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Con gli analfabeti non si può fare la guerra
di Leo Essen
Con gli analfabeti non si può fare la guerra
(Bertolt Brecht)
Sul numero 84 del 2001 della Rivista La Contraddizione, Vladimiro Giacché propone la traduzione di alcuni testi minori di Bertolt Brecht, ai quali premette una breve e preziosa presentazione che mostra quanto istruttiva era ancora la loro lettura. Soprattutto, dice Giacché, questi testi sono preziosi per fugare un luogo comune della politologia borghese contemporanea, rappresentato dall’opposizione di democrazia e totalitarismo. Luogo comune che, dice, ha il suo nume tutelare in Hannah Arendt, e che oggi (2001) è pienamente egemone, e consente di cogliere tre obiettivi in un colpo solo: a) trasformare la democrazia parlamentare in un feticcio; b) demonizzare l’esperienza sovietica, assimilata in tutto e per tutto alla Germania nazista; c) cancellare il puro e semplice dato di fatto che la Germania nazista fu un Paese capitalista.
Per quanto riguarda direttamente i testi di Brecht, devo ammettere che ancora oggi, 2021, sono utili per fugare altrettanti luoghi comuni della politologia borghese che dominano il dibattito televisivo-filosofico nostrano.
Non solo è importante tenere a mente che il fascismo è stato legato alla necessità di conservare l'ordine sociale capitalista, e che, qualsiasi cosa se ne dica, e nonostante le differenze, anche enormi, con gli anni Trenta del Novecento, il capitalismo è vivo e vegeto e cerca, anche con i mezzi più disumani, di organizzare le nostre esistenze.
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Militanza: ancora su rivolta e rivoluzione
di Franco Milanesi
Questo testo, tratto da: Franco Milanesi, Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, si coniuga a testi precedentemente pubblicati in occasione dell’inaugurazione della rivista, lo scorso settembre, sul tema «rivolta e rivoluzione»: Benedetto Vecchi, Una rivolta senza rivoluzione; Serge Quadruppani, L’incendio rivoluzionario contro la carbonizzazione del pianeta. (La seconda onda mondiale delle sollevazioni e ciò che essa combatte); Mimmo Sersante, Il tempo della rivolta
Il flusso della ribellione, le mete della rivoluzione
Il «fare» della militanza non è il passaggio all’atto di una teoria (come se ne fosse l’«applicazione») ma è la sua trasfigurazione nell’agire di un soggetto che si impegna per sovrapporre ideale e pratica politica. Questo nesso sconvolge alcune della categorie del politico, evidenziando i margini angusti di un linguaggio che transita quasi immutato dal XV al XX secolo. Osservate dall’angolazione del soggetto politico militante (fenomeno tipicamente novecentesco) alcuni concetti come rivolta, potere, ideologia – mostrano una slabbratura dei margini che obbliga ad un ripensamento che li adegui alla specificità del tempo della politica totale.
Questa critica alla tradizione concettuale occidentale è necessaria se si vogliono comprendere a fondo i due termini che hanno storicamente turbato e scosso la presenza borghese: rivolta e rivoluzione. La teoresi si è affannata attorno ad essi distinguendoli, unificandoli, contrapponendoli e soprattutto prendendo parte per l’uno o per l’altro. Ricostruire alcune curvature di questo percorso (così tipicamente novecentesco) serve a far chiarezza attorno al nucleo significativo della militanza.
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Raniero Panzieri: per un socialismo della democrazia diretta
di Pino Ferraris
Il 14 febbraio 1921 nasceva a Roma Raniero Panzieri, intellettuale marxista, militante e dirigente del Partito socialista italiano, poi fondatore e animatore, fino alla morte prematura (9 ottobre 1964), del gruppo e della rivista «Quaderni rossi». Lo ricordiamo con il saggio che Pino Ferraris gli dedicò nell’opera L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a cura di Pier Paolo Poggio, vol. II, Il sistema e i movimenti (Europa: 1945-1989), Jaca Book, Milano 2011, pp. 381-401
La figura di Raniero Panzieri ha avuto, nel corso degli anni e dei decenni successivi alla sua morte, un destino paradossale. Tra rimozioni e mitizzazioni, tra dispute patrimoniali e sommarie stroncature è accaduto che la sua biografia politico-culturale, che ha una robusta coerenza di fondo, sia stata spezzata, smembrata: il “meridionalista” di Palermo è stato assolutamente oscurato dall’“operaista” di Torino, il suo ruolo di dirigente politico viene scisso dalla sua attività di produttore di cultura, colui che «per tutta la vita si è dedicato al partito e che viene spinto da una sorta di disperazione a formare gruppi di altro genere»1 viene proposto come “il Battista” dei gruppi minoritari degli anni ’70.
Panzieri dedicò gran parte del suo impegno culturale a smontare “sistemi” cristallizzati di pensiero nel movimento operaio. Persino il suo approccio a Marx, punto di riferimento costante e sicuro della sua elaborazione culturale, era così libero e creativo da renderlo completamente disponibile «all’operazione chirurgica di separare il Marx vivo e ancor oggi utilizzabile da ciò che nella sua opera rappresenta gli incunaboli del riformismo e del diamat».2 La prima edizione postuma di una parte dei suoi scritti apparve inchiodata sotto l’incredibile titolo La ripresa del marxismo-leninismo in Italia.3
Il protagonista del disgelo culturale, l’anticonformista innovatore del pensiero di una sinistra che faticava a uscire dalle rigidità dogmatiche dello stalinismo e della guerra fredda, per un non breve periodo subì le deformazioni indotte da quel «recupero anacronistico di culture politiche da immediato dopoguerra»4 che coinvolse buona parte della sinistra degli anni ’70.
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La proposta di Jacques Bidet di ricostruzione e rifondazione del "Capitale" di Marx
di Bollettino Culturale
Il libro di Jacques Bidet, intitolato Explication et reconstruction du “Capital”, è così audace che il lettore si sente sfidato a seguire il suo autore dall'inizio alla fine. Non solo audace, ma anche estremamente provocatorio per chiunque proponga di leggere Marx alla luce di nuovi fenomeni contemporanei. Il libro ha un contenuto straordinariamente denso, che richiede una profonda conoscenza del Capitale da parte di coloro che desiderano giudicare, con correttezza, la proposta di rifondazione di Bidet.
La prima parte del suo libro è dedicata alla Spiegazione il cui scopo è quello di completare l'esposizione di Marx basata su ciò che ha lasciato implicito e persino incompleto. Più chiaramente, si tratta di aggiungere nuovi concetti all'esposizione di Marx che non sono stati esplorati da lui, ma che, in un certo senso, non gli sarebbero estranei. Nella seconda parte, la Ricostruzione, Bidet propone una nuova esposizione categorica del Libro I, in modo che "sia all'altezza delle sue ambizioni: scientificamente coerente, empiricamente rilevante e politicamente significativo".
La controversia sulle letture del Capitale
Chiunque si impegni in una simile impresa, non può ignorare che il Capitale è già oggetto di letture che godono di una certa posizione di monopolio nel campo accademico. Bidet lo sa molto bene. Mette in evidenza le tre interpretazioni più conosciute e accettate, sottolineando i loro crediti dovuti, sottolineando le loro inadeguatezze teoriche.
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La tendenza dominante è quella di affrontare le sfide storiche?
di Michael Roberts
Di recente, la neo-confermata segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, ed ex capo della Fed [N.d.T.: Il Federal Reserve System, conosciuto anche come Federal Reserve ed informalmente come la Fed, è la banca centrale degli Stati Uniti], Janet Yellen, ha esposto in una lettera indirizzata al suo stesso staff quali sono le sfide che il capitalismo statunitense dovrà affrontare. Ciò che ha detto è che « l'attuale crisi è assai diversa da quella del 2008. Ma la sua portata, e le sue dimensioni, se non più grandi, non sono da meno. La pandemia ha provocato la devastazione totale dell'economia. Intere industrie hanno sospeso il loro lavoro. Sedici milioni di americani si trovano ancora a dipendere dall'assicurazione sulla disoccupazione. Gli scaffali dei magazzini dei supermercati si stanno svuotando. » Questo è adesso; ma andando avanti, leggiamo che Yellen dice che ci sono state « quattro crisi storiche: il Covid-19 è una. Ma in aggiunta alla pandemia, il paese sta affrontando anche una crisi climatica, una crisi di razzismo sistemico, e una crisi economica che si prepara da cinquant'anni. »
Yellen non ha specificato quale sarebbe questa crisi cinquantennale. Ma si è dimostrata fiduciosa che l'economia dominante è in grado di trovare la soluzione a tutte queste crisi.
« L'economia non è solo qualcosa che si può trovare sui libri di testo. Non è nemmeno, semplicemente, un insieme di teorie.
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Il PCI e il complesso problema della bolscevizzazione del partito
di Angelo D’Arcangeli
Il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia sta suscitando numerosi dibattiti, iniziative e pubblicazioni, in un intrecciarsi di ricordi, commemorazioni e riflessioni sul passato, sul presente e sul futuro. Tra nostalgia e sogni di nuovi assalti al cielo.
Il PCI è stato un protagonista assoluto del ‘900 italiano e la sua esperienza, ricca e contraddittoria, oltre a suscitare ancora un certo immaginario contiene molti elementi utili per la nostra “cassetta degli attrezzi” e, quindi, per approcciare con maggiori strumenti e cognizione di causa con il grande enigma irrisolto dello scorso secolo: la rivoluzione in Occidente.
E’ questa l’ottica e questo il motivo per cui occorre “fare i conti” con la storia del PCI, tirarne un bilancio. Senza inutili giudizi schematici e facili “ismi” o, al contrario, semplificazioni accondiscendenti verso importanti errori politici. Ma, semplicemente, per imparare. O, almeno, per cercare di farlo.
A questo fine condivido alcune riflessioni sulla storia del PCI, come contributo al dibattito e ad un’elaborazione più vasta e articolata, collettiva. Lo faccio soffermandomi su alcuni snodi della storia del partito che reputo particolarmente importanti e, anche, molto utili per comprenderne il percorso.
Il PCI nacque per la potente spinta data dalla Rivoluzione d’Ottobre al movimento socialista e operaio di tutto il mondo e per un Biennio rosso che aveva mostrato, rovinosamente, l’insufficienza rivoluzionaria del PSI.
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Riprendiamoci i saperi, riprendiamoci la vita
Emiliana Armano dialoga con Antonella Corsani
In occasione della recente pubblicazione del suo libro, Chemins de la liberté. Le travail entre hétéronomie et autonomie abbiamo invitato Antonella Corsani ad approfondire presupposti e implicazioni della sua ricerca.
Questo libro si iscrive in una prospettiva critica delle tesi sul capitalismo cognitivo – concetto che Antonella Corsani ha contribuito in modo importante ad introdurre nel dibattito teorico-politico – ed è scritto a partire dalla sua esperienza di inchiesta di più di quindici anni, prima nel movimento degli intermittenti dello spettacolo, poi nel movimento delle cooperative di attività e di impiego. È contemporaneamente uno studio di ampio respiro, insieme militante e teorico, che investe trent’anni di elaborazione critica e pratica del pensiero post-operaista, e ricostruisce in maniera chiara e puntuale la nascita negli anni ‘90 e la successiva articolazione delle tesi sul capitalismo cognitivo. Uno studio che ha il coraggio e il merito di fare un bilancio sulle coordinate teoriche fondamentali di un concetto, che è stato centrale nella teoria dei movimenti radicali. Riuscendo a tenere coesa, in una visione militante e rigorosa, sistematica e severa, la teoria e l’esperienza politica in un tentativo di situare questi diversi piani in maniera relata. In corso d’opera, durante il periodo di elaborazione ho avuto il piacere di dialogare con Antonella Corsani e ora quello di poterle rivolgere alcune domande sugli intenti e sulle tesi contenute nel suo libro per poterlo far conoscere e discutere. Qui di seguito riporto questo dialogo.
* * *
D. Vuoi fornire, ai lettori, qualche elemento sul percorso teorico e politico che ti ha condotta a scrivere Chemins de la liberté. Il progetto come è nato? Come si è inserito tra la contingenza del tuo attuale lavoro di ricerca in Università e i tuoi precedenti studi e ricerche militanti? Come hai pensato che fosse l’occasione di fare il punto di un percorso collettivo…?
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Covid: il punto di vista di Liberiamo l'Italia
di Sollevazione
I. Premessa
Ad un anno dal suo inizio, dovrebbe essere chiara a tutti la volontà politica di costringerci in uno stato di emergenza perpetuo.
L’Operazione Covid è stata accuratamente pianificata dall’alto e costruita a vari livelli, anche se nel nostro Paese l’emergenza sanitaria che ne è seguita è figlia anzitutto dello sfascio della sanità italiana, causata dalla crescente privatizzazione e da decenni di tagli targati “Europa”.
Il Covid è però anche un’arma, lo strumento che l’oligarchia dominante sta usando (non solo in Italia) per rimodellare la società in base ai propri disegni ed interessi. Da qui la politica delle chiusure per far sì che il pesce grosso mangi quelli piccoli; da qui l’imposizione delle attività “a distanza” per isolare le persone l’una dall’altra; da qui la narrazione terroristica per coprire il dramma della disoccupazione e della precarietà che ne consegue; da qui le mille misure autoritarie pensate per fermare sul nascere ogni opposizione.
“Great Reset” per l’appunto definisce icasticamente la corrente strumentalizzazione della cosiddetta pandemia al fine di instaurare il nuovo ordine mondiale di cui il World Economic Forum è l’ennesimo latore. In questo quadro la “Finanziarizzazione dell’Economia” organizzata in modo da drenare risorse dall’Economia Reale, nel cui ambito si svolgono le nostre attività quotidiane, ha raggiunto ormai dimensioni ipertrofiche e non è più in grado di sostenersi continuando a drenare risorse, senza collassare. L’enorme progressiva capitalizzazione dei cosiddetti derivati, vere e proprie scommesse sulle quotazioni dei titoli, ha raggiunto dimensioni pari a molti multipli del PIL mondiale.
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Piano contro mercato
di Carlo Formenti
Pensieri a margine di un libro di Pasquale Cicalese e di un post di Alessandro Visalli
Per uno studioso di economia che si ispira esplicitamente al marxismo e che – “difetto” ancora più grave – non appartiene alla corporazione degli economisti accademici, trovare una collocazione editoriale per i propri scritti è impresa al limite dell’impossibile. Pasquale Cicalese ci è riuscito grazie alla coraggiosa iniziativa degli amici del sito Lantidiplomatico https://www.lantidiplomatico.it/ i quali, dall’agosto 2020, hanno lanciato la L. A. D. Gruppo editoriale, una casa editrice che pubblica e.book e libri acquistabili online. Il suo libro Piano contro mercato. Per un salario sociale di classe raccoglie una serie di articoli pubblicati su diversi siti (Marx 21, Contropiano, Lantidiplomatico, Carmillaonline e La Contraddizione) in un arco temporale che va dal 2012 al 2020.
Nella “Prefazione” Guido Salerno Aletta – nome noto ai lettori di Milano Finanza - anticipa le ragioni di un titolo che evoca lo scontro fra i due modelli di sviluppo che oggi si fronteggiano a livello globale: da un lato, il dominio del Mercato che caratterizza il mondo occidentale, dall’altro il dominio della Politica che caratterizza la Cina, ovvero centralità dell’accumulazione finanziaria versus centralità del salario sociale. Mentre nelle prime righe della “Postfazione” Vladimiro Giacché dichiara senza mezzi termini di considerare Pasquale Cicalese “uno dei pochi economisti italiani che valga la pena di leggere”, e questo non tanto e non solo perché non è un economista accademico, quanto perché “poche categorie professionali sono uscite screditate come questa dalla Grande Recessione e, più in generale, dalle vicende economiche dell’ultimo decennio”. Provo a spiegare perché condivido questo giudizio.
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Perché Draghi?
di L'Antieuropeista
La tragica Seconda Repubblica, iniziata con la firma del Trattato di Maastricht, è una spirale, un cerchio che si chiude e si riapre senza soluzione di continuità. Ogni nuovo giro inizia con un governo tecnico, che dovrebbe mondare le colpe dei precedenti esecutivi politici troppo attenti al consenso popolare per implementare con rapidità ed efficacia le necessarie riforme strutturali indicate con solerzia dalle istituzioni europee.
Il governo Ciampi, insediatosi nel 1993, ha lavato i peccati della classe politica primo-repubblicana appena travolta dall’evento mediatico di Tangentopoli; ma si trattava di un governo misto, in cui il Presidente del Consiglio, esterno ai partiti, doveva tenerne in considerazione almeno in parte le necessità. Il governo Dini, in carica dal 1995, ha proseguito il lavoro, configurandosi come il primo governo compiutamente tecnico della Repubblica italiana e trascinando il Paese verso l’ambito appuntamento dell’euro.
È seguito oltre un decennio di alternanza sul modello americano tra le due coalizioni neoliberali di centro-destra e di centro-sinistra, fino a che i nodi dell’Unione Europea, che avevano nel frattempo depresso crescita, occupazione e produttività, sono venuti al pettine accentuando in Europa, e in particolare in Italia, la crisi finanziaria globale del 2008. Dopo due anni di rimbalzo, i “sacrifici necessari” dovuti all’innalzamento automatico del deficit e del debito pubblico hanno condotto a furor di popolo e di stampa al terzo governo tecnico, anche in questo caso puro, vale a dire composto esclusivamente da ministri a-partitici.
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Il governo del banchiere taumaturgo
di Michele Castaldo
Non solo i racconti delle religioni, ma anche la storia laica è ricca di personaggi raccontati in modo mitologico, in genere dopo la loro morte, anzi nella stragrande maggioranza dei casi dopo che da moltissimi anni avevano abbandonato la grigia terra. Nel caso di Mario Draghi, ancora in vita, è già un mito, ovvero l’uomo dei miracoli in economia. E chi se no poteva essere chiamato a governare un paese in crisi? Sicché le speranze superano la fantasia e nel personaggio si ripongono le certezze di uscire dalla crisi e di riprendere il cammino fulgido del capitalismo italiano. Dunque da destra, da centro e da sinistra, tutti concordi nell’applaudire finalmente l’uomo giusto, quello che ci salverà dalla pandemia del Covid-19 con la vaccinazione di massa e ci rilancerà come paese nella nuova fase economica, politica, sociale, culturale e ambientale. Insomma un nuovo mondo di un nuovo benessere. L’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto.
Il tentativo di queste note è quello di cercare di ragionare con freddezza evitando stupidi proclami. Ce n’è già troppi in giro che vi si dedicano.
Partiamo da un primo dato di fatto: il banchiere Mario Draghi è stato chiamato (da Mattarella o dai grandi gruppi dell’economia?) perché, come dice il filosofo Cacciari, la politica ha fallito. Il che è vero, ma siamo alla constatazione del fatto, non alla sua spiegazione. Allora dovremmo cercare di spiegare perché la politica ha fallito. Se in meno di tre anni cadono due strani governi di segno “opposto” vuol dire che c’è qualcosa di grosso che si muove nelle viscere della terra che sobbalza poi in superficie.
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Toyotismo. Qualità totale per chi?
di Fabio Scolari*
Prima di entrare nel vivo delle questioni è utile partire da una breve premessa di ordine storico sullo sviluppo, a seguito del secondo conflitto mondiale, del capitalismo giapponese. Richiamare questo elemento è assolutamente necessario se si vogliono comprendere le caratteristiche essenziali del metodo di organizzazione del lavoro ohnista[1]. Non farlo rischierebbe, infatti, di determinare una rappresentazione mistificata ed edulcorata dei suoi tratti più oppressivi e manipolatori. Quindi, capire i motivi della sconfitta del sindacalismo di classe nipponico è il primo passo per scoprire i segreti che hanno prodotto prima l’ascesa economica internazionale della Toyota e poi dell’intero Giappone.
La sconfitta del sindacalismo di classe
Il Giappone, uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale, dovette affrontare nei decenni successivi una serie di forti ristrutturazioni, sotto l’amministrazione del generale statunitense Mac Arthur, che ebbero come conseguenza la «modernizzazione» forzata ed accelerata delle strutture socio-economiche nazionali.
A questo proposito, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto indicano l’imposizione di una costituzione redatta nel 1946 da funzionari americani, che trasformò l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale (solo grazie a questo patto l’imperatore Hirohito poté conservare il trono) ed introdusse un sistema parlamentare, ed una radicale riforma agraria.
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Note e commenti ad “Appunti per una discussione sui nostri compiti” di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Questo breve testo è il commento dell'intervento di Carlo Formenti "Appunti per una discussione sui nostri compiti", pubblicato sul sito di Nuova Direzione.
Il punto cruciale del lungo testo mi pare la definizione del progetto originario che ha dato vita a Nuova Direzione, consigliando peraltro la accelerazione finale, non da tutti condivisa[1], verso la costituzione in soggetto politico a gennaio 2020.
Questo è stato descritto da Carlo in una duplice prospettiva:
1- Nel breve termine, cercare di intercettare una significativa diaspora in uscita dal M5S[2] perché scontenta della formazione del governo “bianco-giallo” Conte II. La possibilità che ciò si verificasse scaturiva direttamente dalla manifesta incapacità di tradurre il “contenitore dell’ira” di grande successo del movimento degli anni 2008-18 in un “contenitore di potere”[3] che fosse in grado di fare la differenza, traducendo il paese fuori delle secche neoliberali nelle quali è da decenni[4],
2- Nel medio termine, fornire un centro di aggregazione politico-culturale e, insieme, il nucleo organizzativo per addensare forze antisistemiche giocabili in senso neo-socialista.
Come sintetizzavo nella mia relazione in assemblea, “Passare tra Scilla e Cariddi”[5], la ristrutturazione del decennio 2008-18 è l’estenuazione delle dinamiche di spoliticizzazione e divaricazione gerarchizzante dell’intero trentennio neoliberale.
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Rosso giornale dentro il movimento
Memorie di un redattore
di Paolo Pozzi
Pubblichiamo la seconda delle quattro tranche di «Rosso» (1974-1975). La prima è disponibile qui. Seguiranno «Rosso dentro il movimento (nuova serie)» e «Rosso per il potere oparaio»
«Rosso» si stampava nell’hinterland milanese, quando ancora c’era la bruma che oggi non c’è più. La galaverna rivestiva di bianco i campi dove sfrecciava la metropolitana. La verde.
Neograf, Cartotecnica, Il Registro: alcuni dei nomi. Magari ci sono ancora. Gli stampatori: tutta gente che pensava alla lira. Cataloghi di bagni e docce, dépliant di fiere e mercati, giornalini dei commercianti locali, qualche rivista pornografica e «Rosso». L’importante erano i danè. Le cambiali non le volevano.
Capitava anche di finire adottati. Uno di questi, con un nome indimenticabile, si chiamava Tresoldi, mi veniva a prendere alla stazione del metrò di Cologno, mi portava a pranzo con lui e alla sera mi riaccompagnava a Milano. Aveva una casa molto grande e nella sala un angolo bar tutto di marmo. A lui devo la conoscenza, ahimè tardiva visto che non ero più un ragazzino, di quel dono degli dei che va sotto il nome di Campari shakerato col gin. Con lui sono entrato per la prima volta in vita mia a San Siro. Mi portava nel pomeriggio a vedere le partire di Coppa Italia del Milan.
«Rosso dentro il movimento» era curato sostanzialmente dal sottoscritto che raccoglieva i contributi degli organismi operai e studenteschi e quelli provenienti dai movimenti femminista e omosessuale. Non esisteva un menabò fisso. Ma non potevano mancare i contributi delle principali realtà dell’autonomia di fabbrica, dei servizi (Alfa, Sit Siemens, Face Standard, Fiat di Cassino, Petrolchimico di Marghera, Policlinico di Roma, ecc.) e dei collettivi studenteschi. Come non potevano mancare le cronache del movimento di autoriduzione che stava dilagando e le pagine sulla repressione che colpiva il movimento. Lo spazio di «Rosso tutto il resto» a ogni numero diventava più grande.
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Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri
di Fabio Ciabatti
Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00
L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.
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BlackRock, come il capitale finanziario controlla la politica in USA e UE
di Giacomo Marchetti
In calce un articolo di Werner Rügemer da Workers World
Quando guardiamo alla realtà materiale che sta alla base del sistema economico finanziario in Occidente, e la sua sempre maggiore pervasività nella capacità di orientare complessivamente la politica, ci accorgiamo di come la parola democrazia sia un vecchio arnese inservibile per le élites che governano il mondo occidentale.
Inutile, quindi, fare un “test di democraticità” come criterio di interpretazione delle dinamiche politiche del mondo in cui viviamo.
Certo il suo valore evocativo è utile nella costruzione di “narrazioni” da vendere al popolino, soprattutto quando la comunicazione politica costringe a spacciare un ipotetico “nuovo prodotto” da piazzare sul mercato, rappresentandolo nella veste di “migliore soluzione” per una crisi di governance che porta le forme della democrazia ad un impasse.
Questo blocco è in realtà solo l’espressione fenomenica delle convulsioni di una più profonda crisi sistemica. cui le classi davvero “dirigenti” vorrebbero dare un output preciso, diverso dalla loro radicale rimozione da parte dei subalterni ed alla costruzione di un sistema sociale alternativo.
“Hanno fallito, che se ne vadano!”. Od in termini più caustici: “Andiamo a bruciargli la casa!”, come ci ha suggerito la rivolta dei Ciompi a Firenze diversi secoli fa.
Il marketing politico pro-Draghi, come quello pro-Biden per gli Stati Uniti – al netto del disgustoso servilismo del giornalismo nostrano e dell’altrettanto deprecabile opportunismo della classe politica tutta, da Fratelli d’Italia a Leu – nel nostro ridotto nazionale è l’esempio più lampante di questa tendenza ad incensare “la democrazia” proprio quando smette di esistere.
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Mario Draghi, una vita per le élites
di Luigi Pandolfi
E fu così che Mario Draghi arrivò davvero. Una scelta disperata del Capo dello Stato per scongiurare l’abisso ad un paese già pesantemente segnato da crisi economica ed emergenza sanitaria? Solo gli ingenui possono credere ad una narrazione di questo tipo. Più passano le ore, più diventa chiaro che l’operazione Draghi era partita molto tempo prima che Matteo Renzi si incaricasse di accelerarne il compimento. Non è complottismo. L’Italia è entrata nella pandemia con un’economia barcollante sul crinale tra stagnazione e recessione, ma soprattutto con un quadro di finanza pubblica incompatibile con le regole europee. Un quadro che la stessa crisi pandemica ha finito per aggravare ulteriormente, per il concorso di due fattori: il crollo del Pil e l’espansione a debito del bilancio statale. Cosa accadrà quando ritorneranno le regole del fiscal compact? Siamo di fronte a una sospensione momentanea delle stesse o la crisi costituirà un’occasione per superarle? Sono domande che in molti si sono fatti in questi mesi. Di certo, un impegno sul rientro dal debito il Governo Conte l’ha già preso nell’ultimo Documento di Economia e Finanza (Def), ma è nel Recovery fund che si trova una risposta più esaustiva a questi interrogativi. È vero che i soldi, per una buona parte da restituire, sono tanti, ma la loro erogazione avverrà a una precisa condizione: che si facciano le cosiddette “riforme di contesto”, alle quali è legata anche la sostenibilità del debito. E chi pensa che queste riforme servano a ripristinare una serie di diritti sociali cancellati in questi anni è totalmente fuori strada.
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“Cosa farà Draghi?” L’ha già spiegato, basta leggere
di Dante Barontini
In calce l'intervista di Mario Draghi al Financial Times del 25 marzo 2020
Ogni giorno ha la sua pena, anche nel lavoro giornalistico. Quella di oggi è districarsi nel reticolo delle infinite supposizioni su “cosa farà Draghi”. Come avvertiva ieri il nostro giornale, il modo migliore di non capirci nulla è cercare di indovinare seguendo il chiacchiericcio dei talk show, da 30 anni esperti di gossip politico ma a digiuno dei fondamentali. Sia della politica che dell’economia.
I titoli di oggi, sui quotidiani mainstream, rendono bene l’idea. Il Corriere della Sera prova a fare la sua anticipazione, garantendo di avere “fonti” ben addentro al giro di consultazioni (banalmente: le delegazioni entrate ieri e qualche portavoce in vena di “narrazioni”): “Draghi, i cinque punti per il rilancio”.
Quelli di Fiat-Repubblica, che lavorano esattamente nello stesso modo, fa una sintesi numerica diversa: “Draghi, subito tre riforme per rispondere all’Europa”. Si vede che a Molinari sta a cuore ricordare la dipendenza assoluta di questo esecutivo da Bruxelles. Non a torto, del resto…
L’altrettanto Fiat-La Stampa riduce a soltanto due i nodi centrali, “Istruzione e fisco, l’agenda Draghi”.
Il Giornale è sulla stessa linea, con un più sobrio “Il piano di Draghi”. Mentre l’altrettanto destrorso Libero prova a interpretare l’oggi con gli occhiali di ieri, o di “ricondurre l’ignoto al noto”, buttandola sull’orgia politica cui sono abituati gli italici: “Draghi assediato dai postulanti. Vince chi leccherà di più”.
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Draghi e governo della finanza: Non prevarranno!
di Geminello Preterossi
1. E ti amo Mario
Sgombriamo il campo da un equivoco. Il problema non è la “persona” Draghi. Che ha fatto buone scuole, è stato allievo di Caffè, ama l’Opera ed è pure romanista. Qualità che apprezzo. In politica, però, conta ciò che si rappresenta, le visioni di fondo e gli interessi che ci muovono, e i fatti, le scelte che si sono compiute. I “fatti” di Draghi sappiamo quali sono. Mi limito a un breve ripasso, ma non per amor di polemica, bensì perché si tratta di questioni fondamentali, rivelative di un approccio, di una visione appunto, oltre che dei precisi interessi che Mito-Mario ha sempre scelto di garantire, da quando è entrato nel grande gioco del potere. Ci ricordiamo tutti il ricatto antidemocratico alla Grecia di Tsipras, attraverso la chiusura della liquidità da parte della BCE, per indurla ad accettare il Memorandum imposto dalla Troika e punire la pretesa greca di resistervi, in nome peraltro della volontà popolare esplicitamente espressa. Così come la lettera Trichet-Draghi, che intimava al governo Berlusconi di seguire un preciso programma di “riforme” neoliberiste (ben poco compatibile, peraltro, con il nucleo fondativo, sociale e lavorista, della Costituzione del 1948, formalmente ancora vigente). Anche in quel caso, seguì una pressione dall’alto sui titoli di Stato italiani, per far schizzare lo spread e indurre Berlusconi alle dimissioni: fu co-decisa da Draghi. La maggioranza di Berlusconi era in difficoltà, probabilmente sarebbe entrata in crisi lo stesso da lì a breve, ma l’esito naturale di una crisi politica sarebbero state le elezioni.
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Fine del lavoro, Universal Basic Income e teoria del valore-lavoro
di Bollettino Culturale
Tra correnti di pensiero diverse ed eterogenee, l'argomento basato sulla tesi della fine del lavoro è sempre più diffuso e accettato. Una delle tesi più note e generalizzate nel tessuto di questo pensiero è l'idea che l'economia mondiale stia attraversando una fase di automazione generalizzata che a un ritmo accelerato sostituisce il lavoro vivo con le macchine. Da questo punto di vista, il progresso tecnico ha preso una velocità che fa a meno del lavoro come generatore di valore, tanto che i robot avranno una possibilità sempre maggiore di produrre i beni necessari per soddisfare i bisogni umani.
Questo approccio, basato sull'idea della fine del lavoro, prese il largo dagli anni '80 con l'offensiva che il capitale ha portato avanti contro il lavoro durante le fasi iniziali del neoliberismo. Da allora, l'ideologia dominante ha difeso l'eternità del capitalismo attraverso il suo slogan della "fine del lavoro-fine della storia" che non significa altro che denigrare la teoria del valore-lavoro negando lo sfruttamento e negando il lavoro come fonte di valore e plusvalore. Non solo, ma fondamentalmente la negazione della centralità del lavoro da parte degli apologeti del capitale implica negare, come dice Mészáros nella prefazione al libro di Antunes “Il lavoro e i suoi sensi”, “l’effettiva esistenza d’una forza sociale in grado di istituire un’alternativa egemonica all’ordine costituito”.
André Gorz è uno dei massimi esponenti di questa corrente di pensiero e il suo approccio centrale ruota intorno all'idea che il lavoro sia la creazione del capitalismo nella sua fase industriale.
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Appunti per una discussione sui nostri compiti
di Carlo Formenti
Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:
1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.
2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.).
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Ritorno al presente. Spazi globali, natura selvaggia, crisi pandemiche
di Davide Gallo Lassere
[Nel contributo precedente pubblicato da LPLC, Davide Gallo Lassere ha ripreso le analisi di Andreas Malm a proposito del Capitalocene e dei legami tra capitalismo ed energia fossile a partire da una prospettiva operaista. In questo contributo prosegue il confronto con le tesi di Malm, e in particolare con il suo ultimo testo, pubblicato recentemente, La chauve-souris et le capital [Il pipistrello e il capitale]. Vengono discusse in particolare le ipotesi strategiche che l’autore svedese presenta nella seconda parte del testo e che sintetizza nella formula del «leninismo ecologico». La traduzione è di Andrea Moresco]
Chiariamolo sin da ora: la diagnosi tracciata da Malm della pandemia in corso è illuminante ma, seppur stimolante, la proposta/provocazione di un leninismo ecologico che avanza nel suo entusiasmante pamphlet sul Covid-19 ci sembra alquanto discutibile. Lo sembra, per giunta, alla luce dei presupposti epistemologici e delle analisi storiche elaborate dallo stesso Malm nei suoi precedenti lavori, ruotanti attorno alla centralità politica delle lotte sociali. Essa pare anche in contrasto con l’esame dello spazio globale che Malm conduce nel suo saggio. A tal proposito, le letture operaiste dei classici del pensiero rivoluzionario e delle geografie contemporanee del capitale offrono, a nostro avviso, un buon vaccino contro quel febbrile «desiderio di Stato» che emerge da alcune pagine de Il pipistrello e il capitale.[1]
Procediamo con ordine. I percorsi della genealogia e della critica del Capitalocene ci hanno portato in Cina – luogo di intensa concentrazione di molteplici tendenze globali. Ed è proprio da questa regione che occorre ripartire se vogliamo comprendere i processi che sconvolgono da cima a fondo il nostro presente. Le logiche temporali all’opera dietro il cambiamento climatico ci mostrano che più il pianeta si surriscalda, più altre dinamiche complesse e multiscalari retroagiscono sugli ecosistemi, surriscaldandolo ancor più a loro volta.
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Ancora su Covid-19 e oltre
Un aggiornamento
di Il Lato Cattivo
«L’inizio della Grande Depressione nel 1929 – o più esattamente il tracollo dell'economia mondiale e la rovina del capitalismo liberale – segnalò uno stato di emergenza per l'intero mondo capitalista. […] Il disastro economico e l'angoscia esistenziale divisero la società in due fronti politico-ideologici, inasprendo il conflitto. Quello che un individuo pensava o faceva non era più una faccenda personale, ma era diventato di colpo, che piacesse o no, espressione dello scontro politico in atto sulle cause e sulle possibili soluzioni della crisi globale.» (Wolfgang Schivelbusch, Tre New Deal)
Introduzione
A distanza di dieci mesi dalla pubblicazione di Covid-19 e oltre1, è venuta l’ora di riesaminare sommariamente l'insieme di quelle analisi e ipotesi formulate più o meno «in presa diretta», per vedere dove avevamo colto nel segno e dove invece è necessario, alla luce degli ulteriori accadimenti, aggiustare il tiro. In seconda istanza, procederemo ad isolare alcuni momenti forti di questa prima fase della crisi mondiale, e ne proporremo un'analisi.
Cominciamo col ricapitolare gli elementi della nostra diagnosi che ci sembrano confermati dal corso degli eventi. In essa, la pandemia da Covid-19 assumeva una pluralità di significati e di funzioni oggettive, che proveremo qui a riassumere. Essa appariva ad un tempo (e in ordine sparso):
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come fatto di accertata gravità dal punto di vista puramente medico-sanitario (sembra un'ovvietà, ma a scanso di equivoci…), destinato dunque a perdurare per un certo tempo;
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Per un’economia della complessità
di Francesco Saraceno
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Prefazione di Francesco Saraceno al libro di Mauro Gallegati, “Il mercato rende liberi”, LUISS, 2021.
Dove ha sbagliato l’economia “mainstream” nel creare le condizioni per la crisi finanziaria globale del 2007-2008? Per quale motivo le ricette di politica economica che essa ha ispirato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno progressivamente, in nome dell’efficienza dei mercati, dato un peso preponderante alla finanza a scapito dell’economia reale, trascurato l’analisi della distribuzione delle risorse e dei suoi effetti sull’economia, eliminato la politica macroeconomica dalla cassetta degli attrezzi dei decisori, spinto per una deregolamentazione sempre più estrema e, alla fine, reso l’economia mondiale un gigante dai piedi d’argilla, un castello di carte fatto crollare nell’estate del 2007 dal fallimento di due oscuri fondi d’investimento? Soprattutto, è in grado quella stessa teoria di evolvere in modo da poter evitare gli errori del passato? Il dibattito è aperto e, c’è da sperarlo, non si chiuderà molto presto. C’è da sperarlo perché le ragioni del “fallimento degli economisti” sono molto profonde e una revisione radicale del nostro modo di fare economia, di insegnarla, di utilizzarla per consigliare i policy makers, si impone.
Bisogna dire che, contrariamente a quanto è avvenuto in passato, la crisi del 2007 ha avviato un salutare processo di ripensamento. Vista la dimensione della crisi e la manifesta incapacità della teoria dominante di coglierne i meccanismi (la stragrande maggioranza dei modelli utilizzati da banche centrali e ministeri dell’Economia non prevedeva la possibilità di crisi finanziarie!) era difficile fare altrimenti.
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H.G. Backhaus e la dialettica della forma di valore
Una valutazione critica
di Riccardo Bellofiore, Tommaso Redolfi Riva
1. L’opera di Backhaus rappresenta un indispensabile grimaldello per l’accesso ai temi fondamentali della critica dell’economia politica di Marx.Questo grimaldello può essere utilizzato efficacemente sia per comprendere il dibattito che ha caratterizzato la ricezione dell’opera di Marx a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, che per accedere direttamente ai problemi che caratterizzano l’esposizione marxiana e che rappresentano ancora oggi un terreno di vivace discussione tra gli studiosi.
La corrente interpretativa di cui Backhaus è l’iniziatore, ormai riconosciuta nella letteratura critica con il nome di «Neue Marx-Lektüre»1, ha trovato in Italia una diffusione quasi coeva alla pubblicazione delle opere in lingua originale, grazie alle tempestive traduzioni delle opere di Schmidt, Reichelt e Krahl. Questi autori avevano svolto il loro apprendistato teorico presso la Scuola di Francoforte e l’originalità dei loro lavori non risiedeva tanto nei temi trattati, in qualche modo già al centro della discussione nel dibattito marxista sia occidentale che orientale, quanto nella spregiudicatezza con cui questi temi erano trattati. Si cominciava a mettere in discussione, come sulla sponda francese aveva iniziato a fare la scuola di Althusser, la ricezione che il marxismo aveva sviluppato dell’opera di Marx nonché l’autocomprensione di Marx nei confronti della propria metodologia e delle proprie ascendenze rispetto alla filosofia hegeliana. Si cercava di ripensare la teoria del capitale al di fuori delle strette maglie che le interpretazioni economicistiche – soprattutto di matrice anglofona – l’avevano racchiusa, concentrate quasi esclusivamente sulla disputa relativa alla trasformazione.
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