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marxismoggi

Un socialismo possibile. Per aprire un dibattito - parte I

di Gianbattista Cadoppi

searching for the fourth dimensionAll’amico, compagno e maestro Domenico Losurdo[1].

Considerazioni sui sistemi socialisti in URSS, Est Europa e Cina

La formazione della teoria del socialismo alla cinese ha usato proprio il marxismo come linea di guida, facendo un bilancio dell’esperienza e delle lezioni dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo, e anche della stessa esperienza di costruzione del socialismo in Cina nel periodo ‘49-’78, prendendole come base per la formazione di questa teoria.
Huang Hua Guang, responsabile per l’Europa Occidentale del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Cinese (Ceccotti, 2010)

Il socialismo marxista differisce da altre impostazioni di tipo sociale come il fabianesimo[2] inglese che rifiutano il capitalismo esclusivamente per ragioni etiche. Il socialismo marxista dovrebbe superare i sistemi precedenti anche, e soprattutto, in termini di razionalità economica.

Nel marxismo la superiorità etica del socialismo va di pari passo con la sua superiorità economica. L’emancipazione umana nel socialismo diventa una premessa per liberare le forze produttive da obsoleti rapporti di produzione che devono essere superati per l’emancipazione dell’umanità. Tutto ruota attorno ai rapporti di produzione. In altre parole, la proprietà sociale dei mezzi di produzione dovrebbe garantire a ogni membro della società il diritto di un accesso equo alle decisioni concernenti il modo in cui i mezzi di produzione vengono impiegati e al modo in cui i frutti di tale impiego sono distribuiti. La proprietà sociale dovrebbe stabilire un rapporto adeguato tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La socializzazione dei mezzi di produzione renderebbe il lavoro direttamente sociale giacché nel capitalismo lo è solo indirettamente essendo mediato dal profitto individuale (Brus; Łaski, 1989).

Coloro che per primi s’interessarono all’economia politica del socialismo – Marx, Engels, Kautsky – vedono nella pianificazione e nella proprietà sociale una tendenza insita nella stessa evoluzione del capitalismo, in particolare in Germania, che va sempre di più verso il capitalismo monopolistico di stato. La tendenza in atto nell’Ottocento è l’accentramento del capitale in un relativamente piccolo numero di imprese che per il loro alto grado di monopolio possano prescindere dal mercato. Di conseguenza basta impossessarsi di questo sistema ormai giunto a maturazione. Una volta preso il potere la ripartizione dei compiti e dei beni sarebbe stata relativamente semplice. L’analisi della natura tendenzialmente anarchica, le perdite economiche e la disoccupazione durante le grandi crisi, caratteristiche tipiche del capitalismo, porta i fondatori del socialismo a essere diffidenti nei confronti del mercato. Engels però ricorda che il mercato non nasce con il capitalismo ma è vecchio di settemila anni. I padri fondatori del marxismo vedono le crisi economiche come crisi di sovrapproduzione e quindi stabiliscono un rapporto tra salari troppo bassi, prezzi troppo alti e i profitti che sono associati allo sfruttamento. Il mercato viene associato a fenomeni negativi come l’accumulazione di ricchezza e dunque contrari al socialismo. La regolamentazione altamente centralizzata dei salari e dei prezzi stabiliti amministrativamente è identificata con il socialismo e il mercato come la sua antitesi. Il progetto insomma ha un suo senso.

Il capitalismo, però, è stato capace di evolversi incorporando molti elementi del socialismo. Non altrettanto il socialismo o almeno non dappertutto. L’economia capitalista si è evoluta verso la complessità e la divisione del lavoro è diventata più dispersiva attraverso il lavoro individuale, le piccole aziende artigiane, le grandi aziende che creano un indotto di piccole e medie aziende nei distretti industriali e via dicendo.

Stalin ancora nel 1925 propone di dare la terra in affitto ai contadini per 10-20 anni, la classica riforma di stile denghista. Cosa lo porta a proporre solo pochi anni più tardi un passaggio brusco alla pianificazione integrale? La risposta sta nelle minacce concrete contro l’URSS da parte dei paesi imperialisti. Questa è la ragione per cui si deve procedere a tappe forzate verso la modernizzazione del paese per renderlo competitivo con le potenze capitaliste. Robert Davies ritiene che l’economia pianificata centralmente «sia emersa fondamentalmente come conseguenza della decisione di intraprendere una rapida industrializzazione, e che questa decisione, benché controversa, non era arbitraria ma profondamente radicata nella valutazione, da parte bolscevica, dei pericoli che minacciavano la debole economia sovietica in un mondo capitalistico ostile» (Davies, 2006: 277). La sfida fu vinta con la Grande Guerra Patriottica. Il modello si forma in un periodo di acuta crisi del capitalismo che sembra confermare la superiorità dell’economia pianificata. L’URSS degli anni trenta diventa il paradigma del modello economico del socialismo. Il modello si fonda sulla concentrazione dello sviluppo industriale nei centri urbani ed è basato sullo sviluppo estensivo: l’industria pesante prevale su quella leggera e dei servizi, con utilizzo dei surplus provenienti dall’agricoltura per gli investimenti; bassa rimane la produttività e qualità dei prodotti. Alla mancanza di efficienza sopperiscono l’ideologizzazione del lavoro e la mobilitazione permanente. La pianificazione si basa su bilanci materiali e assegnazione altamente centralizzata di compiti e risorse con relazioni monetario-mercantili di carattere meramente passivo. I pianificatori monitorano le risorse esistenti, individuano le esigenze e controllano i risultati della produzione. Questo sistema ha permesso una grande crescita con l’introduzione massiccia di nuove risorse nella produzione e ha permesso avanzamenti fondamentali nell’industrializzazione e nell’incorporamento di nuovi territori da sfruttare.

La concentrazione e centralizzazione delle risorse ha portato a un’accumulazione che è stata molto superiore a quella dei sistemi capitalisti in equivalenti stadi di sviluppo. Così, nel primo decennio di applicazione, ha permesso una forte crescita economica attraverso forti tassi d’investimento che condensano, in un tempo relativamente ristretto, uno sviluppo che nei sistemi capitalisti è stato fatto in un arco temporale molto più dilatato. Nel corso di tre o quattro anni avviene il raddoppio della quota del reddito nazionale destinata agli investimenti. Il livello di partenza è basso e ci sono poche priorità semplici come lo sviluppo dell’industria pesante in virtù del raggiungimento dell’indipendenza economica e della produzione di armamenti per la difesa dalle minacce di guerra. La concentrazione delle risorse in pochi settori strategici ha sempre funzionato sia nel sistema pianificato sia nel socialismo di mercato, si pensi allo stesso “socialismo di guerra” adottato dalla Germania nel corso della prima guerra mondiale che in un certo senso ispirò il comunismo di guerra sovietico[3]. In URSS siamo in presenza poi di condizioni favorevoli per l’industrializzazione accelerata. Una manodopera abbondante e giovane, liberata in poco tempo dalle occupazioni agricole a seguito della collettivizzazione delle terre e della meccanizzazione dell’agricoltura, si riversa nell’industria. C’è abbondanza, inoltre, di risorse naturali ancora non sfruttate. Inoltre le differenze tecnologiche negli anni Venti-Trenta tra i centri più sviluppati del capitalismo come gli Stati Uniti e quelli periferici come l’URSS non sono ancora enormi. Dalla fabbrica di trattori della Ford a Stalingrado escono prodotti qualitativamente non troppo differenti da quelli fabbricati in USA.

Il modello si sarebbe esaurito probabilmente già alla fine degli anni Trenta e la sua vitalità viene prolungata solo dalla guerra e dalla ricostruzione del dopoguerra. La guerra porta in Unione Sovietica, alla distruzione di 1.700 città e più di 70.000 villaggi. Vengono danneggiati 32 mila impianti, 65 mila km di ferrovia e 1.135 miniere. Si tratta di ricostruire quasi ex-novo buona parte della nazione. Nel 1950 l’industria sovietica supera i livelli raggiunti prima della guerra: in quell’anno il valore della produzione industriale e agricola aumenta del 73 per cento comparata ai livelli prebellici. Già nel 1938 si devono riformare le distorsioni del sistema dei prezzi nel settore dei mezzi di produzione e delle materie prime che si rivela inefficiente; Si accumulano perdite perché il modello economico si basa sulla fornitura di materie prime a buon mercato e macchinari per incoraggiarne il consumo, ciò porta alla scarsa redditività dei rami primari dell’economia. Lo schema ha comunque funzionato dimostrando che il modello centralizzato, sebbene renda possibili grandi realizzazioni, tende contemporaneamente a una riproduzione estensiva dell’economia. Superata questa fase i fattori economici che l’hanno favorito, tendono ad agire in senso contrario.

Una volta perso il vantaggio dato dallo sviluppo estensivo, in cui si può crescere semplicemente portando lavoratori dall’agricoltura alla più efficiente industria anche senza aumentare la produttività nei singoli settori, il modello ha cominciato a declinare. La pianificazione viene effettuata in termini generali per l’impossibilità di controllare in dettaglio un sistema che inizia a essere diversificato e complesso. La pianificazione implica una sorta di impresa-centro e l’impossibilità di un rapporto economico tra le imprese. Gli obiettivi del piano sono soggetti a fattori extra-economici per favorire la stabilità politica e dipendono dalla situazione internazionale. I prezzi sono designati dal pianificatore centrale, con motivazioni socio-politiche, non economiche. Spesso si arriva a sovvenzioni alla produzione e ai prezzi. Con i prezzi che in ogni caso coprono i costi maggiorati di un margine di guadagno e vendite garantite viene a mancare la spinta verso l’innovazione e verso la riduzione dei costi. Con la fine dello sviluppo estensivo, con la scarsità di nuove forze da immettere nella produzione, siano esse nuove terre in agricoltura, oppure nuovi lavoratori da portare dall’agricoltura all’industria, rallenta fortemente lo sviluppo. L’aumento dei costi dei fattori produttivi comporta una diminuzione dei tassi di crescita e anche un calo dell’innovazione tecnologica. I macchinari in Unione Sovietica si rinnovano solo ogni quaranta anni e mentre negli Stati Uniti tra gli otto e i dodici.

Umpierrez Sanchez fa un esempio illuminante sul funzionamento delle economie socialiste in assenza di mercato. Una società fabbrica un determinato trattore e le cooperative degli agricoltori sono costrette a comprarlo. Poco tempo dopo si rompe. Tuttavia, durante più di due anni si continua a produrre questi trattori inutilizzabili e le cooperative degli agricoltori continuano a comprarli. Se il rapporto di vendita fosse stato determinato dal mercato e non dal piano, le cooperative di agricoltori smetterebbero di comprare questi trattori una volta accertato che si guastano facilmente. Questo costringerebbe i costruttori ad adottare misure per la produzione di trattori meno fragili. Ancora più illuminante l’esempio fatto dal segretario del Partito Comunista Giapponese:

«Dopo la fine della guerra di aggressione Usa contro il Vietnam, i comunisti giapponesi inviano una delegazione per studiare l’economia vietnamita e dare consigli sulla ricostruzione. La delegazione ha visitato i distretti agricoli, dove si coltiva il riso. Per aiutare la meccanizzazione dell’agricoltura vietnamita, l’Unione Sovietica invia macchine per il trapianto del riso. Essendo un prodotto dell’economia pianificata sul modello sovietico, questi macchinari erano talmente pesanti che affondano nel fango delle risaie. I vietnamiti si sentono obbligati a utilizzare il dono e attaccano due barche su entrambi i lati della macchina per evitare che affondi. La giovane pianta di riso viene piantata ugualmente, ma appena piantata, rimane pressata dalle due barche. Alla fine i vietnamiti smettono di utilizzare le macchine» (Fuwa, 2003).

Nei sistemi socialisti europei nel lungo periodo si riduce il tasso di crescita del reddito, aumentano i costi in presenza di una produttività bassa e addirittura decrescente. Il calo del tasso di profitto impedisce nuovi investimenti nei settori del consumo. Il modello ha dimostrato ampiamente i suoi limiti nell’aumentare la produttività anche per l’assenza di stimoli, di un’efficiente allocazione delle risorse in mancanza d’informazioni adeguate e di una scarsa capacità di innovazione (Umpierrez Sanchez, 2007).

Il modello ha potuto reggersi ancora negli anni Sessanta-Settanta per via della forte accelerazione delle lotte antimperialiste nel terzo mondo e delle lotte nella stessa metropoli imperialista che suscitano una forte critica del modello capitalista. Ormai non si riesce più a nascondere il declino del modello sovietico soprattutto agli occhi disincantati della stessa classe operaia occidentale. Come avrebbe detto Berlinguer si era esaurita la spinta propulsiva del modello sovietico, almeno per i comunisti occidentali. L’URSS dal 1975 al 1985 entra in una fase di stagnazione e, addirittura dal 1984, di inarrestabile declino. La situazione critica dell’Unione Sovietica si verifica nel decennio (1975-85) in cui in Occidente è in pieno sviluppo la rivoluzione tecnologica basata sulle nuove tecnologie informatiche mentre in URSS la ricerca, sia per quanto riguarda le risorse sia per il personale umano, è concentrata nell’apparato militare-industriale ma non ai fini dell’applicazione alla produzione di beni di consumo. Tra l’altro non essendoci un vero mercato di consumo diventa complicato sfruttare le ricerche per scopi civili. Si investe in cannoni ma non nel burro, la conseguenza è la cronica scarsità di merci[4]. Le carenze dei paesi socialisti diventano decisive nella misura in cui la competitività del capitalismo si muove verso la creazione e l’applicazione delle conoscenze accelerando i cicli dell’innovazione tecnologica come ad esempio la rivoluzione nell’informatica e nelle telecomunicazioni. Oggi nella società della conoscenza la scienza diventa una forza produttiva diretta, contribuisce a superare le difficoltà nella crescita estensiva della produzione e della scarsità delle risorse naturali a livello globale e sostituisce in modo sempre più ampio la funzione umana nella gestione operativa della produzione. Per raggiungere tale elevata complessità la produzione richiede una crescente divisione sociale del lavoro e una precisa organizzazione della società. Marx ha predetto che inadeguati rapporti di produzione possono rallentare lo sviluppo delle forze produttive. Questo è vero non solo nel capitalismo ma anche nel socialismo. Al momento della crisi generalizzata dei sistemi socialisti europei la sfida principale del socialismo è di trovare un sistema di rapporti di produzione che risponda al grado di sviluppo del paese e dei processi internazionali cui deve necessariamente legarsi, e che, a sua volta, tale sistema permetta di avanzare verso una società più solidale.

Il capitalismo, sebbene attraversato da numerose crisi, ha trovato un modus vivendi operativamente efficace per stare nel mondo globalizzato. Il socialismo invece è un sistema con dei valori etici di giustizia sociale ma si può dire che non abbia ancora trovato un sistema di rapporti di produzione di efficacia operativa paragonabile o superiore a quella del capitalismo. Come direbbe Vilfredo Pareto l’importante è che la fede dei marxisti e quella degli etici trovino a conciliarsi con i risultati della scienza economica. Per la verità l’esperienza storica del socialismo insegna parecchie cose anche da questo punto di vista.

Il guaio è che nei paesi socialisti si era arrivati a un alto grado di socializzazione della produzione e si è pensato che ritornare al mercato e alla proprietà privata nei settori non strategici fosse un passo indietro perché la visione teleologica e rigidamente deterministica, ma non basata sulla prassi sperimentale, imponeva di procedere in una direzione obbligata.

Per la maggior parte della sua esistenza il sistema socialista ha formato un sotto-universo autonomo e in gran parte autosufficiente economicamente e politicamente. Tra le due guerre questo era stato, almeno relativamente, un vantaggio. L’URSS aveva risentito poco della generale crisi economica dato lo scarso inserimento nell’economia globale. Aveva però risentito del calo del prezzo del grano, di cui era esportatrice, che non le consentiva di importare macchinari per l’industria e l’agricoltura in misura adeguata. Per un paese agli albori dello sviluppo industriale è decisamente indispensabile la protezione della propria economia dalla concorrenza straniera. L’Impero Britannico impose il libero commercio all’India distruggendo la fiorente l’industria tessile locale. É valida la tesi di List e Prebish secondo cui l’industria nascente dei paesi emergenti deve essere protetta al fine di raggiungere gli standard tecnologici dei paesi avanzati. Questo non significa che ci si debba isolare dalla divisione internazionale del lavoro che permette vantaggi concreti proprio alle nazioni in via di sviluppo o comunque arretrate attraverso il meccanismo del vantaggio comparato e del basso costo della manodopera.

Negli anni Settanta soprattutto alcune delle economie socialiste hanno cercato di integrarsi in qualche modo nel mercato mondiale e proprio per questo sono state, in quanto anello debole, le prime vittime della crisi del capitalismo che invece ha resistito perché più idoneo al cambiamento e alla mutazione.

I sistemi socialisti mancavano di leve o strumenti di autocorrezione, ossia non hanno prodotto sul proprio cammino meccanismi sufficienti per affinare il modello di base. Ci sono stati tentativi di razionalizzare il sistema economico, per migliorare il funzionamento del sistema senza alterare la sua natura e mettere in causa il principio della pianificazione centrale. L’economia sovietica ha provato ripetutamente negli anni Sessanta e Settanta, a introdurre nuovi elementi attraverso il principio di decentramento della responsabilità finanziaria delle società. Ma il reale decentramento in un’economia complessa è un sistema di prezzi che riflette più o meno spontaneamente, le infinite operazioni tra i consumatori e i produttori che si producono nell’economia. Senza un sistema di prezzi determinati dal mercato, il decentramento della gestione alle imprese si limita al trasferimento della responsabilità alla periferia, ma non interviene sul criterio di assegnazione delle risorse.

Ogni famiglia in URSS ha il permesso di coltivare un appezzamento personale e di possedere una mucca e del pollame. Gli agricoltori delle aziende agricole collettive, eseguite le consegne obbligatorie allo stato, vendono la loro produzione privata sul mercato libero (il «mercato kolchoziano e sovchoziano») a prezzi fissati dalla domanda e dall’offerta. Questo settore privato o familiare era responsabile di una parte consistente della produzione alimentare della fattoria collettiva, o ogni azienda agricola statale come unità collettiva, poteva vendere i propri prodotti a prezzi regolati dalla domanda e dall’offerta. Ci sono poi negozi di stato che vendono merci di pro­duzione statale a consumatori privati a prez­zi fissati dallo stato; ne­gozi di stato che vendono merci usate a prez­zi fissati dal venditore. Dove manca il mercato spesso, soprattutto in un’economia della penuria, spadroneggia il mercato nero. Gradualmente, infatti, è emerso un mercato parallelo all’interno dell’economia pianificata dell’URSS. Nei mercati «neri», si commerciano beni statali acquistati al basso prezzo fissato dallo stato che vengono ri-venduti, speculando, a prezzo più elevato; vi si scambiano inoltre sia merci rubate, sia merci di produzione illegale come la droga. Il mercato nero fu l’unico a essere sistematicamente represso dopo l’epoca staliniana. C’erano anche i mercati «grigi», che riguardavano scambi non organizzati di merci usate e servizi privati. L’oggetto dello scambio andava dal bene di consumo più ordinario agli appartamenti, dai servizi personali ai materiali, dal carburante ai pezzi di ricambio, ad altri beni strumentali. Le aziende statali sono spesso ampiamente coinvolte nei commerci del mercato grigio che vengono, in genere, tollerati (Harrison, 2006: 34-35).

L’economia parallela in un primo tempo è stata un prodotto dell’autoconsumo e dell’economia naturale dei villaggi kolchoziani, del doppio lavoro, degli approvvigionamenti clandestini di macchinari e risorse di proprietà statale. In seguito, grazie alla tolleranza della gestione popolare brezneviana, questi fenomeni si sono andati consolidando in vere e proprie attività imprenditoriali, dedite alla produzione e al commercio, spesso di carattere speculativo o addirittura criminale. Inoltre, in questa seconda economia sono state coinvolte le stesse aziende statali, in virtù del compromesso brezneviano stipulato dal centro con i poteri locali delle comunità di lavoro. É in quest’ambito, infatti, che matura il più importante blocco d’interessi favorevoli all’affermazione del capitalismo (Melchionda, 2001).

I tentativi di riformare il socialismo sono stati parecchi: in Cecoslovacchia già nel 1958; il Nuovo Sistema Economico della DDR nel 1963: la riforma Kosygin-Liberman nel 1965 e la sua imitazione da parte della Bulgaria, in Polonia una prima volta già negli anni Sessanta.

Il modello chiamato “socialismo di mercato” è stato messo in atto per la prima volta in Jugoslavia, seguita da altri paesi quali l’Ungheria nel 1968 e la Polonia negli anni Settanta. Il modello aveva avuto uno dei suoi teorici in Ota Sik, l’economista del Nuovo corso di Praga. Questo modello chiede la piena autonomia delle imprese, pur mantenendo la proprietà statale dei mezzi di produzione e la guida della pianificazione dello Stato. É stato un tentativo di conciliare mercato e socialismo e preso in considerazione in due alternative di pianificazione e gestione aziendale: una autogestita (testata soltanto in Jugoslavia) e l’altra di gestione aziendale relativamente autonoma.

Marx sostiene che la fase iniziale dello sviluppo capitalistico in Europa occidentale è avvenuta attraverso l’accumulazione primitiva del capitale, la borghesia lo ha ricavato principalmente non tanto dal nascente lavoro salariato, ma piuttosto dai contadini e dalla depredazione semischiavistica delle colonie. Questa ricchezza si è trasformata in capitale e utilizzata per il finanziamento iniziale dell’industrializzazione europea. Un esempio di sfruttamento interno potrebbe essere la Tassa sulla Terra del 1873 nel corso del periodo Meiji in Giappone. In quel periodo si è mantenuto un livello eccezionalmente alto di sfruttamento dei contadini incanalando il surplus economico nella costruzione rapida del complesso industriale-militare giapponese. Il socialismo è andato al potere in paesi piuttosto arretrati a prevalente economia agricola. Ciò che questi paesi avevano davanti erano tre soluzioni. La prima quella di sfruttare i contadini come la stessa borghesia occidentale o giapponese aveva fatto o anche sfruttarli come se fossero un popolo coloniale come sosteneva Preobrazhensky. La seconda opzione era quella di importare capitali attraverso prestiti di stati, banche o istituzioni straniere. La terza infine era di creare le condizioni favorevoli agli investimenti diretti di capitale straniero. La prima opzione, sebbene riveduta e corretta, è quella scelta in un primo tempo da Stalin e da Mao ed ebbe la sua applicazione più radicale nel comunismo di guerra. La seconda fu scelta dai paesi dell’est Europa avviati verso il socialismo di mercato negli anni Settanta. La terza fu quella di Lenin della NEP e di Deng Xiaoping. Tralasciamo la prima opzione che meriterebbe un discorso a parte. Nella seconda opzione l’importazione di macchinari e tecnologia non avviene, come in Cina, a spese delle aziende che investono in loco, ma a spese dello stato, oppure come nel caso della Jugoslavia a spese delle aziende autogestite ma che sono garantite dallo stato, facendo esplodere il debito estero. Inoltre assieme alla tecnologia standard non viene importato il know-how avanzato delle imprese occidentali.

I paesi socialisti non possono competere con le imprese capitaliste che dispongono di un mercato mondiale mentre questi hanno problemi persino a commerciare tra di loro. Le imprese estere che investono in Cina, i mercati ce li hanno già favorendo l’accumulo di debito estero a favore della Cina anziché il contrario. Se le imprese statali non sono di fatto soggette alla concorrenza straniera, non hanno stimoli ad aumentare l’efficienza del lavoro. I dirigenti delle aziende pensano al loro tornaconto e ad allearsi con il capitale internazionale cosa che in parte viene tentata anche in Cina durante i moti di Tienanmen, quando i manager delle imprese statali (assieme ai capitalisti cinesi di Hong Kong) finanziano gli studenti che la sinistra radicale scambiava per novelli Che Guevara. L’inflazione galoppante innescata dal debito contribuisce, tra l’altro, ad accrescere la protesta sociale in Polonia come in Jugoslavia alla fine degli anni Ottanta; essa è stata anche la causa la scatenante dei fatti di Tienanmen, perché è socialmente iniqua e colpisce i ceti più deboli. La Cina ha potuto resistere proprio in virtù della maggiore solidità economica. Nell’est Europa la mancata ristrutturazione delle aziende decotte, il mancato sviluppo di aziende di base labour intensive non statali che dessero occupazione a chi la perdeva nelle aziende statali, ha impedito che lo stato si concentrasse sui punti strategici e ha compromesso l’aumento dell’efficienza e della redditività delle aziende statali. I dirigenti delle aziende cinesi invece sono stati premiati o penalizzati in base ai risultati che ottenevano.

Le riforme hanno uno scopo politico, rafforzare la legittimità del socialismo attraverso un maggior benessere stimolando i consumi con una maggiore tolleranza per le attività private. La crisi economica degli anni Settanta ha contribuito a peggiorare i problemi cronici dei paesi socialisti, che invece di adeguare le loro economie hanno scelto di prendere a prestito capitali dall’estero portando gli stati al default.

Il socialismo di mercato è fallito nell’est Europa. I cinesi hanno studiato a fondo questi modelli e ne hanno tratto proficue lezioni. I cinesi hanno elaborato un’ipotesi di lavoro ottenendo successi incredibili. Su questa base hanno elaborato una teoria che va bene per loro, non la vogliono esportare, ma in molti sono andati a studiarla e se ne sono appropriati. Per marcare la differenza tra i due tipi di socialismo di mercato basta dire che i cinesi, fino alla crisi del 2008, hanno perso più tempo a rallentare e razionalizzare lo sviluppo stesso, ovvero raffreddare l’economia, che non a ottenere le cifre iperboliche dello sviluppo che conosciamo. Tutto il contrario delle asfittiche economie dei paesi socialisti dell’Europa Orientale. Se non fosse stato così il socialismo in Cina sarebbe miseramente crollato.

L’URSS degli anni trenta si sviluppa in un periodo di generale crisi economica e sociale in Occidente e può sembrare un modello per chi propone di superare il capitalismo nei paesi occidentali. L’URSS staliniana rimane, ricordiamolo, uno dei successi maggiori dell’economia mondiale. Essa, forse più della Russia sovietica leninista che uscita stremata dalla guerra civile e che lo stesso Lenin ammetteva che non poteva essere presa a modello, influì moltissimo come ispirazione per lo sviluppo del movimento comunista mondiale.

 

La crisi dei sistemi socialisti

Un aspetto che deve essere preso in considerazione è quello concernente il rapporto instaurato tra i progetti di vita individuale e sociale. Fino agli anni cinquanta le trasformazioni economiche e sociali del socialismo hanno portato a una straordinaria mobilità sociale. Milioni di persone hanno beneficiano o della consegna dei terreni, dell’accesso all’istruzione, al lavoro, dell’alloggio; la maggior parte delle classi benestanti sono emigrate all’estero e i loro posti sono stati occupati da persone provenienti dal popolo; le donne hanno elevato la loro condizione nella società, una parte della popolazione è passata dalla miseria delle campagne a una vita sufficientemente buona nelle città, l’economia è cresciuta in modo accelerato e la gente ha avuti dei benefici. Per la stragrande maggioranza della popolazione è chiaro che i miglioramenti personali non erano stati raggiunti al di fuori del quadro del nuovo progetto sociale. Bisogna poi considerare che spesso la base sociale dei partiti comunisti dell’Europa Orientale, all’indomani della fine della guerra, era costituita da giovani. Venti anni dopo saranno altri giovani, che si vedono bloccata la strada dell’ascesa sociale dalla vecchia guardia, a contestare il regime. Durante il Nuovo Corso cecoslovacco la Pravda, organo del PC slovacco, scrive di una «crisi dei giovani sul piano socialista. La generazione romanticamente politica», ha scritto riferendosi a chi è entrato nella vita subito dopo, il 1945, «ha occupato i posti principali. Essendo giovane, ha bloccato queste posizioni per un periodo anormalmente lungo. Essa non ha ancora aperto la strada neppure alla generazione odierna» (Cadoppi, 2018b: 157).

Ancora alla metà degli anni Cinquanta le previsioni di buona parte degli osservatori sono favorevoli a una rosea prospettiva per l’economia sovietica. Il futuro premio Nobel per l’economia Paul Samuleson dimostra fiducia nella crescita sovietica. Un economista trotskista come Ernest Mandel nel 1956 sostiene che l’Unione Sovietica abbia dimostrato un ritmo di crescita costante e ritiene dunque superate le leggi dell’economia capitalista che provocano rallentamenti dello sviluppo. Isaac Deutscher prevede che nel giro di dieci anni l’URSS sorpassi l’Europa Occidentale. In realtà mentre nel primo piano quinquennale il tasso di crescita era del 19,2 per cento nel 1954-1959 diviene il 5,8 per cento; nel 1980-1982 si abbassa all’1,5 per cento mentre nei successivi anni il tasso di crescita è addirittura negativo.

I sistemi socialisti dopo gli anni Sessanta non reggono più il passo con la crescita dei paesi occidentali. Devono sempre di più fare i conti con la grande economia di consumo in Occidente mentre nell’est regna la scarsità, diventando un modello negativo per coloro che combattono per il superamento del capitalismo nell’Occidente stesso. Occorre dire che il capitalismo del welfare degli anni Sessanta non è più quello conosciuto nell’Ottocento contro cui avevano combattuto Marx e Lenin. Anche in virtù del ruolo di stimolo della Rivoluzione d’Ottobre si sono diffusi il suffragio universale e i diritti civili. I sindacati e i partiti socialisti e comunisti nell’Occidente hanno ottenuto notevoli successi per cui le condizioni della classe operaia non sono più quelle descritte da Engels nell’Ottocento. Si diffonde il benessere tra la popolazione. Nelle economie rigidamente pianificate siamo in presenza di un tenore di vita manifestamente inferiore a quello permesso dal grado di sviluppo dell’economia.

Un socialismo senza prestazioni economiche compatibili con le aspirazioni della popolazione rischia di fare pendere la bilancia verso l’individuazione di strategie personali per arrivare al benessere. Il liberalismo è una dottrina che ha un approccio inclusivo e anche “progressivo”, in cui tutti possono progredire e diventare milionari o possono acquistare i prodotti esposti nelle vetrine. Anche se statisticamente l’opportunità di diventare ricchi non è elevata per la stragrande maggioranza delle persone tutti sono a conoscenza di qualcuno che ha avuto successo. Se una persona non arriva a soddisfare i propri obiettivi nel capitalismo, la tendenza è pensare che ciò sia dovuto alla mancanza di capacità personali piuttosto che per colpa del sistema (Gonzales, 2003). Nel socialismo si tenderà a dar la colpa al sistema, dato che non c’è altra alternativa, soprattutto non ci sono molte possibilità di emersione individuale. Inoltre, le disuguaglianze, i privilegi e anche gli aspetti negativi dei sistemi liberali non sono giustificati in sé, ma da principi che possono essere largamente accettati come la difesa della libertà individuale, la tutela della proprietà ecc.

Nell’Occidente capitalista come nell’Oriente (europeo) socialista si è stati incapaci di creare o immaginare un sistema economico-sociale migliore del capitalismo; migliore per capacità di produrre ricchezza e di soddisfare i bisogni. Migliore, quindi, anche per le classi lavoratrici. Il che vale per gli operai occidentali come per quelli sovietici o dei paesi dell’est. La classe operaia è sostanzialmente rimasta passiva, quando non ha festeggiato come una liberazione, almeno all’inizio, la restaurazione del capitalismo ordoliberista.

Nei paesi capitalistici avanzati anche le classi popolari hanno qualcosa da perdere dalla crisi del sistema: la casa, la pensione, il lavoro e via dicendo. Paradossalmente avevano molte più cose da perdere dei loro fratelli dell’est Europa, sebbene alla fine anche questi hanno perso, almeno all’inizio, il poco che avevano.

Negli Stati Uniti il consumo complessivo individuale costituiva il 68,6 per cento dell’economia nel 1991. Nella ex Unione Sovietica solo il 55 per cento. La sottovalutazione dei settori economici orientati al consumo ha fatto sì che la produttività del lavoro e la redditività dei capitali investiti fossero compromesse. Queste economie non si sviluppano nei settori dell’economia mondiale a più rapida espansione, che non sono quelli della siderurgia o degli armamenti, ma quella dei beni di consumo o dell’hi tech. Ciò ha anche compromesso il settore del commercio poiché gli investimenti nell’industria pesante richiedono capitali più elevati per unità di prodotto di quella leggera e dunque rendono più difficile creare industrie in grado di competere nell’economia mondiale. Inoltre spesso si sottovaluta l’influenza dei brand quali Mc Donald, Apple ecc. che, assieme ad Hollywood, diventano degli autentici ambasciatori del soft power complessivo dell’America.

Uno studio condotto negli anni Novanta ha dimostrato che le aspirazioni dei consumatori, sia in Europa orientale nel periodo socialista che nella Cina pre-riforma, sono frustrate e ciò indipendentemente dal loro livello di reddito. La fornitura di molti beni è irregolare, la loro carenza è la normalità; i consumatori, spesso affrontano lunghe code per acquistare i beni disponibili. Così non c’è solo un basso livello di efficienza nell’allocazione delle risorse reali a favore dei beni di consumo, c’è anche una sostanziale domanda insoddisfatta tenuto conto dei livelli di reddito. Anche l’eventuale aumento degli stipendi, siccome c’è ben poco da comprare, non contribuisce all’incentivazione della produttività dei lavoratori che non sanno che farsene dei soldi che guadagnano. La stessa economizzazione del tempo di lavoro non incide poiché, in ultima analisi, non va a influire sulla diminuzione del prezzo delle merci e non porta dunque a maggiori consumi.

La contraddizione principale, come è stata individuata magistralmente da Deng Xiaoping, è tra i bisogni della gente e l’arretratezza delle forze produttive. In definitiva la socializzazione spinta che in un primo tempo ha funzionato nel concentrare le risorse per uno scopo è diventata una catena per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive e dunque del benessere.

Il passaggio alla priorità della produzione di beni di consumo è impossibile da realizzare senza mercato. La struttura della domanda dei consumatori è assai diversa da quella dell’industria pesante, poiché richiede una rete di milioni di piccole unità di produzione. Una vasta rete di piccole aziende, negozi, laboratori e produttori di beni di consumo non si creano amministrativamente ma solo mediante meccanismi di mercato. Lo sviluppo dell’industria pesante ha potuto essere effettuata da Stalin amministrativamente perché comporta la concentrazione delle risorse in un numero relativamente piccolo di unità di ben delimitati settori industriali per scopi specifici come quello di rafforzare l’esercito in vista della guerra. Amministrativamente è, però, impossibile creare milioni di piccoli produttori e servizi per i consumatori.

Mancava anche libertà fondamentali come quella di viaggiare o emigrare, di studiare all’estero, di usufruire degli elementi di consumo culturale del resto del mondo come film, musica ecc. La stagnazione economica unita alla seduzione del consumismo occidentale ha portato alla distruzione del socialismo in Europa. I paesi dell’Est Europa sono soggetti a un paese con uno scarso appeal come l’Unione Sovietica.

L’appeal era alto quando l’Unione Sovietica riusciva a superare indenne la crisi del 1929, dati gli scarsi agganci con il resto dell’economia mondiale, oppure nell’immediato dopoguerra quando risultava essere la liberatrice dell’Europa dal nazifascismo. Spesso, però si sottovaluta l’influenza del soft power americano con Hollywood che in breve tempo è riuscita a far credere che l’Europa sia stata liberata dall’Esercito americano invece che dall’Armata Rossa. Complice in questo caso quello straordinario atto di auto-diffamazione che fu il rapporto al XX Congresso di Krusciov che descrisse la vittoria sul nazismo come opera di mentecatti che costruivano i piani di battaglia sul mappamondo. Già dal Piano Marshall è chiaro che il paese dell’abbondanza non è certo l’Unione Sovietica, uscita stremata dalla guerra, ma sono gli Stati Uniti in piena sovrapproduzione. L’allarme sulla crisi imminente è dato dalla rivolta di Budapest nel 1956.

 

Il socialismo oggi

Ciò che bisogna dimostrare è che un sistema alternativo e migliore del capitalismo sia possibile. In altre parole c’è bisogno di un progetto socialista credibile e più appetibile di quanto sia stato l’esperimento sovietico. In Occidente un tale progetto non è ancora delineato. Il sistema cinese ha uno scarso appeal in Occidente mentre, indubbiamente, lo ha nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Le esortazioni etiche e la difesa dei ceti impoveriti possono non avere il richiamo dovuto nemmeno per la classe operaia. Il marxismo esige che il superamento del capitalismo non sia solo una scelta di principio ma una possibilità reale, basata su una teoria scientifica. Inoltre pretende che il superamento avvenga in positivo, verso una maggiore ricchezza. La decrescita è sempre infelice come abbiamo sperimentato in Italia dopo la crisi del 2008.

Il socialismo sopravvive oggi nei paesi meno sviluppati; s’inserisce in una predominante economia capitalistica internazionale, e può prosperare egregiamente, grazie a un uso ampio delle relazioni commerciali, monetarie e dei meccanismi di mercato. Cina, Vietnam, Laos dimostrano con i loro straordinari risultati che ciò è possibile, ma non sono ancora concorrenziali, in termini di soft power, con il modello occidentale. Per lo meno non lo sono in Occidente.

Molti dimenticano che lo stesso socialismo di mercato non è una novità assoluta nei paesi socialisti. Anche questo fa parte di questa esperienza storica. É significativo che molti economisti abbiano pensato già dagli anni Cinquanta al socialismo di mercato come a una alternativa a quello rigidamente pianificato. La discussione viene avviata principalmente in Jugoslavia e nella Polonia di Gomulka, segue l’Ungheria mentre Germania Est e Cecoslovacchia rimangono attardate. Ma si potrebbe persino pensare agli albori delle Democrazie Popolari. Analogamente a ciò che avveniva in Cina, scrive l’economista di origine ungherese Evgenij Varga:

«Il regime sociale di questi stati si differenzia da tutti gli stati da noi conosciuti finora: è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia dell’umanità […]. (In essi) “esiste il sistema della proprietà privata sui mezzi di produzione; ma le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito sono nelle mani dello stato e lo stato stesso e il suo apparato di repressione non servono gli interessi della borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori”» (Varga, 1947)[5].

Quelle di Varga sono proposte simili a quelle avanzate da Mao[6] per il governo di coalizione e il Togliatti della Democrazia Progressiva. Dunque le idee non mancavano. Ciò in cui si sbagliò fu nel pensare che in paesi come quelli dell’est, che avevano subito una rifeudalizzazione, fossero sufficienti pochi anni per passare a obbiettivi socialisti avanzati.

Nel 1956, dopo l’introduzione dell’economia pianificata in Polonia, il Consiglio economico, cioè un ente governativo, si dichiarò a favore del modello “decentrato”. Mentre, in Ungheria, nel corso degli anni Cinquanta, le raccomandazioni della Commissione economica a favore delle riforme di mercato sono state respinte perché contrarie ai principi fondamentali del socialismo (Bjarnason, 1997).

Il Nuovo Meccanismo Economico, introdotto in Ungheria nel 1968, ha rappresentato la rottura più significativa dal sistema classico della pianificazione centralizzata nei paesi del blocco sovietico e sull’allocazione amministrativa delle risorse, sostituendo il sistema di piani obbligatori con controlli indiretti su aziende di stato in conformità a indicatori finanziari e incentivi. In questo caso però rimangono i difetti di efficienza delle imprese anche perché queste non sono messe in concorrenza nel libero mercato e perché lo stato si ostina a tenersi quasi tutto l’apparato economico senza arrestare il declino dell’efficienza economica. L’operazione si traduce in maggiori poteri ai manager che utilizzano la loro autonomia d’azione per gestire le imprese più per il loro tornaconto che per lo stato. Essi si orientano verso il mercato internazionale che rende possibile l’accaparramento da parte dei manager di valuta forte e l’accesso a beni di lusso preparando inoltre il terreno alla privatizzazione che è dunque dovuta al mancato successo delle riforme e non tanto all’introduzione del “mercato”.

Le statistiche sul PIL indicano un’accelerazione della crescita ungherese all’indomani dell’introduzione del Nuovo Meccanismo Economico: il tasso medio annuo di crescita in termini reali sale dal 4,1 per cento nel 1961-65 al 6,8 nel 1966-70 e 6,3 nel 1971-5, crollando più tardi al 3,2 nel periodo 1976-80 e al 1,4 nel 1981-5. Sostanzialmente i periodi di accelerazione e di rallentamento della crescita in Ungheria seguono da vicino quelli del resto dell’Europa orientale in cui non sono state fatte le riforme. Il rallentamento dell’Ungheria è semmai più pronunciato, con un 3,2 per cento di crescita annua nel 1976-80 contro una media di 3,8 dell’Europa orientale e 1,4 nel 1981-5 contro 2,4. Solo l’agricoltura ha indici più favorevoli rispetto agli altri paesi orientali, ma si tratta di un settore in gran parte non statale (Brus e Łaski, 1989: 64-65).

In Polonia viene introdotta nel 1971 la “nuova strategia per lo sviluppo”, che si basa su forti prestiti esteri e l’importazione di tecnologia occidentale. Il tasso di crescita degli investimenti in capitale fisso sale a una media del 21,3 per cento l’anno durante il 1972-75, rispetto a un tasso medio annuo di circa il 7,6 per cento durante gli ultimi 15 anni. La quota delle importazioni di macchinari e attrezzature provenienti dai paesi non-socialisti e le importazioni totali in macchinari e attrezzature passa da una media del 21,2 per cento nel 1961-71 a una media del 43,3 per cento nel 1972-76, raggiungendo un picco del 52 per cento nel 1975 (Bjarnason, 1997).

Per finanziare queste importazioni, la Polonia riceve dalle banche occidentali 38,6 miliardi dollari di credito a medio e lungo termine tra il 1971-80. Tuttavia, il trasferimento di tecnologia occidentale non ha raggiunto gli obiettivi prefissati di aumentare le esportazioni industriali in Occidente. L’onere del debito, in compenso, diventa così grave che la strategia viene abbandonata nel 1976 e sostituita dalla “Nuova Manovra Economica” che impone una drastica riduzione del tasso di investimenti e nella crescita delle importazioni in valuta forte. Il tasso di crescita degli investimenti nel 1976-78 crolla al 2 per cento. Solo verso la fine degli anni Ottanta il deficit commerciale con i paesi occidentali è stato ridotto notevolmente, da 3 miliardi di dollari nel 1975 a 70 milioni di dollari nel 1989.

Nel 1980, il debito estero della Polonia arriva alla cifra record di ventiquattro miliardi che determina il fallimento della strategia di sviluppo basata su crediti occidentali. Mentre paradossalmente le economie centralizzate sono riuscite a ridurre gli oneri del loro debito internazionale: la Cecoslovacchia e la Romania seguono, infatti, una politica di crescita lenta e ripagano i debiti negli anni Ottanta, con tassi di crescita del PIL in media del 2,7 per cento e il 4 per cento, rispettivamente, tra il 1977-86.

Con il debito internazionale fuori controllo la Polonia, nei tardi anni Ottanta, soffre di un’inflazione enorme. Durante il periodo 1977 al 1986, la Polonia raggiunge solo l’1,4 per cento nel tasso di crescita medio del PIL, il livello più basso tra tutti i paesi del Comecon. In Ungheria, l’accumulo del debito estero porta a negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI) per l’attuazione di un programma di stabilizzazione nel 1982-83. Questo programma, tuttavia, aggrava ulteriormente l’onere del debito, che aumenta di nuovo all’inizio di 1985. L’Ungheria supera la Polonia raggiungendo il secondo più basso tasso di crescita medio del PIL – 2,5 per cento – nel Comecon tra il 1977-86 con il massimo livello di indebitamento pro capite.

Il mancato sviluppo di un mercato socialista è stato responsabile anche dei fallimenti del commercio tra i paesi socialisti. A dispetto dei più elementari principi di economia tutto il commercio è condotto in modo bilaterale. Le banche scambiano le proprie valute con quelle di qualsiasi paese capitalista e viceversa, ma non accettano lo scambio delle valute con altri paesi socialisti, tranne nei negoziati commerciali governativi. Se la Polonia, per esempio, vuole vendere i prodotti agricoli in Cecoslovacchia, ottiene in cambio valuta ceca, che può venire utilizzata solo per acquistare beni cecoslovacchi. Dal momento che di rado accade che la Polonia abbia bisogno di merci cecoslovacche l’eccesso di moneta ceca non può essere speso altrove: tutti i paesi socialisti si sono trovati in possesso di grandi somme inutilizzabili delle rispettive valute. Si tratta di un ritorno al passato, quando l’unica forma di scambio era il baratto tra tribù vicine. Un tentativo è stato fatto nel 1970 per porre rimedio a tale situazione con l’introduzione del rublo trasferibile per lo scambio di moneta comune per tutti i paesi socialisti, ma solo per quanto riguarda i beni di investimento. Non è mai avanzato al di là di quel punto e tutte le economie socialiste ne hanno subito le conseguenze (Lebowitz, 2004).

 

Il primo sintomo evidente della crisi delle democrazie popolari: il Nuovo Corso cecoslovacco

Ricorre il cinquantesimo anniversario del Nuovo Corso cecoslovacco del 1968. Questo fu uno dei primi sintomi della crisi del socialismo nell’Est Europa. Non c’è dubbio che i riformatori segnalassero i punti critici del sistema sebbene le soluzioni proposte sembrassero discutibili.

Certe posizioni del gruppo dirigente cecoslovacco destano molti dubbi anche all’interno dell’ala più aperta del PCI. Il giudizio di Luciano Barca dopo una discussione con Ota Sik, nonostante la simpatia personale, non è positivo: «Lo colpiscono la mancanza di “senso politico” ma anche le “posizioni da FMI”, che giungono fino a “follie ultraliberiste” e rischiano “di scatenare contro gli innovatori tutta la classe operaia”. Kohoutek e Broz, vice-responsabile dell’Organizzazione, appaiono più consapevoli dei problemi, dai contrasti tra le nazionalità alla “spaccatura tra intellettuali e classe operaia”» (Höbel, 2018). Il programma si basa sulla «riorganizzazione di alcuni settori produttivi» che comporterà «riduzioni anche sensibili del numero di occupati o almeno spostamenti anche notevoli di mano d’opera»; il che suscita preoccupazioni tra lavoratori e quadri. Il problema è la compattezza dello schieramento politico perché sembra, cosa rilevata anche da Longo nei suoi colloqui a Praga, che strati importanti della classe operaia e dell’apparato statale oppongano resistenza.

Afferma Dubcek: «Una certa tendenza democratica, vale a dire possibilità eguali per tutti, è propria di un’economia di mercato intesa in senso puro; ma, con il capitalismo, essa è cancellata dalla potenza del capitale privato […]. Noi pensiamo di poter sfruttare quella potenzialità dell’economia di mercato nelle condizioni del socialismo, ricollegandola con i principi democratici che sono propri della società socialista, poiché essa ha abolito la proprietà privata del capitale; in questo modo, possiamo creare qualche cosa che non è realizzabile in nessuna società che non sia socialista» (“l’Unità”, 31 marzo 1968; Höbel, 2018).

Si vuole assicurare un maggior ruolo al mercato nel quadro di un piano che non si propone più di sostituirsi alle imprese dandogli ordini quantitativi, ma le rende protagoniste attive, obbligandole a misurarsi col mercato indirizzati dal piano. Per Barca si sta risolvendo il rapporto tra piano e mercato verso un ruolo nuovo per quest’ultimo. Una nuova qualità del mercato per soddisfare bisogni che nel mercato capitalistico non entrano nella “domanda effettiva”.

Longo assiste a un’assemblea con Ota Sik che «dà un giudizio molto severo sulle scelte del precedente gruppo dirigente: l’applicazione meccanica del modello sovietico, con la priorità assoluta allo sviluppo dell’industria pesante ha provocato “un decadimento della produzione di beni di consumo”; la scarsa cura della produttività del lavoro e dei costi di produzione hanno fatto il resto, indebolendo l’economia cecoslovacca. Ora occorre riconvertirla verso lo “sviluppo di settori più moderni e avanzati”, dando alle aziende “ampi poteri decisionali” e puntando sulla produttività e una certa mobilità del lavoro e la razionalità del calcolo costi/benefici; dei “costi sociali” dovrà farsi carico lo Stato, evitando che si creino “sacche di disoccupazione o riduzioni salariali”» (Höbel, 2018).

Ota Sik sottolinea le deficienze del modello di sviluppo di tipo sovietico, partendo dalla constatazione dei limiti della pianificazione centralizzata, poiché il piano centrale non può in alcun modo garantire che tutte le aziende producano milioni di articoli diversi nelle quantità e qualità necessarie; che le possibilità produttive siano utilizzate e indirizzate nella maniera più efficace; che la produzione venga costantemente sviluppata e rinnovata. In Cecoslovacchia, nella seconda metà degli anni Sessanta la pianificazione arrivava a prevedere la produzione di oltre 1,5 milioni di beni differenti!

La soluzione per ridare slancio all’economia e battere la tendenza all’esaurimento della crescita viene individuata nell’introduzione di meccanismi di concorrenza e di mercato.

Il documento riporta l’idea di Ota Sik che «le nostre imprese devono subire una maggiore pressione da parte del mercato interno e mondiale. La posizione di monopolio delle imprese deve essere sostituita dalla concorrenza, ottenuta all’interno o mediante il commercio estero)». Dirà alcuni anni più tardi Ota Sik: «Senza mercato non può esistere né un interesse dei produttori verso la domanda, né un interesse per lo sviluppo e l’utilizzazione ottimali delle forze produttive nelle aziende. Senza mercato e senza una concorrenza almeno potenziale, opera nelle aziende un meccanismo decisionale basato sull’arbitrio; la pianificazione avviene presso gli organi centrali dello stato in forma burocratica e con inevitabili errori» (Sik, 1974).

 

L’esperienza jugoslava

La Jugoslavia è indubbiamente un importante case study poiché vi vengono implementate tutte le varianti possibili del socialismo, dalla pianificazione di stampo sovietico, al socialismo di mercato, all’autogestione radicale. La Jugoslavia è stata anche un caso di paese socialista di successo per cui è estremamente importante studiarla. La Jugoslavia, tra il 1953 e il 1960, ha registrato il più alto tasso di crescita del mondo. La produzione industriale cresce del 13,4 per cento l’anno e il PIL dell’8,9 per cento. Dal 1960 al 1980 la Jugoslavia, tra i paesi a reddito basso e medio si trova al terzo per reddito pro-capite. La produzione industriale cresce in quegli anni dell’8,8 per cento e il PIL del 7 per cento l’anno; negli anni Settanta del 7,5 per cento e del 6 per cento rispettivamente; nel 1980, la produzione industriale è aumentata dell’80 per cento rispetto al 1970.

Ancora nel 1950 la Jugoslavia è un paese sottosviluppato con più del 50 per cento della popolazione dedita all’agricoltura. Le condizioni di vita in miglioramento, pur variando da repubblica a repubblica, stimolano i consumi e il mercato immobiliare. Nel 1976 la Slovenia può godere di un livello di vita paragonabile a quello austriaco e la Jugoslavia nel suo complesso pari a due terzi di quello italiano (Schweickart, 2006).

La crescita economica della seconda metà degli anni Cinquanta porta anche a forti aumenti salariali (13 per cento nel 1957 sull’anno precedente) per un valore del 4-5 per cento annui al netto dell’inflazione, tra il 1957 e il 1961. Gli stipendi sono ancora indubbiamente bassi, molto diffuso è il secondo lavoro (specie in agricoltura) e indispensabili sono gli assegni familiari. L’indice Engel[7], mostra che le spese per l’alimentazione sono solo il 55 per cento delle spese totali delle famiglie operaie. Migliora anche la qualità delle merci a cominciare da quelle alimentari e anche quelle di utilizzo quotidiano come elettrodomestici ecc. Tra gli indubbi successi del paese la prevenzione antinfortunistica e la sicurezza sul lavoro.

In Jugoslavia, come del resto nelle altre “Democrazie popolari” vi sono delle difficoltà obiettive a trasportare meccanicamente il modello sovietico. É un problema che lo stesso Stalin intravvede, secondo quanto ci dice Dimitrov nel suo diario. In un primo tempo si segue il modello sovietico fondato sulla pianificazione di indici fisici in cui le categorie monetarie giocano un ruolo essenzialmente contabile e non attivo. Perdite e benefici sono pianificati e i prezzi non influiscono sulle scelte dell’azienda.

Con la rottura tra Mosca e Belgrado nel 1948, gli jugoslavi tendono a distinguersi da quella che era la casa madre sovietica elaborando un nuovo modello di socialismo. Secondo la dirigenza jugoslava la proprietà statale intesa come proprietà della classe è una forma indiretta di potere della classe operaia perché, di fatto, la classe non esercita direttamente il proprio controllo sulle aziende, sull’economia e sulla politica. Questa forma centralizzata riprodurrebbe addirittura l’alienazione della classe operaia ovvero la separazione della classe operaia stessa dai mezzi di produzione e dai prodotti del proprio lavoro. La forma classica dell’autogestione è la forma cooperativistica dove la proprietà non è degli operai in quanto classe ma dei lavoratori occupati nella singola azienda. Secondo il punto di vista deterministico e meccanicamente evolutivo del marxismo di quel periodo, la cooperazione è una forma di proprietà sociale “incompiuta” e dunque, deve essere superata. La critica a questo modo di vedere non è del tutto ingiustificata. Per gli jugoslavi la classe operaia in sé deve trasformarsi in classe operaia per sé e dunque il potere non deve essere gestito in nome del proletariato. In questa direzione lo stesso Partito Comunista Jugoslavo cambia nome e diventa Lega dei Comunisti per sottolineare che non si trattava più di un’avanguardia distaccata dalla classe ma uno strumento di esercizio del potere da parte della classe stessa. Gli jugoslavi riprendono la polemica di stampo bordighista sul cosiddetto capitalismo di stato e quella trotzkista sul potere dispotico della burocrazia.

Per i teorici jugoslavi sembra che il problema sia chi amministra il surplus del lavoro e chi se ne impossessa. Se lo fanno direttamente i lavoratori oppure qualcun altro come il capitalista privato per suo conto e a proprio nome oppure se sia il capitalista di stato per suo conto ma a nome del proletariato. In effetti, la cosa non è posta male poiché Marx non è contro il surplus in sé ma contro la sua appropriazione privata. Per Kardelj, il massimo teorico dell’autogestione, il mercato è solo un mezzo tecnico (anche Stalin sarebbe stato d’accordo) e non il padrone dell’economia. Egli riconsidera anche categorie come la rendita, il profitto e la contabilità economica che sono comunque presenti nell’economia socialista ma che i marxisti ortodossi di scuola sovietica non chiamano con il loro vero nome. Secondo i dirigenti jugoslavi le economie rigidamente pianificate, che dovrebbero essere il massimo della razionalità economica, finiscono con l’essere irrazionali dittature dell’offerta che limitano la libertà di scelta dei lavoratori-consumatori. La pianificazione è comunque una creazione soggettiva e tutt’altro che infallibile. Inoltre l’autogestione sarebbe più sensibile alla domanda effettiva del mercato in quanto più flessibile ed efficiente della pianificazione centralizzata.

L’autogestione come sistema inizia nel 1950, anche se già prima erano funzionanti i Consigli dei lavoratori. Tra il 1953-64, è in vigore una variante autogestionaria della pianificazione decentralizzata (come fu realizzata anche in Ungheria e nell’ultimo periodo in URSS) che produce l’articolazione del piano, del mercato e dell’autogestione in seno alla pianificazione. L’introduzione dell’autogestione non significa lo smantellamento totale della pianificazione ma questa viene ristretta ad alcuni strumenti economici: prezzi, crediti, salari e fisco che trasmettono le preferenze dei panificatori e rimpiazzano gli ordini amministrativi. I margini di responsabilità dell’impresa sono ampliati ma la gestione operativa è subordinata alle grandi opzioni strategiche pianificate.

L’autonomia della gestione delle imprese viene rafforzata tra il 1953 e il 1963 con l’ampliamento dell’autogoverno locale a cui passano buona parte delle competenze dello stato. I dirigenti delle imprese dovranno rendere conto al Consiglio dei lavoratori invece che ai ministri dello stato. Nella prima fase di transizione all’economia di mercato il governo controlla gli investimenti, questa politica viene abbandonata per il formarsi di un’opposizione generalizzata a ogni intervento del governo. Ciò è in contrasto sia con l’esperienza giapponese sia con quella successiva cinese di un grande interventismo dello stato nazionale. La richiesta di sempre maggiore autonomia viene dallo stesso Congresso dei Consigli dei lavoratori che nel 1957 reclama: «[...] non abbiamo abbastanza potere per prendere decisioni. É necessario rimuovere i regolamenti statali che restringono l’indipendenza delle imprese. In particolare, dobbiamo promuovere ulteriormente l’iniziativa di lasciare più soldi nelle imprese, permettendo loro di fare più investimenti. Vale a dire, abbassare le tasse. Lasciate che le imprese investono di più e lo stato di meno» (Piccin, 2004).

Si apre comunque una lotta tra “conservatori” e “riformisti”. I primi sono diffidenti verso la maggiore autonomia delle imprese e danno la priorità agli investimenti in agricoltura per diminuire la dipendenza dall’estero che influisce negativamente sulla bilancia commerciale. I riformisti prevalgono e dopo una falsa partenza all’inizio degli anni Sessanta. Con la Costituzione del 1963 l’autogestione diventa un diritto. Dopo una parentesi di riassestamento nel 1965 viene ripresa la strada delle riforme con la possibilità anche di costruire imprese private di piccole dimensioni. Dal 1965 la Jugoslavia passa a un vero e proprio socialismo di mercato, dove il mercato diventa il regolatore dell’economia. Il piano assume una funzione secondaria, di orientamento attraverso lo strumento del credito erogato per l’applicazione di obiettivi pianificati che prendono il posto degli ordini diretti. La pianificazione viene decentralizzata, la gestione operativa dell’azienda si decentralizza e aumentano i margini di responsabilità dell’impresa. L’efficienza deve essere perseguita con l’introduzione di un arbitro neutrale come il mercato e viene varata in un contesto di espansione economica internazionale. Si procede al progressivo smantellamento degli strumenti di pianificazione (controllo sui prezzi, sistema bancario decentralizzato, assieme ai fondi di investimento) con l’apertura alla competitività internazionale. Le aziende autogestite hanno ampia autonomia e possono così prendere decisioni su prezzi, investimenti e assunzioni. La formazione dei prezzi dei mezzi di produzione e mezzi di consumo è affidata principalmente al processo di decisione relativamente autonomo delle singole unità produttive di proprietà collettiva. Anche le singole repubbliche che costituiscono la Federazione diventano più autonome nel tentativo di portare il potere decisionale verso la base e coinvolgere maggiormente i cittadini nella vita sociale con l’effetto di avvicinarli alle istituzioni. Gli organi locali e le aziende ormai amministrano la maggioranza assoluta dei fondi consentendo maggiore flessibilità degli investimenti. La riforma è strutturale. I prezzi di beni e servizi liberalizzati sono stabiliti dalle leggi di mercato. Cambia il sistema di prelievo fiscale per le aziende, più libere di disporre delle risorse economiche prodotte. La pianificazione centralizzata degli investimenti aveva portato a sprechi per la non corretta allocazione degli investimenti, come la costruzione della tipica cattedrale nel deserto ovvero l’acciaieria di Nikšić in Montenegro fuori dalle vie di comunicazione senza ferrovia né strade asfaltate. Si cerca di passare dallo sviluppo estensivo a quello intensivo chiudendo le cosiddette “fabbriche politiche” tenute in piedi solo per dare del lavoro alla manodopera locale, puntando sulla qualità della produzione con la riduzione dei nuovi investimenti allocati in modo più efficiente. Dal 1963 al 1974 i fondi di investimento passano progressivamente dallo stato, che perde influenza sugli investimenti, a favore del sistema bancario autogestito. La Federazione mantiene il potere di controllo e di emissione della carta moneta attraverso la Banca nazionale. L’autofinanziamento e il credito bancario diventano la regola per gli investimenti e le imprese che così possono procacciarsi autonomamente i finanziamenti di cui necessitano. Si auspica che la maggiore competitività porterà a una migliore integrazione con i mercati mondiali con la possibilità di acquisire dall’estero tecnologia e semilavorati.

Si va verso la creazione di un mercato del lavoro con l’accettazione della disoccupazione come male necessario. Alcune obiezioni dei conservatori potevano essere anche giuste dato che con un’autogestione spinta si lascia troppa autonomia ai lavoratori che potrebbero scegliere di aumentare i salari a scapito degli interessi collettivi. I riformisti replicano legando i salari alla produttività fiduciosi che i lavoratori vengano stimolati a una sorta di patriottismo aziendale dipendente appunto dalle sorti e dal successo dell’azienda. La differenziazione dei salari è legata alla produttività e quindi possono variare sensibilmente anche da zona a zona, ma persino tra lavoratori con la stessa qualifica che lavorano in aziende diverse oppure nella stessa azienda. Il decentramento intacca la capacità di controllo macroeconomico, vengono sempre più a mancare gli strumenti per bilanciare le inevitabili disuguaglianze sorte dal mercato.

Le imprese diventano via via sempre più autonome dallo stato tanto che David Granick sostiene che, negli anni Settanta, abbiano un’autonomia paragonabile a quella di una Corporation americana (Mangano 2009). Questo è il lato debole dell’autogestione che da una parte non supera l’anarchia capitalistica della produzione e dall’altra tende a feudalizzare l’economia. La riforma del 1965 viene gestita in modo piuttosto radicale provocando come conseguenza un forte aumento dei prezzi al consumo di circa il 30 per cento nel giro di tre mesi e della disoccupazione determinando un forte malcontento. All’inizio degli anni Settanta è opinione diffusa che le riforme volute dall’ala riformista siano un disastro: scioperi, inflazione, deficit della bilancia commerciale, rallentamento della crescita industriale e diminuzione dell’efficacia degli investimenti.

Nella Costituzione del 1974 le singole Repubbliche arrivano a un’effettiva sovranità su: reddito, sviluppo del territorio, leggi, piani sociali e politiche economiche. L’obiettivo della Costituzione del 1974 tende a favorire i rapporti tra le singole repubbliche, con l’integrazione delle aziende su scala interregionale, attraverso la costruzione di imprese in altre repubbliche saldando gli interessi delle varie regioni. Tutto ciò fallisce clamorosamente. L’autonomia è quasi totale e le singole repubbliche costruiscono stati nello stato. Sono praticamente indipendenti per quanto riguarda gli investimenti e delle attività industriali, le politiche dei prezzi e delle tariffe, i servizi bancari, la tassazione, i servizi pubblici (elettricità, ferrovie, ecc.) e anche nei rapporti col capitale straniero. Il governo dà troppa autonomia ai governi regionali nella creazione e allocazione degli investimenti. Si assiste così a una feudalizzazione che interviene nel settore bancario, tecnologico, infrastrutturale e nel commercio con l’estero. La regionalizzazione comporta da una parte una mancata integrazione e dall’altra processi di vera e propria disintegrazione con tanto di protezionismo regionale.

L’autonomia porta con sé una sorta di corporativismo autarchico regionale e alla frammentazione del mercato interno jugoslavo in una serie di sub-mercati regionali. I due terzi della produzione sono diretti ai mercati delle singole repubbliche. Nel 1970, in effetti, il 60 per cento dello scambio in merci e servizi avviene all’interno delle singole repubbliche mentre nel 1980 tale percentuale sale al 69 per cento per crescere ulteriormente negli anni Ottanta, in un delirio di nazionalismo economico (Filippi, 2006). La cosa favorisce i trust locali che hanno posizioni monopolistiche a scapito del mercato nazionale. C’è la tendenza delle industrie jugoslave a strutturarsi in monopoli attraverso la formazione di “grandi sistemi” su base regionale. Meno del 20 per cento delle aziende controlla il 70 per cento della produzione e vi è alta concentrazione anche nell’artigianato. Vengono approvate leggi antimonopolio e accordi su quote di mercato, prezzi e concorrenza sleale che vietano anche sovvenzioni e i tentativi protezionisti che però sono demandati a istituti che sono interessati da un conflitto di interessi (Camere di commercio). Questi aggregati monopolistici nascono dalla necessità di dare una risposta concreta alla concorrenza delle aziende straniere ma hanno il limite di avere un carattere eminentemente regionale. Quando una di queste aziende entra in crisi (il caso di maggiore rilevanza è quello dell’INA, l’azienda petrolifera croata) si forma un effetto domino dato il loro peso specifico che porta alla crisi tutta l’economia regionale. La crisi e la mancanza di liquidità genera a sua volta un effetto a catena: un’azienda che non paga crea difficoltà ai propri fornitori e così via. Spesso ciò porta a diminuzioni degli stipendi e a conseguenti scioperi ed episodi di luddismo.

Nelle regioni ricche c’è una scarsa stima per la manodopera locale delle regioni più povere, sebbene più a buon mercato (a volte con salari che sono la metà delle regioni più avanzate) e quindi le regioni avanzate tendono ad evitare investimenti in quelle più arretrate nel tentativo di tenere artificialmente bassi i prezzi dei semilavorati provenienti da quelle regioni. Inoltre gli investimenti di un’azienda autogestita comporterebbero la formazione di un’unità autogestita indipendente. L’azienda madre perderebbe il controllo sul nuovo impianto e i profitti sarebbero bloccati all’interno della regione. In questo senso le regioni, che sono diventate per prime benestanti, non aiutano quelle più povere. Il contrario della teoria di Deng Xiaoping applicata alla Cina.

Le spinte autonomistiche dipendono anche da diversi interessi in gioco. Caratteristica è la disputa sul prestito della Banca Mondiale. La Slovenia, che propende per un’integrazione con la Comunità Europea, lo vuole impegnare in un’autostrada che la colleghi all’Italia, la Croazia vuole impiegarlo per lo sviluppo delle zone interne e la Serbia lo vuole impiegare nello sviluppo dei canali danubiani per il commercio con il Comecon. Il mercato del Comecon, non andando tanto per il sottile sulla qualità, disincentiva le innovazioni condizionando l’evoluzione economica, mentre un più stretto collegamento con la Comunità Europea avrebbe avuto un effetto di stimolo.

Ciò porta all’aumento il divario tra zone più sviluppate e zone arretrate che è il presupposto per lo scoppio delle tensioni etniche. Solo un sistema di aziende nazionali piazzato nei nodi strategici e un mercato davvero nazionale può mantenere unito un paese come la Jugoslavia. Si eviterebbero doppioni di aziende e la dipendenza del territorio da pochissime aziende chiave evitando i contraccolpi sociali della crisi. In un settore strategico come quello della produzione dell’energia vige la completa anarchia che si tramuta in autarchia. Manca un sistema razionale di pianificazione per cui le repubbliche autosufficienti non investono e quelle non autosufficienti importano dalle altre. Finché nel 1981 si arriva a una crisi che porta a consistenti limitazioni nell’erogazione di energia elettrica. Gli impianti funzionano con combustibili liquidi che devono essere importati in un periodo di grande aumento del prezzo del petrolio e non fanno altro che aumentare la dipendenza dall’estero.

Il tasso di investimento è il più alto del mondo. Nel 1976 è pari al 33 per cento del PIL contro quello del Giappone con il 30 per cento, il Canada con il 23 per cento e gli USA con il 16 per cento. Nel 1980 se il 47 per cento è destinato ai salari, i fondi aziendali di investimento raccolgono il 17 per cento degli utili, tasso quasi raddoppiato rispetto a un decennio prima; nell’economia iugoslava, complessivamente, il 38 per cento delle risorse è impegnato in investimenti produttivi. La crescita della produttività delle imprese fino alla metà degli anni Settanta, a differenza dell’URSS negli stessi anni, è notevole. C’è un uso intensivo di capitale in ingenti investimenti, con l’introduzione di tecnologia moderna. Le aziende autogestite non licenziano, dato che scopo dei lavoratori autogestionari è quello di garantire l’occupazione e il reddito ma si danno agli investimenti intensivi di tecnologia, per ottenere maggiori redditi in seguito. Questo è in generale un elemento molto positivo, però deve essere unito a un mercato del lavoro flessibile in modo da potere ristrutturare le imprese deficitarie e nel contempo creare altri spazi per l’occupazione.

Queste aziende invece tendono a produrre anche quando non si possa vendere subito e vendere anche quando il pagamento è dilazionato. La democratizzazione comporta che i poteri per licenziare sono delegati non alla direzione ma al Consiglio Operaio, questo tenderà a non licenziare anche in periodo di crisi. Il mantenimento di lavoratori in esubero comporta, soprattutto nelle aziende arretrate, che non si possa introdurre tecnologia moderna creando uno scompenso con quelle avanzate. Siccome c’è riluttanza a licenziare e nel contempo ad assumere si tende a proteggere la parte di lavoratori già assunti arrivando, di fatto, a una discriminazione nei confronti di chi s’immette sul mercato del lavoro che è destinato alla disoccupazione cronica. Questo è il risultato inevitabile della rigidità del mercato del lavoro. Molti che si trasferiscono dalla campagna alla città in cerca di redditi maggiori si trovino senza lavoro. Si assiste all’aumento contemporaneo degli occupati (da 8.834.000 nel 1970 a 9.276.000 nel 1980) e di disoccupati (da 320.000 a 735.000), dovuto alla crescita del settore industriale e al contemporaneo declino dell’occupazione “agro-forestale”. Cresce la disoccupazione dal 5 per cento al 13,7 per cento dal 1960 al 1980 senza i lavoratori che vanno all’estero potrebbe addirittura arrivare al 30 per cento. Nel 1971 la disoccupazione è al 7 per cento ma il 20 per cento della forza lavoro è all’estero. L’80 per cento dei disoccupati sono giovani in cerca di prima occupazione. Il mercato del lavoro è molto rigido, i lavoratori vengono assunti per concorsi che favoriscono i residenti, i più bisognosi e via dicendo. Inoltre i licenziamenti non sono facili nemmeno per comportamenti colposi con la possibilità da parte del Consiglio operaio di condonare la pena (Piccin, 2004).

Il mercato del lavoro può mantenersi in equilibrio solo se accanto alle aziende capital-intensive se ne creino altre labour intensive. Invece la piccola e media azienda che da maggiore flessibilità al mercato del lavoro non viene incentivata. La Jugoslavia è caratterizzata dalla più bassa media di imprese piccole e medie tra i paesi in via di sviluppo preferendo concentrarsi su imprese capital intensive che producono il 94 per cento dei beni di consumo. Le piccole imprese labour intensive hanno il vantaggio che assorbono molta forza lavoro in rapporto al capitale investito, promuovono l’occupazione femminile e mobilitano il risparmio privato. La stagflazione in Occidente porta al ritorno degli emigranti senza che possano efficacemente investire i risparmi e anche le competenze acquisite all’estero, in contesti tecnologici più avanzati. Si immobilizzano le rimesse degli emigranti e i considerevoli risparmi della popolazione (la Jugoslavia ha con l’Italia uno delle più alte percentuali di risparmio privato con il 25 per cento dei risparmi in banca) senza che questi possano essere utilizzati nella formazione di nuove imprese. Dopo la crisi croata l’iniziativa privata invece viene addirittura disincentivata e ciò porta il paese a perdere occasioni di sviluppo e di occupazione.

Un altro importante fattore di occupazione possono essere le joint-venture con aziende straniere, dove si può giocare sul differenziale dei salari più bassi rispetto a quelli occidentali. La Jugoslavia si trova vicina a due importanti mercati quali quello italiano e quello austro-tedesco. Le cose, però, non vanno troppo bene. Siamo in presenza di un ambiente normativo che rende scarsamente appetibili gli investimenti esteri. L’azienda straniera non può avere più del 49 per cento del capitale societario. Non si può ricondurre l’azienda jugoslava ai criteri di produttività occidentali. Si fissa un tetto di profittabilità superato il quale alla società straniera va una parte di profitti sotto forma di pagamento per gli investimenti che portano con il tempo a estromettere la società straniera dall’azienda. Questa regola fu rimossa troppo tardi negli anni Ottanta, quando la Jugoslavia è schiacciata dal debito estero e impossibilitata a rilanciare gli investimenti. Nel 1976 le joint-venture sono un centinaio per un valore di circa 1,1 miliardi di dollari, ma il capitale estero è di appena 200 milioni dollari e partecipa solo per 20 per cento del totale invece del 49 per cento consentito per legge. Gli investimenti sono in media 2 milioni di dollari per impresa, ma per più di un terzo sono dovuti a due imprese straniere la Dow Chemical e la General Motor (Piccin, 2004). Tutto è particolarmente complicato e priva il paese di nuovi sbocchi occupazionali. Ciò comporta un effetto perverso per cui i bassi investimenti stranieri costringono il paese a indebitarsi con l’estero. Infatti, ciascun cittadino ha un debito con l’estero di 82 dollari, mentre gli investimenti stranieri raggiungevano appena i 2,5 dollari per abitante. Se poi si confronta quest’ultima cifra con gli investimenti dei soli Stati Uniti in Lussemburgo (180 dollari), Gran Bretagna (165 dollari), Germania Ovest (180 dollari) si ha un’idea di quanto trascurabile sia il capitale estero investito in Jugoslavia. L’apertura all’investimento straniero potrebbe arginare l’emigrazione poiché le riforme degli anni Sessanta hanno reso teoricamente più facile il licenziamento della manodopera in eccesso, inoltre si potrebbe assorbire manodopera dall’abbandono delle occupazioni agricole. La Jugoslavia investe molto sulla formazione professionale con un’alta percentuale di forza lavoro con istruzione superiore e universitaria in particolare negli anni ‘70-’80. Più di 200 mila tecnici, però, finiscono all’estero di cui molti con un’alta specializzazione. Le joint-venture potrebbero contribuire ad assorbire questo personale qualificato e al miglioramento qualitativo della manodopera. Esse possono portare know-how, tecniche manageriali, tecnologie di punta oltre a capitali che le aziende jugoslave devono comunque procurarsi all’estero. Questa dipendenza dall’estero fu la causa non ultima del crollo del paese. Infatti, venendo a mancare gli strumenti di direzione dell’economia si finisce con dipendere dalla tecnologia straniera per di più pagata direttamente dalle aziende nazionali con un approccio tecnologico che ha una logica territoriale più che settoriale.

La Jugoslavia, come molti altri paesi a basso e medio reddito, prende a prestito grandi quantità petrodollari a interessi bassi che si sono accumulati nei tardi anni Settanta a seguito degli aumenti del prezzo del petrolio. Gli anni che vanno dal 1976 al 1980, infatti, si caratterizzano per una sorta di bolla segnata da un utilizzo spropositato del credito internazionale. Le imprese prendono a prestito ingenti quantità di denaro, dato che non hanno la possibilità di autofinanziarsi con l’emissione di azioni, che servono per rinnovare le aziende favorendo l’export in Occidente, proprio in un periodo difficile anche per le economie occidentali. L’export, anche in conseguenza della spesa energetica, verso Germania e Italia, colpite dalla recessione, crolla. L’afflusso di capitale straniero arriva a superare la crescita del prodotto lordo. Nel 1979 il deficit della bilancia dei pagamenti è di 3,4 milioni di dollari sfiorando nel 1980 i 18 milioni.

E così la Jugoslavia si è trova, come tanti altri paesi, in una crisi finanziaria in cui i bassi tassi di interesse virano verso gli altissimi tassi dei primi anni Ottanta. La svalutazione della moneta porta il debito estero contratto in dollari (il dinaro si svaluta del 40 per cento) ad aumentare enormemente: arrivando a 82 dollari per abitante. L’inflazione è al 20 per cento e i paesi da cui importa ne sono colpiti a loro volta. Il Governo si trova obbligato a garantire prestiti che non ha trattato e di cui non ha goduto, ma che tuttavia devono essere pagati. Tra il 1984 e il 1988 la Jugoslavia paga 14 milioni di dollari di interessi per un debito di 20 milioni. Il 40 per cento degli introiti delle esportazioni sono destinati a pagare il debito.

Le varie repubbliche per limitare l’indebitamento sono vincolate a procurarsi valuta estera attraverso l’export con il risultato che le aziende autogestite si lanciano nel campo dell’export tralasciando il mercato nazionale. La corsa alla valuta estera, riorienta ulteriormente la produzione delle varie repubbliche verso l’esportazione al di fuori dei confini federali, ovviamente a diretto scapito degli scambi interregionali e del mercato interno. Due esempi concreti possono rendere più chiaro tale fenomeno. Nel 1983 l’INA di Zagabria (la principale industria petrolchimica jugoslava) paga un debito contratto con l’estero di 251,1 milioni di dollari attraverso l’esportazione d’ingentissime quantità di nafta grezza, di derivati della nafta e di concimi chimici (in quel periodo la Jugoslavia dipende per 2/3 dall’importazione di petrolio dall’estero). Sempre in quell’anno dalle campagne della Voivodina vengono esportate enormi quantità di grano, zucchero, farina e olio per risanare un debito di 80 milioni di dollari proprio nel momento in cui vi è scarsità di tali prodotti sul mercato nazionale contribuendo all’aumento dei prezzi sul mercato interno (Mangano 2009). Tutto sarebbe reso più facile dall’importazione di capitale tramite joint-venture oppure con l’insediamento diretto di aziende straniere, sistemate in settori non strategici. Il vantaggio del capitale estero è che rischia in proprio, possiede già reti commerciali evolute e un mercato estero verso cui esportare. La formazione poi di società per azioni nelle principali aziende autogestite può evitare i prestiti con l’estero dato l’alto tasso di risparmio nazionale. Nota positiva è la bassa pressione fiscale mentre i servizi sociali sono quasi interamente coperti dalle comunità d’interessi autogestite. Ci sono, però, ben 17.000 organismi che possono introdurre imposte di vario tipo in virtù della decentralizzazione.

Il caso jugoslavo è l’espressione del massimo della democrazia di base con tanto di norme antiburocratiche, di revoca del mandato da parte della base, di non professionalizzazione dei delegati e via dicendo[8]. Le istituzioni dell’autogestione diventano molto complesse con una distribuzione del potere verso la base che presuppongono una classe operaia molto coinvolta e partecipativa e informata sui risultati aziendali. Secondo il dirigente jugoslavo Branko Horvat, le condizioni per il successo dell’autogestione sono il consolidamento della tradizione democratico-rivoluzionaria, una tradizione industriale, alti salari, settimana lavorativa e orario di lavoro ridotti per favorire la partecipazione alla gestione delle aziende e infine un alto tasso d’istruzione (Piccin, 2004).

Inizialmente si parte dalle Imprese Economiche di Stato che secondo il modello diremmo statalista o stalinista dovevano realizzare il piano preparato dal governo. In seguito, soprattutto per queste grandi imprese, si assiste al processo di decentralizzazione che va dall’alto verso il basso e che si concluse negli anni Settanta. In poche parole, dall’impresa centralizzata si passava all’OCLA (Organizzazioni composite del lavoro associato, ossia conglomerati di imprese) da questa all’OLA (Organizzazioni di Lavoro Associato, ossia le singole aziende) e da questa ancora all’OBLA (Organizzazioni di Base del Lavoro Associato, corrispondenti ai reparti di una fabbrica), la cellula di base dell’autogestione nel settore produttivo. Queste imprese in altre parole sono state create dallo stato e non direttamente dai lavoratori e poi in seguito passate all’autogestione dei lavoratori, sebbene teoricamente il processo federativo avrebbe dovuto compiere il processo inverso (Piccin 2004). Le SIZ erano il corrispondente delle OBLA nel settore dei servizi e le MZ nelle comunità locali nel campo istituzionale. Le aziende perdono il loro carattere nazionale e diventano aziende locali. Ciò è particolarmente evidente nei servizi.

I Consigli ai vari livelli si interessano dei salari, delle assunzioni fino a esprimere la direzione e il direttore di fabbrica. Anche a livello politico i delegati delle unità di base partecipano ai consigli comunali che a loro volta eleggono quelli repubblicani e questi l’Assemblea federale ossia il parlamento. La legge del 1978 sul lavoro associato definisce la proprietà sociale in cui i mezzi di produzione collettivi non appartengono né alle singole unità, né allo Stato, né ai gruppi ma alla società intera.

Diviene comunque problematico salvare l’autogestione di fronte ad acuta crisi economico-sociale con tanto di disoccupazione, emigrazione, lavoro nero, scioperi, rivendicazioni nazionali per cui la Lega dei Comunisti cerca in qualche modo di diventare un collante per la stabilità. Le diverse legislazioni repubblicane spesso sono poi in contraddizione le une con le altre. In realtà la teoria della “estinzione dello Stato”, che è alla base delle teorizzazioni dei marxisti jugoslavi, ha finito con l’estinguere lo stato federale ma anche per rafforzare i singoli stati delle varie Repubbliche.

I lavoratori dei settori più arretrati tendono ad aumentare gli introiti personali indipendentemente dalla situazione dell’impresa. La logica alla base dell’autogestione è di eliminare le grandi differenze di reddito tra i lavoratori delle varie imprese. Le aziende meno competitive che hanno pochi capitali tendono ad attingere ai prestiti bancari. Per questa ragione gli accordi sul reddito lo sganciano dalla produttività a scapito degli accantonamenti di riserva e dunque dell’accumulazione di capitali diventando, essi stessi, fonte d’inflazione. Inoltre c’è un’eccessiva tutela per le aziende in perdita (si cerca sempre di evitare il fallimento) che possono accedere a fondi di riserva o addirittura a fondi comunali e repubblicani. I prezzi sono un insieme di mercato, pianificazione, accordi di cartello, contratti di fornitura di enti pubblici, accordi tra produttori e consumatori e altri prezzi imposti a livello regionale o statale. L’energia elettrica ha, ad esempio, prezzi diversi secondo dove viene erogata.

La situazione del mercato (sebbene socialista), non è davvero ideale. Molti degli scambi avvengono all’interno dell’azienda tra le singole unità di base alcune delle quali hanno maggiori privilegi di altre tanto da creare artificialmente un abbassamento dell’offerta interna. I prezzi stabiliti piuttosto arbitrariamente innescano spesso un aumento generalizzato tanto che le vendite interne dell’azienda possono superare il reddito reale della stessa azienda (OLA) (Mangano, 2009).

I salari non sono standardizzati per cui ci possono anche esserci differenze notevolissime all’interno della stessa azienda per la stessa mansione e la stessa anzianità. Alla base c’è la volontà di coinvolgere maggiormente il personale legando lo stipendio alla produttività e all’esito della propria unità di lavoro. Il lavoratore non deve quindi considerarsi un salariato sottoposto a un’omogeneizzazione estraniante ma come autogestore e padrone della propria unità. La redditività dell’unità nel lavoro spesso è legata ai privilegi che essa gode in una situazione di mercato alterata. I lavoratori non gradiscono queste differenze salariali che spesso sono molto forti. Le aziende di maggior successo non applicano questa direttiva e distribuiscono salari standardizzati. La cosa è paradossale perché i salari standardizzati in rapporto alla stessa mansione sono voluti dai manager che li ritengono funzionali al successo dell’azienda, dai lavoratori e banditi dall’ideologia ufficiale perché reintrodurrebbero il “lavoro salariato”.

Da un punto di vista più generale però il rapporto tra redditi massimi e minimi è piuttosto basso, comunque inferiore a quello sovietico, mentre solo la Norvegia ha una ripartizione salariale più livellata (1:2,7-1:4, 1:2,4) (Mangano, 2009). Permangono, invece, forti differenze di reddito tra regioni: uno sloveno ha un reddito più che doppio di un kosovaro, quasi il doppio di un bosniaco e del 20/30 per cento superiore alla media nazionale. Le differenze di reddito sono il risultato a prima vista paradossale proprio dell’eccessiva democrazia di base. Questa favorisce il corporativismo e lo stato manca di strumenti macroeconomici per riparare ai guasti di un’economia lasciata completamente in balia del mercato.

La disciplina sul lavoro nel “lavoro associato” se in un primo momento aumenta tende però a calare verso negli anni Settanta con un forte aumento delle giornate di assenza per malattia. Tra il 1979 e il 1985 la produttività del lavoro crolla del 20 per cento e i redditi dei lavoratori del 25 per cento. Si ha anche un aumento delle frodi nelle pensioni di invalidità, che costituiscono il 51 per cento dei contributi previdenziali erogati dallo Stato. Più del 10 per cento dei lavoratori sono pensionati prima dei 50 anni sebbene ci sia l’obbligo di 40 anni di lavoro. Contemporaneamente si assiste al crollo del PIL del 6 per cento (il 1980 era stato il primo anno a crescita zero), che aumenta ancora di più man mano che si procede verso la caduta della Repubblica. Il livello dei servizi sociali dalla sanità all’educazione è in calo.

L’agricoltura dopo un inizio che segue sostanzialmente la collettivizzazione di tipo sovietico viene ristrutturata e i contadini possono associarsi senza cedere la terra alla cooperativa. Le nuove cooperative si occupano di acquisti e vendite. Dalla cooperativa i contadini possono comprare a prezzi di favore quanto hanno bisogno per il lavoro e anche l’uso personale, inoltre sono favoriti anche nell’uso delle macchine agricole che fino al 1965 non possono essere acquistate da privati. Dal punto di vista della forma proprietaria nel 1960 solo l’8,7 per cento della terra coltivabile è ancora proprietà sociale mentre all’estremo opposto tra i paesi socialisti europei c’è la Bulgaria dove è il 60,5 per cento. Da questo punto di vista la Jugoslavia è la più arretrata e parcellizzata d’Europa persino di più di quanto lo fosse nell’anteguerra. Negli anni Cinquanta gli investimenti nel settore sono scarsi e il paese è costretto a importare. La crescita dell’agricoltura avviene negli anni Sessanta specialmente nelle cooperative agricole che, pur avendo a disposizione meno di un quinto delle terre coltivate, fanno la parte del leone nell’approvvigionamento alimentare e nelle forniture dell’industria (Mangano, 2009). Questa è un po’ la rivincita dell’agricoltura collettivizzata (che ha sempre dato qualche problemuccio in URSS come in Cina) su quella privata.

La riforma costituzionale cerca di armonizzare gli interessi delle varie repubbliche, costringendole a prendere provvedimenti all’unanimità, avendo ogni repubblica diritto di veto. La presidenza collettiva impone di eleggere, ogni anno, uno dei suoi membri secondo il principio di rotazione. Sono elementi che accolgono le istanze provenienti dalla “Primavera croata” ossia le manifestazioni nazionalistiche degli inizi degli anni Settanta ma che alla fine portano nuovi attriti.

La riforma creditizia nel 1977 contribuisce alla disarticolazione del sistema portando al disastro il sistema monetario federale ed è stata tra i fattori determinanti nel collasso del Paese. Le banche si sono organizzate su base territoriale, una banca per ogni repubblica, sostenendo principalmente interessi locali.

Una delle cause principali del fallimento è stata la mancanza di volontà o forse l’impossibilità da parte del governo jugoslavo di attuare una politica restrittiva, in particolare sull’emissione di moneta, combinata con la politica macroeconomica progettata per ampliare le opportunità e gli incentivi per imprese e di operare efficacemente. Il governo che pure avrebbe potuto utilizzare i suoi poteri che precedentemente avevano portato alla stabilizzazione dei prezzi non riuscì a evitare la trustificazione e la feudalizzazione dei mercati repubblicani che trasformarono l’inflazione da fattore importato in un problema nazionale.

Alla fine degli anni Ottanta il piano di austerity del governo Markovic per combattere l’inflazione è vanificato dall’azione dei governi di Lubiana e Belgrado, che emettono abusivamente moneta, inoltre l’intreccio tra industrie e banche crea debiti inesigibili. Mentre la situazione economica peggiora, i debiti pesano sul bilancio statale dato che sono garantiti del governo. Nel 1987 lo scandalo Agrikomerc, il colosso agroalimentare, con l’emissione di cambiali aziendali per il valore di un miliardo di dollari costituisce di per sé una componente dell’inflazione. Ormai siamo alla fine e il FMI impone lo smantellamento dell’autogestione.

Con la morte dei padri della patria Tito e Kardelj è venuto a mancare il perno dato dai fondatori del sistema. Questo è stato molto importante in Cina dove a progettare le riforme fu uno dei fondatori della Patria, Deng Xiaoping, che però ha favorito un ricambio della classe dirigente nella continuità e nella stabilità.

Kardelj aveva parlato del “pluralismo degli interessi” della comunità socialista di Stati degli “slavi del Sud” e anche della classe operaia come “classe per sé”, ma alla fine prevalsero gli interessi corporativi o particolaristici delle singole classi operaie e dei singoli stati (Filippi, 2006). Il modello jugoslavo non ha voluto essere un modello “stalinista” riformato ma l’esatto contrario, come quello stalinista ambì a essere l’esatto contrario di quello capitalista. Questo alla lunga non funziona quasi mai. La Cina trasse molti insegnamenti da queste esperienze e in particolare da quella jugoslava che le riassume un po’ tutte.

Ma di questo parleremo nella seconda parte di questo saggio.


Note
[1] Conoscevo Domenico dalla fine degli anni Settanta. Fui frequente ospite nella sua casa a Pesaro. Io ero giovanissimo e il suo pensiero mi ha profondamente influenzato negli anni seguenti. Una grande perdita per i comunisti, non solo italiani, ma di tutto il mondo. Grazie Mimmo.
[2] Movimento gradualista socialdemocratico fondato nel Regno Unito da Sidney e Beatrice Webb alla fine dell’Ottocento.
[3] Il meccanismo della pianificazione vincolante a livello strategico fu utilizzato da Walter Rathenau nell’organizzazione dell’economia di guerra in Germania nel periodo 1914-1918. Se questo è l’antecedente dell’economia pianificata staliniana, bisogna dire che essa non fu “arbitraria” ma il risultato di un paese che, come dice Domenico Losurdo (e come ricordava Davies), vive in un costante stato d’eccezione.
[4] Secondo il già citato economista sovietico Feldman in teoria i tassi di crescita dell’economia nazionale basati sugli investimenti in beni capitali, consente una maggiore produzione dei beni di consumo che se si investisse direttamente nella produzione degli stessi. Questo può essere vero per un certo periodo, ma alla lunga le storie dei paesi socialisti non confermano questa previsione.
[5] Varga nello stesso articolo citato ricorda come uno degli errori della Rivoluzione ungherese del 1919 fosse stato la costruzione di aziende agricole statali invece della distribuzione delle terre ai contadini. Il maggiore successo economico del Nuovo Meccanismo Economico ungherese fu lo sviluppo dell’agricoltura che nel 1970 ebbe la maggiore crescita mondiale dopo l’Olanda.
[6] Il concetto di “Democrazia popolare” viene fatto risalire proprio all’elaborazione maoista.
[7] Indice che misura la percentuale di spese per l’alimentazione su quelle totali.
[8] Edvard Kardelj traccia in questo modo il radicale antiburocratismo della Lega dei Comunisti: «è fuori dubbio che nel periodo rivoluzionario di transizione dal capitalismo al socialismo, il ruolo determinante spetta ai dirigenti del partito proletario […]. Ma è altrettanto chiaro che lo stato maggiore rivoluzionario può raggiungere il successo solo a patto di basarsi sull’attività creatrice di larghe masse lavoratrici […] A nostro avviso non si può lavorare senza commettere errori, ma riteniamo meno pericolosi gli errori che si commettono quando l’iniziativa dal basso si fa liberamente sentire che non quelli commessi dai burocrati che si sono messi in testa di essere infallibili […]. Non tenere conto di questi principi significa giungere inevitabilmente al burocratismo, all’isolamento dell’apparato burocratico rispetto alle masse popolari, all’assoggettamento di tali masse all’apparato burocratico stesso» (Scotti, 1973: 150-152).

 
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Paolo Selmi
Monday, 17 September 2018 00:23
" il Grande Balzo in Avanti il cui scopo era di raggiungere il livello di sviluppo e di benessere della Gran Bretagna"... falso. Mancavano completamente i presupposti materiali, e tutti lo sapevano. Tutti. Mao e il suo gruppo dirigente si resero protagonisti di una dissennata deviazione dal precedente modello di sviluppo, interrotto contestualmente alla repressione feroce dei "100 fiori" che loro stessi avevano incoraggiato a "sbocciare". La critica a Chruscev fu una foglia di fico, insieme alle altre polemiche che ne seguirono, per togliersi di mezzo chi fino ad allora li aveva aiutati a ripartire: l'Urss. Ci ho scritto qualcosina a proposito
https://www.academia.edu/6430706/Tovarišč_Mao_Czedun_construction_and_destruction_of_Maos_image_in_USSR
La strada delirante che ne seguì, di arrivare direttamente al comunismo senza passare dal via, ebbe come conseguenza quanto già descritto. Che Mao infine abbia sbagliato per il trenta percento, giudizio più che discutibile sul piano storico, ti dovrebbe far riflettere ulteriormente sulla caratura dello statista che l'ha pronunciata: se faceva così, le proporzioni, immaginarsi i piani. E infatti poi hanno aperto le gabbie, pardon, hanno liberato le forze produttive... fino alla piena restaurazione del capitalismo.
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Giambsttista Cadoppi
Sunday, 16 September 2018 23:28
Per la verità a me sembrava che Eros fosse appunto un sostenitore dell'antirevisionismo di Mao e Deng. Deng si considera corresponsabile sia dell'elaborazione del pensiero di Mao Zedong come esperienza dell'intero gruppo dirigente del PCC sia del 30% degli errori fatti da Mao. Lo dice apertamente in alcuni scritti. Tra cui appunto il Grande Balzo in Avanti il cui scopo era di raggiungere il livello di sviluppo e di benessere della Gran Bretagna.non di sterminare la gente come sostieni tu. Questo è il paradigma totalitario sterminazionista dei Cold Warriors, In Cina ci furono grandi calamità naturali in quegli anni o è un'invenzione. Certamente ci furono anche errori, apertamente ammessi proprio da Deng.
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Paolo Selmi
Sunday, 16 September 2018 19:29
Giambattista
"2,5 milioni di morti (in più rispetto alla media) dovuti non alla fame in se (quasi nessuno muore di fame durante le carestie) ma alla debilitazione dovuta alla scarsa e scorretta alimentazione e alle malattie come il tifo che fanno vittime appunto tra i più deboli: vecchi e bambini."
Il fatto che non ti vergogni neppure di riportare una cosa del genere non ti fa onore: qui non è questione di essere sinologi o storici, qui è questione di buon senso. 2,5 milioni di morti! Ma ti rendi conto che li riporti come se fossero "incidenti di percorso"? Ma ti rendi conto che a oggi tutta la dirigenza di allora non è stata messa minimamente sotto accusa? Ma non ti sorge il minimo, MINIMO dubbio che si stanno, ti stai arrampicando sugli specchi con eufemismi che nascondono la reale sostanza del problema? Gli stessi eufemismi che loro usano in politica economica per legittimare dal punto di vista canonico le loro politiche e che tu riporti, peraltro in modo scorretto e facendo errori macroscopici sulla storia del movimento operaio, come ti ha fatto giustamente notare il prof. Barone? Mi fermo qui, davanti a due milioni e mezzo di vittime - come dicono le tue fonti - quattro milioni - come dice il partito in nome del quale tu parli, ma a quanto pare meglio continuare a seminare falsa coscienza e insistere con cifre minori, tanto dopo questo post chi se lo ricorderà più... anzi, non riportarlo più neppure, tra qualche anno saranno solo "carestie terribili"... terribile, non riesci a essere obbiettivo su un passato dove loro parlano di FAME e tu di "malattie alimentari"... cos'era, il colesterolo degli americani che mangiano carne 3 volte al giorno? Come fai a essere obbiettivo sull'oggi?
Paolo
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Giambsttista Cadoppi
Sunday, 16 September 2018 15:26
Anche l'autore che ho postato (un matematico specializzato in statistica) parla di 2,5 milioni di morti (in più rispetto alla media) dovuti non alla fame in se (quasi nessuno muore di fame durante le carestie) ma alla debilitazione dovuta alla scarsa e scorretta alimentazione e alle malattie come il tifo che fanno vittime appunto tra i più deboli: vecchi e bambini. Ma non sono comunque i 30 milioni del Libro Nero.
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Paolo Selmi
Friday, 14 September 2018 22:29
Gianbattista,
negare l'evidenza porta a negare l'olocausto. Poi ci sono "storici" che si divertono a fare anche questo. Buon per loro. Far tornare conti è un'arte, noi dovremmo saperne qualcosa. Far tornare i conti sui morti ammazzati è da criminali. E contraddice la versione ufficiale cinese (che gli azzeccagarbugli se ne facciano una ragione): altrimenti, l'avrebbero chiamato "il grande equivoco", "il grande errore contabile", oppure "il complotto dei demografi"... e probabilmente oggi sarebbero stati scannati dal loro stesso popolo. Invece, ex post, quando ormai eran morti o resi alla pace dei sensi tutti i testimoni di allora, hanno incasellato nella loro storia canonizzata quei tre anni dal 1959 al 1961 come i "tre anni di calamità naturali" (三年自然灾害 san nian ziran zaihai): vergogna! VERGOGNA! Chruscev mi è sempre stato sulle palle, ma qui lo rivaluto. Perché in Cina non c'è mai stato un Chruscev, uno che ha avuto il coraggio di aprire quei cazzo di armadi e tirare fuori gli scheletri. Non lo fa nessuno, da quelle latitudini. Non lo fanno i "diavoli giapponesi" per le porcate compiute dal loro imperatore-dio durante il periodo del Kokka Shinto, non lo fanno i loro dirimpettai di cortile. Il motivo è evidente.
Comunque, torniamo ai dati di questi "storici", che sembrano dare i numeri come conta la questura i partecipanti alle manifestazioni. "1959年至1961年的非正常死亡和减少出生人口数,大约在4000万人左右……中国人口减少4000万,这可能是本世纪内世界最大的饥荒。" (dal 1959 al 1961 ci sono stati quattro milioni di morti circa... questi quattro milioni in meno, FORSE sono dovuti alla più grande carestia mondiale del secolo" (che ha fatto milioni di morti solo lì, ma sono dettagli...) Fonte. "Importanti eventi della repubblica"( 《共和国重大纪实》), Beijing, Zhongyang dangxiao chubanshe (中央党校出版 ovvero le edizioni della scuola del partito del CC), 1998. Uno studio di Hong Kong riprende questo dato e, dando per vere statistiche falsate dopo ormai mezzo secolo e senza nessuna possibilità di controlli oggettivi, NONOSTANTE QUESTO, dà per buoni i dati e ipotizza i morti di fame fra i due e i tre milioni di persone (http://www.cuhk.edu.hk/ics/21c/media/articles/c106-200801076.pdf) Fu in quella circostanza che persino i collaboratori più stretti di Mao, fra cui Liu Shaoqi (刘少奇) presero le distanze da un pazzo al potere e riuscirono a fermarlo, temporaneamente. Fu in quell'occasione, peraltro, che Liu Shaoqi disse "三分天灾,七分人祸" (per tre parti calamità naturale, per sette parti disastro umano). Mi dispiace, ma eccedere nella propaganda apologetica addirittura chi quei crimini ancora difende, significa leggere la storia in modo completamente distorto. E se queste sono le basi, è ancora più preoccupante la lettura si fa dell'oggi.
Davvero, torniamo a chiamare rotondi i vasi rotondi e quadrati quelli quadrati, ovvero le cose col loro nome. Non possono, non si può mentire all'infinito.
Ciao
Paolo
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Giambattista Cadoppi
Friday, 14 September 2018 21:16
"Il fatto è che vi fu una carestia occorsa dopo la sciagurata scelta di mollare l'agricoltura per concentrarsi su altoforni casalinghi con un grado di rendimento infimo, messi in piedi unicamente perché il "grande timoniere" aveva ricevuto l'illuminazione divina che gli aveva detto che i sovietici - che fino ad allora avevano a momenti investito più soldi nell'economia cinese che nella loro, ma questo le tue fonti forse non lo riportano - non servivano più, che anzi mettevano in discussione la sua autocrazia, e che occorreva scrollarseli di dosso raggiungendo nientepopodimeno che il comunismo. Scorte zero + sfighe varie metereologiche = raccolto zero, milioni di morti di fame. Fatti, ripeto, riconosciuti dagli stessi cinesi"
Per la verità molti in Occidente ironizzamo sul fatto che i cinesi chiamano questo periodo "i grandi disastri naturali". Bisogna dire che la moda della "grande carestia" venne quando i cinesi pubblicarono negli anni Ottanta una serie di dati grezzi sui censimenti. Questi furono subito presi al balzo dagli "sterminazionisti" occidentali per dimostrare lo sterminio addirittura volontario con bambini lasciati morire perché servissero da concime per i campi. Secondo gli ultimi studi del matematico Sun Jingxian:
Durante gli anni 1960-1964 la cifra della popolazione cinese (a parte le crescite naturali) sembra essere diminuita di 33,94 milioni. (A causa della rimozione di 11,62 milioni di duplicati e errati registri hukou, 7,5 milioni di decessi che non erano stati registrati in origine e 14,82 milioni di persone che non hanno registrato il loro nuovo hukou). Questa è la vera ragione della apparente enorme diminuzione della popolazione cinese. Tutte queste diminuzioni sono dovute alla confusione dei dati statistici, ma non corrispondono a una diminuzione della popolazione reale. Queste diminuzioni non hanno alcuna relazione con il reale cambiamento nella popolazione del nostro paese, e tanto meno a causa di milioni di morti non naturali".
Ossia vi furono una serie di inondazioni che portarono molta gente a rifugiarsi in città il che portò al duplicato della residenza (Hukou) e alla sistemazione e negli anni successivi degli errori sui rilievi statistici.
Per prospettive marxiste sulla questione vedi inoltre: Great Leap into Famine: A Review Essay. CORMAC O GRADA. Il maggiore esperto di carestie e Did Mao Really Kill Millions in the Great Leap Forward? di Joseph Ball
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Paolo Selmi
Friday, 14 September 2018 17:17
Mi dispiace, ma pure il PCC cinese oggi ammette milioni di morti per fame. fu un crimine, non un errore. Non essere più realista del re. ci si distanzia dall'occidente per i numeri, non per il fatto.
Per quanto riguarda il pranzo con la cena, lo mettevano insieme, anche qui sei in errore. e ti contraddici con quanto scrivi una riga sopra. se uno non mette insieme il pranzo con la cena, muore di fame.
Il fatto è che vi fu una carestia occorsa dopo la sciagurata scelta di mollare l'agricoltura per concentrarsi su altoforni casalinghi con un grado di rendimento infimo, messi in piedi unicamente perché il "grande timoniere" aveva ricevuto l'illuminazione divina che gli aveva detto che i sovietici - che fino ad allora avevano a momenti investito più soldi nell'economia cinese che nella loro, ma questo le tue fonti forse non lo riportano - non servivano più, che anzi mettevano in discussione la sua autocrazia, e che occorreva scrollarseli di dosso raggiungendo nientepopodimeno che il comunismo. Scorte zero + sfighe varie metereologiche = raccolto zero, milioni di morti di fame. Fatti, ripeto, riconosciuti dagli stessi cinesi. Quello che non accadde dopo, quando i dirigenti cinesi corsero ai ripari. Così, la "grande rivoluzione culturale proletaria" non fece gli stessi danni, si limitò a un comunismo da caserma, con tante belle parate e tutti in campagna a rieducarsi attraverso il lavoro manuale. "Un poco a tutti, ma a tutti un poco" era il motto della ciotola di riso di ferro: c'era sul sussidiario di terza delle elementari quando arrivammo alla Cina. E il pranzo con la cena lo mettevano insieme per davvero, già da metà dei Sessanta, una volta ripresi dalla mazzata del "balzo". La povertà non si esaurisce con il pranzo, la cena, la divisa e il berretto. E su questo siamo d'accordo: anche nella maggiorparte dell'Africa subsahariana avrebbero da ridire, comunque, anche su questo. Ma non pronunciamo inesattezze sul resto.
Ciao
paolo
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Giambattista Cadoppi
Friday, 14 September 2018 16:16
Caro Paolo
"Il pranzo con la cena lo mettevano insieme sempre, anche sotto Mao". A quanto pare no. Per la banca mondiale i poveri assoluti erano l'83% contro l'1,8% di adesso.
"tranne negli anni del suo criminale "grande balzo in avanti"
i miliardi morti del grande balzo in avanti sono un'invenzione.Certamente fu un errore. questo si.
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Paolo Selmi
Friday, 14 September 2018 14:37
Caro Gianbattista,
essere meno poveri non vuol dire stare più bene. Il pranzo con la cena lo mettevano insieme sempre, anche sotto Mao, tranne negli anni del suo criminale "grande balzo in avanti". Mangiavano in mensa, ma mangiavano. Oggi guarda quella cartina che ti ho citato. Sulla rete troverai le versioni precedenti. Per far aumentare leggermente il reddito del tibetano o dell'uighuro, il reddito del capitalista di shanghai è aumentato enormemente. Al punto che non sanno più che colori usare. E comunque quell'aumento li fa stare SOTTO il reddito medio, la maggiorparte delle "province" cinesi vive SOTTO il reddito medio. Due tempi? No, mai. Il problema, che purtroppo forse non è chiaro, è strutturale. Per riequilibrare l'economia dovrei intervenire strutturalmente sulla produzione della ricchezza. Attenzione, sulla produzione, non sulla distribuzione. Ma così facendo, un marxista noterebbe, il saggio di profitto calerebbe più di quanto sta calando adesso. E l'equilibrio precario su cui si regge in bici l'elefante cadrebbe. L'imperialismo in Africa, in America Latina, la costruzione di strutture di dipendenza economica dove materie prime sono scambiate con prodotti finiti, l'esportazione di capitale, quella specie di corridoi commerciali che poeticamente chiamano con un nome di un millennio fa, la trasformazione del capitale produttivo in capitale finanziario, nascono tutte da questa esigenza. Siamo in mezzo a un conflitto interimperialistico dove Occidenti e Orienti stanno combattendo una guerra senza esclusione di colpi. Siamo, beninteso, tutti liberi di tifare per chi vogliamo. Ma dire che un'azione è progressiva e l'altra è regressiva, che una è socialistica e l'altra capitalistica, no, purtroppo non risponde al vero. "Il socialismo di stato..." capisco che "capitalismo di stato" non ti piaccia ma, a parte che il socialismo è sempre, anzi tutto, di stato, (poi è anche cooperativo, municipale, ecc. ma queste due forme sono completamente realizzate nella prima), di questo stiamo parlando. Le Borse di Shanghai, Hong kong, Shenzhen, non sono "socialistiche". Sono borse. L'esportazione di capitali, l'accumulazione di oro non sono socialistiche. Il collo che ci tirano ogni giorno sul lavoro mandandoci ad ammazzare l'uno con l'altro per ritirare e consegnare le loro merci, non è socialismo. Non è socialismo scambiare prodotti finiti in cambio di materie prime da paesi in via di sviluppo. Non è socialismo produrre schifezze che non durano un'anno e riempire di immondizia il pianeta, per il profitto di pochi borghesi, non importa di che colore siano. Non è socialismo fare da loro borghesia compradora. Non è socialismo portarci al suicidio: tutti i dati che riporto nel primo quaderno di appunti, e che partono da fonti di prima mano, parlano chiaro. Prima lo capiremo, prima elaboreremo un modo di sviluppo realmente alternativo a quello capitalistico e lotteremo per la sua realizzazione, prima salveremo noi, classe operaia dallo scannarci con altra carne da cannone, prima salveremo questo pianeta dall'autodistruzione. Se mai riusciremo a farlo.
Un abbraccio
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Giambattista Cadoppi
Friday, 14 September 2018 13:34
Il discorso scientifico di Marx è eminentemente “produttivista” o “economicista” che dir si voglia non nell'accezione volgare dei due termini, ma nel senso che sottolinea l'aspetto centrale delle forze produttive e dell'economia. In Marx non c'è nessun equivoco su un possibile “socialismo della miseria”. Il socialismo vince sul capitalismo perché è più efficiente. Anzi il socialismo non è antagonistico al capitalismo ma ne è il suo superamento includendone anche i suoi elementi positivi e, perché no, convivendo per un lungo periodo con il capitalismo come del resto sostengono sia Marx che Engels. Il movimento comunista è anticapitalista nel senso che vuole la fine dello sfruttamento, della povertà e del saccheggio coloniale e imperialista.
Se però il socialismo è il superamento del capitalismo ciò comporta due ordini di problemi. Giacché il comunismo si potrà raggiungere solo con l'abbondanza, il socialismo dovrà dimostrare la sua superiorità anche e soprattutto dal punto di vista economico e produttivo. Inoltre siccome supera il capitalismo, come il capitalismo è stato il superamento del feudalesimo, essendone l'antitesi dialettica (non dunque basandosi su una logica duale e meccanica) dovrà conservare il meglio di ciò che ha prodotto il capitalismo ad esempio in termini di organizzazione scientifica del lavoro estendendo la democrazia sui luoghi di lavoro. Lenin ad esempio pensa che l'economia del denaro sia stata la più grande invenzione del capitalismo e che, pertanto, debba essere al servizio del socialismo . Il socialismo nella sua fase iniziale, che è poi quella che pragmaticamente interessa per la nostra strategia, non sarà di conseguenza una cosa completamente diversa dal capitalismo. Soprattutto non completamente diversa dal capitalismo occidentale che ha recepito per tutto il XX secolo gli stimoli delle forze del lavoro, comunisti, socialdemocratici e sindacati che hanno conquistato i diritti e il welfare. Si costruirà con i materiali lasciati in eredità dal capitalismo. Ricapitolando: il capitalismo dal punto di vista del Materialismo storico è un ordine socio-economico che è stato progressista a suo tempo, ma che ha esaurito il suo potenziale. Le sue istituzioni costituiscono ormai un pregiudizio agli interessi generali del genere umano e bloccano la realizzazione delle conquiste sociali ed economiche che il capitalismo stesso ha reso possibili. Il materialismo storico, che prevede che il nuovo ordine sarà attuato, manterrà le conquiste positive del capitalismo, ma eliminandone, o almeno riducendole drasticamente, le sue tendenze distruttive.

Nella percezione popolare occidentale la Cina sarebbe un paese turbocapitalista addirittura a “capitalismo autoritario”, dunque peggiore di quello occidentale. Questo tipo di idee è stato instillato da tutta la truppa cammellata del Washington Consensus (università, media ecc.) che ha insistito sul leitmotiv del famoso TINA di Margaret Thatcher: “There is no alternative”, non ci sono alternative al capitalismo neoliberale. Ciò che c’è di positivo (sviluppo economico) in Cina deriva dalla ricetta liberista ciò che c’è di negativo (autoritarismo) deriva dal comunismo. Le truppe di complemento per questa concezione sono nell’estrema sinistra semplificatrice. Il senso è che Pechino non avrebbe semplicemente adottato il cosiddetto Washington Consensus.
In realtà tutti i tentativi di applicare le ricette liberiste nell’Africa Subsahariana, in America latina (default argentino) e nell’ex URSS (era di Eltsin) si sono rivelati un disastro completo.
Quello dei cinesi è socialismo di (più o meno) libero mercato che significa alto tasso di dirigismo statale (in modo che l'economia sia in mani nazionali e non di Wall Street) e un alto tasso di libero mercato (che significa merci e servizi con costi minimi). L'economia di mercato socialista evita l'instabilità macroeconomica del capitalismo, mentre sfrutta l'efficienza microeconomica del mercato. Una formula vincente dove è stata applicata: Cina, Vietnam, Laos, Cambogia che hanno, come si diceva, il maggior numero di gente sottratta alla povertà assoluta nel mondo.
Uno studioso inglese, John Ross, ci illumina sulla realtà dello sviluppo cinese. La superiorità schiacciante dello sviluppo economico dei paesi socialisti che hanno seguito una politica maggiormente in sintonia con il modello cinese, dimostra la superiorità del modello messo in opera dal PCC, alternativo a quello capitalista. Il modello capitalista si ispira oggi al Washington Consensus che è la strategia economica neoliberale dominante, seguita dalle istituzioni economiche internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale e costituisce il mainstream dell’economia insegnata nelle università occidentali. Il Washington Consensus è una forma classica di "neoliberismo". Si basa sulla privatizzazione dell’economia e la riduzione al minimo del ruolo economico dello stato. La sua politica sociale si basa sulla convinzione che la crescita economica porta vantaggio a tutti gli strati della società. Il termine "Washington Consensus" è stato coniato nel 1989 dall'economista statunitense John Williamson. Le politiche associate a questo modello sono però iniziate alla fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta. Siccome il periodo coincide con l’applicazione in Cina del modello del socialismo di mercato, è legittimo un raffronto basato sull’analisi macroeconomica tra i due tipi di sistemi. Il Beijing Consensus ossia il socialismo di mercato è oggi l’unica alternativa che tiene testa al modello capitalista a guida statunitense, adottato dalla maggior parte del mondo. Secondo l’espressione di Xi Jinping la strategia di sviluppo cinese a differenza di quella del neoliberalismo si basa, sia sulla mano "visibile" dello stato che sulla "mano invisibile" del settore privato, ma aggiungiamo noi anche sulla mano invisibile dello stato che riesce a coordinare a far sì che privati, semiprivati (cooperative e aziende a partecipazione statale) e persino aziende straniere che investono sul territorio nazionale siano indirizzati verso gli obiettivi strategici dei piani di sviluppo nazionali. L’analisi dei dati macroeconomici indica un trend decisamente favorevole a questi Paesi. Modelli di sviluppo alternativi, incluso il Washington Consensus, con le loro economie asfittiche sono un fallimento in confronto.
I paesi che hanno maggiormente attinto dall’esperienza cinese sono in primo luogo il Vietnam e poi Cambogia e Laos, come abbiamo visto nei capitoli precedenti che sono stati fortemente influenzati da quell’esperienza.
Dal 1993 al 2015 Cina, Cambogia, Vietnam e Laos, sono stati rispettivamente i primi quattro paesi nel mondo per la crescita del PIL pro capite. Se risaliamo al 1989 Cina, Vietnam e Laos sono stati i primi tre paesi per crescita pro capite del PIL. Dal 1978 in poi la Cina ha avuto la maggior crescita tra le economie del mondo intero. Dal 1989 il Vietnam e il Laos sono cresciuti tre volte più velocemente della media mondiale. Dal 1978 il tasso di crescita della Cina è stato di quasi sei volte superiore alla media mondiale (Ross, 2017). La crescita del PIL per il 2017 conferma la tendenza: la Cina (6.9 per cento) e il Vietnam (6.8 per cento) ma ciò che impressiona è soprattutto il 6.9 per cento del piccolo Laos.
Non si può neanche più dire che lo sviluppo si basa su salari bassi. In Cina, ci sono aumenti spettacolari delle retribuzioni, tra il 5 per cento e il 27 per cento secondo gli ultimi dati, in base al settore economico e alle regioni interessate. Pechino, punta ormai sull’aumento del potere d’acquisto delle famiglie per stimolare il consumo interno. Considerando le principali città, gli abitanti di Shanghai, Pechino o Shenzhen possono vantare salari medi paragonabili a quelli di Paesi dell’Europa Orientale se non superiori. Un esempio simile viene dal Vietnam, dove oramai da anni il governo continua ad aumentare i salari di percentuali importanti. Per il 2018, ad esempio, è stato deciso un rialzo medio su base nazionale del 6.5 per cento dei salari minimi, mentre l’inflazione è stata mantenuta sotto la soglia del 4 per cento, ma con un aumento inferiore al mezzo punto percentuale per i beni di prima necessità, in particolare quelli alimentari. In realtà, l’aumento sarà più importante proprio nelle zone più povere (6.9 per cento), quelle che attualmente godono di salari più bassi, mentre sarà del 6.1 per cento nelle aree urbane più sviluppate (le principali città, come Hanoi e Città Ho Chi Minh). Aumentando ogni anno i salari di una percentuale superiore rispetto a quella dell’inflazione, il governo vietnamita garantisce un lento ma graduale aumento del potere d’acquisto delle famiglie, assottigliando anche la diseguaglianza, senza dimenticare che il tasso di disoccupazione in Vietnam è appena superiore al 2 per cento (in Laos è addirittura l’1.5 per cento, mentre in Cina siamo sul 3.9 per cento).
Il risultato di questo sviluppo ha avuto effetti straordinari nella lotta alla povertà. Dal 1981 la Cina ha tolto 850 milioni di persone dalla povertà secondo gli standard della Banca Mondiale. Il Vietnam più di 30 milioni. Nel resto del mondo, nel modello dominante sostenuto dal FMI influenzato dal Washington Consensus, solo circa 120 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Durante questo periodo, l'83 per cento di tutta la riduzione della povertà è avvenuto in Cina, l’85 per cento se si considera l’insieme dei paesi socialisti nei paesi socialisti (il Vietnam, ha sollevato oltre 30 milioni dalla povertà) e solo il 15 per cento nei rimanenti paesi capitalisti. Anche i governi di sinistra dell'America Latina - che hanno respinto il consenso di Washington - hanno svolto un ruolo importante.
I paesi a “capitalismo avanzato” continuano a vivere una fase di stallo, con prospettive non proprio rosee per il futuro. Ma si potrebbe obiettare che il modello economico della Cina non può essere confrontato con le economie sviluppate che hanno già avuto uno sviluppo, ma anche se lo confrontiamo con le economie capitalistiche allo stesso stadio dello sviluppo economico (livello del PIL pro capite) si rivela di gran lunga migliore.
I dati sono sorprendenti per i sostenitori del TINA. L’alternativa c’è. Il capitalismo non ha portato più rapidamente al benessere del socialismo. In base agli ultimi dati della Banca Mondiale, l'84 per cento della popolazione mondiale vive nei paesi in via di sviluppo. Questi paesi sono molto più simili ai paesi socialisti e potrebbero voler imitarne il sistema.
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Giambattista Cadoppi
Friday, 14 September 2018 13:18
Caro Paolo
Se tu chiedi a un cinese che guadagnava 100 dieci anni fa e oggi 200 mentre un altro oggi da 100 è passato a 400 se vuole tornare a dieci anni fa, quello ti risponde se sei ammattito.
Siamo diventati più poveri? Noi si ma non i cinesi.
Tra il 2013 e il 2017 quasi 66 milioni di abitanti della Cina rurale sono usciti dallo stato di povertà; 10 milioni solo nel corso del 2017. Tutte le province che si trovano al di sotto della soglia di povertà dovrebbero superare tale soglia entro il 2020.
Si prevede che la Cina continuerà i suoi forti progressi verso l’eliminazione della povertà estrema, scrive la Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto, portando il suo tasso di povertà estrema a scendere al di sotto dell’uno per cento nel 2018. La lotta contro la povertà è cruciale perché la Cina diventi una società moderatamente prospera.
Il rapporto della Banca Mondiale aggiunge che il tasso di povertà estrema è stato abbassato da 88,3 per cento nel 1981 a 1,9 per cento nel 2013.
«I notevoli progressi della Cina nella riduzione della povertà estrema hanno contribuito in modo significativo al declino della povertà globale», ha affermato Hoon S. Soh, leader del programma della Banca mondiale per la politica economica per la Cina. «Il successo della Cina ha permesso a oltre 850 milioni di persone di sollevarsi dalla povertà», ha sottolineato. 850 milioni sono più della popolazione dell’UE sommata a quella degli Stati Uniti, una volta e mezzo la popolazione del continente latinoamericano e 14 volte la popolazione italiana . Il più grande evento del XX secolo secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz (quello che ha mandato a quel paese il FMI e la World Bank). Basterebbero i soli successi nella lotta alla povertà per guardare alla Cina come al paese che ha risollevato le sorti del socialismo nel mondo dopo la catastrofe del 1989.
Per la Banca Mondiale Il reddito nominale è addirittura aumentato di cento volte dal 1978 al 2017, mentre quello a parità di capacità Il reddito reale pro capite della Cina è aumentato di 17 volte (a parità di capacità d’acquisto) nello stesso periodo.
Tu dici ma sono diventati poveri relativi. E dici niente! Un povero assoluto è uno che fa fatica a mettere assieme il pranzo con le cena.
Secondo me nella sinistra occidentale non c'è un vero interese per la Cina. I cinesi devo essere spirituali e magari anche poveri al posto nostro dato che abbiamo i corpi devastati dalle lasagne e dal colesterolo.
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Paolo Selmi
Thursday, 13 September 2018 18:52
Caro Gianbattista,
è sempre un piacere per me leggere critiche così argomentate.
Dal 2013 a oggi le disuguaglianze sono aumentate, anche per l’innestarsi di procedimenti di liberalizzazione economica che hanno investito non solo la sfera produttiva, ma anche quella finanziaria e nell’esportazione del capitale (è il discorso che poi sviluppo nel quaderno di appunti).
Che per distribuire la ricchezza sociale occorra prima produrla, “è cosa buona e giusta”… si direbbe in altri ambienti. Anzi, è la condicio sine qua non. Altrimenti distribuiremmo soltanto le nostre briciole. Per questo Mao non è stato, mai, nemmeno in epoca frontista, Deng. Ed è difficile persino accostarli, se non a livello di caratura politica. Condivido al 100%.
Dove non condivido, è che L’UNICO MODO PER PRODURRE RICCHEZZA SOCIALE CONCEPIBILE OGGI SIA IL TURBOCAPITALISMO. Per una serie di motivi:
1. Per mollare qualcosa al contadino tibetano, devo far diventare straricco – in proporzione - l’abitante di Shanghai. E’ quello che ho dimostrato negli ultimi capitoli del mio lavoro, sviluppando le ricerche di Katasonov, attualizzando le sue fonti ai dati più recenti (su fondsk.ru i suoi articoli sono stati pubblicati nel corso degli ultimi 2-3 anni) e andando più a fondo nella ricerca risalendo anche alle fonti delle fonti.
2. E’ quindi una politica dei due tempi, accettata, come peraltro tu sottolinei, dagli stessi cinesi. Ci siamo passati tutti. Il testo di Bordieu che cito nell’ultimo capitolo, anzi, che mi serve a criticare proprio questo atteggiamento, per andare a fondo nel credito, nella sua idea, nel fatto che droghi un’intera economia e, al tempo stesso, vincoli il debitore all’accettazione delle regole sociali del turbocapitalismo, è stato scritto pensando all’Europa occidentale del boom, non alla Cina. Testo profetico… come fare una rivoluzione accettando il turbocapitalismo, mercificando tutto, reificando e alienando tutto l’esistente, perché tutto l’esistente è motivo di profitto, e inglobando il tutto nei gangli della nostra “normalità”, è un qualcosa che ritengo assurdo. A maggior ragione per un marxista che fa della lotta all’alienazione e allo sfruttamento la propria ragione di vita.
3. Che il canton Ticino non sia il continente cinese è vero, ma è vero anche che la Svezia non è la Bulgaria (il paese col coefficiente più alto… che oggi è un po’ diverso da quando c’era in piedi il Mausoleo di Dimitrov) o l’Ucraina. In altre parole, lo spazio fa, ma non solo lo spazio. E l’URSS aveva 15 fusi orari ma un modo di produzione che differenziava i redditi su basi decisamente differenti dalle attuali in RPC
4. A questo proposito, “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”, criticato a suo tempo da chi diceva che tutti dovevano prendere la stessa ciotola di ferro di riso, è principio socialistico valido in URSS anche sotto Stalin. Successivamente, incentivi economici, lavori più o meno retribuiti, esistevano anche in URSS. Un direttore di un ufficio postale pigliava più di un operaio. Ma non decine di volte di più.
5. Per far diventare straricco il cinese di Shanghai (punto 1 di questo breve elenco di note), si impone un’ulteriore accumulazione e concentrazione di capitale (accelerando il processo produttivo, delocalizzando (in Bangladesh, Birmania…), speculando in borsa, e chi più ne ha più ne metta). Il discorso sulle criptovalute che sviluppo nell’ultimo capitolo del mio quaderno di appunti, parla proprio dell’avventurismo di quel “più ne ha, più ne metta”…
6. Soprattutto, questo movimento ulteriore, questo ulteriore giro di vite, oltre a spremere la classe operaia locale, spreme le risorse di quella biosfera che indegnamente occupiamo e che non sono infinite, impoverendoLa, impoverendoCi. Quando ero piccolo si parlava del pericolo dell’Atomica, di quante volte saremmo riusciti a farci tutti saltare in aria… oggi sappiamo benissimo che ci stiamo facendo saltare in aria grazie a questo modo di produzione dissennato, dove per dare 1 a una persona un’altra deve guadagnare 100 per forza, altrimenti “non c’è stimolo”… e nessuno dice niente.
7. Stiamo creando un mondo dove questo turbocapitalismo, rosso, blu, beige, chiamalo come vuoi, sta impoverendo il pianeta e gli stessi popoli che in teoria dovrebbero trarre beneficio in quanto “golden billion”… un golden billion che ormai si sta scremando sempre più, una qualità della vita che peggiora sempre più.
8. Del resto, questo schifo mi facilita non poco sul lavoro. Avere a che fare con cinesi, con giapponesi, con arabi, con australiani, con russi o con sudamericani, parlando tutti la stessa lingua del dio denaro, aiuta a farsi capire alla svelta. Ma non è una bella soddisfazione.
9. Occorre ripartire dalla definizione dei bisogni sociali, dalla definizione di merce, dai fondamentali, dalla liberazione dall’alienazione e dallo sfruttamento. Crescere in maniera sostenibile, crescere tutti, crescere insieme. Questo è il socialismo. Questo è quello per cui ritengo valga la pena fare una rivoluzione.

Un abbraccio
Paolo
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Giambattista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 17:55
Caro Paolo mi fa sempre piacere parlare con compagni preparati come te.
"La prima potenza la mondo non può avere un coefficiente di Gini che ci sembrare noi, che siamo in questo la terra dei cachi, con un coefficiente tra i più alti in Europa, il paese dei Soviet a confronto e la il Canton Ticino la patria del comunismo realizzato". Attenzione a non confondere una parrocchia (il Canton Ticino) con un continente.
"La discrepanza nella prosperità nella campagna attualmente è solo un problema legato al fatto che 'qualcuno si arricchirà prima e gli altri dopo'. In nessun modo questo può essere considerato polarizzazione. Si va sulla strada della prosperità generale. Ma è illusorio pensare che oltre 800 milioni di contadini potessero arrivare al benessere dal giorno alla notte".
Editoriale del Quotidiano dei lavoratori del 1983

Scrive Giuseppe Amata su Contropiano a proposito del terzo plenum del Partito Comunista Cinese tenutosi nel 2013: "Nella risoluzione si riaffermano le scelte fondamentali compiute negli ultimi trent’anni di riforme ed apertura al mondo esterno e proprio dallo sviluppo di queste si è discusso l’approfondimento delle riforme in molti settori della vita economica e sociale della Cina per realizzare gli obiettivi sanciti dal 18° Congresso che vedranno entro il 2020 (centenario della nascita del PCC) il raddoppio del PIL del 2010, con la riduzione delle differenziazioni tra settore industriale ed agricolo, tra territori dell’est e dell’ovest e tra città e zone rurali, infine tra classi sociali con l’incremento dei salari più bassi e con la costruzione di un sistema di sicurezza sociale e sanitaria. Questo obiettivo intermedio per il 2020 sarà la base per ulteriori traguardi già prefissati per il centenario della nascita della RPC, vale a dire il completamento della realizzazione di una società socialista". Allora come sta la Cina a proposito di ineguaglianze oggi?

1) Come sostiene un economista marxista, Hiroshi Ohnishi, i tentativi di eliminare la povertà attraverso l'egualitarismo portano dritto alla catastrofe economica. La povertà si combatte con lo sviluppo economico lasciando che alcune zone o regioni facciano da battistrada. Deng Xiaoping docet.

2) I maggiori successi nella lotta alla povertà si sono avuti nei periodi di forte sviluppo economico. Qualsiasi marxista ben nato sa d'altra parte che è impossibile "decrescere" e uscire dalla povertà.

3) La disuguaglianza economica non è soltanto necessaria ma auspicabile per motivare al lavoro, all'investimento e al rischio ed è, a determinate condizioni, un segno del successo di una economia socialista che si muove verso nuovi e più avanzati rapporti di produzione. Infatti dove il modello del socialismo di mercato si è sviluppato compiutamente ossia nelle città della costa, pur provocando la disuguaglianza con le parti più arretrate del paese, ha oscurato persino gli evidenti successi delle zone rurali nella lotta contro la povertà. Oggi sono pochi i poveri che vivono nelle città.

4) I cinesi non sono contrari alla disuguaglianza se se si basa sul merito, lo sforzo, o l'assunzione di rischi. Infatti, la disparità di reddito offre alle persone incentivi o altre opportunità per migliorare la propria posizione economica coerentemente con la teoria materialistica di Marx.

5) Gli stipendi differenziati (lo erano anche nel periodo maoista) devono incentivare l'acquisizione da parte dei lavoratori di nuove tecniche e premiare la preparazione tecnico-scientifica ovvero l'avanzamento delle forze produttive attraverso lo sviluppo di competenze che pongono le basi per il passaggio a rapporti di produzione più avanzati. Con la maggiore offerta di laureati gli stipendi tenderanno a riequilibrarsi. Marx aveva auspicato che nella fase socialista a ciascuno materialisticamente doveva andare ciò che gli aspettava in rapporto al lavoro da lui svolto in termini di quantità e complessità.

6) Lo sviluppo economico porta naturalmente alla penuria di manodopera e al conseguente aumento degli stipendi e al benessere.

7) Lo sviluppo (sempre “turbocapitalismo” perchè il "turbosocialismo" è impossibile, naturalmente) fa diminuire la povertà. Che la disuguaglianza sia il prezzo che si deve pagare per tutto il processo della crescita economica è un argomento inconsistente frutto delle fasulle ideologie controculturali e anticonsumistiche della sinistra occidentale.

8) La disuguaglianza è diminuita durante i primi anni della riforma rurale (quando Deng avrebbe restaurato il capitalismo nelle campagne secondo i mentecatti della sinistra radicale).

9) Le imprese statali (SOE) e il settore pubblico in generale, cioè le imprese più propriamente socialiste, spesso incautamente accusate dalla sinistra radicale di macelleria sociale, sono di sovente accusate in Cina di eccessi salariali tanto che lo stato chiede di calmierare i loro vantaggi. Il coefficiente Gini è maggiore nelle aziende private 0,49 contro lo 0,23 del settore statale che rimane dunque abbastanza egualitario, nel senso che gli stipendi però tendono verso l'alto della gamma. Diverse settori si sarebbero ritagliati una posizione di vantaggio nella distribuzione delle risorse. In particolare nei settori dell’elettricità, del tabacco, delle assicurazioni, delle telecomunicazioni e della finanza, che generalmente guadagnano dalle 5 alle 10 volte in più rispetto agli altri settori. Nel 1997 il divario tra aziende monopolizzate come i servizi aerei e le poste era in media dalle 2 alle 3 volte in più rispetto al settore manifatturiero. La cosa paradossale è che gli stipendi delle aziende statali, molto "socialisti", però anche molto alti rispetto alla media, squilibrano il coefficiente Gini cittadino. Secondo i liberali cinesi la disuguaglianza è dovuta alla presenza monopolistica del settore statale ovvero essi "arrivano a sostenere che anche il problema della distribuzione del reddito potrebbe essere risolto grazie a un pacchetto standard a base di privatizzazioni, diminuzione del ruolo dello stato nell’economia, liberalizzazioni, promozione della concorrenza, etc. . Essi sostengono che l'indice Gini sia pari a 0,61 cioè molto alto. La sinistra radicale riprende lo stesso dato attribuendolo, all'opposto, al "turbocapiatlismo" dei dirigenti comunisti.


Limiti degli indici di disuguaglianza
10) L’Indice Gini, può servire a fare raffronti ma prima bisogna capire cosa ci può dire. Un paese molto popolato dovrebbe, in generale, avere un indice Gini molto alto mentre un paese con una sola persona ha un indice zero ovviamente. Bisogna confrontare paesi che siano tra loro abbastanza vicini come popolazione. I paesi scandinavi che sono equivalenti a delle parrocchie di Shanghai è naturale che abbiano un indice basso. Che il Gini della Cina sia uguale a quello USA che ha una popolazione di quasi un un quinto significa che la Cina è molto più egualitaria degli USA. Difficile parlare del coefficiente Gini quando non si sa come funziona.

11) Sul coefficiente di Gini influisce la vastità del territorio. Nota Antonio Gabriele: "una parte statisticamente maggioritaria della grande disuguaglianza complessiva rivelata da questa cifra è di natura spaziale/geografica. La Cina è enorme, e per forza di cose lo sviluppo economico moderno non può cominciare contemporaneamente dappertutto. Comparare il reddito pro capite del Guandong con quello del Gansu non è la stessa cosa che confrontare il reddito della Lombardia con quello della Basilicata (semmai, si dovrebbe pensare all’Olanda da una parte e all’Egitto dall’altra)". In generale più il paese è vasto più è possibile che vi sia uno sviluppo differenziato da zona a zona. Per questa ragione i valori calcolati per ogni paese europeo sono difficilmente comparabili con il dato complessivo della Cina. Bisogna dunque paragonare paesi di simile grandezza, tipo l'India. Infatti nes­sun altro paese, ad eccezione dell'India, si è mai trovato ad affrontare problemi simili (Arrighi). Oppure si devono comparare i paesi medi con regioni cinesi con una popolazione e un territorio equivalenti. Eppure nel campo delle disuguaglianze tutti fanno finta che in Cina ci siano le stesse condizioni dalla Svezia.

12) La Cina è il paese più popoloso del mondo ed anche uno dei più vasti, non ha ancora completato la transizione verso l’urbanizzazione, l’industrializzazione e la terziarizzazione ed ha uno dei più alti tassi di sviluppo del mondo. Dovrebbe di conseguenza avere di gran lunga l'indice Gini più alto del mondo, ma così non è.

13) La Cina è comunque molto più egualitaria dell'America Latina, dell'Africa e dell’India. Pure dell’Europa se il Coefficiente fosse misurato per l’intero continente piuttosto che in paesi come l’Austria meno popolati di Shanghai. In effetti se si prendono i paesi più ricchi dell’Europa (Svizzera, Irlanda, Svezia ecc fino ad arrivare ad un decimo della popolazione europea) e i più poveri (Bulgaria, Romania, Albania ecc anche questi per un decimo) si vedrà che i più ricchi hanno un reddito procapite superiore di circa dieci volte a quelli più poveri. Se prendiamo tutti gli abitanti delle città in Cina hanno un reddito superiore di “solo” tre volte quello delle campagne. Occorre però anche tenere presente la differenza del potere d'acquisto. La gente guadagna di più a Shanghai (che è paragonabile al Portogallo come standard di vita) che non nello Guangxi. La gente ha molti più i soldi a Roma che a Shanghai. Ma questo surplus è compensato dal fatto che il costo della vita è più alto a Roma che nella città cinese. Se si fa il confronto a parità di prezzo d'acquisto, le differenza sono molto minori di quelle che sembrano. La Cina si situa circa a metà strada per il Coefficiente Gini nel mondo, al livello della Gran Bretagna che ha una popolazione inferiore di 23 volte.

14) E' importante anche il tasso di sviluppo. Nei paesi ricchi ma stagnanti (0-2% di crescita) ma che hanno completamente percorso il processo verso l’industrializzazione e la terziarizzazione, la variazione del Gini può essere significativa se si verifica. I paesi poverissimi e stagnati hanno quasi sempre indici Gini bassi. I paesi dinamici (+6-10%) tendono ad avere indici Gini più differenziati. Inoltre bisogna vedere se è stato completato il passaggio dalla campagna alla città. Inutile confrontare la Cina che ha un indice di urbanizzazione scarsissima ma con alto dinamismo con un paese avanzato con un indice di urbanizzazione alto. La campagna soprattutto se sovrappopolata offre sempre redditi bassi. Quindi si devono confrontare paesi con indici di urbanizzazione simili. All’interno della singola città la differenza di reddito è minore del dato nazionale. L’India ha un numero di poveri molte volte maggiore di quelli della Cina pur con una popolazione minore.
L'industrializzazione ha ovviamente favorito gli abitanti delle città e il controllo della migrazione ha impedito la formazione di ceti poveri urbani. Solo il 3% di coloro che risultano poveri risiede in città in Cina. Questa è la ragione per cui si vedono gli slum in India, ma non in Cina.

15) Ci sono molte controversie su come calcolare il coefficiente di Gini in Cina. Ci sono più di venti stime diverse. Il valore più alto è quasi il doppio del valore più basso.

16) In generale il Coefficiente Gini della Cina è più accurato di quello degli altri paesi dato che i dati vengono raccolti lungo tutto l'anno mentre in altri paesi vengono raccolti in un determinato mese o settimana. Ma ha difetti legati alla specificità cinese.

17) Alcuni paesi danno benefici monetari, mentre altri (come la Cina) offrono buoni spesa o buoni pasto alla popolazione povera, che non sono presi in considerazione nel calcolo del coefficiente di Gini.

18) Il coefficiente Gini può aumentare in due modi. Gli aumenti di reddito avvengano per ciascun gruppo di reddito, sebbene il gruppo di reddito più alto tenda ad aumentare i propri guadagni più velocemente rispetto al gruppo a basso reddito. Questo è il caso della Cina. Ci sarà un divario di reddito senza serie conseguenze sociali. Se invece il gruppo a basso reddito si impoverirà allora le conseguenze sociali sono inevitabili. Una certa disuguaglianza può essere tollerata e poco percepita se è all’interno di un’economia dinamica. Poiché tutti hanno comunque aumentato i propri redditi e goduto di una vita migliore, l'ampliamento della differenza di reddito viene ampiamente accettata.

19) Le disuguaglianze della Cina sono in gran parte un fenomeno regionale. Il coefficiente di Gini per una singola provincia è piuttosto basso, mentre è grande se si confrontano tra loro le province più ricche con quelle più povere. Bassi coefficienti Gini sono presenti in piccoli stati europei (paragonabili ad una parrocchia di Shanghai). Inoltre è il coefficiente è grande se si guarda al dislivello tra città e campagna. E’ piccolo se si guarda a zone omogenee come città tra loro oppure campagne. Nelle città era dello 0.23 nel 1988 ed è aumentato a 0.319 nel 2002. Nelle campagne ad esempio era dello 0.303 nel 1988 e dello 0.366 nel 2002. Se si prendono i quasi 700 milioni di residenti nelle città e gli altrettanti residenti nelle campagne hanno un coefficiente pari o inferiore a quello di tanti stati europei con meno di 100 milioni di abitanti.

Negli ultimi anni in coefficiente Gini è il più basso dell'ultima decade
20) L'urbanizzazione ha da poco superato il 50% (nei paesi avanzati mediamente è del 70/95%). Secondo la teoria dell'economia duale di Lewis, durante il periodo iniziale dell'industrializzazione, i settori industriali urbani raggiungono i maggiori profitti all'interno della società. Come risultato, aumenta la disuguaglianza di reddito tra settori industriali urbani e i settori tradizionali rurali. Più la popolazione rurale si trasferisce verso le aree urbane, più diminuisce il surplus di lavoro rurale. Di conseguenza, il reddito rurale si avvicinerà al reddito medio della società, portando necessariamente alla diminuzione della disuguaglianza del reddito urbano-rurale. Basandosi sul modello di Lewis, Simon Kuznets esaminando i progressi economici dei paesi sviluppati, sostiene che la disparità di reddito si evolve con un modello ad U rovesciato, cioè, prima aumenta e poi decresce. Pertanto, l'urbanizzazione esercita un effetto cruciale sulla disuguaglianza del reddito nazionale. Certo, il trasferimento del surplus di lavoro rurale in Città si basa sulla capacità di creare maggiori opportunità di lavoro che, ovviamente, derivano dallo sviluppo economico. Sicuramente la crescita economica non può risolvere automaticamente in Cina le disuguaglianze di reddito, ma le disparità di reddito sono difficilmente migliorabili senza di essa.

21) L'andamento delle disuguaglianze dovrebbe procedere secondo la scienza economica in linea con curva di Kuznets cioè tendere verso l'alto nella fase ascendente dell'industrializzazione-urbanizzazione e abbassarsi quando questo processo si stabilizzerà. E' ciò che sta avvenendo in Cina. Dal 2009 il coefficiente Gini si è continuamente abbassato dallo 0,491 del 2008 allo 0.477 nel 2011, dato tra i più bassi del decennio passato.

22) Nel febbraio del 2013 appena dopo che l'ufficio di Statistica aveva resi noto questi dati è stato annunciato il nuovo piano per ridurre le ineguaglianze di reddito. Il raddoppio dei livelli di reddito personale entro il 2020, è emerso come uno dei nuovi obiettivi della leadership. Si deve dire che ai tassi di crescita attuali i redditi raddoppierebbero comunque. La crescita sarebbe maggiormente incentrata sul miglioramento standard di vita. La crescita economica rientra nel piano per combattere disuguaglianza del reddito puntando però maggiormente sulla qualità che sulla quantità.

23) Il partito giustamente insiste nella lotta alle diseguaglianze. Deng addirittura ne faceva una questione discriminante per vedere se la via seguita era quella socialista evitando la polarizzazione o capitalista. Polarizzazione significa per Deng che si cresce a spese degli altri. Il Partito inoltre vuole sensibilizzare l'opinione pubblica sull'argomento affinché non si facciano strada atteggiamenti egoistici (tipo Lega nord in Italia) delle regioni più ricche e dei ceti benestanti verso coloro che avanzano più lentamente verso il benessere. Già nel 1995, la quinta sessione del 14° Plenum del CC del Partito comunista, ha messo in guardia contro l'ampliamento delle differenze economiche.
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Paolo Selmi
Thursday, 13 September 2018 16:22
Caro Gianbattista,

grazie anzi tutto per la replica articolata e complessa. Non è retorica, grazie davvero! Veniamo al punto:

Tua nr. 3: “Non il futuro ma già il presente.” Intendevo il futuro per gli altri che si dicono comunisti, che è poi il senso del tuo lavoro. Che per loro sia il presente è un dato assodato da trent’anni.
“I cinesi non hanno demonizzato né Stalin né Mao.” E ci mancherebbe anche che passassero sopra ai loro miti fondativi… il problema è che ci sono passati sopra, come sono passati sopra a Marx, Lenin e a tutto il resto. Il loro è un modo di legittimare il potere attuale che procede per GIUSTAPPOSIZIONE, il che spiega perché non ebbero mai un Chruscev, non nei confronti di Stalin, ma di nessuno in generale… Su questa tesi puoi vedere il capitolo iniziale della mia tesi di dottorato (scusa il gioco di parole, https://www.academia.edu/3394081/Il_substrato_confuciano_e_tradizionale_del_marxismo_di_Mao_Zedong).

Tua nr. 4 “ha sottratto dalla povertà ASSOLUTA 850 milioni di persone in Cina, Vietnam, Laos, Cambogia” per dargli povertà RELATIVA, mentre i capitalisti locali ingrassano. Su questo ho scritto un quaderno di appunti che riporta dati loro, non miei inventati, sulle disparità di reddito, sul coefficiente di Gini che aumenta e sulla maggior parte del popolo cinese che vive sotto quello che è dichiarato come “reddito medio”. (https://www.academia.edu/37305627/Riportando_tutto_a_casa._Appunti_per_un_nuovo_assalto_al_cielo pp. 63-64, la cartina e i dati sono aggiornati, nel senso che la prima l’ho fatta io in quanto non ancora - o forse mai - disponibile sulla rete e i secondi sono gli ultimi dati usciti) Il socialismo che libera la classe operaia dalle catene della sua oppressione e alienazione è un’altra cosa, mi dispiace. La prima potenza la mondo non può avere un coefficiente di Gini che ci sembrare noi, che siamo in questo la terra dei cachi, con un coefficiente tra i più alti in Europa, il paese dei Soviet a confronto e la il Canton Ticino la patria del comunismo realizzato.

Tua nr. 5. Sull’apprendimento: apprendere è nozione di buon senso, non di marxismo. Anzi, su questo i cinesi hanno dovuto aspettare la morte del Grande Timoniere, perdendo poco meno di mezzo secolo sulla strada del capitalismo, rispetto ai loro fratellastri taiwanesi e ai vicini di casa giapponesi. Ma hanno “appreso” e recuperato in fretta, spremendo laddove c’era da spremere. Mao e Deng sono dei giganti, NEL BENE E NEL MALE, da lì a farne modelli ne corre, da lì a paragonarli a Lenin ne corre ancora di più: i milioni di morti per fame del cosiddetto “grande balzo in avanti” e il comunismo da caserma che ne seguì fu tutto fuorché un modello, al punto che oggi è argomento tabù come allora. Deng fra scegliere di rifondare un sistema a proprietà sociale dei mezzi di produzione e a economia di piano, da un lato, e aprire le gabbie, dall’altro, scelse la seconda dicendo che “i ricchi sono di modello per i poveri”, gli asfaltano la strada, chiamando il tutto socialismo… i risultati del “capitalismo con caratteristiche cinesi” li vediamo oggi. E’ il modello “vincente” oggi di capitalismo, non c’è dubbio: ho speso un centinaio di pagine per descriverlo, sia pur per sommi capi. Lenin è stato un’altra cosa: sono loro stessi a dirlo, che andava bene “per il suo periodo”, “per il suo contesto”… oggi va meglio il modello Singapore, anche se non si può scrivere nei documenti ufficiali che si richiamano ai Classici. Almeno, finché non arriverà qualcuno a scrivere il suo Classico, aggiungerlo al Canone, e farlo studiare a tutti per affermare la propria Autorità. Riscrivendo poi la storia, come sempre accade, a modo suo: come mi è capitato di tradurre nella mia ricerca di dottorato su Mao, piuttosto che nei documenti attuali del volume di 3 anni fa sulla “Via cinese”, lavoro che mi commissionò Catone (https://www.marx21books.com/prodotto/la-via-cinese/).

Sul discorso di capitalismo monopolistico di Stato, mi trovi completamente d’accordo quando critichi la posizione di chi applica l’argomento all’URSS dopo Stalin. E’ semplicemente antistorica. Anche la NEP e il capitalismo di Stato leninistici, come mostra il saggio di Giacché recentemente pubblicato su queste pagine, sono da intendersi in un percorso che tende al socialismo. E non perché col capitalismo di stato arrivo al socialismo, ma perché col capitalismo di stato riesco a mettere un tampone, a prezzo di compromessi che dovrò bilanciare sul piano della lotta di classe, all’arretratezza economica e alla fame dopo due anni di guerra civile. Riesco ad attrarre capitali ma alzo l’asticella del livello di conflitto, creo qualche paperone ma gli oppongo milioni di operai incazzati, che quando sarà il momento diranno “grazie, è stato un vero piacere farci sfruttare da te, ma ora fatti da parte che l’economia ce la gestiamo da soli, siamo grandi abbastanza”. Lenin si chiedeva chi avrebbe vinto, non lo sapeva nemmeno lui, ma mai e poi mai avrebbe aperto le porte del partito ai padroni a patto che continuasse a comandare lui, almeno formalmente. Quello che è successo nel PCC, dove rappresentano le “forze produttive più avanzate”…

Grazie ancora, davvero, per le tue risposte!

E infine una richiesta… mi potresti per favore dare una mano sul lavoro che sto facendo sull’economia di piano? Man mano che tradurrò e metterò a disposizione di tutti il testo planomernost’, planirovanie, plan, che sto studiando, te la sentiresti – e questo ovviamente lo chiedo a tutti – di contribuire all’arricchimento del testo, delle analisi, degli argomenti? E, perché no, ad attualizzarne tesi, tecniche, metodi, di modo da renderli fruibili anche per l’oggi?

Un abbraccio
Paolo
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Giambattista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 15:21
La teoria ormai mainstream del capitalismo di stato vedrebbe una sorta di capitale senza capitalisti, in analogia con il capitalismo di stato occidentale, sotto forma di capitale finanziario attraverso la raccolta di capitale sociale da parte delle banche. Il capitalista utilizza capitali non suoi per cui si avrebbe capitale senza capitalisti e capitalisti senza capitale.


Il trotzkista Tony Cliff ripropose la fortunata teoria secondo cui
i paesi socialisti sarebbero in realtà a capitalismo di stato
avversata in particolar modo dai trotzkisti ortodossi
Lenin nel 1918, prima dell'inizio della guerra civile, pensando alle condizioni di grave arretratezza della Russia crede che il capitalismo di stato sia un progresso. Lenin fa l'esempio della Germania dove le ultime conquiste della grande tecnica capitalista moderna sono al servizio della borghesia mentre nella Russia devono essere poste al servizio del socialismo attraverso uno stadio intermedio rispetto al socialismo quale appunto il capitalismo di stato. Lo scoppio della guerra civile ritarda la realizzazione di questo progetto che viene tuttavia ripreso e sviluppato negli anni della NEP.

In Lenin vi è però uno slittamento di significato su capitalismo di stato e socialismo. Nel 1918 egli pensa che il capitalismo di stato debba formare le basi della società socialista nel senso dell’evoluzione verso un capitalismo monopolistico di stato che renda i rapporti mercantili trascurabili. E' una ripresa delle teorie di Engels che vede nel capitalismo monopolistico di stato tedesco l'anticamera del socialismo. Egli, infatti, pensava che lo stato fosse destinato a intervenire sempre più massicciamente nell'economia fino a una quasi statizzazione di tutto il tessuto economico, per cui il proletariato non avrebbe fatto altro che prendere in mano la gestione del “capitalismo di stato” per poi passare facilmente al socialismo.

Comunque in questo contesto il capitalismo di stato appare a Lenin come una forma superiore di sistema economico in quanto combatte la dispersione della piccola proprietà contadina. Il capitalismo di stato non è un pericolo finché il potere è saldamente nelle mani dei lavoratori e in ultima analisi del loro Partito. Il capitalismo di stato in un primo tempo è identificato con il sistema generale cui deve tendere la Russia, una sorta di primo stadio nell’evoluzione verso il socialismo analogamente alla "prima fase del socialismo" dei comunisti cinesi, ma poi Lenin identificherà sempre più il capitalismo di stato con le forme non direttamente socialiste. Per questo, secondo Lenin, il poco o il tanto di socialismo che c'è in Russia è costituito dalle aziende statali, mentre il resto dell'economia privata o semiprivata, comprese le cooperative “borghesi”, ma controllata dallo stato, costituisce il capitalismo di stato. Il capitalismo di stato è formato dal monopolio del grano, dagli imprenditori e commercianti controllati dallo stato e dalle cooperative “borghesi”, a sottolineare che queste ultime non costituiscono un elemento puramente socialista, che lottano assieme all'elemento socialista contro l'elemento piccolo borghese che si oppone all'intervento dello stato. Ancora in questa fase le cooperative costituiscono un passaggio intermedio analogo all'uso degli specialisti borghesi e in questo senso sono un elemento del capitalismo di stato. I due sistemi sono alleati contro la piccola proprietà e gli speculatori. Infine un terzo slittamento si ha quando egli finisce con l'includere di fatto le cooperative nel sistema di proprietà socialista, arrivando a definire il socialismo come «regime dei cooperatori civili». Il leader bolscevico scrive che il potere nelle mani del proletariato in unione con i contadini costituisce una base sufficiente per costruire il socialismo sulla base della cooperazione nelle campagne. Se, dice Lenin, le cooperative si basano sul possesso statale della terra e dei mezzi di produzione la crescita delle cooperative si identifica con la crescita del socialismo:
"Nel nostro regime attuale le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si distinguono dalle aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia... Ma guardate come le cose sono mutate, ora che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia, che il potere politico degli sfruttatori è abbattuto e che tutti i mezzi di produzione (esclusi quelli che lo Stato operaio lascia volontariamente per un certo tempo e a certe condizioni di concessione agli sfruttatori) si trovano nelle mani della classe operaia [...]. Ora abbiamo il diritto di dire che il semplice sviluppo della cooperazione s'identifica per noi... con lo sviluppo del socialismo". Contemporaneamente siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale
Nota a questo proposito giustamente Van Ree: "Nel 1921 Lenin ancora considerava le cooperative, sebbene un passo in avanti, una “varietà di capitalismo di stato”- imprese capitaliste controllate dallo stato proletario. Egli credeva che la completa nazionalizzazione -le fattorie di stato- fosse la precondizione per parlare di socialismo nelle campagne. Ma più tardi egli si rende conto che non ci siano buone ragioni per non considerare le cooperative contadine, se sotto il controllo dello stato, come socialiste in natura. C'è un cambiamento fondamentale nel suo concetto di socialismo" .

Da quanto detto sopra Lenin muta il suo atteggiamento nei confronti delle cooperative ma egli con chiarezza indica che i mezzi di proprietà statale sotto il potere proletario sono una forma di proprietà socialista e il capitalismo di stato è ricondotto ai mezzi di produzione che sono lasciati volontariamente ai privati. Lenin ha in mente soprattutto i capitalisti stranieri che investono in Russia o anche le aziende statali date in affitto, oppure le aziende capitaliste o gestite con metodi capitalisti sotto il controllo dello stato dei lavoratori. Ma è indubbio che Lenin pensa che l'Unione Sovietica sia in transizione verso il socialismo. Lenin si basa, per arrivare al socialismo, sia sulla proprietà dei mezzi di produzione che sulla sostituzione della vecchia burocrazia con un nuovo apparato controllato dal proletariato.
Siccome questi problemi non li ho trattati nelle due parti dl saggio su Marxismo oggi penso che aggiungerò una terza parte su questi argomenti .
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Giambsttista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 15:13
Io volevo aprire un dibattito e dibattito sia. Credo che le posizioni dominati oggi in Italia siano quelle del compagno Selmi, che comunque hanno una loro dignità, e non le mie. Le mie sono discutibili edè giusto discuterle. Le posizioni che vanno per la maggiore nella “sinistra radicale” dagli ultimi patetici “marxisti leninisti” ormai ridotti a essere la versione buffa del trotzkismo, ai trotzkisti medesimi fino ai no-global dono molto diverse dalle mie. Le “frasi vuote” di cui parla Lenin (citato da Losurdo) impazzano nella sinistra radicale occidentale e i concetti stravaganti ancora di più. Uno di questi ci sembra sia il “capitalismo di stato”, l'altro è quello di "burocrazia". Occorre affrontarli entrambi nella loro genesi storica per capire quali mitologie agitano le menti della "sinistra radicale". Questi concetti costituiscono delle false piste per la spiegazione del crollo del socialismo nei paesi europei.
Lenin dà, già dal 1918, al capitalismo di stato una connotazione positiva ma due bolscevichi appartenenti ai “comunisti di sinistra” Ossinski e Bucharin ne sottolineano invece gli aspetti negativi. Il capitalismo di stato sarebbe un’operazione condotta a detrimento del proletariato nel suo complesso che sarebbe ridotto a salariato dello stato-padrone per cui non ci sarebbe nessuna edificazione socialista ma appunto il capitalismo di stato. La vulgata trotzkista-bordighista (in particolare Tony Cliff) oggi dominante intende le stesse aziende statali di un paese socialista come parte del capitalismo di stato. Le tesi di C. Bettelheim secondo cui in URSS si è instaurato sin dall'inizio un capitalismo di stato non vedendo nessuna evoluzione e transizione in corso, sono sulla stessa falsariga. La tesi è stata enunciata originariamente in Occidente da Bordiga e ripresa successivamente dal movimento del '68. Bordiga per la verità preferisce parlare in realtà di “industrialismo di stato”. Questa posizione è contraria al senso che Lenin finisce per dare al capitalismo di stato, ossia dell'utilizzo del capitalismo (quello vero, privato) per il rafforzamento dell'economia e quindi dello stato socialista.
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Giambsttista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 14:23
I cinesi considerano il marxismo come l'esperienza storica accumulata dal movimento dei lavoratori in oltre 150 di storia. Per loro è indispensabile la categoria di apprendimento piuttosto che dare la colpa di tutto sempre al "tradimento"

"... noi dobbiamo in realtà puntare soprattutto su una categoria che è la categoria dell’apprendimento. E’ una categoria che Mao ha saputo far valere soprattutto nel saggio, credo del 1935, sulla pratica. Mao insiste che come la lotta di classe si sviluppa attraverso contraddizioni, così anche il processo di conoscenza per comprendere la lotta di classe si sviluppa attraverso contraddizioni. E io credo che questo tema della necessità dell’apprendimento sia stato sviluppato soprattutto da due grandi autori, uno è Mao Tse Tung, un altro autore, vittima anche lui di una costante rimozione, si chiama, lo voglio dire, Deng Xiaoping. Deng Xiaoping ha scritto pagine memorabili su questo tema. Lo devo dire. Quando ho incominciato, da poco tempo, a leggere Deng Xiaoping, ho di nuovo ritrovato un’emozione intellettuale che non trovavo da molto tempo, cioè da quando leggevo Lenin polemizzare contro la frase vuota che non significava assolutamente nulla".
Domenico Losurdo (Losurdo 2000).
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Giambsttista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 14:19
Adotto al definizione "capitalismo monopolistico di stato" fino a dire "Evviva il capitalismo monopolistico di stato" che ha sottratto dalla povertà assoluta 850 milioni di persone in Cina, Vietnam, Laos, Cambogia. Come mai tutti paesi a "capitalismo monopolistico di stato" hanno adottato questo sistema? Se funzionava perfettamente o anche con qualche problemino il regime precedente come mai hanno adottato questo? Come mai i comunisti in Nepal, oggi al governo, hanno adottato anche loro questo sistema? Come mai la stessa Cuba ha accettato la riforma agraria stile denghista?
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Giambsttista Cadoppi
Thursday, 13 September 2018 13:28
" il tutto per dimostrare la tesi, neanche tanto nascosta, che il capitalismo monopolistico di stato in salsa sinica sia il futuro". Non il futuro ma già il presente. Nel libro in uscita in questi giorni "CRISI, CROLLO E RINASCITA DEL SOCIALISMO. IL SOCIALISMO DALLA PRIMAVERA DI PRAGA AL CROLLO NELL’EUROPA ORIENTALE,
ALLA RINASCITA IN ASIA" spiego meglio come i cinesi siano arrivati a elaborare le tesi sul socialismo di mercato partendo da una revisione critica delle esperienze sulla costruzione del socialismo in URSS e nelle democrazie popolari. I cinesi non hanno demonizzato né Stalin né Mao. Hanno semplicemente rivisto in modo critico tali esperienze non per ricominciare da capo, ma per andare in avanti, Negli anni anni Novanta sono stati prodotti in Cina un migliaio di saggi sulla caduta del socialismo nell'Est Europa.
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Eros Barone
Wednesday, 12 September 2018 10:47
La verità è che i comunisti e il proletariato sovietici, con alla testa Stalin, riuscirono a resistere alle pressioni interne ed esterne e alle aggressioni da cui erano investiti, portando il movimento operaio ad un livello superiore in tutto il mondo, nonché permettendo il trionfo della rivoluzione in Cina e lo sviluppo del movimento di liberazione nazionale in tutte le colonie. Essi costruirono un sistema industriale pianificato e basato sulle tecnologie più avanzate dell'epoca; introdussero la produzione collettiva in agricoltura ponendo le basi per la crescita culturale e politica dei contadini e per la eliminazione della loro arretratezza tecnica, culturale e politica; introdussero un sistema di distribuzione del prodotto tra gli individui basato per l'essenziale sulla quantità e qualità del lavoro prestato; promossero l'emancipazione delle donne e l'istruzione dei bambini; realizzarono forme di potere diretto dei lavoratori; costruirono sistemi di formazione generale, di partecipazione diffusa al patrimonio culturale della società, di fruizione universale delle cure mediche ecc.). Questo fece sì che il potere sovietico potesse esistere per vari decenni e desse un poderoso contributo alla causa comunista e alla causa della liberazione nazionale in tutto il mondo. Così, non vi fu nel mondo un movimento di liberazione e di emancipazione delle classi, dei popoli e delle razze oppressi che non trovasse nell'URSS un punto di forza, un sostegno e un'ispirazione, nonostante le difficoltà in cui l'accerchiamento capitalistico poneva l'URSS e, quindi, il proletariato e i comunisti sovietici. Sennonché, da quando i revisionisti moderni presero il sopravvento nella direzione dell'URSS, ogni progetto di riforma economica proposto o attuato fu teso programmaticamente a ristabilire e rafforzare rapporti di tipo capitalistico tra le imprese, tra le imprese e i lavoratori e tra le imprese e il resto della popolazione. Non a caso gli USA divennero il costante punto di riferimento e l'ideale della nuova borghesia sovietica. La conseguenza fu che l'URSS cessò gradualmente di essere esempio e punto di forza del movimento operaio internazionale e dei movimenti di liberazione nazionale antimperialista. Il resto, cioè la restaurazione del capitalismo in forme selvagge e nuove forme di dipendenza/subimperialismo/imperialismo, sono sotto i nostri occhi da tre decenni.
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Paolo Selmi
Tuesday, 11 September 2018 16:02
Mi dispiace, ma tutta la prima parte non mi convince. La cosa più triste è che si parla di URSS senza citare una fonte diretta, ripetendo quindi alcuni luoghi comuni.
Qualche osservazione al volo:

“La pianificazione viene effettuata in termini generali per l’impossibilità di controllare in dettaglio un sistema che inizia a essere diversificato e complesso.” (O FORSE PERCHE’ CI SI FERMA UN ATTIMO PRIMA DI ARRIVARE ALLA CONTA DELLO SPILLO PROPRIO PER QUELLA SAMOSTOJATEL’NOST’ (AUTONOMIA) CHE VIENE LASCIATA DAL PIANIFICATORE CENTRALE ALL’ESECUTORE LOCALE COME PARTE DEL CALCOLO ECONOMICO CHE E’ SUO DOVERE COMPIERE (ХОЗЯЙСТВЕННЫЙ РАСЧЁТ, sulla BSE la voce completa è qui: https://slovar.cc/enc/bse/2056499.html).
La pianificazione implica una sorta di impresa-centro e l’impossibilità di un rapporto economico tra le imprese. (NON E’ PROPRIO COSI’, ANZI, L’ECONOMIA SOVIETICA FU UNA STRUTTURA RAMIFICATA DOVE, DI FATTO, IL CENTRO ERA VARIABILE A SECONDA DELLE ESIGENZE DI PIANO, MUOVENDOSI DA SETTORE A SETTORE, DA LUOGO A LUOGO: UNO DEI VANTAGGI DELLA PROPRIETA’ SOCIALE DEI MEZZI DI PRODUZIONE)
Gli obiettivi del piano sono soggetti a fattori extra-economici per favorire la stabilità politica e dipendono dalla situazione internazionale. (QUESTO OVUNQUE, ANCHE NEL CAPITALISMO, SOPRATTUTTO NEL CAPITALISMO)
I prezzi sono designati dal pianificatore centrale, con motivazioni socio-politiche, non economiche. (LO SCOPO DELLA PIANIFICAZIONE E’ RISPONDERE AI BISOGNI SOCIALI CRESCENTI DELLA POPOLAZIONE, NON PRODURRE PROFITTO… SCRITTA COSI’ SEMBRA UN INNO AL SISTEMA AMERICANO DOVE TI PAGHI ANCHE L’OPERAZIONE CHIRURGICA, O NON TE LA FAI)
Spesso si arriva a sovvenzioni alla produzione e ai prezzi. (QUESTO OVUNQUE, ANCHE NEL CAPITALISMO, SOPRATTUTTO NEL CAPITALISMO)
Con i prezzi che in ogni caso coprono i costi maggiorati di un margine di guadagno e vendite garantite viene a mancare la spinta verso l’innovazione e verso la riduzione dei costi. (OGGI LA TECNOLOGIA E’ TUTTO MENO CHE INNOVAZIONE, IN TERMINI DI VALORE D’USO, ANCHE SE CI SI SCANNA PER “RIDURRE I COSTI” TAGLIANDO POSTI DI LAVORO A DESTRA E A MANCA…)
Con la fine dello sviluppo estensivo, con la scarsità di nuove forze da immettere nella produzione, siano esse nuove terre in agricoltura, oppure nuovi lavoratori da portare dall’agricoltura all’industria, rallenta fortemente lo sviluppo. (PER QUESTO SI PARLAVA DI CIBERNETICA, DI AUTOMAZIONE, E PERALTRO SENZA INDURRE FENOMENI DI ESCLUSIONE, DI ESPULSIONE DEL LAVORATORE DAL CICLO PRODUTTIVO).
L’aumento dei costi dei fattori produttivi comporta una diminuzione dei tassi di crescita e anche un calo dell’innovazione tecnologica. (CASOMAI L’OPPOSTO, QUANTOMENO NEI BENI DI CONSUMO. L’INGRESSO DELL’ELETTRONICA E DELLE MATERIE PLASTICHE IN FASE DI PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE DELLE NUOVE MERCI NEGLI ANNI SETTANTA NE E’ A TESTIMONIANZA: AUTO, MACCHINE FOTOGRAFICHE, ELETTRODOMESTICI, TELEVISIONE E RADIO…)
I macchinari in Unione Sovietica si rinnovano solo ogni quaranta anni e mentre negli Stati Uniti tra gli otto e i dodici. (FALSO. LE LINEE DI PRODUZIONE DEI SUDDETTI NUOVI PRODOTTI ERANO INNOVATE INTRODUCENDO MACCHINARI CHE ERANO PRODOTTI A LORO VOLTA IN URSS, NON IMPORTATI DA FUORI. MODELLI DIVERSI PER OGNI SERIE DI MESSA IN PRODUZIONE, PER ALCUNI PRODOTTI, CON POCHE MODIFICHE, PER ALTRI PRODOTTI, A SECONDA DEL VALORE D’USO, NON DELLA NECESSITA’ DI USCIRE COL MERCATO OGNI SEI MESI PER VENDERE…)
ESEMPIO DEI TRATTORI: Se il rapporto di vendita fosse stato determinato dal mercato e non dal piano, le cooperative di agricoltori smetterebbero di comprare questi trattori una volta accertato che si guastano facilmente (SE IL RAPPORTO DI VENDITA FOSSE STATO DETERMINATO DAL MERCATO, LE COOPERATIVE DI AGRICOLTORI SAREBBERO ANDATE AVANTI ANCORA CON L’ARATRO… VISTO CHE LE SMT (STAZIONI DI MACCHINE E TRATTORI) FURONO INTRODOTTE CON LA COLLETTIVIZZAZIONE PER AUTOMATIZZARE UN PROCESSO AGRICOLO CHE NESSUNO SI POTEVA PERMETTERE DI AUTOMATIZZARE AUTONOMAMENTE. IN OGNI CASO, IL PROBLEMA E’ DI FEEDBACK, O RISCONTRO. LOGICAMENTE IL DISCORSO NON TIENE)
ESEMPIO DELLE MACCHINE CHE AFFONDANO: I vietnamiti si sentono obbligati a utilizzare il dono e attaccano due barche su entrambi i lati della macchina per evitare che affondi. (I VIETNAMITI SI SENTONO OBBLIGATI MORALMENTE NEI CONFRONTI DEI RUSSI ANCORA OGGI PER QUELLO CHE HAN FATTO PER LORO… E CHE I CINESI INVECE NON HANNO FATTO, INVADENDOLI A TRADIMENTO, PERALTRO. PREMESSO QUESTO, IL VOLER PROVARE A TUTTI I COSTI A USARE UNA MACCHINA CHE E’ STATA PROGETTATA PER ALTRI CLIMI E’ UN QUALCOSA CHE BASTA ANDARE IN AFRICA PER VEDERE TUTTI I GIORNI, ALL’EPOCA SEMPRE E, NONOSTANTE I PROGRESSI DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN FASE DI PIANIFICAZIONE, ANCORA OGGI! E NON SONO SOCIALISTI…)
Nei sistemi socialisti europei nel lungo periodo si riduce il tasso di crescita del reddito, aumentano i costi in presenza di una produttività bassa e addirittura decrescente (MA IL REDDITO CRESCE SEMPRE, A DIFFERENZA DI QUI . DATI CONCRETI QUI 1940/1960/1980/1985/1986 A CONFRONTO: Оплата труда и доходы населения http://istmat.info/node/9304 )
Il calo del tasso di profitto impedisce nuovi investimenti nei settori del consumo. (GLI INVESTIMENTI NEL SETTORE DEL CONSUMO SONO STATI SEMPRE INFERIORI ALL’OCCIDENTE, VISTO CHE NON C’ERA IL CONSUMISMO. MA, CON TUTTI I DIFETTI CHE IL SISTEMA POTEVA AVERE, GLI INVESTIMENTI CI SONO SEMPRE STATI. PARADOSSALMENTE, MA NON PIU’ DI TANTO, PER GLI SCAFFALI VUOTI E PER LE CODE COME COSTANTE OCCORRE RINGRAZIARE GORBACIOV).
Come avrebbe detto Berlinguer si era esaurita la spinta propulsiva del modello sovietico, almeno per i comunisti occidentali. (PROBABILMENTE SOLO PER LORO…)
L’URSS dal 1975 al 1985 entra in una fase di stagnazione e, addirittura dal 1984, di inarrestabile declino. (DEI DANNI FATTI DALLA PERESTROJKA SI E’ GIA’ ACCENNATO. DEL “DEFICIT”, DELLA “STAGNAZIONE” E DEL RACCONTO CHE NE E’ STATO FATTO, OGGI SONO SEMPRE PIU’ GLI STORICI CHE RICONOSCONO CHE CHUBAIS, EL’CYN E CO. AVEVANO DELIBERATAMENTE MOSSO GUERRA A UN SISTEMA PER ABBATTERLO, INGIGANTENDO DIFETTI, PROBLEMI, QUESTIONI CONCRETE E PROPONENDO IL MANTRA DELLA “RYNOCHNAJA EKONOMIKA” (ECONOMIA DI MERCATO) COME VIA DI SALVEZZA).
La situazione critica dell’Unione Sovietica si verifica nel decennio (1975-85) in cui in Occidente è in pieno sviluppo la rivoluzione tecnologica basata sulle nuove tecnologie informatiche mentre in URSS la ricerca, sia per quanto riguarda le risorse sia per il personale umano, è concentrata nell’apparato militare-industriale ma non ai fini dell’applicazione alla produzione di beni di consumo. (GLI HOME COMPUTER NASCONO ANCHE IN URSS, PROPRIO NELLO STESSO PERIODO.)
Si investe in cannoni ma non nel burro, la conseguenza è la cronica scarsità di merci (FRASE A EFFETTO CHE VALE PER LA PERESTROJKA, PRIMA C’ERANO PROBLEMI MA NON A QUEL LIVELLO. E LA TECNOLOGIA NELLA GDO DI ALLORA NON E’ QUELLA DI OGGI)
I sistemi socialisti mancavano di leve o strumenti di autocorrezione, ossia non hanno prodotto sul proprio cammino meccanismi sufficienti per affinare il modello di base. (FALSO, OLTRE CHE UN INSULTO A INTERE GENERAZIONI DI INNOVATORI, RAZIONALIZZATORI, ECONOMISTI, SEMPLICI PRODUTTORI CHE HANNO DEDICATO LA LORO VITA AL MIGLIORAMENTO DI TALE MODO DI PRODUZIONE)
Ma il reale decentramento in un’economia complessa è un sistema di prezzi che riflette più o meno spontaneamente, le infinite operazioni tra i consumatori e i produttori che si producono nell’economia. Senza un sistema di prezzi determinati dal mercato, il decentramento della gestione alle imprese si limita al trasferimento della responsabilità alla periferia, ma non interviene sul criterio di assegnazione delle risorse. (ADAM SMITH?)
Il sistema cinese ha uno scarso appeal in Occidente mentre, indubbiamente, lo ha nei confronti dei paesi in via di sviluppo. (SPECIALMENTE QUANDO GLI DEPREDA LE MATERIE PRIME COME MATERIA DI SCAMBIO PER I PROPRI PRODOTTI FINITI… e ne aumenta l'indebitamento (qui il caso specifico dello Zambia, giusto l'ultimo capitatomi sotto mano https://colonelcassad.livejournal.com/4443966.html l'articolo è in russo ma i link sono al lusakatimes in inglese)
Il socialismo sopravvive oggi nei paesi meno sviluppati (LA CINA E’ IL PRIMO PAESE AL MONDO, ORMAI, POTENZA IMPERIALISTICA A TUTTI GLI EFFETTI…)
Quelle di Varga sono proposte simili a quelle avanzate da Mao[6] per il governo di coalizione e il Togliatti della Democrazia Progressiva. (MAO FECE IL FRONTISTA NEL 42 E IL COMUNISMO DA CASERMA DAL ’58 AL ’76… INFATTI, DOPO LA SUA MORTE, SI PARLO’ DI “RIFORME”…)
Se la Polonia, per esempio, vuole vendere i prodotti agricoli in Cecoslovacchia, ottiene in cambio valuta ceca, che può venire utilizzata solo per acquistare beni cecoslovacchi. (LO STESSO CHE FA LA RPC TENTANDO DI ESPANDERE LA ZONA DI INFLUENZA DEI RMB E NON PERDERE NEL CAMBIO COL DOLLARO, OLTRE CHE NON ESSERE DIPENDENTE DA ESSO, E’ UN MODO COME UN ALTRO PER ANDARE A SALDO NELLO SCAMBIO ECONOMICO E PER AMPLIARE LA SFERA DI SCAMBI)

L'URSS svenduta ripetendo gli stessi slogan e luoghi comuni di chi l'ha smantellata dall'interno... il mantra del mercato non ripetuto e applicato a sufficienza come causa del crollo del socialismo realizzato, la spinta propulsiva che manca nell'unico Paese al mondo da cui partono ancora, con le stesse tecnologie di allora, mutatis mutandis, le navette spaziali per la SSI... il tutto per dimostrare la tesi, neanche tanto nascosta, che il capitalismo monopolistico di stato in salsa sinica sia il futuro. Mi dispiace, ma non mi convince. Ciò nonostante non vedo l'ora di leggere anche la seconda parte.

Paolo Selmi
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