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Il «diritto di emigrare»: come la forza del diritto è il diritto della forza
di Dante Lepore
Quando si entra nel campo dell’onnipotente sacralità inviolabile della legge, della sua natura e del fondamento del diritto, sembra quasi che i principi più elementari della legislazione, del costituzionalismo e delle istituzioni giuridiche in genere, sbandierati come eterni, sacri e immutabili, siano appannaggio universale, se non esclusivo, della tradizione liberale (termine immemore della sua ascendenza autoritaria e ghigliottinarda), nonché della democrazia moderna, a sua volta erede compiaciuta della tradizione liberale come di quella della polis greca più antica da Pisistrato a Pericle ateniese (a dispetto della schiavitù, componente integrante delle sue istituzioni). Modi e forme, questi, atti a magnificare la civiltà occidentale in quanto retta dalle leggi che, nella loro apparente universalità, sarebbero uguali per tutti, più delicate e paciose della restanti forme dispotiche, violente, brutali nella sottomissione dell’altrui volontà, o in preda alla legge della giungla, alla barbarie, ossia a quella condizione in cui ciò che si conquista o si ottiene lo si ottiene appunto con la forza bruta esercitata sulla comunità o semplicemente a detrimento di altri. Ma gli orpelli della civiltà, con i suoi codici civili e le sue leggi, non possono più oggi celare il lato diabolico di questa ostentata sacralità, il fatto che quelli che persino i lavoratori più sindacalizzati invocano come diritti costanti o come rispetto della dignità sono solo il risultato di lotte dure, senza esclusione di colpi, di uso della forza. Viceversa la forza della legge (ius, da iubeo= comando) non è che il risultato di un potere conseguito con coercizione, ricatto o con una violenza fisica originaria, spesso cinica, prepotente e cieca.
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Note sulla nozione di “dialettica” in Lenin
di Matteo Giangrande*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Il 12 marzo 1922 la rivista di filosofia “Pod znamenem marxizma” pubblica un articolo di Lenin, divenuto poi celebre, su Il significato del materialismo militante. È un testo volto a delineare una strategia di battaglia e di resistenza culturale alla pervasività dell’ideologia borghese e che contemplava, tra l’altro, anche la pianificazione di un lavoro collettivo di studio delle applicazioni della dialettica hegeliana interpretata dal punto di vista materialistico. È interessante rileggere per esteso le raccomandazioni del rivoluzionario bolscevico perché, a nostro avviso, rappresentano l’introduzione più stimolante ad uno scritto che tematizza specificatamente la nozione di dialettica nei testi di Lenin:
«In mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo. Per sostenere questa lotta e condurla a buon fine lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un sostenitore cosciente del materialismo rappresentato da Marx, vale a dire che deve essere un materialista dialettico. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori della rivista “Pod znamenem marxizma” debbono organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialista, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi scritti storici e politici con un successo tale che oggi, ogni giorno, il risveglio di nuove classi alla vita e alla lotta in Oriente (Giappone, India, Cina), – vale a dire il risveglio di centinaia di milioni di esseri umani che formano la maggioranza della popolazione del globo e che per la loro inattività e il loro sonno storico hanno condizionato finora il ristagno e la decomposizione in molti Stati avanzati dell’Europa, – il risveglio alla vita di nuovi popoli e nuove classi conferma sempre più il marxismo.
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Note su “Ripensare il capitalismo” di M. Mazzucato e M. Jacobs
di Lorenzo Cattani
«We used to make shit in this country, build shit. Now we just put our hand in the next guy’s pocket». È con questa frustrazione che Frank Sobotka, personaggio della seconda stagione di The Wire, traccia una sorta di parabola del capitalismo americano. Iniziare una recensione con questa citazione ha chiaramente un intento provocatorio, eppure le parole di Frank Sobotka non debbono essere così facilmente archiviate come pensieri superficiali o qualunquisti. Questo non solo perché The Wire è una serie TV che ha saputo cogliere elementi importantissimi della società americana (e non solo)[1], ma anche perché a 10 anni da una crisi che le economie avanzate non sono ancora riuscite a superare, appare chiaro come lo sviluppo che il capitalismo ha avuto negli ultimi decenni mostri debolezze strutturali.
In un certo senso, le stesse tematiche le ha affrontate Bernie Sanders nei primi anni Duemila quando faceva presente all’allora governatore della Fed, nonché paladino della deregulation e delle liberalizzazioni, Alan Greenspan che negli USA i casi di bancarotta erano aumentati del 23%, che gli investimenti privati stavano toccando i livelli più bassi degli ultimi 50 anni e che i guadagni degli amministratori delegati erano 500 volte maggiori di quelli dei lavoratori[2]. Molti di questi temi vengono affrontati dagli autori del volume Ripensare il capitalismo, a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs: l’idea alla base del loro lavoro è che gli insuccessi del capitalismo siano collegati a quelli della teoria economica e che, pertanto, sia necessario rivedere il pensiero economico dominante in modo che si possa tradurre in una nuova politica economica.
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Transizioni
di Lanfranco Binni
«Populisti, vil razza dannata!». Pianti, lamenti e lai, anatemi borghesi ottocenteschi a esorcismo delle “classi pericolose” alimentano il narcotraffico dei media di regime. Il sistema democratico è in pericolo. L’onda lunga dell’insorgenza diffusa e popolare contro ogni mediazione liberista e socialdemocratica tra potere politico e «popolo» (il popolo «sovrano» della Costituzione inattuata del 1948) che il 4 dicembre 2016 ha abbattuto con un sonoro no la “riforma” anticostituzionale della banda Renzi, grazie a un imprevisto protagonismo degli elettori ignoti (maledette elezioni!), il 4 marzo ha stravolto (anche questa volta con esiti imprevisti) un quadro politico già a rischio di «ingovernabilità». Il disegno furbastro del Pd di resuscitare il patto del Nazareno grazie a una legge elettorale anti M5S si è rovesciato nella disfatta del Pd, nella forte affermazione del M5S (primo partito nazionale), nello squilibrio dei rapporti di forza all’interno della coalizione di destra (sconfitta di Forza Italia e affermazione della Lega come primo partito della coalizione). Numerosi articoli di questo numero del «Ponte» analizzano i risultati elettorali, con punti di vista diversi e diverse valutazioni, come si addice a una rivista di aperto dibattito politico.
Mi preme sottolineare le tendenze che i dati elettorali rivelano:
1) l’astensionismo è stato un fenomeno contenuto, in controtendenza rispetto alle precedenti elezioni politiche e amministrative;
2) il voto al M5S, maggioritario nei collegi del sud e in alcune aree del centro e del nord, ma diffuso in tutto il paese, è stato prevalentemente un voto giovanile (classi di età: 18-35) e popolare;
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Crollerà o non crollerà?
di Gianni Rigamonti
1.
Non proprio da che mondo è mondo, però da che Il capitale è Il capitale, si è sempre discusso se in Marx ci sia o no una teoria del crollo inevitabile del capitalismo. Personalmente sono sempre stato per il no fin dai tempi della mia lettura integrale del Librone, più di quarant’anni fa; ma qui bisogna precisare, innanzitutto, a che cosa mi sento di rispondere “No”. Infatti se riflettiamo su una domanda come “In Marx c’è una teoria del crollo inevitabile del capitalismo?” vediamo subito che va divisa in due, abbastanza diverse:
A) Marx credeva nel crollo inevitabile del capitalismo?
B) Si può desumere dal testo del Capitale che il capitalismo inevitabilmente crollerà?
Sebbene io non legga nemmeno il pensiero dei vivi, figuriamoci quello dei morti, non vedo come non si possa rispondere affermativamente ad A. Tutto quello che sappiamo di Marx va univocamente in direzione del “Sì”. Ma per B le cose sono completamente diverse, e in questa noticina sosterrò che il testo invocato da buona parte degli interpreti per sostenere che Marx dimostra questa faccenda del crollo inevitabile non la dimostra affatto.
Piccola chiosa prima di andare avanti: questo è un problema di cui si discute, come ho già accennato, da quando (1895) grazie alle fatiche di Engels leggiamo tutti e tre i volumi del Capitale, ma fa un effetto un po’ strano riprenderlo oggi che in Europa (non in Asia, e io non so di autori che abbiano cercato seriamente di spiegarsi questa differenza) sono stati i regimi “socialisti” a crollare1. Sono convinto tuttavia – e qui cercherò di mostrare – che la questione conservi un notevole interesse.
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Idee per una sinistra nazionale e popolare
Ugo Boghetta, Carlo Formenti, Mimmo Porcaro
Quella che segue è la traccia per la discussione dell’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazionale e popolare”che, su iniziativa degli autori, si terrà a Bologna il 15 aprile 2018, presso l’Hotel Allegroitalia, viale Masini 3 / 4, alle ore 10
1
Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi dati frettolosamente già per già spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi. Qualunque soluzione venga data al rebus della formazione del governo, essa non potrà che acuire i problemi. Un’ improbabile riedizione del patto del Nazareno approfondirebbe il solco tra l’elettorato ed il vecchio sistema politico. Un governo Lega-M5S farebbe esplodere le contraddizioni con Bruxelles, oppure le sposterebbe all’interno del governo e di ciascuno dei due partner. Un qualche governicchio di transizione, premessa di turbolenze future, sarebbe comunque schiacciato tra le urgenze dell’Unione europea e le impazienze popolari. Non c’è soluzione alla “questione italiana” perché nessuna delle forze in campo ha la volontà o la capacità di metter mano all’ormai ineludibile programma di ripubblicizzazione dell’economia e di piena occupazione, e di scontrarsi su questi punti definitivamente con Bruxelles, fino alla rottura. Non il PD né Forza Italia, ovviamente. Ma nemmeno il M5S a guida Di Maio, che ha già rassicurato gli investitori internazionali; e neppure la Lega, che vuol sostituire il liberismo bavarese con quello lombardo. Non si può uscire fruttuosamente dall’Unione europea (posto che lo si voglia) se si riduce il ruolo della politica alla lotta agli sprechi, se si vuole la spesa pubblica per appropriarsene privatamente, se si continua a volere la flat tax, le privatizzazioni, lo stato minimo.
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Considerazioni sulle ultime elezioni
di Guido Ortona
Una premessa. Mi pare che i problemi su cui deve riflettere chi aspira alla rifondazione della sinistra (perché di questo si tratta, dopo le ultime elezioni) siano quattro, e cioè
1) le ragioni storiche della crisi della sinistra tradizionale;
2) le ragioni della sconfitta della sinistra “qui ed ora”;
3) le ragioni del perché molti vedono nei 5s, e anche nella Lega, i soggetti che possono meglio interpretare le proposte tipiche della sinistra (a partire dal welfare);
4) che fare.
C’è chiaramente di che fare tremare le vene ai polsi; ma molti di noi “vecchi di sinistra” (cosa diversa dalla “vecchia sinistra”) hanno pensato a questi problemi, e quindi ha senso riferire su ciò che si è pensato. Prima però una premessa: ciò che dirò -e, credo, ciò che diranno gli altri colleghi e amici di Nuvole – sarà necessariamente generico e provvisorio. Generico perché ciascuno dei punti citati dovrebbe essere (e in effetti è) oggetto di studi molto approfonditi da parte degli scienziati sociali competenti; provvisorio perché non va dimenticato che stiamo vivendo in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive, per usare la terminologia marxiana, ovvero della tecnologia, per usare quella corrente, procede a ritmi frenetici; e lo stesso vale per i cambiamenti ambientali e per i metodi (e le probabilità) di nuove guerre. Per fare un esempio, tutte le analisi previsionali fatte fino a quarant’anni fa sono inevitabilmente errate, dato che non consideravano l’esistenza di internet.
Cominciamo.
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Cina e Russia nella «National Security Strategy» dell'amministrazione Trump
di Michele Nobile
Con questo articolo, Michele Nobile inizia ad approfondire l’analisi della politica estera dell’amministrazione Trump - iniziata con «La politica estera degli Stati Uniti e le contraddizioni di Trump: questioni di metodo» - partendo dalla National Security Strategy recentemente pubblicata. [la Redazione]
1. Introduzione
Sul finire dello scorso anno l’amministrazione Trump ha pubblicato la sua National Security Strategy, il rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale che il presidente degli Stati Uniti è tenuto a presentare annualmente al Congresso (d’ora in poi indicato con la sigla NSS seguita dalla data). È legittimo chiedersi quale interesse possa avere un documento come una NSS: di sicuro non vi si trovano piani d’azione militari, neanche nei termini generali. Una NSS è frutto di compromessi in seno all’amministrazione ed è spesso superata da sviluppi non previsti; d’altra parte, la disponibilità dei mezzi previsti per conseguire gli obiettivi indicati può ben superare, e di non pochi anni, la durata dell’amministrazione che l’ha prodotta.
I dubbi aumentano di fronte a un presidente come Trump - contestato dagli specialisti di politica estera e militare del suo stesso partito - e alla serie di dimissioni di personale di alto livello, sia per contrasti col Presidente che imposte dai risultati di indagini. Dei trenta Segretari di Stato del XX secolo, Rex Tillerson è fra i sei che sono rimasti in carica per meno tempo e per il periodo successivo alla fine della Guerra Fredda solo Lawrence Eagleburger durò meno; l’amministrazione Trump è al terzo Consigliere per la sicurezza nazionale in poco più di un anno, mentre nell’arco di otto anni Clinton e Bush Jr. ne ebbero solo due e Obama tre.
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“La sfida populista”, tra demagogia e democrazia
di Nadia Urbinati
Un ebook collettaneo, edito dalla Fondazione Feltrinelli, analizza il fenomeno del populismo evitando visioni manichee e catastrofiste, nel tentativo di comprenderlo nella sua complessità. Che cosa lo rende diverso dalla democrazia, visto che entrambi sono fondati sul principio di maggioranza? Pubblichiamo un estratto dal capitolo di Nadia Urbinati, secondo la quale solo a partire dalla comprensione del populismo come maggioritarismo si può affrontare criticamente il rapporto fra esso e la nostra Costituzione - Per acquistare l'ebook
L’unificazione in alternativa al pluralismo è la dinamica strutturale del populismo nel governo rappresentativo come la demagogia lo era rispetto al governo diretto. Bisogna tener presente che l’impatto dell’appello al popolo è diverso in questi due casi. Infatti, nel governo rappresentativo, la sfera dell’opinione ha più grande rilevanza perché il potere legislativo non è qui a disposizione diretta del popolo; è dunque prevedibile che l’impresa populista si sviluppi nella dimensione ideologica e che possa in teoria restare un fenomeno di opinione, senza conquistare il governo. Diverso è il caso della demagogia antica che aveva un impatto diretto, non solo sull’opinione ma anche sulla legge perché operava in un’assemblea di cittadini dotata del potere sovrano immediato. Tenendo conto di questa differenza tra le due forme di governo democratico, mi servo dell’analisi della demagogia antica per illustrare la relazione conflittuale che essa aveva con la democrazia e proporre un parallelo con l’azione del populismo nel regime rappresentativo: in entrambi i casi centrale è l’uso e l’abuso del principio della maggioranza.
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Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare
di Pierluigi Fagan
Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.
Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata, il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”. Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.
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Come proseguire?
di Giacomo Marchetti
Rappresentanza politica, sovranità economica e conflitto sociale verso un Mediterraneo dei “non-sottomessi” alla UE
Sembra che Guido Carli, uno degli “architetti” italiani del trattato di Maastricht insieme a Tommaso Padoa Schioppa, tornando a Roma da quella fino ad allora ignota località dell’Europa settentrionale, nei primi di febbraio del 1992 avesse affermato riferendosi al Trattato: “nessuno in Italia è consapevole degli effetti che avrà nel nostro Paese”.
A più di 25 anni da quella data la consapevolezza di tali conseguenze è nota ai più, almeno tra le classi popolari, che anche nell’appuntamento elettorale del 4 marzo hanno confermato di recarsi alle urne con l’unico fine di votare per vendetta, pensando di mandare a casa quelle formazioni legittimamente percepite come corresponsabili della propria disgraziata condizione, nonché fedeli interpreti della politica dell’Unione Europea considerata responsabile ultima di tale situazione.
Ma se il senso comune nel nostro blocco sociale di riferimento ha delle legittime certezze – al di là delle forze politiche che ha scelto per incanalare il proprio voto anti-sistemico e che sono divenute transitorie depositarie delle proprie aspettative di cambiamento, come “ultima spiaggia” nel panorama politico istituzionale – altrettanto non si può dire del ceto politico residuale della sinistra. Non pago della batosta che indirettamente “il popolo” ha voluto dare alla sinistra tutta – di cui è una vittima “collaterale” – è ancora prudente nel parlare dell’Unione Europea come centro gravitazionale delle scelte politiche continentali che determinano, volenti o nolenti, i passaggi della nostra agenda politica a venire.
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Un sessantotto lungo una vita
di Stefano Zecchinelli
L’autobiografia di Fulvio Grimaldi, Un sessantotto lungo una vita pubblicato dalla Casa Editrice Zambon, rappresenta un documento – tanto breve quanto efficace – imprescindibile per chi voglia, partendo dal periodo storico 1968 – ’77, analizzare lo stretto rapporto fra le lotte di liberazione nazionale nei paesi coloniali e le mobilitazioni anti-neoliberiste delle metropoli. Grimaldi, come sempre anti-conformista, parte da lontano:
‘’Mi corre l’obbligo di un inciso. Ogni volta che mi si arriva addosso con la storia dei tedeschi tutti complici del nazismo, tutti come nei film degli urlanti ufficiali della Wehrmacht o delle SS, tutti Erich Von Stroheim, subisco un’altra spintarella all’anticonformismo, perlomeno all’anti-luogo comune. E mi ricordo di come noialtri stranieri, cittadini del paese ‘’traditore’’, venissimo ciononostante mantenuti in vita, non solo dalle ortiche raccolte ai bordi della strada e cotte come spinaci, ma anche dal fornaio che ci dava quella pagnotta extra; dalla fabbrichetta di mobili che ci arredava le due stanze gratis; dal contadino che in cambio di un paio di guanti di pelle di mamma ci elargiva uova, verdure, salumi; dalle due sorelle vivaiste che mi davano i semi e mi insegnarono a piantar pomodori su un pezzetto del loro terreno’’.
La fascistizzazione del nemico è stata un’arma adottata per la prima volta, guarda caso, dall’imperialismo USA proprio contro la Germania; il popolo di Kant, Hegel, Marx e tanti altri doveva diventare nell’immaginario collettivo il ‘’volenteroso carnefice di Hitler’’ rafforzando il costrutto ideologico, falso e bugiardo, degli ‘’statunitensi liberatori’’. Contro questa retorica, smentita dagli eventi futuri e dalle guerre dell’imperialismo americano-sionista, si scaglia Grimaldi, un giornalista che non ha mai perso, citando Lukàcs, la passione durevole dell’anti-capitalismo. Gliene rendiamo merito, dato lo spirito dei tempi che promuove la conversione all’imperialismo e all’ideologia capitalista.
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La logistica è la logica del capitale
di Anna Curcio e Gigi Roggero
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
Partiamo dal titolo. La tesi, che facciamo nostra, è stata formulata da un lavoratore della Tnt di Bologna in un dibattito a Padova. Bologna e Padova, l’Emilia e il nord-est, due snodi importanti del sistema della logistica in Italia, due snodi importanti del ciclo di lotte dentro e contro quel sistema che ha avuto il suo picco nel periodo tra il 2011 e il 2014. A essere presenti a quel dibattito, insieme a militanti, studenti e lavoratori precari, erano Si Cobas e Adl Cobas, i due sindacati di base che maggiormente sono stati protagonisti di quel ciclo di lotte. Arriviamo ora velocemente alla “fine”, o meglio a quello che a quel ciclo di lotte è seguito. Le imprese della logistica, inizialmente spiazzate dalle lotte e dopo aver subito ingenti danni economici e di immagine, sono riuscite almeno in parte a utilizzarle per un passaggio in avanti in termini di innovazione organizzativa, produttiva e in limitata misura anche tecnologica, in uno scenario – quello italiano – segnato da una storica arretratezza del settore rispetto al contesto internazionale. Le lotte hanno trasformato in un terreno di battaglia questa arretratezza (fatta soprattutto di scarsa automazione del processo e ipersfruttamento di una forza lavoro razzializzata e retribuita come dequalificata); i padroni hanno risposto non solo mandando la polizia ai picchetti, come hanno abbondantemente fatto e periodicamente continuano a fare, ma innanzitutto tentando di mettere in produzione il conflitto per i loro fini, costruendo al contempo nuovi livelli nel governo della forza lavoro.
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Il prossimo governo? Solo promesse da rimangiare…
di Dante Barontini
Non vi illudete, non ci sarà nulla da redistribuire.
Pausa di riflessione pasquale, in attesa delle consultazioni di Sergio Mattarella per formare il nuovo governo. Pivot di qualsiasi combinazione possibile sono ovviamente la Lega e i Cinque Stelle, i “vincitori” della disfida elettorale. Impensabile un governo senza loro due, molto difficile trovare la quadra per un governo con dentro entrambi.
Il nodo vero non sono le intenzioni e i “magheggi” di Salvini e Di Maio, ma quel che saranno costretti a fare, in totale contrapposizione con le promesse elettorali che li hanno portati in cima alla piramide. In estrema sintesi, Salvini ha giurato che “straccerà la Fornero” (la legge, ovviamente) e interverrà sul sistema fiscale applicando un flat tax, ovvero una tassa sostanzialmente uguale per tutte le fonti di reddito (salari, profitti, rendite finanziarie, ecc). Di Maio ha a sua volta garantito che abbatterà i “costi della politica” e introdurrà il reddito di cittadinanza.
Tralasciamo qui l’analisi puntuale alcune di di queste misure, che abbiamo già espresso in molte occasioni (una tassa uguale per tutti è un premio favoloso soltanto per i più ricchi, il reddito di cittadinanza grillino è in realtà un obbligo ad accettare qualsiasi lavoro, eliminare quasi del tutto i “costi della politica” significa consegnare i parlamentari completamente nudi alle “offerte” delle lobby, ecc) e concentriamoci invece sulla realizzabilità di queste misure all’interno del quadro istituzionale ed economico esistente.
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Lotte (e Autolesionismo) di classe
di Norberto Fragiacomo
Sto pian piano leggendo, nei ritagli di tempo concessimi dal lavoro, un’opera di Domenico Losurdo dedicata alla lotta di classe[1].
Senza perdersi in convenevoli l’illustre cattedratico polemizza sin dalle primissime pagine con i pensatori (quasi tutti transfughi del marxismo convertiti all’idea liberale) che, per compiacere chi li foraggiava, già negli ultimi decenni del Novecento diedero per definitivamente morta la lotta di classe. L’autore ha buon gioco nel dimostrare il contrario, partendo da una frase del Manifesto del ’48 che del libro (e del ragionamento losurdiano) costituisce quasi l’architrave: “La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe”.
Ciò che viene negato non è il fatto, evidentissimo, che la suddetta lotta alterna fasi acute ad altre di relativa stasi, né che il livello di consapevolezza diffuso fra i “combattenti” oscilla a seconda delle epoche storiche (l’ascesa è in genere lenta e contrastata, i crolli vertiginosi): si intende piuttosto contrastare la sicumera di quanti, per ragioni ideologico-propagandistiche, pretendono che assieme alla Storia il capitalismo trionfante abbia schiantato anche la lotta e le motivazioni oggettive e soggettive che ne stanno alla base. Quello dello scontro – aperto o latente - fra le classi è un fenomeno destinato a riprodursi fino a quando queste ultime esisteranno: onestamente la tesi di Losurdo mi sembra inconfutabile.
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La sfida Usa-Cina per l’egemonia tecnologica
di Francesco Galofaro*
Tecnopolitica e protezionismo
Questa settimana The Economist [1] ha dedicato la propria copertina alla battaglia tra Stati Uniti e Cina per la supremazia digitale. Pur adottando il punto di vista del governo americano, l’articolo è molto utile per collocare il delicato confronto in corso nel quadro più vasto delle politiche protezionistiche promosse da Donald Trump. I temi di conflitto sono diversi: mercati on-line; hardware; supercomputer; computazione quantistica; navigazione satellitare; Intelligenza Artificiale; armamenti avanzati; sicurezza nelle telecomunicazioni; potere di imporre gli standard internazionali.
Alcuni tra questi problemi, cruciali per la comprensione delle relazioni internazionali contemporanee, andrebbero approfonditi meglio. Ad esempio, gli articoli dell’Economist collocano la supremazia quantistica al primo posto tra i problemi più urgenti, senza tuttavia spiegare di cosa si tratti. Occupandomi professionalmente di computazione quantistica e di Information Retrieval [2], vorrei cogliere l’occasione per spiegare di cosa si tratta, dato che la funzione della comunicazione quantistica è meno intuitiva a comprendersi rispetto ai sistemi di riconoscimento dei volti o agli impieghi dei droni militari.
Protezionismo
I liberali condannano ideologicamente il protezionismo di Trump. E’invece più interessante da un punto di vista politico ricostruire i motivi della guerra economica cui stiamo assistendo. Ve ne sono diversi: tra i questi, alcuni sono strettamente legati alla tecnopolitica e alla lotta per l’egemonia tra cyberpotenze.
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Questione nazionale e «fronte unico»
Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania
di Stefano G. Azzarà*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
1. La questione tedesca nel movimento comunista
Nel movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata – rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1, è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel 19222.
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Le teorie (sbagliate) della classe disagiata
Una critica economica al libro di Raffaele Alberto Ventura
di Thomas Fazi
Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura è stato uno dei saggi più discussi del 2017. La teoria del libro, in breve, è la seguente: un’intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare – o nella peggiore delle ipotesi mantenere – la propria posizione nella piramide sociale, oggi deve fare i conti col fatto che quella vita che gli era stata promessa «non esiste». Per troppo tempo quella generazione, come le precedenti, ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, accumulando così un debito pubblico impressionante.
Ma adesso i nodi sono venuti al pettine: i creditori bussano alla porta, costringendoci a fare i conti con l’insostenibilità di un modello di crescita “drogato” (in quanto, appunto, debito-centrico) e col fatto che le «contraddizioni strutturali del sistema capitalista» – tra cui Ventura annovera la finanziarizzazione dell’economia, la robotizzazione, la domanda stagnante, il debito pregresso e persino la caduta tendenziale del saggio di profitto – rendono vana qualunque speranza di uscire dalla crisi attuale con le ricette “keynesiane” del passato. Ai “proletari cognitivi” di oggi (cui si rivolge in primis il libro di Ventura), dunque, non resta che rassegnarsi al proprio declassamento: disoccupazione, semi-occupazione, precariato, lavoro povero, ecc. sono l’inevitabile prezzo da pagare per aver ostentato troppo a lungo «una ricchezza che non abbiamo». Il senso del libro è tutto racchiuso nella sua chiosa kafkiana: «c’è molta speranza, ma nessuna per noi».
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I numeri per capire il voto nell’Italia del sud
Marta Fana e Giacomo Gabbuti
Dal 5 marzo, e cioè dal giorno dopo le elezioni, gli occhi sono puntati sull’Italia del sud. Tutti provano a capire cosa abbia diviso il paese a metà: da una parte il nord che ha decretato il successo della Lega, dall’altra il sud che ha votato in maggioranza per il Movimento 5 stelle.
In particolare, quel sud tutto dipinto di giallo è utile per ridimensionare la novità del voto, e ricondurla a più vecchie certezze.
Il reddito di cittadinanza (nel programma dell’M5s fin dal 2013, oggetto di un già discusso disegno di legge e, nei fatti, come ha osservato Chiara Saraceno, nulla più di una generosa, imperfetta, banale assicurazione universale contro la disoccupazione) spiegherebbe la geografia del voto “lazzarone” del sud; parallelamente, il nord produttivo avrebbe votato egoisticamente per la flat tax. Su una simile lettura, per citare il caso più autorevole, basa la sua proposta di reintroduzione di gabbie salariali il presidente dell’Inps Tito Boeri.
Ma questa interpretazione, solo apparentemente economicistica, rimuove in realtà la profonda trasformazione imposta all’Italia dagli ultimi, lunghi decenni di stagnazione e poi crisi. Quando il voto è spiegato esaminando le preferenze economiche, le osservazioni paiono tuttavia risentire degli stereotipi riguardanti i vizi del sud “terrone” e le virtù del nord produttivo.
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Cos’è il Fiscal Compact e perchè occorre fermarlo
di Stefano Zai*
Prima di entrare direttamente nel merito del fiscal compact e cercare di capire cosa sia e cosa comporta, occorre a mio avviso allargare un attimo lo sguardo. Occorre capire e ricordarci, perché Eurostop l’ha già affrontato in più occasioni, cosa sia la costruzione europea e su cosa si fonda. Questo ci permette di comprendere la portata del Fiscal Compact stesso, trarne le opportune considerazioni e conclusioni politiche, dimostrando che le rivendicazione dei 3 NO (NO UE, Euro, Nato) che la piattaforma porta avanti come elemento fondante, non sono “per moda” o estremismo fine a se stesso e non rappresentano un argomento mono tematico legato alla sola questione della moneta, ma sono una piattaforma politica rigorosa se veramente vogliamo creare una proposta alternativa e contestualizzata alla fase.
Come si contestualizza il Fiscal Compact nella costruzione della UE
Possiamo sintetizzare che la costruzione dell’Unione Europea si fonda su tre pilastri cardine, che sono:
Ordoliberalismo con “spruzzi” di neoliberalismo americano: il mercato e i suoi agenti da soli sono fallibili, portano ad instabilità non controllabile, ecco quindi la necessità di un sistema che interviene e controlla a favore del mercato e la concorrenza. Quello che deve essere tutelato è quindi il principio di concorrenza di mercato e la stabilità dei prezzi (inflazione). Occorre, quindi ed è questo che ci ritroviamo di fronte, uno Stato che non lascia fare come vuole al mercato (la mano libera di Adam Smith), ma che interviene a garantire e favorire costantemente questi principi. Siamo di fronte ad uno Stato che è interventista in senso neoliberale (economia sociale di mercato).
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Olimpiadi 2026 a Torino? Olimpiadi dello spreco e dell’inganno
di Maurizio Pagliassotti
Come si sta muovendo la nuova «Grosse Koalition» del massacro sociale (e perché): le narrazioni tossiche (con “Beppe che telefona in diretta”) e la sindrome di Re Mida
«Ci sono momenti in cui è necessario gettare il cuore oltre l’ostacolo. Come diceva XYZ, e pensando anche quelle parole lontane, ma oggi così vicine, noi diciamo sì. Lo facciamo non a cuor leggero, consapevoli degli errori che sono stati commessi nel passato. Ma è proprio per dimostrare che si può fare bene ciò che è stato fatto male in passato che noi diciamo sì. Perché vogliamo dimostrare che la sostenibilità ambientale ed economica è qualcosa che si può fare. A coloro che dicono “no”, legittimamente, noi rispondiamo: stiamo lavorando anche per voi, per far ritornare la fiducia anche in coloro che l’avevano persa. Daremo tutta la nostra passione e il nostro coraggio per costruire insieme un evento bello, forte, sostenibile, ecologico. Noi trasformeremo gli errori del passato in lavoro, crescita, sviluppo. Quindi Torino [ma forse ci sarà anche Milano, N.d.R.] dice “Sì” alla candidatura per le Olimpiadi di Torino 2026.»
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida», «ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi e di conseguenza del Comune di Torino:
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Dalla superstizione alla fede scientifica
di Tomasz Konicz
La nuova "Marcia per la Scienza" mostra come nel capitalismo tardivo stia crescendo anche la regressione sociale
«il sapere che è potere non conosce limiti né
nell'asservimento delle creature né nella sua
docile acquiescenza ai signori del mondo.»
("Dialettica dell'Illuminismo")
Alla fine di aprile, c'è stata un'ondata di proteste da parte della comunità scientifica mondiale, rivolta principalmente contro le politiche anti-scienza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Gli scienziati hanno dovuto confrontarsi con un'ostilità sempre più crescente nei confronti della scienza. Come nel caso, soprattutto, di quello che è stato l'attacco portato avanti dai nuovi movimenti populisti di destra. Tuttavia, in queste proteste è presente un ben noto errore di fondo che attiene all'assenza di qualsiasi auto-riflessione critica da parte della scienza. Le critiche relative alla ricerca e all'insegnamento, hanno riguardato solamente le condizioni lavorative nella comunità scientifica - dal momento che è stata completamente ignorata la contraddittoria funzione sociale della scienza nel capitalismo.
La nuova "Marcia per la Scienza" rientra, quindi, in una concezione acritica della scienza, che era popolare nel XIX secolo. Anche quelli che sono i classici della letteratura critica della scienza, sembra non aver lasciato alcuna traccia nella comunità scientifica. E, in effetti, il mondo può essere così meravigliosamente semplice... se hai sufficientemente fede nella scienza!
Da un lato, abbiamo gli scienziati illuminati che vogliono impegnarsi oggettivamente nella ricerca e nell'insegnamento, in quella che è la forma della comunità scientifica mondiale. Mentre l'altro lato verrà ad essere dominato dalle forze irrazionali dell'oscurità, dalla stupidità, dalla superstizione e dagli interessi privati.
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La Cina nella globalizzazione
di Romeo Orlandi*
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
La Cina, nel senso ovviamente della Repubblica Popolare, non è mai stata un magnete intellettuale per la nuova sinistra italiana e internazionale. Ha attratto invece l’attenzione di un variegato gruppo di seguaci che ne esaltavano la fedeltà manichea e si identificavano nella propaganda di Pechino. La liturgia era immutabile, il rosso indelebile, il lessico della Terza Internazionale. L’attenzione apologetica apparteneva ai marxisti-leninisti, per i quali la conservazione del trattino assicurava la linearità di pensiero. Chi derogava dalla linea, indipendentemente dal suo contenuto, era oggettivamente un amico della reazione e del capitalismo. L’analisi serviva a scovare i nemici, a denunciare i traditori. Per queste versioni, la Cina di Mao era la continuazione dello stalinismo – e dunque della retta via – mentre quella di Deng emulava il revisionismo di Kruscev. Le dinamiche della storia sembravano irrilevanti; l’identità manteneva sempre il primato sull’analisi. La verità valeva fino al prossimo Congresso del Pcc, dove chi prevaleva dettava la linea e chi era sconfitto finiva nei campi di rieducazione. Il dibattito che ne derivava non era fertile. Mao era la continuazione o la crisi del bolscevismo? Deng ha salvato il Partito o la Cina? Il Pcc può definirsi ancora comunista? Le domande sono mal poste, probabilmente inutili; negli anni ’60 si sarebbe risposto The answer is blowing in the wind.
Una lente disincantata, minoritaria, ideologica ma non ossificata, ha invece analizzato con spirito critico l’esperienza cinese. Certamente la sua epopea ne è stata glorificata, dalla Lunga Marcia alla guerra civile contro i nazionalisti di Jiang Jie Shi, dal terzomondismo di Bandung alla lotta imperialista.
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Il caleidoscopio del tempo
di Orsola Goisis
Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta, (Mimesis, Milano-Udine, 2017)
“Il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti), mi suggerivano l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio […] in tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui PenX, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano”[1].
La memoria del curioso giardino descritto da Borges in un noto testo del 1941, mi ha accompagnata, come un adagio, nel corso della lettura dei quattro saggi su Benjamin che compongono Attraverso la piccola porta di Massimiliano Tomba.
È, infatti, a partire dal tempo e attorno al tempo, nelle sue pieghe anacronistiche, nei suoi iati e nelle sue aritmie, che si snoda la domanda filosofica dell’autore[2].
È la modernità capitalista ad aver profondamente modificato la natura della temporalità, ad averla assolutizzata nei termini di una linearità cieca e tirannica, lungo la quale tutti i fatti sembrano equivalersi, e non saranno né lo storicismo, né le contromosse automatiche di un mal inteso materialismo storico a ricucire le vestigia dell’individuo, giacente in frantumi, spogliato della possibilità di fare esperienza, annientato nella sua capacità di sintesi.
Ed è dunque, conseguentemente, dall’antropologia che occorre ripartire, provando a ipotizzare che anche la profonda crisi dell’esperienza e la distruzione del “vecchio soggetto”, se visti dal punto di vista del collettivo, possano rivelarsi occasioni di liberazione di una nuova coscienza politica, a patto che si cominci a pensare nei termini di una temporalità altra, come suggerisce Benjamin, a condizione che si ammetta un elemento di trascendenza capace di funzionare da contropeso alla struttura religiosa che il capitalismo va assumendo.
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Informate Grillo: il lavoro non è finito!
di Carmine Tomeo
La fine del lavoro è assunta come presupposto (indimostrato) della necessità del reddito di cittadinanza. Ma il lavoro non è finito ed il reddito di cittadinanza non risolverà i suoi problemi
In un articolo dello scorso 15 febbraio pubblicato sul suo blog [1], Beppe Grillo si lancia nell’ipotesi della fine del lavoro per affermare, in conclusione, la necessità di istituire un reddito di cittadinanza. Il comico genovese e fondatore del Movimento 5 Stelle prende spunto da Rifkin, economista americano che affermava, appunto, la fine del lavoro (che diede il titolo al suo celebre libro), con l’ipotesi che lo sviluppo della capacità produttiva avrebbe lasciato nella disoccupazione masse crescenti di lavoratori. “Se non c’è lavoro, non c’è consumo, non c’è produzione, non c’è la nostra società”, scrive Grillo e perciò “Dobbiamo superare questa visione, il lavoro di massa è finito, volge al termine”. Di qui il motivo per cui “dobbiamo immaginare un altro mondo, in cui esiste un reddito slegato dal lavoro”. La soluzione sarebbe, allora, il reddito di cittadinanza. In un post successivo del 14 marzo [2], il fondatore del Movimento 5 stelle torna sul tema. Questa volta la base di partenza è La società senza lavoro di Dominique Méda. Le conclusioni, però, sono le stesse: la soluzione è il reddito di cittadinanza. Emerge, in Grillo, una visione centrata su questa parte del mondo, quella a capitalismo più maturo e che non tiene conto della divisione internazionale del lavoro, che invece bisognerebbe tenere presente parlando di fine del lavoro e (connessa a questo) di reddito di cittadinanza.
È evidente la possibilità di fare a meno di una certa quantità di forza lavoro con l’avanzare della tecnologia e della conseguente produttività. Non bisogna, però, dimenticare che questo processo di sviluppo non è affatto neutrale, come spesso viene presentato e come lo stesso Grillo lo rappresenta, ma attiene all’uso capitalistico che viene fatto della tecnologia.
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