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Operaismo, post-operaismo? Meglio neo-operaismo

di Andrea Fumagalli

Una riflessione sull’utilizzo dei termini “operaismo”, “post-operaismo” e “neo-operaismo”. Non una semplice questione terminologica, bensì una questione di metodo e di sostanza utile alla comprensione dell’attuale dinamica delle soggettività del lavoro e del conflitto sociale. Nel testo si confutano anche alcune fantasiose e strumentali ricostruzioni di chi vorrebbe interpretare ciò che non capisce (o, meglio, non vuole capire)

imagesQuaderni Rossi 2La ricerca teorica di parte dei contributi apparsi sui siti di Commonware, Effimera, EuroNomade si muove sulla falsariga della metodologia operaista. Una metodologia che prende piede nella conricerca e nell’inchiesta sulla condizione operaia ai tempi dello sviluppo delle prime lotte dell’operaio massa.

Credo che su ciò possiamo in linea di massima concordare, pur essendo pienamente coscienti che ci muoviamo oggi in tempi strutturalmente differenti e affrontiamo problematiche teoriche e analisi empiriche assai diverse da quel tempo. C’è tuttavia un insegnamento di metodo che lega quei tempi all’oggi con un sottile filo rosso. Si tratta dell’intuizione, fornita dai Quaderni Rossi, che il rapporto capitale – lavoro è un rapporto tra soggettività in conflitto: soggettività diverse che si muovono su piani diversi e asimmetrici. Possiamo tradurre questa intuizione, come fa il primo Tronti di Operai e Capitale, nella constatazione tanto semplice quanto illuminante che il lavoro esprime una propria soggettività ontologica (composita e, per questo, degna di essere analizzata) che può comunque fare a meno del capitale; altrettanto non si può dire del capitale, la cui esistenza dipenda dal rapporto con il lavoro e per questo necessita di subordinarlo. Non è un caso che un tema centrale della nostra ricerca teorico-politica è quello di studiare l’evoluzione di tale rapporto tra una soggettività piena (il lavoro) e una soggettività monca (il capitale), in una fase storica dove la soggettività (che permea l’agire umano) è diventata, oggi più di allora, il perno su cui ruota il processo di valorizzazione contemporanea.

È questa, a avviso di chi scrive, la ragione fondamentale per cui una certa parte di analisi delle trasformazioni del rapporto capitale – lavoro degli ultimi 30 anni ha perseguito questa linea di ricerca, a partire dei primi studi degli anni Novanta sul cd. post-fordismo. Si tratta di una linea di ricerca che, oggi come allora, ha sempre guardato con diffidenza un approccio scientifico all’analisi del conflitto di classe, troppo spesso irrigidito in un’idea di “composizione di classe” storicamente determinata e incapace, spesso, di coglierne l’evoluzione, proprio grazie alle trasformazioni soggettive che l’hanno innervata. Ricordo che nel dibattito anglosassone, tale filone di elaborazione teorica è stato denominato autonomist marxism, proprio per sottolineare la diversità del marxismo “scientifico” tradizionale, sviluppatosi nel corso del Novecento.

Oggi parliamo di “neo-operaismo”, proprio per sottolineare questo filo rosso del metodo di analisi. Mi pare che tale termine sia più esplicito e chiaro rispetto al termine, spesso usato (soprattutto dagli avversari), di “post-operaismo”, che rileva il rischio di un certo margine di ambiguità tipico di tutti i termini che cominciano con il prefisso “post”: affermano ciò che non c’è più (ma è proprio cosi?) ma non dicono nulla su ciò che è in corso

In un recente contributo, Toni Negri si sofferma su tale questione. Scrive Negri:

“Post-operaismo, dunque? E perché mai post-? Quello che fu costruito nelle carceri e poi fu portato fuori ad organizzare le lotte fra i due secoli, fu piuttosto una nuova versione dell’operaismo, nella continuità della sua fondazione ontologica e del suo metodo”.

Appunto: una nuova versione. Per questo il termine neo-operaismo mi sembra quello più appropriato. E’ infatti evidente che il termine “neo-operaismo” non rimanda più alla centralità dell’operaio massa degli anni Sessanta o alla sua evoluzione nel termine “operaio sociale” degli anni Settanta. Tale passaggio, pur con tutta la sua problematicità, era comunque all’interno dell’operaismo dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia, perché rimandava comunque ad un’omogeneità del soggetto di classe, al quale poteva corrispondere una comune composizione tecnica del lavoro, che si differenziava formalmente (ma non sostanzialmente) da quella dell’operaia massa, grazie soprattutto al fatto che la divisione del lavoro, di tipo smithiano, ora si decentralizzava anche al di fuori del perimetro della fabbrica.

Il passaggio dall’operaio sociale alla “moltitudine produttiva” e alla “socializzazione della produzione”, determina, invece, a parere di chi di scrive, un momento di rottura che ne rompe la continuità evolutiva, una rottura che segna l’avvento di ciò che il neo-operaismo definisce “capitalismo cognitivo” (vedi gli studi di Carlo Vercellone) e che oggi può essere denominato anche “capitalismo bio-cognitivo”.

Sorgono al riguardo due questioni centrali, entrambe sottolineate anche da Negri nell’intervento precedentemente citato. Esse riguardano il tema della “composizine tecnica del lavoro” e l’emergere di una nuova composizione tecnica del capitale, da un lato, e la ridefinizione del concetto di sussunzione oltre la dicotomia tra sussunzione formale e reale, di marxiana memoria.

Possiamo riassumere brevemente le due questioni  nel seguente modo:

1. Nel capitalismo biocognitivo e delle piattaforme ha ancora senso parlare di composizione tecnica del lavoro? Credo che possiamo concordare con il constatare che la composizione tecnica del lavoro non possa oggi più basarsi su una rigida separazione tra l’umano e la macchina, sino a mettere in crisi il concetto di sussunzione reale e formale e favorendone un ibrido spesso inscindibile. E’ questa ibridazione che è alla base del concetto di capitalismo bio-cognitivo: un concetto del tutto materiale, che nulla ha di etereo o sganciato dalla realtà dei corpi, ma che si incarna proprio nella messa in produzione delle facoltà di vita, dei corpi e della loro trasformazione in parti meccaniche e/o in processi di mercificazione. La difficoltà di delineare una nuova composizione tecnica sufficientemente omogenea pone il problema della sua traduzione in composizione politica e quindi nella definizione di una nuova composizione di classe adeguata ai nuovi processi di accumulazione e valorizzazione.

2. La stessa problematica riguarda la composizione tecnica del capitale. L’ibridazione umano-macchina non solo interviene nel ridefinire la soggettività e le percezioni dei lavoratori ma influenza anche la struttura del capitale, in particolare il rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. L’innovazione tecnologica digitale è comandata dalle esigenze del capitale al fine di ampliare il processo di accumulazione tramite l’individuazione di nuove modalità di sfruttamento. Il nuovo paradigma tecnologico pone alla ribalta il superamento della distinzione netta tra mezzo meccanico e la forza lavoro del lavoratore.  In tale contesto, anche la separazione tra sussunzione reale (quando la forza lavoro viene sfruttata in modo intensivo sotto il comando diretto della razionalità capitalistica tramite la macchina, sistema “fabbrica”) e sussunzione formale (quando la forza lavoro, comunque salariata, in parte controlla e gestisce il proprio processo produttivo e ne viene espropriata a valle, sistema “manifattura”) necessita una nuova declinazione. Se la forza lavoro è prevalentemente cognitiva (a prescindere dal settore e dalla specializzazione di afferenza) essa contemporaneamente svolge la funzione di capitale fisso e capitale variabile, come lo stesso Negri ricorda nel testo “Appropriazione di capitale fisso: una metafora?”. Possiamo affermare che il capitale fisso oggi definisce l’involucro, il perimetro d’azione, al cui interno il lavoro vivo (sia esso umano o, a questo punto, macchinico) produce plusvalore? Se sì, ne consegue che la riappropriazione del proprio capitale fisso non è il fine ultimo ma è solo condizione necessaria per la liberazione del lavoro vivo (il vero fine). Come può avvenire tale liberazione? Qui la questione è eminentemente politica. Ci troviamo di fronte alla s-composizione tecnica del lavoro ma anche del capitale.

È proprio il metodo di ricerca operaista che ci consente di dire che oggi è venuto meno “il” soggetto centrale di riferimento del conflitto sociale. Proprio per questo, il pensiero neo-operaista non solo è tutt’altro che omogeneo e coeso ma presenta anche novità rispetto all’operaismo delle origini.

La consonanza con un metodo di analisi non implica direttamente un unica elaborazione teorica ed un’unica interpretazione del rapporto capitale – lavoro, un rapporto che è sempre oggetto di metamorfosi (come ci ha insegnato lo stesso metodo di Marx) e, di conseguenza, le proposte politiche possono variare e distinguersi tra loro.

Ma, pur all’interno delle diverse analisi, è possibile riscontrare una radice comune. Ne è la controprova il dibattito attuale tra le diverse analisi sul concetto di sussunzione (sino a paventare l’inutilità di tale concetto nell’attuale fase capitalistica). È dunque sintomo di superficialità e/o ignoranza (nel senso di non-conoscenza), soprattutto in ambito critico, appiattire tutto il pensiero neo-operaista su un’unica elaborazione. Un elaborazione, che fa riferimento alle posizioni di alcuni suoi esponenti più noti, che proprio per il loro calibro e per gli insegnamenti e le suggestioni che hanno saputo dare, rappresentano, non a caso, punti di vista assai diversi.

Tale complessità di analisi, che negli ultimi anni, è stata particolarmente feconda nel campo dell’innovazione teorica e nella ripresa di un pensiero marxista eretico, viene talvolta del tutto appiattita e misconosciuta sino ad arrivare a scrivere affermazioni come la seguente:

“Le tesi postoperaiste rappresentano infatti la punta di lancia del progetto di cooptazione del cosiddetto lavoro cognitivo nel blocco sociale neoborghese”[1].

Al di là di simili affermazioni (puramente ideologiche, in quanto non suffragate da riferimenti diretti a scritti e/o a testi), credo che sia necessario ribadire un fatto semplice quanto banale: proprio perché il conflitto capitale – lavoro si esprime oggi in molteplici forme e esprime diverse soggettività, la sua interpretazione, all’interno della galassia neo-operaista, è altrettanto molteplice (non a caso ci sono ben tre siti che si rifanno a questa eredità) e, comunque, sempre finalizzata alla trasformazione dello stato di cose presenti.


NOTE
[1] Carlo Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pag. 256

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