagatore della complessità. Uno spirito che è l'unica via che possa condurre alla consapevolezza utile a "uscire dalla crisi".

Add comment

Submit