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scienzaepolitica

Tempo, ordine, potere

Su alcuni presupposti concettuali del programma neoliberale

di Maurizio Ricciardi

Il saggio sostiene che, nonostante le significative trasformazioni successive, un momento ordoliberale agisca all’interno del programma neoliberale. L’ordoliberalismo stabilisce una specifica antropologia politica fondata sulla centralità dell’agire economico e su una temporalità a-rivoluzionaria che valoriz- za la continuità normativa della tradizione. Anche contro le specifiche configurazioni che lo Stato può assumere, in particolare di quella democratica, esso punta inoltre sulla costante riattivazione di un politico inteso come decisione fondamentale in favore dell’economico

MODERNISMO 01 INED21«Die Gefahren des Chaos sah er nicht»1.

1. Ordine e sistema

Il programma neoliberale si costruisce attorno al concetto di ordine. La frequenza del termine e la sua densità concettuale sono tali che dall’ordoliberalismo tedesco fino al compiuto neoliberalismo di Friedrich A. von Hayek è cosa ovvia affermarne la rilevanza2. Il programma neoliberale nasce dalla percezione di uno scacco epocale che va ben oltre la reazione alla crisi economica degli anni Trenta, che viene derubricata a conseguenza comprensibile delle normali dinamiche economiche3, mentre viene messo in primo piano lo stallo consolidato del progetto settecentesco di egemonia della libertà individuale. Questa diagnosi complessiva si accompagna in Germania alla dichiarazione di fallimento del «laboratorio borghese»4 che aveva dato forma alla politica tedesca nel XIX e nei primi decenni del XX secolo. Quel laboratorio, nel quale la scienza tedesca agiva da fattore costituzionale, viene ora abbandonato, perché non viene più considerato in grado di produrre mediazioni politiche e sociali all’altezza delle tensioni che attraversano la società. L’«eredità fallimentare dell’epoca borghese» deve essere rifiutata perché il suo patrimonio è stato accumulato sotto il segno dello storicismo, che ha prodotto un «fatalismo» politico che porta a compromettersi con ogni emergenza sociale, riconoscendole comunque una legittimità storica.

Lo storicismo ha trovato le sue espressioni potenti proprio nella scienza giuridica e in quella economica, ma ha finito per produrre la «detronizzazione di entrambe le scienze». Si tratta dunque, in primo luogo, di restaurare le due scienze nel ruolo di guida dell’azione politica che non solo lo storicismo ma anche, da un altro punto di vista, l’affermazione irresistibile della sociologia hanno finito per sottrarre loro.

L’eredità dell’epoca borghese è dunque impossibile da accettare, perché essa non è riuscita a tenere fede alle sue promesse soccombendo alla rivoluzione che aveva consentito l’affermazione della stessa borghesia. «Che a fallire sia stato proprio il tentativo d’ordine è il tragico dell’epoca storica borghese. Nel programma della rivoluzione il proposito della libertà e il proposito dell’ordine formavano infatti un’unità»5. I responsabili ultimi di questo fallimento sono Gustav Schmoller e Werner Sombart, che attraverso il loro convinto storicismo hanno aperto la strada a quel relativismo storico che impedisce di riconoscere le strutture d’ordine esistenti. La storicizzazione sombartiana del concetto di capitalismo ne descrive l’origine e l’evoluzione che, pur prevedendo la sua senescenza, non è necessariamente un annuncio della sua fine, ma lascia comunque intravedere la possibilità di una instabilità ormai inevitabile e di un mutamento indeterminato, ma necessario6. Schmoller dal canto suo è stato lo scienziato sociale più importante di un’epoca convinta che le passioni negative fossero destinate a essere costantemente riassorbite dall’azione etica dello Stato. La sua fede nel progresso etico ed economico si fondava su un’antropologia sostanzialmente positiva che gli faceva considerare transitorie tutte le perturbazioni politiche e sociali, perché non riconosceva la fondamentale aspirazione al potere che muove ogni individuo7. «Egli non vedeva i pericoli del caos». Il compito che i padri dell’ordoliberalismo si assegnano nel 1937, un anno prima del colloque Lippmann a Parigi8, è in primo luogo quello di ristabilire il discorso dell’ordine grazie a un approccio volutamente teorico, che non mira a scatenare l’ennesima disputa sul metodo, perché «per ogni scienza le crescenti riflessioni metodologiche sono un segno di malattia»9. Il problema è invece quello di individuare e dare sistemazione teorica, cioè di ordinare, gli elementi costitutivi della realtà economica, perché «la realtà non è un ammasso di dati di fatto uno accanto all’altro»10. Se il primo nemico di questo progetto è lo storicismo, il secondo è perciò il liberalismo economico, convinto che il mercato sia un ordine che si autoregola senza alcun intervento11. Una corretta comprensione della storia mostra invece che c’è costantemente bisogno di una guida [Lenkung], senza la quale il disordine e il caos possono sempre ripresentarsi. Si devono di conseguenza stabilire le condizioni politiche per produrre una decisione in vista dell’ordine. Diritto ed economia possono riconquistare la centralità perduta solo se il primo accetta il primato politico ed epistemologico della seconda, ovvero costruisce il proprio discorso sulla realtà indiscutibile dell’economia di mercato. Il compito è dunque «concepire e formare l’ordinamento giuridico come costituzione economica», che deve essere intesa come «una decisione politica complessiva sull’ordine della vita economica nazionale»12, all’interno della quale al diritto spetta la funzione di regolare non solo il rapporto tra i diversi elementi dell’ordine, ma anche di assicurare il potere di guida dell’autorità politica. Economia e diritto sono i due elementi scaturiti di una rivoluzione che avrebbe dovuto garantire sì la libertà, ma anche il suo «contrappeso, cioè l’elemento dell’ordine»13.

Per riequilibrare il rapporto tra economia e diritto, quindi, si devono ancorare le norme giuridiche all’ordine economico in modo che il diritto lo concepisca come una «costituzione giuridica», rendendo così visibile il suo «carattere politico» e mettendo di conseguenza il primo piano il «primato della politica»14. Il neoliberalismo non si fonda dunque semplicemente su una spoliticizzazione, ma su un doppio movimento che, assicurando la politicità esclusiva dell’agire economico, riconosce al politico la capacità e la possibilità di affermarla con le sue decisioni. Anche la libertà di iniziativa economica, introdotta dalla Gewerbeordnung del 1869, non deve essere considerata come l’eliminazione di vincoli storici, ma come la decisione politicamente dirimente che ha stabilito una nuova costituzione economica15. In questo modo, alla decisione politica viene riconosciuta la capacità di dare forma alla storia, a patto che riconosca quali sono quei caratteri storico-universali che, come vedremo, ricorrono costantemente nel tempo e nello spazio. In ogni caso, l’ordine viene collegato a una «decisione guida [Führungsentscheidung] competente e autoritativa», che stabilisce chiaramente qual è il contenuto dell’ordine e quali sono i suoi confini verso l’esterno. Solo in questo modo la decisione può creare una condizione giuridica che riconosce lo scopo e il carattere tecnico e non solo ideale dell’ordine. In altri termini, non essendo naturale l’ordine deve contenere un tratto organizzativo che è essenziale per la sua definizione16. «Questo ordine concreto, tecnico, ha nell’ambito della vita economica lo stesso significato dei principi fondamentali tattici e della guida militare strategica in guerra»17. Mentre il carattere schmittianamente concreto dell’ordine18 conferma che esso non può essere mai considerato senza il suo contenuto economico, l’analogia bellica serve sì a sottolineare il carattere eminentemente tecnico dell’economia, che differenzia la costituzione economica da quella politica, ma rimanda soprattutto alla necessità di governare tanto la statica quanto la dinamica dei processi economici.

Questo concetto di ordine è il centro genetico di tutto l’apparato concettuale e categoriale che unifica il programma neoliberale, nonostante le differenze anche evidenti di coloro che vi contribuiscono. La filosofia dell’ordine di Hans Driesch, la cui importanza difficilmente può essere sopravvalutata, definisce le coordinate di un pensiero che reagisce alla contingenza del movimento storico con l’intenzione di stabilire le linee della sua interna coerenza19. Sempre mantenendo la centralità del concetto di ordine il programma neoliberale si articola nei decenni successivi in tre diverse costellazioni. La prima è quella fondativa, l’origine del momento ordoliberale, che getta le basi del programma neoliberale nel suo complesso, individuando una serie di temi che rimarranno centrali anche nelle formulazioni successive. Non si tratta solo di temi economici ma anche, per esempio, della critica della sociologia e a quello che Wilhelm Röpke chiama «saint-simonismo eterno», ovvero l’idea che la società sia una struttura plastica, organizzabile secondo un piano che si rivela la più inquietante delle distopie20. In questa prima costellazione il neoliberalismo inaugura uno specifico discorso politico sulla società, assicurandone i movimenti grazie a una vera e propria restaurazione del politico. La seconda costellazione è quella successiva alla seconda guerra mondiale: qui il nemico sono soprattutto l’economia di piano in Occidente e i monopoli, ai quali viene contrapposto il mercato come modello democratico. Nella terza costellazione, a partire dagli anni Settanta, in corrispondenza di una nuova crisi e di una rinnovata paura per il caos sistemico, il programma neoliberale si trasforma infine in una politica economica applicata in breve tempo su scala globale. La solidarietà sociale viene indicata come un pericolo e la decisione politica torna a essere la soluzione in ultima istanza nel momento in cui le logiche del mercato non riescono a presentarsi come norme sociali condivise. Il programma neoliberale abbandona i circoli accademici e si emancipa dal provincialismo di successo dell’economia sociale di mercato tedesca e del suo compassato capitalismo renano21. Il neoliberalismo diviene globale, maturando al suo interno delle articolazioni significative. Non si tratta solo delle differenze tra la scuola di Friburgo e quella viennese di Hayek e von Mises, ma anche di quelle altrettanto significative con il neoconservatorismo statunitense22. Ciò che nonostante tutto rimane costante è un’intenzione politica di fondo che consente di parlare di un momento ordoliberale che attraversa il neoliberalismo nel suo complesso. Con l’ordoliberalismo, infatti, la continuità dell’esperienza storica, e quindi il peso politico della tradizione con il conseguente rifiuto di ogni rivoluzione, la critica della sociologia collettiva della società, l’affermazione del politico come decisione in ultima istanza anche contro le contingenti istituzionalizzazioni statali della politica divengono elementi ricorrenti e irrinunciabili della specifica pratica neoliberale della libertà.

 

2. Un’antropologia storica dell’economico

All’inizio degli anni Trenta la palese crisi del capitalismo coincide spesso con l’aspettativa della fine di un’epoca. Il programma neoliberale pretende di collocare quella crisi in un quadro storico complessivo in modo da mostrarne il carattere relativo e quindi non distruttivo. È «necessario vedere questi problemi nel quadro della storia universale»23, che deve essere intesa come l’insieme delle condizioni empiriche nelle quali l’agire economico è costantemente coinvolto nel tempo. Il problema perciò non è tanto la crisi, quanto la comprensione del capitalismo e delle condizioni generali dell’agire, perché

«l’ambiente capitalistico obbliga l’uomo alla riflessione sulla sua condizione storica»24. Solo con il marxismo è diventato improvvisamente evidente il carattere storico del capitalismo, il suo carattere transeunte. Al contrario «le dottrine dell’armonia degli economisti liberali nutrivano ancora nelle strutture del mondo che analizzavano quell’intatta fiducia, nella quale il carattere casuale e il fondamento di potere di questo ordine mondiale venivano necessariamente ignorati»25. Alla comprensione dinamica del capitalismo introdotta dal marxismo la sociologia tedesca con Ferdinand Tönnies, passando per Max Weber, Sombart e fino a Max Scheler aveva risposto forgiando l’apparato categoriale che faceva del capitalismo un momento essenziale nella produzione della società. Questa è la costellazione sociologica alla quale reagisce il nascente ordoliberalismo all’inizio degli anni Trenta, negando risolutamente che all’interno del capitalismo possa essere rinvenuta una qualche tensione alla razionalizzazione, così come che esso proceda in forza di un presunto antagonismo che lo caratterizzerebbe. La storia in generale e quindi anche il capitalismo al suo interno non possiedono un principio interno che ipotechi o garantisca i loro movimenti. «Il processo fondamentale della storia deve essere così interpretato come autorealizzazione»26. Esso è una continua successione di impulso [Trieb] e spirito [Geist], ovvero del rapporto mai definitivo tra il piano immediatamente individuale dell’agire e il contenuto generale di senso, con il quale ogni azione deve misurarsi. Ogni fenomeno storico deve essere osservato da questa doppia prospettiva, senza che sia possibile risolvere definitivamente questo contrasto. Ciò che deve essere registrato è che con il capitalismo il movimento diviene la categoria fondamentale dell’agire. Esso è il primo sistema economico nella storia «nel quale la dinamica diviene il principio strutturale»27. Più che di un principio si tratta in realtà della massima esplicitazione di un carattere che la storia già possedeva. Non si tratta cioè di un criterio esteriore che permetta la formulazione di un giudizio sul capitalismo stesso, ma piuttosto del modo di funzionamento del capitalismo come della storia nel suo complesso.

In ogni caso, quella dinamica strutturale dissolve e non costituisce le differenze tra le figure sociali che agiscono all’interno del sistema economico. La dinamica, infatti, stabilisce l’identità del sistema presiedendo al suo mutamento senza che sia possibile individuare una tendenza più o meno precisa a partire dal movimento stesso. Il futuro è completamente neutralizzato perché, se «l’attività di progresso non è deducibile»28, anche la particolare organizzazione della produzione non può essere considerata decisiva, così come la coazione del capitale ad autovalorizzarsi. Non si può nemmeno parlare di un’«accumulazione originaria», perché la dinamica non ha trovato la sua origine nella violenza e nel potere di alcune istituzioni o di alcuni individui. Allo stesso modo deve essere rigettata l’idea che il capitalismo segni il passaggio dalla comunità alla società, così come aveva indicato Ferdinand Tönnies. Come vedremo, il rifiuto della storicizzazione della comunità è un tratto essenziale del primo momento del discorso neoliberale. Riprendendo almeno in parte Max Weber, Müller-Armack afferma tuttavia che ogni atto sociale è allo stesso tempo comunitario e societario, perché non esiste una dinamica specificamente sociale che possa imporsi su quella economica. Quest’ultima non stabilisce un «movimento privo di limiti, ma i limiti che le sono posti vengono fissati solo dal suo interno»29. Viene in questo modo negata l’esistenza di ogni possibile vincolo storico o etico, mentre si può affermare che «il processo economico racchiude sempre la sua forma concreta solo grazie a una relazione storica di volta in volta mutevole dell’economico con il politico»30.

Emerge così la preoccupazione principale alla radice dell’ordoliberalismo, ovvero la restaurazione del politico nella sua posizione di garante dell’ordine dell’economia in quanto liberato da ogni vincolo sociale. Il confronto con la sociologia e l’antitesi che viene stabilita con il suo discorso mirano a liberare il politico da ogni ipoteca proveniente dalla società e in particolare degli interessi organizzati al suo interno. I gruppi di interesse, gli interessi organizzati, sono il nemico dichiarato del nascente programma neoliberale. Alla base dell’investimento sullo Stato vi è la riscoperta dell’essenzialità o piuttosto della semplicità del politico, della sua capacità di ridurre la complessità sociale, perciò gli viene richiesto di produrre decisioni indifferenti alla società e ai suoi conflitti. Il politico ordoliberale non ha una funzione costitutiva delle relazioni, posizione che spetta solo ed esclusivamente all’economico; esso interviene per ristabilire le condizioni ordinate del processo economico. Proprio perché la storicità dell’uomo è l’unico possibile orientamento all’interno della storia stessa, deve essere prevista una funzione di supplenza che garantisca la dinamica economica.

«Al posto delle teorie storiche che cercano di ricondurre la pienezza concreta dell’accadere a un modello, misconoscendo la profondità della storicità, deve subentrare una teoria che ricerca solamente la condizione della storicità, che mostra la struttura grazie alla quale essa viene resa possibile, senza sovrapporre alla storia empirica una qualche determinazione di contenuto»31.

All’interno di questa inesausta continuità storica e facendo ricorso all’antropologia filosofica di Helmut Plessner l’uomo viene concepito come potenza e il politico diviene di conseguenza «un comportamento interumano rivolto all’assicurazione o all’accrescimento della propria potenza attraverso la restrizione o l’annientamento dell’ambito di potenza estraneo»32. Incorporando il discorso schmittiano sul politico, Plessner punta a costruire un’antropologia globale non eurocentrica che, mentre riconosce che ogni individuo è un soggetto di potenza, assume anche l’estraneità come motivo fondamentale di inimicizia. Come di fatto tutto il discorso ordoliberale, MüllerArmack può così contrapporre al liberalismo ottocentesco quest’immagine di rapporti non immediatamente pacificati e proprio per questo sempre esposti alla degenerazione. Eccentrico rispetto a quel discorso è invece il suo serrato confronto con il concetto storico e politico di capitalismo, perché il programma neoliberale prende decisamente commiato da un concetto che rimanda ad antagonismi sociali insanabili e presume alla sua origine uno spirito borghese con una forte intenzione etica. Come scrive chiaramente pochi anni dopo Wilhelm Röpke: «La parola “capitalismo”, parola abusata e oramai logora e cangiante come una moneta antica, contiene tante inesattezze che è sempre meno adatta a un onesto traffico intellettuale»33. Non si tratta evidentemente di un problema terminologico. Già Wilhelm Eucken aveva criticato il capitalismo per l’ipostatizzazione che ne avrebbe fatto una sorta di soggetto autonomo, mostrando come l’intera discussione sulla crisi del capitalismo mancasse «di una visione storico-universale»34. Partire dal capitalismo significherebbe porre la questione del processo economico in modo astorico, ripetendo gli errori dell’economia classica la cui «conclusione teorica non corrispondeva alla molteplicità della vita storica»35. Essa riduceva il problema dell’ordine alla concorrenza perfetta sui mercati. Gli «atemporali»36, come Walras e Pareto, pensavano l’economia all’interno di una compressione del tempo, come se si producesse e si scambiasse nello stesso momento. Considerare lo svolgimento temporale del processo economico significa individuare un diverso oggetto per la scienza economica. A essere centrale non è l’attività in vista del soddisfacimento dei bisogni attuali e nemmeno l’individuazione dei bisogni presenti, «bensì interessa esclusivamente in che misura i bisogni del presente e quelli del futuro prossimo e lontano vengono considerati»37.

Questa esposizione soggettiva al futuro può essere solo individuale, perché solo i singoli individui possono avere quella proiezione futura che non può essere in nessun modo raggiunta collettivamente. Quest’occlusione del futuro collettivo è il vero fondamento di impossibilità di un’economia organizzata centralmente, «nella quale una postazione centrale pianifica e decide», perché la pianificazione pretende di trasformare un processo aperto in una condizione stabilmente prevedibile. Proprio per questo per Eucken l’opposto dell’economia di piano non è tanto il libero mercato quanto la Verkehrswirtschaft, un’economia di traffico, nella quale la presenza di innumerevoli piani individuali pone alla scienza il problema di come essi «si perfezionano in ordini economici»38. L’economia politica classica non viene tanto rifiutata per gli errori che pure le vengono imputati, ma perché riduce la complessità dei piani individuali a comportamenti schematici che dovrebbero poi ordinarsi automaticamente. Essa riduce il problema dell’ordine all’equilibrio sui mercati, invece di porsi le domande che potevano realmente giustificare la scienza economica. «Che cos’è l’economia? Cos’è “principio economico”? O anche, in modo ancor più fondamentale: che cos’è società?»39.

Solo ponendosi queste domande si può cogliere la molteplicità dell’esperienza storica, muovendo dalla consapevolezza che in ogni epoca e in ogni situazione gli uomini agiscono economicamente. A quella molteplicità, infatti, corrisponde un’unità di fondo dell’agire umano che non può essere messa in discussione né tanto meno relativizzata. Per questo motivo Eucken rifiuta ogni schema interpretativo che non assuma la molteplicità elementare del wirtschaften, dell’agire economico. Siamo di fronte a un’ulteriore specificazione dell’antropologia neoliberale del tempo storico. Essa non riconosce differenze tra stadi economici o tra economia cittadina e rurale, così come non accetta le distinzioni di stili economici che riducono la molteplicità a differenze formali40. Non può ammettere nemmeno l’antitesi tra un agire orientato alla copertura del fabbisogno e uno orientato invece all’acquisizione monetaria. Non esiste una seconda natura capitalistica che si sovrappone a quella originaria, e neppure un agire economico storicamente rideterminato dal dominio del denaro. Il commiato dal capitalismo significa anche congedarsi dal tipo umano che le teorie sociologiche avevano costruito e affermato. Come l’antropologia di Plessner rendeva universale il confronto e lo scontro con lo straniero, l’argomento antropologico di Eucken mostra il tipo umano neoliberale come espressione della continuità inesausta della storia universale, soggetto al cambiamento ma anche propenso a persistere ostinatamente nelle stesse attitudini e nelle stesse aspettative. «Si mostra che il comportamento economico è entrambe le cose contemporaneamente: costante e mutevole. Costante in un determinato strato del singolo uomo, mutevole in altri strati dell’uomo»41.

La regolarità di questa duplice attitudine stabilisce il carattere della storia universale la cui possibilità, come abbiamo detto, è una delle maggiori preoccupazioni neoliberali, come Eucken chiarisce in quello che è stato giustamente indicato come uno dei manifesti fondativi dell’ordoliberalismo42. Si tratta di una storia che è universale nello spazio e nel tempo, perché in essa si ripete sempre lo stesso schema di comportamento, dato che proprio per il suo carattere globale la sua definizione di uomo non tollera eccezioni. Il principio di economia è presente in ogni costituzione individuale e non è propria solo del «mercante, o addirittura del mercante della modernità europeo-americana». Il bersaglio polemico, per quanto taciuto, è ancora una volta Werner Sombart43 e serve a ribadire il carattere universale di questa costituzione umana che proprio per questo può essere il fondamento di un pensiero dell’ordine. La risposta alla domanda sul principio economico è anche la risposta alla domanda su che cos’è società nella storia universale. «L’homo sapiens agisce sempre secondo il principio economico e anche se – con Bergson e altri filosofi vitalisti – si ritiene giusto chiamarlo homo faber – egli non è homo faber se non segue il principio economico»44. Quest’ultimo cessa di essere una delle possibili scelte per orientare l’azione e diviene il principio necessario del fare che definisce il modo legittimo di agire in società.

Nonostante rivendichi la molteplicità come manifestazione della vita economica e sociale, il programma neoliberale trova nella sua antropologia e nel suo principio di economia la possibilità di unificare nel tempo tutti i comportamenti. Alexander Rüstow lo riconosce chiaramente: «la natura umana nel suo complesso rimane sempre e ovunque la stessa [...] tutti gli sforzi per modificarla sono utopisticamente destinati al fallimento»45. Non si tratta solo di un giudizio di esperienza e nemmeno della polemica ricorrente contro tutti i tentativi di costruire l’uomo nuovo che attraversano l’Europa in quel periodo. Questa convinzione antropologica è il fondamento epistemologico di tutto il progetto neoliberale. «Infatti, senza questa costanza della natura umana non ci sarebbe alcuna unità della cultura e della storia umane, nessuna possibilità di comprensione, né tanto meno ci sarebbe una coordinata fondamentale di ciò che è antropologicamente nella sua essenza normale e sano»46. Questa antropologia fondamentale produce la sua storia universale attraversata dal molteplice, ma sostanzialmente statica, nel senso che al suo interno non ci sono entusiasmi rivoluzionari e nemmeno innovazioni radicali, ma solo la ripetizione in forme diverse dello stesso agire. Se, dal punto di vista economico, ciò significa che il sistema economico non può essere interpretato solo a partire dalla sua dinamica, dal punto di vista storico e politico ciò impone di assicurarne la costanza su di un piano non solo individuale. L’ordine si incarica di storicizzare un agire che altrimenti sarebbe paradossalmente privo di storicità.

 

3. Sulla patogenesi della società

Costanza e mutevolezza sono il corrispettivo antropologico della statica e della dinamica del sistema economico. Esse assumono una dimensione più esplicitamente politica nel momento in cui all’individuo vengono attribuiti un «desiderio conservatore», che gli fa desiderare che tutto rimanga com’è, e una «volontà rivoluzionaria di uno sconvolgimento radicale». Le due pulsioni non stabiliscono però di volta in volta un differente equilibrio. Poiché non è possibile un evento storico senza passato, proprio questa preistoria [Vorgeschichte] finisce per costituire il vero baricentro dell’azione. Nessuna volontà rivoluzionaria può infatti rivolgersi completamente contro il suo passato. Ogni aspettativa rivolta al futuro sarebbe dunque sempre e allo stesso tempo percorsa dalla tensione a riconfigurare il passato. Le lotte presenti per conquistare il futuro sono necessariamente lotte per il passato: «il prolungamento all’indietro della direzione da noi voluta in avanti è per noi la coordinata fondamentale della storia». Allo stesso tempo, tuttavia, la preistoria del futuro è ciò che noi proiettiamo all’indietro come negativo. «Dalla convinzione antropologica che i valori buoni e desiderabili in ultima analisi sono identici a quelli della natura umana incorrotta consegue che deve essere esposta una situazione patologica di origine storico-sociologica per ciascuna situazione proattiva»47. Il primato della preistoria dell’azione sul suo futuro è dato dal fatto che ogni ricerca di miglioramento deve fare i conti con la necessità di sanare una qualche patologia passata. Ogni movimento rivela la propria patogenesi così come la ricerca della libertà è motivata dalla sua preistoria segnata dal dominio che, ricorrendo agli strumenti più classici della Kulturgeschichte tedesca, Rüstow ricostruisce alla ricerca di una «misura universalmente valida» che consenta di formulare un giudizio sul presente. Anche in questo caso, tuttavia, il presente mostra tutta la propria insufficienza e inaffidabilità tanto che, con una mossa che Friedrich August von Hayek itera con convinzione ancora maggiore, Rüstow sostiene la necessità di un «ritorno spiraliforme al XVIII secolo», ovvero a prima della rivoluzione, che è il vero momento patogeno della modernità politica.

Tornare a prima della rivoluzione significa reagire alla specifica temporalizzazione della politica che essa ha inaugurato. Questa reazione non assume i caratteri immediati del pensiero controrivoluzionario. Essa non esprime cioè solamente una condanna ideologica e poco originale di un processo che nei due secoli precedenti non ha mai smesso di riattivarsi. Il problema non è solo negare la necessità e l’utilità di nuove rivoluzioni in forza del giudizio maturato su quelle avvenute. Il programma neoliberale punta invece a indicare la possibilità di un tempo non rivoluzionario, ovvero di una temporalità che non abbia come suo presupposto l’identificazione di modernità e rivoluzione. Quest’ultima non è l’affermazione più o meno tumultuosa della società contro il suo governo come in Thomas Paine, né il movimento con cui la società conosce e modifica sé stessa come in Marx; essa è piuttosto la patologia che per la «cecità sociologica del razionalismo» pensa di poter ricostruire il mondo a partire dal suo progetto. Röpke distingue analiticamente la rivoluzione economica da quella politica, consapevole dell’intimo rapporto che le ha storicamente connesse. L’abolizione dei vincoli personali è stata il passaggio necessario per la libertà economica, che è la vera rivoluzione che si è affermata nella modernità senza bisogno di sconvolgimenti improvvisi e violenti. La rivoluzione diviene un processo senza eventi politici, mostrando l’impellente necessità di criticare fino a cancellarla la Rivoluzione francese quale evento all’origine di tutte le patologie successive.

«Ogni rivoluzione – scrive Röpke – è una vera disgrazia, una crisi catastrofica, il cui esito finale è sempre grandemente incerto e il cui carattere eminentemente patologico è già evidente nelle sue forme. Essa è potenzialmente una paralisi mortale della società; è anarchia, dissoluzione dell’ordine, lotta originaria di istinti e passioni e nulla è più atto a dipingerla del fatto che, se non viene arrestata in tempo, suole portare in alto i farabutti e gettare gli uomini sotto il passeggero dominio di noti nevropatici»»48.

La patologia rivoluzionaria è il segno di un processo di decomposizione, alla fine del quale stanno «la civiltà di massa, il nichilismo e il collettivismo». Essa è in perfetta continuità con quella precedente dell’assolutismo e del feudalesimo. In definitiva la rivoluzione non può produrre una società, o meglio, la società che essa produce porta inevitabilmente con sé i segni della sua decomposizione, perché spinge al «disconoscimento delle leggi costitutive della società, il quale conduce all’errata credenza che si possa organizzarla secondo un qualche postulato della ragione senza badare alla necessità di vere comunità»49. La rivoluzione come patologia storica produce ovviamente i suoi effetti sul piano immediatamente politico, al punto che Ludwig von Mises può icasticamente affermare che «la democrazia non è solo non-rivoluzionaria, ma cerca piuttosto di estirpare la rivoluzione»50. La democrazia neoliberale non punta solo a produrre una serie di antidoti che impediscano l’esplosione della rivoluzione, come è accaduto durante la lunga stagione riformista delle democrazie occidentali. Essa è invece parte costitutiva di un programma che mira a instaurare una condizione sociale strutturalmente non rivoluzionaria, che non può essere garantita solo dalle istituzioni politiche, ma deve essere assicurata dalla presenza visibile di un ordine.

In realtà ciò che determina la tenuta e la consistenza della trama societaria è la centralità riconosciuta al potere. Mentre fa dell’affermazione della libertà la forma sociale della propria affermazione51, il programma neoliberale si costruisce sulla riformulazione della grammatica del potere. Di fronte alla grande innovazione introdotta dallo Stato moderno nella storia stessa del potere grazie alla sua capacità di esercitarlo verso l’interno e verso l’esterno con un’intensità prima sconosciuta, non è possibile immaginare un ambito libero dal potere. Il problema è piuttosto la segmentazione del potere economico in modo che esso non entri in competizione con quello statale. Il programma neoliberale non promette una cooperazione libera dal potere, come pretendeva il liberalismo economico ottocentesco. Lasciato al suo movimento il mercato può consentire un’accumulazione di potere sociale che viene poi utilizzato per influenzare il potere statale a proprio vantaggio. Bisogna quindi riconoscere questa realtà, sebbene «ancora manchi in molti economisti lo sguardo e la comprensione di quanto il fatto economico sia riempito di brutale lotta per il potere»52. La concorrenza può impedire l’accumulazione di potere sociale, al punto che la sua importanza non dipende tanto dalla sua produttività sul piano economico, quanto piuttosto dalla sua rilevanza su quello politico. Ben sapendo che «la politica economica costituzionale deve essere diversa a seconda della forma di mercato»53, la libera concorrenza dovrebbe limitare il potere, mentre lo rende visibile perché ne mostra la titolarità. Contro l’idea marxiana del dominio impersonale e alienante delle leggi naturali della produzione capitalistica, contro la concezione weberiana del dominio capitalisticoburocratico, Eucken nega che il potere economico sia qualcosa di «irrazionale e mistico: esso è razionale, comprensibile, accessibile razionalmente»54.

 

4. Tradizione e democrazia

Questa razionalizzazione del potere economico permette di considerarlo come il paradigma di un potere democratico che dovrebbe liberare l’individuo dalla subordinazione personale, consegnandolo a una solitaria ma universale impotenza. Le regole del mercato sono la base di legittimazione di una forma democratica che non dipende né dal formalismo delle sue procedure né dalla partecipazione intenzionale dei suoi cittadini. Proprio per questo, come scrive Böhm, essa non è altro che una «democrazia plebiscitaria spinta all’estremo, che agisce ogni giorno e a ogni ora, tecnicamente perfezionata nel modo più raffinato»55. L’analogia rivela la tensione profonda del programma neoliberale verso forme di decisione democratica non procedurali e che non abbiamo bisogno della legittimazione popolare. La celebre rinuncia di Hayek all’uso stesso del nome democrazia ne è il segno più evidente. La sua proposta di sostituire democrazia con demarchia mira esplicitamente a neutralizzare il potere collettivo degli individui, perché il kratos gli «sembra sottolineare la forza bruta piuttosto che il governare secondo regole». Se «democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotato di potere illimitato, io non sono democratico, e considero tale governo pernicioso, e non credo che possa funzionare nel lungo periodo»56. Demarchia dovrebbe invece riaffermare la centralità del riferimento all’archein, ovvero all’origine, al fondamento, come appare non a caso in monarchia e in oligarchia, cioè nei poteri che si fondano sulla tradizione.

La democrazia diviene un episodio nella tradizione del potere e non può pretendere di essere la modalità in cui quella tradizione viene contestata. Contro questa sempre possibile contestazione il diritto non può essere lo strumento grazie al quale modificare la realtà dei rapporti societari, magari in nome di quella giustizia sociale che per Hayek «è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera»57. Per sottrarre il diritto alla disponibilità degli individui presenti e delle loro maggioranze, esso deve essere compreso e legittimato su basi completamente diverse da quelle del positivismo giuridico di matrice hobbesiana o kelseniana, così come deve travolgere gli assetti normativi nei quali esso ha trovato espressione58. La produzione giuridica è una tradizione normativa basata sulla priorità riconosciuta al diritto privato come già affermato da Franz Böhm59. La tradizione è il reale opposto politico e concettuale della rivoluzione, perché delinea un tempo che non dipende dall’agire dei soggetti. La tradizione non viene creata e proprio per questo gli individui le sono sottomessi, perché con «le nostre azioni produciamo inintenzionalmente l’accettazione di principi che renderanno necessarie ulteriori azioni»60. Siamo dunque di fronte a «una tradizione di regole che noi comprendiamo solo imperfettamente», che si legittima con la considerazione che «ogni progresso deve essere basato sulla tradizione»61.

La riabilitazione della tradizione è parte integrante del programma neoliberale. Il riferimento reiterato e condiviso a Burke esprime la convinzione che la tradizione non può essere semplicemente interpretata come un ritardo normativo presente all’interno della società. Essa è anzi una modalità specifica di razionalizzazione dei rapporti societari, una necessità che sorge dai rapporti stessi. La «vita sociale esige una tradizione»62 per garantire il contenuto di senso delle diverse azioni. La stessa storia universale di cui parlano Eucken e Böhm è in realtà una tradizione storica fondata sulla specifica antropologia che essi delineano e sull’agire economico quale sua espressione continuativa e immutabile. La convinzione che ogni «ogni cultura poggia sulla tradizione»63 rivela che il tempo proprio del programma neoliberale è proprio la tradizione, in quanto tempo storicamente ordinato nel quale quella economica è in realtà la sola dinamica capace di introdurre innovazioni senza mettere in discussione la continuità politica e normativa. Proprio questo ancoraggio alla tradizione impedisce di considerare l’homo oeconomicus come il soggetto fondamentale del programma neoliberale, perché come il proletario egli è una figura che tende a dissipare l’ordine. Entrambi, infatti, si considerano svincolati da qualsiasi legame gerarchico. L’homo oeconomicus è l’esito fallimentare del laissez faire e delle sue illusioni. È un soggetto che esiste solo in forza del suo calcolo, massima espressione di quella deriva razionalistica seguita alla grande rivoluzione con la sua pretesa di ignorare le «barriere e le condizioni poste dai dati vitali», e non «appena l’intelletto si emancipa da tali limitazioni e si rende signore di sé stesso e autonomo, accade una disgrazia»64. All’individuo neoliberale è richiesto di svolgere la sua libera attività economica rimanendo sottomesso ai vincoli gerarchici che consentono la riproduzione ordinata della società.

La comunità è lo spazio gerarchico che dovrebbe garantire la continuità nel tempo di relazioni che per il loro stesso carattere dinamico rischiano altrimenti di far venir meno qualsiasi continuità sociale. Se la critica della sociologia di Müller-Armack puntava a chiudere la scarto tra l’agire comunitario e quello societario, per Röpke e Rüstow la comunità è una sorta di riserva di comportamenti, norme e figure sociali necessari alla politica della società. Essi riutilizzano l’intero armamentario del comunitarismo tedesco dalla Jugendbewegung ai valori della civiltà contadina alla centralità della famiglia, le seul remède contre la mort, come scrive Röpke citando Taine65. Contro la sociologia tönniesiana della comunità, Rüstow afferma che la società funziona sempre come un «sostituto di comunità [Gemeinschaftsersatz]», perché è sempre una degenerazione dei rapporti che dovrebbero invece tendere alla perfetta integrazione di tutti i membri. Se la famiglia è il riferimento necessario di un modello di società gerarchica, la comunità nella sua sempre evidente dissolvenza svolge il ruolo strategico di indicare non solo i limiti della società in termini di integrazione, ma anche quelli che, pur potendo, non deve superare. La società è dunque segnata da una carenza di integrazione, una sottointegrazione [Unterintegration], che è in ultima analisi la causa dell’eccesso di dominio che la attraversa. Reagendo a questa condizione il socialismo propone una iperintegrazione coattiva degli individui ma, così facendo, perpetua e intensifica quegli elementi che hanno trovato la loro espressione esemplare nell’ordinamento feudale e nella tendenza alla conquista. La stessa burocratizzazione, che vorrebbe essere una razionalizzazione organizzativa dei rapporti societari, altro non è che il processo che più di ogni altro tende a perpetuare relazioni sociali fondate su signoria e servitù. Nella burocrazia si manifesta al massimo grado quella «struttura di servizio feudaloide»66 che continua a informare tutti i rapporti societari. Questa simmetria costitutiva tra società e dominio impone il costante richiamo alla comunità come luogo di una libertà ordinata. Ciò è paradossalmente vero anche in una teoria come quella di Hayek, che critica aspramente la logica del piccolo gruppo e anzi assume come suo ambiente sociologico la Great Society di Adam Smith.

Ciò che infatti accomuna l’ordoliberalismo tedesco con il neoliberalismo della scuola austriaca è l’affermazione della tradizione come indispensabile orizzonte normativo dell’ordine societario. Quell’orizzonte è stato dissolto dalla grande rivoluzione che ha violato la «legge sociologica secondo la quale la comunità umana è essenzialmente determinata dalla subordinazione a un comune superiore punto di riferimento, di modo che il rapporto orizzontale ne presupponga uno verticale»67. Riprendendo la dottrina di Guglielmo Ferrero, che considera la legittimità democratica sostanzialmente incapace di fare i conti con la banale verità che il «potere viene dall’alto»68, Röpke può sostenere la necessità strutturale della dimensione verticale del potere, come dimostrano i rapporti familiari che vengono riaffermati come il vero modello implicito di ogni rapporto politico. Questo patriarcalismo politico non è un mero artificio retorico69, ma l’affermazione della necessità di un rapporto di subordinazione proprio di una «comunità piramidale e “gerarchica”»70. Questa sociologia dei rapporti di potere mostra come non si possa attribuire al neoliberalismo un’intenzione modernizzatrice che l’economia di piano e l’egualitarismo avrebbero altrimenti impedito.

La rivoluzione neoliberale è tale perché riesce a riattivare contenuti politici negati dalle rivoluzioni dei secoli precedenti rendendoli funzionali all’affermazione dell’ordine economico e di un individuo che nella sua imprenditorialità obbligata può essere solo una delle espressioni di quell’ordine71. Questa nuova storicizzazione del rapporto tra ordine e potere ridefinisce la forma politica democratica perché, mentre afferma la necessaria limitazione delle attività statali, punta a restaurare l’autorità dello Stato in quanto condizione di possibilità per far valere il politico, inteso come capacità di decidere contro la possibilità sempre presente del disordine. Tradizione e comunità, infatti, sono precari supplementi per un’economia che non può contare né su un ordine naturale né su di un’armonia prestabilita dal mercato. Il programma neoliberale, che Rüstow sostiene di aver avviato nel 1932 assieme a Eucken72, si basa sulla consapevolezza che il caos è una possibilità sempre presente e ciò motiva la necessità pratica dell’«ala punitiva dello Stato» quale «parte costitutiva del Leviatano neoliberale»73.

Già nel tramonto della repubblica di Weimar Rüstow invocava l’avvento di uno Stato forte che decidesse «in direzione delle regole del mercato». Solo questo Stato poteva affermarsi limitando la sua sfera d’azione, ponendo «questa autolimitazione come fondamento dell’autoaffermazione». Solo così l’autorità dello Stato poteva ergersi al di sopra della pluralità di interessi «non attraverso il potere e il dominio, bensì attraverso l’autorità e la guida [Führertum]». Solo grazie a questa riduzione dello Stato alla decisione per l’economico è comprensibile l’affermazione apparentemente paradossale secondo la quale «il nostro destino non è l’economia, bensì lo Stato e lo Stato è anche il destino dell’economia»74. A questo Stato non è richiesto di intervenire direttamente nelle congiunture economiche o nella politica sociale, ma di essere la rappresentazione visibile di un politico in grado di decidere per l’economico, perché questa decisione è la sola veramente rilevante per stabilire la forma economica e quindi politica della società. Allo stesso tempo essa definisce il fondamento della democrazia, stabilendone forma e contenuto. Ciò deve valere anche per gli Stati post-coloniali che dovrebbero «trovare una forma Stato possibile, che associ i vantaggi della dittatura, oppure diciamo i vantaggi di una chiara direzione centrale responsabile, con l’assicurazione di uno stock minimo [Minderbestand] di democrazia». Rüstow riconosce tutte le responsabilità occidentali per il passato coloniale, ma proprio il nuovo ordine mondiale impone di riconoscere che la democrazia parlamentare è «una faccenda propria di quei tempi piacevoli e piccolo-borghesi nei quali essa si basava solo sulla politica interna»75. Di fronte agli spazi post-coloniali il programma neoliberale diviene globale, facendo dell’Occidente una tradizione politica alla quale ci si può solo uniformare, perché essa è la sola adeguata all’ordine economico della società mondiale del traffico. È tuttavia quella capacità riconosciuta al politico di ristabilire il primato dell’economico di fronte a ogni resistenza e a ogni eccezione che stabilisce il nucleo generativo di quello Stato globale76 che deve al neoliberalismo la sua legittimazione più potente.


Note
1 F. BÖHM – W. EUCKEN – H. GROßMANN-DOERTH, Unsere Aufgabe, in F. BÖHM, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, Stuttgart und Berlin, Kohlhammer, 1937, p. XVI.
2 Sulla vicenda complessiva con particolare attenzione al rapporto tra diritto ed economia cfr. P. DARDOT – C. LAVAL, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), Roma, DeriveApprodi, 2013. Cfr. anche P. COMMUN, Les Ordolibéraux. Histoire d'un libéralisme à l'allemande, Paris, Les Belles Lettres, 2016.
3 W. RÖPKE, Die sekundäre Krise und ihre Überwindung, in Economic Essays in Honour of Gustav Cassel, London, Allen & Unwin, 1933, pp. 553-568.
4 P. SCHIERA, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella Germania dell'Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1987.
5 F. BÖHM, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, p. 4. Ma per la critica ordoliberale dello storicismo cfr. soprattutto W. EUCKEN, Die Überwindung des Historismus, «Schmollers Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft im Deutschen Reiche», 62/1938, pp. 63-86.
6 A. RÜSTOW, Sombarts ‘Kapitalismus’ und das Arbeitsziel der Historischen Schule (1941-42), ora in B. VOM BROCKE (ed), Sombarts ‚Moderner Kapitalismus‘. Materialien zur Kritik und Rezeption, München, Dtv, 1987, pp. 378-393.
7 W. EUCKEN, Wissenschaft im Stile Schmollers, «Weltwirtschaftliches Archiv», 52/1940, pp. 468 – 506.
8 Per il testo integrale di quel colloquio e il suo contesto cfr. S. AUDIER, Le colloque Lippmann. Aux origines du “néo-libéralisme”, Lormont, Le Bord d’Eau, 2012.
9 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, Jena, Fischer, 19444, p. VII.
10 F. BÖHM – W. EUCKEN – H. GROßMANN-DOERTH, Unsere Aufgabe, p. XV.
11 Questa critica attraversa tutto il neoliberalismo e trova la sua formulazione più significativa e sistematica in A. RÜSTOW, Das Versagen des Wirtschaftsliberalismus (1945), Marburg, Metropolis-Verlag, 2001.
12 F. BÖHM – W. EUCKEN – H. GROßMANN-DOERTH, Unsere Aufgabe, p. XIX.
13 F. BÖHM, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, p. 7.
14 Ivi, p. 11.
15 Cfr. H. RABAULT, Naissance de la notion ordolibérale de «constitution économique», in H. RABAULT (ed), L’ordolibéralisme, aux origines de l’école de Friboug-en-Brisgau, Paris, L’Harmattan, 2016, pp. 189-210.
16 M. RICCIARDI, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Macerata, Eum, 2010.
17 F. BÖHM, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, p. 59.
18 Cfr. C. SCHMITT, I tre tipi di pensiero giuridico (1934), in C. SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 245-275. La distanza incolmabile tra il programma neoliberale e la dottrina schmittiana è evidentemente la dipendenza del diritto dall’ordine economico che esso prevede.
19 H. DRIESCH, Ordnungslehre. Ein System des nichtmetaphysischen Teiles der Philosophie, Jena, Diederichs, 1923, in particolare pp. 438 ss.
20 W. RÖPKE, Civitas humana. I problemi fondamentali della riforma sociale ed economica (1944), Milano-Roma, Rizzoli, 1947, pp. 73 ss. Ma si veda la ripresa dello stesso argomento in F.A. VON HAYEK, L’abuso della ragione (1952), Firenze, Vallecchi, 1967.
21 W. STREECK, Re-Forming Capitalism. Institutional Change in the German Political Economy, Oxford, Oxford University Press, 2009.
22 Sulla semantica politica del termine cfr. R. VENUGOPAL, Neoliberalism as Concept, «Economy and Society», 44/2, 2015, pp. 165–187. Sul neoconservatorismo statunitense cfr. J. VAISSE, Neoconservatism. The Biography of a Movement, Cambridge, Mass., Belknap Press of Harvard University Press, 2010; sulle intersezioni politiche cfr. W. BROWN, American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization, in «Political Theory», 34/6, 2006, pp. 690-714.
23 A. MÜLLER-ARMACK, Entwicklungsgesetze des Kapitalismus. Ökonomische, geschichtstheoretische und soziologische Studien zur modernen Wirtschaftsverfassung, Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1932, p. 297.
24 Ivi , p. 1.
25 Ivi, p. 2.
26 Ivi, p. 21.
27 Ivi, p. 28.
28 Ivi, p. 32.
29 Ivi, p. 94.
30 Ivi, p. 101.
31 Ivi , p. 173.
32 H. PLESSNER, Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (1931), in H. PLESSNER, Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, p. 326.
33 W. RÖPKE, Civitas Humana, I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica, Milano-Roma, Rizzoli, 1947, p. 5.
34 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 77.
35 Ivi, p. 31.
36 W. EUCKEN, Der Wirtschaftsprozess als zeitlicher Hergang, «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», 152/1940, p. 114.
37 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 129.
38 W. EUCKEN, Die zeitliche Lenkung des Wirtschaftsprozesses und der Aufbau der Wirtschaftsordnungen, «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», 159/1944, p. 162.
39 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 32.
40 Va sottolineato che a questo proposito il bersaglio più interessante è proprio A. MÜLLERARMACK e il suo Genealogie der Wirtschaftsstile, Stuttgart, Kohlhammer, 1944 e il che dimostra che la successiva “economia sociale di mercato” ha avuto una gestazione teorica non sempre lineare e unitaria. Cfr. comunque A. SOMMA, La Germania e l'economia sociale di mercato, Torino, Centro Einaudi, 2014 (disponibile all'indirizzo: http://www.centroeinaudi.it/images/abook_file/Q_Somma_n1_2014.pdf) e K. TRIBE, Strategies of Economic Order. German Economic Discourse 1750-1850, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 203-240.
41 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 254.
42 W. EUCKEN, Staatliche Strukturwandlungen und die Krisis des Kapitalismus, «Weltwirtschaftliches Archiv», 36/1932, pp. 297-321. Cfr. R. PTAK, Vom Ordoliberalismus zur Sozialen Marktwirtschaft, Wiesbaden, Springer, 2004.
43 W. SOMBART, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, München, Duncker & Humblot, 1915.
44 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 154.
45 A. RÜSTOW, Ortsbestimmung der Gegenwart. Vol. I: Ursprung der Herrschaft, ErlenbachZürich und Stuttgart, Rentsch, 1950, p. 14.
46 Ibidem.
47 Ivi, p. 15.
48 W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, Erlenbach – Zürich, Rentsch, 1942, p. 70.
49 Ivi, p. 83.
50 L. VON MISES, Socialismo. Analisi economica e sociologica, Milano, Rusconi, 1990, p. 96. Il volume esce in prima edizione nel 1922 con il titolo: Die Gemeinwirtschaft. Untersuchungen über den Sozialismus. L’edizione inglese del 1951 porta il titolo Socialism. An Economic and Sociological Analysis.
51 M. FOUCAULT, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979, Paris, Gallimard Seuil, 2004, p. 65.
52 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 237.
53 W. EUCKEN, Wettbewerb als Grundprinzip der Wirtschaftsverfassung, in G. SCHMÖLDERS (ed), Der Wettbewerb als Mittel volkswirtschaftlicher Leistungssteigerung und Leistungsauslese, Berlin, Duncker & Humblot, 1942, p. 44.
54 W. EUCKEN, Die Grundlagen der Nationalökonomie, p. 246.
55 F. BÖHM, Wirtschaftsordnung und Staatsverfassung, Tübingen, Mohr, 1950, p. 51.
56 F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata (1973-79), Milano, Il Saggiatore, 2000, pp. 413-14.
57 Ivi, p. 268.
58 M. RICCIARDI, Costituzionalismo e crisi. Sulle trasformazioni di un paradigma politico dell’ordine, «Giornale di storia costituzionale», 32/II, 2016, pp. 101-118.
59 Cfr. J. WALTHER, Prométhée enchaîné ou la puissance maitrisée. Le «lien génétique» entre droit privé et concurrence dans l’œuvre de Franz Böhm (1895-1977), in H. RABAULT (ed), L’ordolibéralisme, aux origines de l’école de Friboug-en-Brisgau, pp. 95-126.
60 F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, p. 78.
61 Ivi, p. 547.
62 K. POPPER, Per una teoria razionale della tradizione (1949), in K. POPPER, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 225.
63 A. RÜSTOW, Kulturtradition und Kulturkritik, «Studium generale. Zeitschrift für die Einheit der Wissenschaften im Zusammenhang ihrer Begriffsbildungen und Forschungsmethoden», 46/1951, p. 508.
64 W. RÖPKE, La crisi sociale del nostro tempo (1942), Torino, Einaudi, 1946, p. 61.
65 Sul concetto ordoliberale di comunità e le sue intersezioni con quello di Volksgemeinschaft cfr. H. RIETER – M. SCHMOLZ, The Ideas of German Ordoliberalism 1938–45: Pointing the way to a New Economic Order, «The European Journal of the History of Economic Thought», 1/1993, pp. 87-114.
66 A. RÜSTOW, Ortsbestimmung der Gegenwart. Vol. I: Ursprung der Herrschaft, p. 134.
67 W. RÖPKE, Civitas Humana, p. 101.
68 G. FERRERO, Potere (1942), Milano, SugarCo, 1981, pp. 325 ss.
69 B. SAUER, Neoliberalisierung von Staatlichkeit. Geschlechterkritische Überlegungen, in T. BIEBRICHER, Der Staat des Neoliberalismus, Baden-Baden, Nomos Verlag, 2016, pp. 153-181. Cfr. anche M. COOPER, Family Values. Between Neoliberalism and New Social Conservatism, New York, Zone Books, 2017, in particolare pp. 7-24.
70 W. RÖPKE, Civitas Humana, pp. 151-152.
71 U. BRÖCKLING, Das unternehmerische Selbst. Soziologie und Subjektivierungsform, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2007.
72 A. RÜSTOW, Wir fordern die Fundierung der Demokratie durch die Wirtschaftsordnung (1953), poi in A. RÜSTOW, Rede und Antwort, Ludwirgsburg, Martin Hoch, 1963, pp. 220-229.
73 L. WACQUANT, Der neoliberale Leviathan. Eine historische Anthropologie des gegenwärtigen Gesellschaftsregimes, in T. BIEBRICHER, Der Staat des Neoliberalismus, pp. 183-206.
74 A. RÜSTOW, Die staatspolitischen Voraussetzungen des wirtschaftspolitischen Liberalismus
(1932), poi in A. RÜSTOW, Rede und Antwort, pp. 249-258.
75 A. RÜSTOW, Hat der Westen eine Idee? (1957), poi in A. RÜSTOW, Rede und Antwort, pp. 165189.
76 M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale. Storia e trasformazione di un concetto, «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», 48/2013, pp. 75-93.

Tratto da Scienza & Politica V. 29, N. 57 (2017), DOI: 10.6092/issn.1825-9618/7551

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