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Natura, lavoro e ascesa del capitalismo

di Martin Empson

3015284Il capitalismo intrattiene un rapporto peculiare, per usare un eufemismo, col mondo naturale. (1) Karl Marx lo ha riassunto al meglio neiGrundrisse, dove ha scritto che con l’ascesa del modo di produzione capitalistico, “la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione”. (2) Nella stessa sezione, egli nota come “il capitale crea dunque la società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società”.

Questo rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale, estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo. Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria immagine:

“La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sonomomenti fondamentali dell’accumulazione originaria“. (3)

Il capitale, conclude egli in un celebre passo, fa il suo ingresso nel mondo “grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro”, nel momento in cui la natura stessa viene subordinata alle esigenze del sistema. (4)

In tutte le società storiche, gli esseri umani hanno avuto una qualche forma di interazione metabolica con la natura. Quest’ultima è sempre stata trasformata, tramite il lavoro, al fine di soddisfare le nostre necessità – in effetti, per ricorrere alle parole di Marx, l’essenza del lavoro è “appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani”:

In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità , braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. (5)

Il capitalismo ha costituito una rottura radicale col passato: per la prima volta la produzione di beni fondamentali è stata guidata dall’accumulazione di ricchezza fine a se stessa, e non primariamente dalla soddisfazione dei bisogni umani. Tale sistema di generalizzata produzione delle merci ha cambiati anche noi stessi. Noi ci ritroviamo ad essere alienati dal mondo naturale, poiché i prodotti del nostro lavoro non sono più sotto il nostro controllo. La stessa nostra percezione della natura è modellata da un sistema economica che tratta “l’ambiente” come una raccolta di merci da sfruttare per il profitto.

Una simile enfasi storica circa la nostra mutevole relazione col mondo naturale non è rimasta confinata al marxismo, o anche alla sola sinistra. Il grande storico whig George Macaulay Trevelyan era convinto che, tra le altre cose, la storia sociale avrebbe dovuto occuparsi “dell’atteggiamento dell’uomo riguardo alla natura”. (6) L’incontro coloniale tra gli europei e le popolazioni indigene delle Americhe offre una vivida – e sanguinosa – illustrazione di tale volubile attitudine. Queste interazioni erano, nel complesso, enormemente distruttive per i popoli e l’ecologia delle Americhe. A milioni morirono a causa di malattie o della conquista militare, intere comunità e civilizzazioni furono distrutte e in migliaia vennero ridotti in schiavitù. A dispetto della visione, condivisa da alcuni migranti europei, di una terra libera dalle gerarchie e dallo sfruttamento, il cosiddetto Nuovo mondo è caduto rapidamente sotto il dominio dei rapporti sociali capitalistici. (7) Un cambiamento analogo si è verificato nelle modalità che hanno caratterizzato l’approccio alla terra e l’utilizzo delle sue risorse.

Nel suo classico Myths of Male Dominance, l’antropologa Eleanor Burke Leacock ha studiato le mutevoli strutture sociali della popolazione Montagnais-Naskapi, stanziata in Canada, dopo l’arrivo dei commercianti francesi di pellicce nel XVII secolo. I Montagnais erano erano caratterizzati da una società egalitaria e matrilocale di cacciatori-raccoglitori, i cui rapporti sociali erano governati all’insegna di “generosità, cooperazione e pazienza… coloro che non contribuivano con la loro parte non godevano del rispetto altrui, era inoltre considerato estremamente insultante definire qualcuno avaro”. Malgrado gli sconvolgimenti subiti dai Montagnais, la Leacock è riuscita a rintracciare le vestigia di un’organizzazione sociale assai differente durante il suo lavoro sul campo nel XX secolo:

Per quanto mi era dato comprendere, il processo decisionale riguardo tali importanti questioni costituiva un qualcosa di ben più sottile – di fatto un enigma per lo studioso sul campo ferrato sulle gerarchie competitive – nel quale si riscontrava quanto ciascun individuo si preoccupasse di non impegnarsi, finché non vi fosse stata la certezza di un accordo comune. Ero costantemente colpita dal… continuo sforzo… per agire insieme all’unanimità… in direzione della maggiore soddisfazione individuale possibile in assenza di conflitti di interesse diretti. (8)

I missionari gesuiti che accompagnavano i commercianti francesi di pellicce erano inorriditi dai modi di vita dei Montagnais, pertanto cercarono di “civilizzare” la tribù. Nel giro di un decennio, il vecchio ordine iniziò a frantumarsi, nel momento in cui la base economica della società montagnais veniva trasformata. Il mercato europeo delle pellicce era enorme, e al fine di andare incontro alla sua insaziabile domanda, i mercanti offrivano ai Montagnais e ad altre popolazioni indigene prodotti europei in cambio di decine di migliaia di pelli. Le comunità formatesi attorno alle stazioni di commercio, di conseguenza, divenivano sempre più dipendenti dagli utensili, dalle armi, dagli indumenti e dal cibo francesi. Soddisfare gli ordini francesi di pellicce significava per i Montagnais cessare di essere cacciatori che spendevano gran parte dell’anno a coprire enormi distanze, trasformandosi dunque in trapper sedentari. All’esperienza collettiva e collaborativa della caccia se ne sostituiva una di tipo molto più individualistico, nella quale i singoli gestivano le trappole e riscuotevano la ricompensa. Prima dell’arrivo degli europei, i Montagnais non avevano una nozione di proprietà privata; ora invece la terra era suddivisa in lotti la cui proprietà era individuale. Anche i rapporti sociali erano mutati: su pressione dei gesuiti, il modello patriarcale ed europeo di famiglia divenne dominante, per cui le donne si ritrovarono escluse dal loro ruolo di produttrici, laddove gli uomini assolvevano il compito primario della caccia.

Cambiamenti simili occorrevano dovunque giungevano i mercanti europei, come sottolineato da John F. Richards nel suo studio sulla mercificazione degli animali. Ad esempio,

“laddove i Creek si adattavano rapidamente e con successo agli incentivi del mercato delle pelli di cervo, essi… si trovavano tuttavia di fronte ad una contraddizione basilare. Forze di natura economica e politica rendevano ogni anno imperativa la consegna del quantitativo massimo di pelli. Essi divenivano quindi cacciatori commerciali legati al mercato mondiale, ricorrendo ai moschetti al fine di procurarsi avidamente quanti più cervi ed orsi possibile”. (9)

È importante non idealizzare la vita condotta delle popolazioni indigene prima dell’arrivo degli europei, evitando di incappare nel vecchio mito del “buon selvaggio” in perfetta armonia con la natura. Come nota Richards, ci sono evidenze che nell’epoca precedente il contatto, i nativi americani di fronte ad un’abbondanza di prede non avrebbero esitato ad uccidere un numero superiore di animali di quanto dettato dalla necessità, e ciò al fine di garantirsi una maggiore scelta di cibo.

Ma ciò appare difficilmente comparabile con la scala del massacro di animali frutto della richiesta di pelli e pellicce da parte degli europei. Come afferma Richards:

“una volta che gli indiani subivano lo stimolo delle richieste del mercato, qualsiasi remora avuta in precedenza veniva meno rapidamente. Il perseguimento delle ricompense materiali offerte dai commercianti di pellicce costringeva gli indiani a cacciare le specie più ricercate in modo costante, a dispetto del loro numero decrescente… Essi divenivano cacciatori commerciali intrappolati in un mercato che consumava tutto”. (10)

Persino le descrizioni meravigliate del Nuovo Mondo da parte degli europei spesso suonano come dei cataloghi di merci naturali. Così l’esploratore Martin Pring, nel suo resoconto del 1603 sull’isola in seguito nota come Martha’s Vineyard, sembrava intento a compilare una sorta di lista della spesa a proposito di alberi. Secoli di deforestazione avevano reso il legname europeo costoso, motivo per cui Pring riconosceva la potenziale ricchezza dell’isola:

Per quanto concerne gli alberi, il paese annovera i sassofrassi, pianta dalle virtù supreme per la cura del mal francese, e come alcuni hanno ben scritto in seguito, contro la peste e altri morbi; vi sono, inoltre, viti, cedri, querce, faggi, betulle e ciliegi dei cui frutti abbiamo mangiato; e ancora noccioli e amamelidi, il miglior legno fra tutti per fare sapone dalle ceneri; alberi di noce, aceri, pianta benedetta per trarne pania ed un genere di albero dai frutti simili ad una piccola prugna rossa. (11)

Le lettere di altri visitatori delle Americhe includevano analoghi inventari delle risorse naturali. L’esploratore James Rosier descriveva la vegetazione costiera del Maine come “profitti e frutti naturali di queste terre”. (12)

La trasformazione dell’atteggiamento nei confronti della natura, seguita all’arrivo degli europei nelle Americhe, rispecchiava quella che aveva accompagnato l’ascesa del capitalismo in Europa. Keith Thomas ha puntualizzato come in epoca Tudor e Stuart, “era sentire comune e di lunga data che il mondo fosse stato creato per il bene dell’uomo, e le altre specie dovevano essere considerate come subordinate ai suoi desideri e necessità”. (13) A titolo di esempio, Thomas cita un fantasioso poema degli inizi del XVII secolo, nel quale gli animali si avviano di spontanea volontà al massacro al fine di soddisfare il consumo umano:

Il fagiano, la pernice e l’allodola,

Volano alla tua casa, come già all’Arca.

Il bue volenteroso, da sé si reca,

Con l’agnello, al suo massacro;

Ed ogni bestia qui si porta

Quale offerta

La separazione delle popolazioni dal suolo, una delle “fonti della ricchezza”, era protratta e brutale. I produttori rurali si trasformavano in lavoratori salariati. In molti si ritrovavano espulsi dalle loro terre, per andare a popolare centri urbani sempre più grandi; altri erano costretti ad emigrare, spesso verso le frontiere del capitalismo, nel Nuovo Mondo. Coloro che restavano perdevano il proprio ruolo tradizionale in ambito rurale, divenendo salariati, come riconosciuto da Marx:

Il produttore immediato, l’operaio, ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona… il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù… Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. (14)

Questa nuova preminenza della proprietà privata esigeva applicazione, e in Inghilterra, il Parlamento aveva emanato centinaia di nuove leggi allo scopo di incoraggiare ulteriori enclosure e limiti all’uso comune dei terreni. Una simile legislazione era necessaria poiché, come ha notato Edward P. Thompson, “nel 1700 ,le leggi del Parlamento non rappresentavano un sistema di protezione della proprietà che prevedesse un uso generalizzato della pena di morte”. (15) Thompson fa esplicito riferimento al celebre Black Act del 1723, sulla base del quale “Cacciare, ferire o rubare cervi o daini, cacciare lepri e conigli selvatici, pescar di frodo, rappresentavano il più importante gruppo di reati”. La legge prevedeva la pena capitale per coloro ritenuti colpevoli di bracconaggio. (16)

Come sostenuto dal grande sindacalista agricolo Joseph Arch, il Black Act insieme ad altre leggi anti-bracconaggio andavano ben oltre la protezione della proprietà privata, alterando le modalità di utilizzo delle risorse naturali del paese:

Noi lavoratori non crediamo che lepri e conigli appartengano ad un qualsivoglia individuo, non più dei tordi e dei merli… Vedere lepri e conigli che attraversano il suo cammino rappresenta una grande tentazione per un uomo con una famiglia da nutrire… quindi egli può uccidere una lepre o un coniglio che passano, perché il suo salario è inadeguato alle sue esigenze, o per terribile necessità, o semplicemente perché gli piace lo stufato di lepre come a tanti altri. (17)

Il Black Act rientrava nel disegno finalizzato a “rendere il mondo più sicuro per mercanti e proprietari terrieri inglesi, così da consentire loro di accrescere la propria ricchezza e dunque contribuire al nuovo potere dello stato inglese”. (18)

Come nelle Americhe – sebbene con molto meno spargimento di sangue – tali cambiamenti trasformavano l’attitudine sociale nei confronti della natura. Herny Best era un piccolo proprietario inglese, il quale aveva visto triplicare il valore delle sue terre tramite un processo di enclosure alla metà del Seicento. Autore di svariate opere circa i metodi per rendere più redditizia l’agricoltura, Best aveva sviluppato un suo sistema finalizzato a vendere il bestiame a prezzi ottimali. Tutto ciò lo rendeva “intollerante” alle rimanenti tradizioni comunitarie dei suoi compaesani, portandolo a rifiutarsi di contribuire alla scorta di fieno per l’inverno poiché “il nostro fieno sarebbe stato usato per nutrire il bestiame di altri”. Best lavorava duramente per assicurarsi che gli animali di altri allevatori non sconfinassero nella sua terra, prestando sorveglianza persino nel mezzo della notte. Isolandosi deliberatamente dai suoi vicini, Best rappresentava un caso precoce di piccolo proprietario terriero capitalista, guidato dal desiderio di massimizzare i profitti a scapito della collettività. (19)

La parcellizzazione della terra, in effetti, creava la proprietà privata laddove prima non vi era mai stata; inoltre, le inedite restrizioni sull’accesso alle risorse naturali da parte della popolazione rurale erano parte fondante del nuovo ordine capitalista, gestito e protetto dallo stato. Come ha scritto lo storico George Yerby, “la terra veniva definita precisamente, fissata ad una distanza concettuale, catturata sulla carta e stimata nella teoria, anziché semplicemente lavorata in un continuo, ininterrotto atto fisico”. (20)

Light Shining in Buckinghamshire, un anonimo pamphlet fatto circolare dai Diggers (Zappatori) nel 1648, lamentava amaramente il rapido diffondersi delle enclosure:

Ogni terra, albero, bestia; pesce, volatile ecc., sono rinchiusi in poche mani mercenarie; tutti gli altri, deprivati e resi schiavi di quest’ultime, se tagliano un albero per il fuoco vengono puniti, o se cacciano un uccello imprigionati, perché è un gioco per soli signori, sostengono; né possono mantenere il bestiame, o farsi una casa, tutti i terreni essendo recintati, senza lasciare permesso per nessun’altro, né possibilità di comprare, al di fuori del padrone, colui che ha recintato, il signore del maniero, o qualcun’altro sciagurato e crudele quanto lui.

Questi mutamenti provocavano una vivace resistenza. I movimenti anti-enclosure abbattevano le recinzioni e le siepi, mentre scoppiavano rivolte contro le nuove leggi sula terra. Bande di cacciatori di frodo affrontavano i guardiacaccia, le comunità si battevano nei tribunali, nelle strade e nei campi al fine di difendere i propri interessi comuni. In seguito, l’ascesa dei sindacati agricoli avrebbe spostato la lotta dal terreno degli scontri violenti a quello delle vertenze sui salari e l’orario di lavoro, tuttavia, le rivolte e le proteste rimasero per decenni la sola forma di indignazione di massa a fronte di ciò che subivano le persone comuni e le loro terre.

Secondo quanto scrive Thompson, “l’inefficienza e lo spreco di tempo” rappresentavano “le motivazioni classiche contro i campi aperti e le terre comuni”. Egli cita una cronaca del 1795, nella quale si lamenta che il lavoratore rurale, “nell’andare dietro al suo bestiame… acquisisce un abito di indolenza. Un quarto, mezza, talora intere giornate vengono perdute senza accorgersene. Il lavoro del giorno diventa ripugnante”. (21) Dal punto di vista di Thompson, le enclosure e le migliorie in campo agricolo erano “entrambi interessati, in qualche modo, a un’amministrazione efficiente della forza-lavoro”. Nelle città il cuore dell’industria urbana era “la disciplina del tempo”, e tramite l’educazione venivano “plasmate le nuove abitudini di lavoro”. (22 tr. ita. pp. 34 e 54-55)

Tale forma di accumulazione originaria della ricchezza, per riprendere la definizione di Marx, gettava le fondamenta del sistema capitalistico, recidendo i tradizionali legami tra la popolazione e la terra, concentrando i lavoratori nelle città. Questo processo di urbanizzazione e proletarizzazione si accompagnava anche ad una nuova forma di disciplina del tempo, oltreché ad un “esercito industriale di riserva”, costituito da disoccupati, la cui funzione era di inibire le lotte dei lavoratori contro i padroni.

Tutto ciò conduceva in ultima analisi all’ascesa dei combustibili fossili, i quali avrebbero dominato l’industria inglese nel XIX secolo. Un processo, questo, né automatico né tanto meno immediato. Ancora nel 1800, in Inghilterra, si contavano solo ottantaquattro cotonifici alimentati a vapore, rispetto ai circa mille ancora alimentati ad acqua. (23) John Robison, professore di filosofia e amico di lunga data di James Watt, l’inventore della macchina a vapore, a tal proposito lamentava:

“l’acqua costituisce la forza più comune, e invero la migliore, essendo la più costante ed uniforme; laddove il vento talvolta giunge con grande violenza, tal’altra è del tutto assente. Gli opifici possono anche esser mossi dalla forza del vapore… ma il costo del combustibile previene, non v’è dubbio, che una tale modo di costruire gli stabilimenti divenga sempre più diffuso” (24)

Nonostante ciò, le macchine a vapore venivano infine adottate, a dispetto degli alti costi degli impianti e dl combustibile, nonché delle nuove capacità ingegneristiche necessarie. Un a delle ragioni risiedeva nel fatto che liberavano i proprietari delle fabbriche dai limiti naturali dell’energia idrica; infatti, solo poche ruote idrauliche potevano essere installate su di un fiume particolare, ed poche erano le località adatte a disposizione. I combustibili fossili, economici ed abbondanti, non presentavano simili vincoli.

Ma la principale ragione per cui i combustibili fossili sono giunti a dominare la produzione capitalistica consiste nel fatto che, come argomenta Andreas Malm nel suo recente libro Fossil Capital, la forza del vapore garantiva “un biglietto per la città”. Il vapore significava che l’industria poteva ora essere collocata nelle aree urbane, dove lavoratori disciplinati a lavoro di fabbrica potevano facilmente essere assunti (e licenziati). I proprietari delle fabbriche non sarebbero più stati costretti a costruire case, chiese e scuole in valli remote. Gli slum di Manchester, Birmingham e Glasgow divenivano i siti principali degli stabilimenti industriali. Nel 1883, sulle pagine della Edinburgh Review, J. R. McCulloch illustrava questi sviluppi: “Il lavoro compiuto grazie all’aiuto del flusso dell’acqua è generalmente altrettanto economico di quello svolto col vapore, talvolta molto più economico. Tuttavia, l’invenzione della macchina a vapore ci ha sollevati dall’incombenza di costruire fabbriche in situazioni inconvenienti, in grazia meramente di una cascata. Ha consentito, dunque, di collocarle nel mezzo di una popolazione addestrata a più industriosi abiti”. (25) Ha scritto Marx, a proposito dell’accumulazione capitalistica, “Questi metodi conquistarono il campo all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra ala capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege” (26)

Che il modo di produzione capitalistico abbia trasformato i rapporti sociali umani è cosa universalmente nota, ma ha anche operato nel senso di alterare il rapporto tra l’umanità e la natura. La separazione tra città e campagna è cresciuta, e la concentrazione della popolazione in nuove, e sempre più grandi, aree urbane ha determinato l’adozione di nuove tecnologie e metodi di lavoro. I combustibili fossili sono diventati la forma dominante di energia, consentendo al capitale di sfruttare ulteriormente la forza-lavoro. La crisi ecologica del XXI secolo non è mai stata un qualcosa di inevitabile , ma è divenuta sempre più probabile con l’espansione globale del capitalismo. La comprensione dei processi storici che hanno dato origine all’antropocene sarà un’arma vitale nella lotta per un mondo sostenibile e giusto.


Note
  1. Questo articolo si basa su due colloqui, il primo tenutosi nel maggio 2014 al Birkbeck College, Università di Londra, il secondo nel novembre del 2016 alla Marx Memorial Library, a Londra, nel contesto della Raphael Samuel History Center’s History and Environment seminar series.
  2. Karl Marx, Grundrisse(Torino, Einaudi, 1976),p. 377.
  3. Karl Marx, Il capitale, Vol. I (Torino, Einaudi, 1975),p. 922.
  4. Marx, Il capitale, Vol. I,p. 934.
  5. Citato in John Bellamy Foster, Marx’s Ecology(New York, Monthly Review Press, 2000), p. 157; Marx,Il capitale, Vol. I, p. 215.
  6. G. M. Trevelyan, English Social History (Londra, Pelican, 1982), p. 10.
  7. Per un’ottima discussione di questo processo riguardo ad una relativamente piccola area del Nord America, si veda John Tully, Crooked Deals and Broken Treaties (New York, Monthly Review Press, 2016).
  8. Eleanor Burke Leacock, Myths of Male Dominance (Chicago, Haymarket, 2008), pp. 71-72.
  9. Richards,The World Hunt (Berkeley, CA, University of California Press), pp. 35–36.
  10. Richards,The World Hunt, pp. 45–46.
  11. William Cronon, Changes in the Land (New York, Hill and Wang, 1983), p. 21.
  12. Cronon, Changes in the Land, pp. 20-21.
  13. Keith Thomas, Man and the Natural World (New York, Pantheon, 1983), p. 17.
  14. Marx, Il capitale, p.881.
  15. Edward P. Thompson, Whigs e cacciatori (Firenze, Ponte alle grazie, 1989), p.27.
  16. Thompson, Whigs e cacciatori, p.28.
  17. Citato in Horn, The Rural World 1780–1850 (Londra, Hutchinson, 1980), p. 181.
  18. Christopher Hill, Liberty against the Law (Londra, Penguin, 1997), p. 9.
  19. George Yerby, The English Revolution and the Roots of Environmental Change (New York, Routledge, 2016), p. 250.
  20. Yerby, The English Revolution, p. 89.
  21. Edward P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro(et al./ EDIZIONI, 2011),pp. 32-33.
  22. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro,p. 34 e pp. 54-55.
  23. Andreas Malm, Fossil Capital (Londra, Verso, 2016), p. 56.
  24. Malm, Fossil Capital, p. 56.
  25. Citato in Malm, Fossil Capital, pp. 123-124.
  26. Marx, Il capitale, Vol. I, p.903.

Martin Empson è autore del volume Land and labour (Bookmarks, 2014).
Link all’articolo originale in inglese Monthly Review

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