Print Friendly, PDF & Email

materialismostorico

Note provvisorie per una Teoria della Rivoluzione

di Roberto Fineschi*

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017,  licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

gobetti marxIn questa relazione vorrei iniziare a indagare, in maniera problematica e necessariamente provvisoria, un tema radicale, che sta forse alle spalle della riflessione sugli eventi dell’Ottobre 1917, vale a dire il significato stesso del concetto di “rivoluzione”. È possibile ricostruirne una teoria tanto in termini generali quanto in termini più specifici relativamente al passaggio dal modo di produzione capitalistico a una società futura?

Quanto segue costituisce solo una riflessione di carattere preliminare; le domande sono più delle risposte. Per trovare le risposte, bisogna però partire dalla domande giuste; spero che questo contributo possa essere di qualche aiuto in questo senso.

 

1. Che cosa significa “rivoluzione”?

In termini marxiani, si tratta di una trasformazione che implica una ridefinizione dei rapporti di produzione e distribuzione sulla base di un nuovo modo di produzione e delle relative forme di rappresentazione e consapevolezza di tale processo da parte degli attori coscienti. Questo cambiamento può essere il risultato di un processo politico consapevolmente gestito dagli attori sociali, che oltre ad essere agiti dalle tendenze obiettive, le “agiscono”, se mi si consente la sgrammaticatura. Alcune possibili domande, quindi, sono:

  • Quando ci sono state effettivamente rivoluzioni strutturali?
  • Quando le rivoluzione strutturali sono state risultato di soggetti consapevoli che si erano posti quello scopo?
  • Quale evento storico “rivoluzionario”, a detta dei suoi promotori, ha effettivamente portato a una rivoluzione strutturale?
  • Viceversa, quale rivoluzione strutturale è avvenuta a prescindere dalla consapevolezza dai suoi realizzatori materiali?

Un secondo blocco di domande inevitabilmente collegate a queste sono le seguenti:

  • in quale altra epoca storica la lotta di classe ha prodotto delle dinamiche progressive o ha garantito alle classi antagoniste una via di uscita “progressiva”?
  • Ovvero quali e quante rivoluzioni soggettive, anche di grande portata, sono finite nel nulla?
  • In questo contesto, l’incremento delle forze produttive è una costante storica nel passaggio da un modo di produzione all’altro?
  • Il corrente modo di produzione è sempre stato fecondo del successivo in termini di progresso della produttività del lavoro e della capacità degli uomini di gestire il ricambio organico con la natura?

Alla maggioranza di queste domande, soprattutto a quelle del secondo blocco, si dovrebbe rispondere positivamente sulla base dello schematico modello esposto nella celeberrima Prefazione marxiana a Per la critica dell’economia politica. Parrebbe trattarsi però di una formalistica generalizzazione transtorica di leggi e tendenze che si instaurano nel modo di produzione capitalistico. In effetti, non pare che nel corso storico le cose siano andate esattamente così, dove mondi produttivi sono scomparsi, implosi, senza generare niente di “superiore”; dove le classi in teoria progressive hanno tentato rivoluzioni tragicamente fallite proprio per la mancanza di condizioni oggettive; oppure condizioni obiettive hanno prevalso prendendo determinate direzioni a prescindere dall’azione programmatica delle classi in gioco.

Per farla breve, Marx ha effettivamente elaborato una teoria degli “altri” modi di produzione? In assenza di essa non si può che prendere atto che tutte le domande di cui sopra sono destinate a non avere risposta. Questo è un problema anche per la teoria del presente e del suo eventuale carattere anticipatorio del futuro. Riprendiamo il discorso dalle fondamenta.

 

2. «Die materialistiche Geschichtsauffassung» ovvero, la concezione materialistica della storia

La teoria del processo storico elaborata da Marx è rimasta un torso. Ciò non significa che quello che ci ha lasciato non costituisca, ancora oggi, uno dei più validi strumenti teorici e politici che siano a nostra disposizione; tuttavia non bisogna neppure farsi illusioni sui suoi limiti o, forse meglio, sulla sua incompiutezza. Il mio contributo cercherà di mettere in luce, in questo contesto, quelli che a mio modo di vedere sono alcuni orizzonti di ricerca aperti, soprattutto per quanto riguarda il concetto di rivoluzione e cambiamento storico.

La teoria della storia di Marx si articola attraverso una complessa struttura che si sviluppa su diversi livelli di astrazione:

a) continuità/discontinuità fra uomo e natura. La specie umana, una delle tante del regno animale, si caratterizza per la sua capacità di lavorare. Il processo lavorativo mette in gioco tutta una serie di elementi “naturali” che però, grazie alle modalità in cui il processo si realizza, diventato “umani”. Qui il riferimento è ai noti passi del primo libro del Capitale sul Processo lavorativo.

La “Gegenständlichkeit” del risultato del processo, il prodotto, rende possibile l’essere per altro oggettuale dell’attività umana e quindi la possibile socializzazione dei suoi prodotti. La costruzione di un mondo oggettivo, naturale/umano che ha una sua esistenza altra, potenzialmente per altri.

Le caratteristiche di questo processo in astratto non descrivono una modalità primordiale di lavorare, una essenza/esistente o esistita in un qualche momento primigenio. L’individuazione in astratto degli elementi del processo lavorativo non è che il caput mortuum di un processo di astrazione che come tale non è mai esistito né deve esistere. Il processo si realizzerà sempre in forme storiche determinate che ne saranno una manifestazione, ma, proprio per questo, mai saranno identiche all’universale astratto.

b) Questo discrimine permette di articolare il secondo processo di continuità/discontinuità, quello delle diverse fasi storiche “umane”. Le diverse modalità, in cui gli astratti elementi del processo lavorativo verranno ad unirsi permettendo l’estrisecarsi del processo stesso, e le dinamiche sociali specifiche, che così vengono a svilupparsi, fanno sì che ci siano fasi diverse della storia della produzione che saranno per certi aspetti la stessa cosa – forme del produrre umano – ma allo stesso tempo specificamente diverse – ciascuna con una sua dinamica peculiare. Determinati rapporti di produzione in cui le forze produttive esistono. Il modo di produzione è il cuore concettuale e pratico da cui tutto ciò si sviluppa.

Le conformazioni materiali – che, vale la pena sottolinearlo, sono tanto manuali che intellettuali – della produzione determinano le modalità attraverso le quali i singoli individui hanno una funzione determinata. La loro funzione individuale raccorda i vari singoli individui in una funzionalità di sistema, una classe. La loro socialità è implicita in ciò. Le modalità di realizzazione del processo mostrano pure – espongono – come gli attori del processo si “rappresentino” il processo stesso nella loro coscienza non scientifica, come si producano forme di consapevolezza fenomenica del processo obiettivo e come esse non siano semplicemente un inganno, ma la necessaria forma di manifestazione dell’essenza. Divengono parvenza solo se si pretende di considerare il fenomeno non per quello che è, ovvero essenziale, ma l’essenza stessa.

 

3. Stufentheorie, ovvero della Teoria degli stadi

Se questo è, in maniera estremamente schematica, il nocciolo della materialistische Geschichtsauffassung, ci si può chiedere come Marx pensi, in primo luogo, la presenza di leggi complessive del corso storico in generale; secondariamente, in che misura egli riesca ad articolarne ogni singolo periodo. Si tratta di una questione che inevitabilmente ripropone la vexata quaestio della Stufentheorie, su cui molto si è già detto e scritto.

Alla prima domanda si può rispondere: per generalizzazione. Marx elabora la teoria del modo di produzione capitalistico – senza portarla a termine fra l’altro – e sulla base della sua logica specifica, per differenza, cerca di individuare sia le caratteristiche del processo lavorativo in astratto – “a-/transstorico” cui si accennava in precedenza – sia le determinazioni formali astrattamente comuni a qualsiasi modo di produzione. Mentre per le caratteristiche astratte questa modalità per “sottrazione” può anche funzionare, per gli altri modi di produzione funziona solo fino ad un certo punto, in quanto, mancando le modalità specifiche, manca in realtà la teoria vera e propria.

Se così stanno le cose, è difficile prendere troppo sul serio la generica periodizzazione offerta da Marx nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica. D’altronde, pure l’interesse di Marx per le forme pre-capitalstiche sembra principalmente orientato a individuare il processo di formazione delle premesse del modo di produzione capitalistico – ovvero la separazione di forza-lavoro e mezzi di produzione e la cosiddetta accumulazione originaria –, più che a formulare una teoria di un diverso e specifico modo di produzione. Almeno questo è quanto accade per esempio nel XXIV capitolo del primo libro del Capitale.

Sicuramente, almeno in parte, diversa la questione per le Formen e per i successivi interessi etno-antropologici, in cui Marx si sforza di individuare in maniera un po’ più precisa alcune delle caratteristiche peculiari di altri modi di produzione, senza tuttavia riuscire in un’impresa che, essa stessa estremamente complessa, sicuramente avrebbe richiesto un immenso lavoro preliminare che al tempo era ben lungi dall’essere non solo svolto, ma addirittura immaginato.

Note, tuttavia, le “ossificazioni” interpretative connesse a questo tema, secondo le quali tutte le nazioni e tutti i popoli avrebbero dovuto passare più o meno schematicamente attraverso le fasi indicate nella Prefazione a Per la critica; si finiva così per riproporre una “filosofia della storia” in senso deteriore, vale a dire una concezione meccanicistico-finalistica dell’evoluzione umana, basata tra l’altro su un modello sostanzialmente eurocentrico. Se i limiti dell’esposizione di Marx liberano il discorso definitivamente e fortunatamente da siffatti schematismi, dall’altra, sfortunatamente, non ci forniscono una soddisfacente teoria della processualità storica.

 

4. I limiti della dialettica

Marx insiste molto, in varie sedi, sui “limiti della dialettica”, per vari motivi. In primo luogo, ciò che vuole evitare è l’accusa di “hegelismo”, etichetta con la quale intende sostanzialmente una concezione della storia finalistica, per cui una intrinseca tendenza di fondo guiderebbe lo svolgimento del corso storico verso uno scopo finale. Marx vuole invece mostrare come non sia possibile teorizzare questa tendenza in astratto, ma solo la dinamica temporale specifica di singoli modi di produzione, quello capitalistico nello specifico. Esso ha dei punti di partenza non definiti da esso stesso, eredità di un modo di produzione precedente. Solo una volta che tutti i presupposti si danno, è possibile che il modello capitalistico inizi la sua dinamica; questa prima “posizione” non è “posta” dal modo di produzione capitalistico stesso. Per come funziona, esso tenderà a porre come risultati della sua stessa processualità quelli che erano dei presupposti, e quindi a diventare un processo vero e proprio. Gran parte della teoria dell’accumulazione è dedicata a questo scopo. Fa tuttavia parte della teoria la necessità di un prima “altro”, corrispondente a dinamiche diverse, che non si può spiegare sulla base della teoria del modo di produzione capitalistico. Se ciò fosse possibile, si stabilirebbe una catena teleologica universale e quindi una nuove versione della storia a piano.

Che cosa si può dire della società futura? E di quelle passate? Sulla base della stessa logica, per coerenza, si potrebbe affermare che il modo di produzione capitalistico pone certi presupposti, ma dal suo interno non si può elaborare una teoria del modo di produzione futuro. Marx invece più volte si sbilancia in questo senso, parlando della società futura sulla base delle tendenze intrinseche al modo di produzione capitalistica e guadagnandosi così note accuse di finalismo. Teorizza non solo come gli attori ed i soggetti che svolgono determinate funzioni, a un certo punto, per la dinamica stessa del modo di produzione, entrino in conflitto mutuo, ma anche come ciò determini lo svilupparsi di soggettualità storiche capaci di una progettualità politica legittimata dalla tendenza di fondo della dinamica storica. Ciò però è possibile senza una scienza del futuro nel presente?

Marx è qui ancora più radicale, arrivando a sostenere che la società futura sarà qualcosa di essenzialmente diverso dal passato, non sarà semplicemente un nuovo modo di produzione, ma una nuova storia libera dal conflitto di classe, quello che, fino ad allora, era stato identificato come il motore stesso della dinamica storica. Per Marx questa “scienza del futuro” è almeno in parte possibile sulla base della premessa che il futuro comincia ad emergere nel presente, è già nel presente per il suo contenuto, ma non per la forma. Prima di considerare questo aspetto, ovvero se ciò basti a salvare la teoria dall’accusa di teleologismo, vorrei fare qualche comparazione.

 

5. Ancora sulla Stufentheorie

I limiti ormai accettati da insigni marxisti come ad es. Hobsbawn o Cazzaniga della Stufentheorie marxiana, almeno per quanto concerne il passato, hanno fatto il paio con l’assenza di elaborazioni di teorie di modi di produzione non capitalistici. La proposta di Kula per il modo di produzione feudale probabilmente non avrebbe soddisfatto le esigenze marxiane e, a mio modo di vedere, resta legata alla generalizzazione e connessione di dati storici dell’esperienza polacca che troppo sono debitori di un approccio descrittivo e che, per Marx, probabilmente farebbe parte più del modo di ricerca che non di quello di esposizione, quello “propriamente scientifico”.

Questo approccio per contrasto e comparazione è comunque stato anche ridimensionato da altri anche da un punto di vista metodologico. Si è parlato di Methode auf Widerruf, “metodo revocabile”, tanto buono ed efficace quando specifico del modo di produzione di cui è forma, vale a dire del modo di produzione capitalistico. Quindi anche metodologicamente si finisce per negare una possibile continuità fra modi di produzione e in qualche modo si delegittima la possibilità di conoscere gli altri per contrasto con quello attuale. O almeno solo a livello descrittivo, non di enucleazione delle leggi di funzionamento.

Per venire ai concetti di Lotta di classe è, nello specifico, di Rivoluzione, altri hanno sempre di fatto ridimensionato la possibilità di concepire una nozione forte di questi termini, nel senso della dialettica di funzione e conflitto, riservandone l’effettiva efficacia specificamente, di nuovo, solo al modo di produzione capitalistico.

Alla luce degli studi e delle ricostruzione filologica dello stato della teoria di Marx, in sostanza, non semplicemente l’idea della schematica successione lineare è venuta meno. A venir meno è stata una interpretazione larga, estensiva della concezione materialistica della storia. La cogenza scientifica della teoria di Marx, per lo stato deficitario del suo sviluppo, la sua sostanziale incompiutezza, non può che limitarsi al modo di produzione capitalistico e restare solo un’ipotesi di ricerca per gli altri. Infatti, senza una teoria degli altri modi di produzione, è difficile definire il ruolo funzionale delle classi, la loro natura rivoluzionaria, il passaggio da una fase all’altra, il carattere progressivo di questo passaggio. Queste sono tutte domande che al momento non possono trovare risposta. I contadini, gli schiavi, ammesso e non concesso che queste si possano definire classi subalterne o antagoniste dei non meglio definiti feudalesimo e schiavismo, in che senso sono stati rivoluzionari e in che modo, grazie alla loro azione, si è passati ad una forma diversa e superiore? In realtà, le loro rivolte sono fallite. Il modo di produzione antico è finito portando ad una decadenza da tutti i punti di vista, della popolazione, della cultura, delle tecniche e della capacità produttiva.

Per farla breve, la teoria di Marx, per come ce la abbiamo, permette di parlare della storia e della struttura economico-sociale del modo di produzione capitalistico. Questo in linea di principio non significa che non sia possibile cercare, praticamente e metodologicamente, di utilizzarla per fare la teoria di altri modi di produzione, ma al momento la concezione materialistica della storia “in weiterem Sinn” è ancora in alto mare.

 

6. Scienza del presente e/o del futuro?

Che la Stufentheorie marxiana – e quindi la Teoria della lotta di classe e della Rivoluzione – sia incompleta e in questo senso deficitaria, non significa che il suo valore scientifico come modello di conoscenza del presente, vale a dire del modo di produzione capitalistico, non sia solido e scientificamente sviluppato. Come può però essa, sulla base degli stessi caveat metodologici ed epistemologici visti sopra, essere teoria del futuro? Anche se ci limitiamo al modo di produzione capitalistico, la questione è come si possa fare una teoria del presente che apra le porte del futuro senza prestare il fianco alle accuse di determinismo meccanicistico e di teleologia deteriore.

Hegel alla fine si sottraeva a questa critica con la metafora della Nottola di Minerva che spicca il volo sul far della sera. Quindi, la ricostruzione della razionalità dello svolgimento storico è realizzata a posteriori, una volta che si era data. Chi agiva nel presente per cambiarlo non sfuggiva alla dimensione del dover essere senza che ciò che alla fine si andava a realizzare fosse necessariamente ciò che ci si era preposti consapevolmente; l’eterogenesi dei fini. La scienza filosofica conosceva in quanto riconosceva ex-post; essa non permetteva di cambiare o ringiovanire il corso storico, ma di coglierne la razionalità intrinseca. La dialettica del cambiamento storico era invece tematizzata nella Weltgeschichte, attraverso i popoli ed i principi da loro incarnati; e i popoli si avvicendavano attraverso la guerra. In che misura e come la teoria di Marx riesce a sottrarsi a questa limitatezza? Credo che almeno questo salvataggio sia possibile senza necessariamente cadere nelle teleologia. Questo grazie al metodo marxiano ed al modo in cui viene sviluppata la sua teoria del modo di produzione capitalistico.

La combinazione di metodo di ricerca e metodo di esposizione permette a Marx di sviluppare una teoria che individua l’ossatura del modo di produzione capitalistico. Ciò non è potuto avvenire nel vuoto pneumatico dell’astrazione, ma solo perché il capitalismo si era già sviluppato fino ad un certo punto; ciò rendeva possibile fissarne la cellula economica, lo snodo concettuale da cui si dipana poi la teoria nel suo complesso, in virtù della sua intrinseca logica. Lo sviluppo di questa teoria individua un’architettonica che implica funzioni e conflitti da una parte e linee di tendenza dall’altra. Non mi dilungo qui sulla teoria dei soggetti storici, sulla distinzione tra Forme e Figure che ho sviluppato altrove, e sulle tendenze di lungo periodo del modo di produzione che Marx è stato in grado di indicare con larghissimo anticipo, dimostrando la sostanziale correttezza della sua teoria. Ciò che adesso mi preme sottolineare è che ciò è stato possibile perché la nottola di Minerva ha spiccato il volo prima del far della sera e ha visto abbastanza da cogliere delle tendenzialità sulla base delle quali si riesce non solo a pensare il presente come concluso, ma come conflittuale unità con delle linee di tendenza definite e dei soggetti che incarnano funzioni creando questa processualità sistemica. Sulla base di ciò si riescono a determinare delle linee di sviluppo, a un altissimo livello di astrazione, del modello. Si determinano delle classi, il loro ruolo e la loro legittima rivendicazione politica. L’opposizione di classe e la legittima conflittualità politica è così, non moralmente o empiricamente, ma scientificamente fondata.

Ciò consente di ipotizzare che il Dover essere dei soggetti storici possa essere razionalmente contestualizzato, che si possa legittimamente cercare non di cavalcare in astratto l’onda della storia, ma la dinamica del modo di produzione capitalistico con cognizione di causa… finale, pur nei limiti di questo modo di produzione.

 

7. Die Zukunfsmusik – La musica del futuro

Marx però non si limita a legittimare la lotta di classe nel presente, a individuare le linee di tendenza, ma va ad indicare il contenuto materiale della società futura già presente nella forma sociale inadeguata e contraddittoria del modo di produzione capitalistico. Queste potenzialità sono il Lavoratore complessivo – il produttore universale integrato –, la capacità infinita della produttività, l’umanità non più come astrazione generica ma realtà di fatto, l’individuale fatto universale e viceversa.

In quali soggetti effettivi, in quali classi (forme e figure) e in quali forme del produrre ciò si sustanzia? Marx indica le cooperative e la società per azioni come soggettualità di passaggio. In che senso esse possono costituire il fondamento di un nuovo modo di produzione? Si tratta di una elaborazione palesemente inadeguata, alla quale manca la teorizzazione di livelli di astrazione più bassi in cui si prenda in considerazione tanto per fare un esempio lo Stato, e via dicendo.

Qual è il nuovo modo di produzione che emerge dalla ceneri di quello capitalistico? Forse Marx poté ritenere che i tempi fossero maturi per formulare una teoria del nuovo modo di produzione. Forse, però, proprio qui è il problema, i tempi non lo erano e non è detto che lo siano adesso, per vedere abbastanza del nuovo contenuto da farne una teoria.

Si sono ovviamente fatte delle ipotesi. Qual è la teoria di un nuovo modo di produzione? Quello statuale? Quale la nuova forma del prodotto? Le nuove modalità in cui gli elementi del processo lavorativo vanno ad unirsi e a dare vita al processo lavorativo?

Qui emerge immediato un problema già emerso relativamente al confronto con i passati modi di produzione: queste nuove modalità sono già in essere o sono modalità che noi vorremmo ci fossero perché le definiamo per differenza dal modo di produzione capitalistico? Eliminare merce e denaro o altre categorie teoriche e pratiche tipiche del modo di produzione capitalistico, non produce di per sé la teoria e la pratica di un nuovo modo di produzione. Lo dimostra anche la prassi rivoluzionaria di Lenin nei suoi passaggi dall’economia di guerra alla NEP dove certe soluzioni “ideologiche” vengono abbandonate perché praticamente non furono solo inefficaci ma fallimentari. Il dibattito sul passaggio dal “piano” a elementi di economia di mercato nei paesi socialisti negli anni sessanta e settanta risponde alla stessa logica.

I tentativi in corso, in Cina, in Venezuela, a Cuba, in Corea del nord, in modo assai diverso, in certi casi con una certa dose di eclettismo politicamente comprensibile viste le circostanze, ed in certi casi con dei notevoli successi in politica sociale, come si inquadrano in questo contesto? Se esiste una progettualità di lungo corso, come essa si configura? Non mi pare ci siano idee troppo chiare in proposito.

In un certo momento è parso che il modo di produzione capitalistico stesso tendesse ad “autoorganizzarsi” attraverso trust e monopoli. Il sollevamento e la presa in carico da parte dello Stato di questo processo è allora una nuova forma del produrre? Come pare pensasse Lenin ma come poi non è stato con l’Unione Sovietica?

Ed il sistema del welfare? La trasformazione di determinate merci fondamentali in diritto, la loro sottrazione al mercato è abbastanza? È un altro modo di produzione? Un sistema che può essere universalizzato al punto da cancellare merci, denaro, salari, ecc.?

La partecipazione statale a vari livelli nell’economia e il ridimensionamento del libero mercato sono un’anticipazione del futuro, dei cambiamenti epocali, oppure una coerente ristrutturazione del processo capitalistico di accumulazione e valorizzazione ed una ridefinizione dei rapporti egemonici di classe in un contesto prettamente capitalistico?

Perché una Rivoluzione avvenga, deve cambiare il modo di produzione, il sistema di produzione e di distribuzione dei prodotti. Se questo nuovo contenuto si forma nel presente, la sfida è saperlo cogliere e farne la teoria, ammesso che sia già abbastanza sviluppato per poterlo fare. Marx ha scritto Il capitale a un certo punto dello sviluppo del capitalismo storico. Riusciremo noi, senza perderci in utopie fantastiche o contrastive, a scrivere Il comunismo?


* Siena School for Liberal Arts

Comments

Search Reset
0
michele castaldo
Saturday, 07 April 2018 09:06
Ottimo scritto, ricco di spunti per una seria riflessione nel merito dei problemi.
Sull'ultima domanda sarebbe opportuno incentrare maggiormente la riflessione perché a mio avviso il Capitale di Marx - che Fineschi dimostra di conoscere bene - non è una proposta per una nuova società, questa semmai la possiamo riscontrare nel Manifesto. Per Marx il Capitale è uno straordinario lavoro di analisi del moto-modo di produzione capitalistico cui gli uomini sono arrivati nel loro rapporto con i mezzi di produzione. Ora, per noi di quest'epoca storica il Capitale può e deve essere utilizzato come strumento per spostare in avanti l'analisi del punto in cui è arrivato il movimento storico del modo di produzione capitalistico, piuttosto che proiettarci in ipotesi di nuovi rapporti sociali, per una ragione molto semplice: 'la nottola s'alza sul far della sera'. Se il capitalismo è in buona salute non c'è ipotesi futuristica che tenga: si riproduce, perché non è un modello contro cui contrapporre un'altro modello di organizzazione sociale, ma è un movimento storico che ha avuto un suo inizio, un potente sviluppo, e come tutte le cose terrene declinerà 'col venir meno dei fattori che lo fecero sorgere e sviluppare'. Sicché non potremo scrivere il Comunismo finché esso non si comincerà a dare; e avere la pretesa di farlo ci farebbe avventurare per sentieri idealistici che al più sposterebbero al futuro i rapporti presenti ammantati di buone intenzioni. Pertanto, quello che noi chiamiamo comunismo - cioè un nuovo e ben diverso movimento storico dei rapporti sociali - può principiare solo dalle macerie del moto-modo di produzione capitalistico, proprio perché non è un modello ma un movimento storico. Purtroppo come movimento ideale del comunismo abbiamo preso un abbaglio straordinario - cominciando da Engels - nel ritenere che il capitalismo stesse lì lì per esaurirsi e che bastasse solo una spallata definitiva da parte del proletariato (classe operaia). Così non era e ' la storia ha dato torto a noi e a quanti come noi pensavano allo stesso modo'. Abbiamo perciò scambiato il progredire del proletariato nella sua condizione economica e sociale per un avvicinarsi della rivoluzione piuttosto che leggerla per classe complementare del movimento storico dell'accumulazione in modo particolare in Occidente. Il risultato è stato che abbiamo interpretato la fase di ascesa del modo di produzione come fase discendente e oggi che si presenta come discendente e di crisi di sistema siamo smarriti. Sono ovviamente i paradossi della storia, cioè il modo di guardarla da un punto di vista dei nostri desideri. E il proletariato? presto detto: di fronte alla crisi si ammala di neofobia, arretra scompaginato e si stringe intorno al proprio capitalista/smo nazionale come il girasole che volge sempre lo sguardo al sole per salvare la pelle.
E' un quadro scoraggiante? Per chi ipotizzava una classe operaia ideologizzata che cresceva fino alla presa del potere politico in modo più o meno rivoluzionario, certamente si. Ma chi riesce a guardare il moto-modo di produzione capitalistico con le lenti analitiche del Capitale del Moro, ha la percezione che certi scricchiolii di questa fase sono il sintomo di uno smottamento molto pericoloso per l'intero movimento storico sin qui determinato.
Qual'è il paradosso? che gli epigoni del comunismo novecentesco, abituati a uno schema ideologico sbagliato, non lo avvertono, e invece ci sarebbe tanto bisogno di spiegarlo.
Michele Castaldo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit