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I primi cento giorni di Trump: la guerra civile fredda
di Alfonso Gianni
I primi cento giorni di Trump meritano certamente un primo bilancio che si compone di vari aspetti, tutti significativi e coerenti con il profilo che il tycoon ha voluto delineare di sé sia negli anni della sua prima presidenza che durante la rumorosa campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca. Non si può certo dire che Donald abbia perso tempo fin dal suo primo giorno da presidente. Il suo attivismo frenetico ha prodotto, dal 20 gennaio al 29 aprile, 143 ordini esecutivi, di cui 26 solo nel primo giorno, 42 proclamazioni. 42 memorandum, oltre a provvedimenti relativi all’anno fiscale in corso.
Secondo non pochi commentatori questa sovrabbondanza di atti, tutti tesi a destrutturare l’ordine preesistente, sia a livello interno che internazionale, qualificherebbe la sua come una “presidenza rivoluzionaria”, perché “se si prescinde dal caos, dalle fughe in avanti e – talora – dalle marce indietro, si vede delinearsi sullo sfondo un progetto politico potenzialmente rivoluzionario”1. Giusta sottolineatura, a patto che ci si intenda sul fatto che qui siamo nel campo di una rivoluzione restauratrice, un ossimoro, più volte usato in questa rivista,2 che serve a indicare la forza travolgente e la frenesia dell’azione e, allo stesso tempo, la sua direttrice di marcia all’indietro.
Basta leggere ciò che autorevoli esponenti della nuova amministrazione già scrivevano qualche tempo addietro. Tre anni fa, Russell Vought - uno degli autori del famigerato “Progetto 2025”, il piano per un esecutivo assolutista reso noto nel 2022 dall’organizzazione di destra Heritage Foundation - scelto del presidente Trump come direttore dell'Office of Management and Budget, sosteneva che "la cruda realtà in America è che siamo nelle fasi finali di una completa presa di controllo marxista del paese", in cui "i nostri avversari detengono già le armi dell'apparato governativo e le hanno puntate contro di noi". Conseguentemente a questa delirante diagnosi, i dipartimenti e le agenzie federali hanno ricevuto l’ordine, nel gennaio 2025, di sospendere spese per agenzie, sovvenzioni, prestiti e assistenza finanziaria in tutto il governo federale.
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Ucraina, l’ignavia dei 4 volenterosi
di Barbara Spinelli
Ancora non è chiaro se i negoziati fra Kiev e Mosca riprenderanno, a Istanbul, dopo un primo accordo sullo scambio di 1000 prigionieri di guerra –il più ampio dal 2022.
È invece chiaro che qualora riprendessero, ricominceranno lì dove a fine aprile 2022 erano falliti: furono interrotti non tanto a causa del massacro russo a Bucha, venuto alla luce senza che le trattative si bloccassero, ma perché Washington e Londra imposero a Zelensky la continuazione di una guerra che sembrava promettere immani sconfitte russe.
Le cose non andarono così: nel settembre 2022 le truppe russe annettono quattro province lungo il Mare di Azov e il Mar Nero e continuano ad avanzare nel Sud e Sudovest ucraino. È probabile che vogliano assicurarsi altre città ritenute cruciali prima di negoziare, come analizzato dallo studioso Alessandro Orsini. Zelensky essendo perdente ha fretta, dunque insiste sull’incontro diretto col Presidente russo. Putin non ha fretta.
Se le trattative riprenderanno, si dovranno ridiscutere punti patteggiati tre anni fa, ma in condizioni ben peggiori per Kiev. Allora ci si accordò sulla neutralità militare ucraina ma non si parlò di territori (se si esclude la Crimea annessa da Mosca nel 2014, che gli occidentali considerano sacrificabile di fatto se non di diritto). Oggi di territori si deve parlare, dopo l’annessione delle quattro province. Quanto alla Crimea, Trump (ma non l’UE) ha detto che riconoscerà il suo accorpamento alla Russia.
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Dentro gli attacchi del ‘campo largo’ a Meloni c’è una contraddizione clamorosa
di Sergio Cararo
Gli esponenti politici del “campo largo” del centro-sinistra devono decidere se parlare con lingua biforcuta o se contare fino a dieci prima di fare dichiarazioni di cui potrebbero – e dovrebbero – pentirsi.
L’occasione è venuta dalla polemica sulla mancata partecipazione della Meloni al vertice ristretto delle potenze europee della coalizione dei volenterosi (Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia) insieme al presidente ucraino Zelenski, svoltosi venerdì a Tirana.
La Meloni ha spiegato l’assenza con il fatto che quel vertice avrebbe discusso del coinvolgimento di militari europei in Ucraina, mentre l’Italia non è disponibile a inviare i propri soldati su quel fronte. La versione della premier è stata smentita da Macron ma i fatti, fin qui registrati alla televisione francese Tf1 pochi giorni fa, ci dicono il contrario.
Ma la mancata presenza della Meloni alla riunione dei peggiori leader guerrafondai d’Europa – curiosamente le stesse potenze che hanno innescato la Seconda Guerra Mondiale – è stata oggetto di attacchi dei partiti dell’opposizione a nostro avviso del tutto sballati, ma anche emblematici di una ambiguità inaccettabile.
Il leader del M5S Giuseppe Conte, pur cavalcando l’onda antimilitarista nel paese, ha accusato la Meloni di “isolare” l’Italia; Angelo Bonelli di AVS, anche lui identificato nel campo “pacifista”, l’ha accusata di fare la “comparsa”; dal Pd giungono attacchi simili a quelli di Conte sul fatto che la Meloni disertando il vertice dei guerrafondai “emargina” l’Italia dall’Europa.
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In genere
di Paolo Bartolini
Perché le cosiddette “questioni di genere” infiammano il dibattito contemporaneo?
Filosoficamente esse pongono, in maniera chiara e ambivalente insieme, il tema complesso del rapporto tra identità e differenza.
Un’identità chiusa si differenzia per esclusione dalle altre. Una aperta si riconosce come profondamente relazionale, dunque co-isituita nel rapporto con altre identità aperte. A questo aggiunge la sensazione di essere attraversata internamente dalla differenza, in una impossibile coincidenza finale con sé.
Ce ne accorgiamo in modo eclatante con il fenomeno della disforia di genere, una possibilità dell’umano non strettamente patologica (per quanto comporti spesso sofferenza psichica), anzi “strutturale”, poiché genere e sesso non si corrispondono automaticamente.
Possiamo sentirci appartenenti a un genere diverso da quello che la nascita ci ha assegnato sul piano sessuale-biologico-anatomico (che tuttavia esiste, e nessuno può scegliere volontariamente: è dunque ricevuto e irrevocabile, anche laddove fosse modificato tramite assunzione di ormoni o riassegnazione chirurgica del sesso), senza che questo debba farci sentire anormali.
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I tagli alla spesa piegano il Pil Usa
di Claudio Conti - Dimitri B. Papadimitriou, Giuliano Toshiro Yajima, Gennaro Zezza
Dare soluzioni sbagliate a problemi non compresi porta al disastro. Sembra questa la sentenza adatta alla trumpnomics, quel vortice di decreti presidenziali che ha imposto dazi sulle merci importate da tutto il mondo e giganteschi tagli alla spesa pubblica degli Stati Uniti.
Non che la spesa Usa sia molto orientata al “sociale”, anzi… Ma comunque era ed è una massa di spesa rilevante che, come spiegava un liberale conservatore come Keynes, comunque entra nel Pil con effetti “moltiplicati” (3 dollari di Pil per ogni dollaro di spesa, in media).
L’esatto opposto di quanto prescritto dall’astinenza neoliberista, secondo cui la massima efficienza del mercato si ha quando la spesa pubblica viene tagliata e il debito pubblico ridotto (anche se la riduzione, di fatto, non c’è mai stata per nessun paese, anzi…).
Sta di fatto che i dati relativi ai primi medi di amministrazione Trump sembrano proprio confermare che il problema della crisi Usa ha ricevuto lì una diagnosi sbagliata e quindi una “cura” che aggrava il problema invece di risolverlo.
Il Levy Institute – non certo un tempio del “progressismo” – si è messo a ragionare sui dati trimestrali, peraltro parecchio perturbati dalle iniziative trumpiane, ed ha scoperto quel che anche da lontano si poteva intuire (se si ha qualche cognizione di critica dell’economia politica).
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Israele: quei 700.000 coloni che impediscono la pace
di Giulio Bellotto
Radiografia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
Il documentario «The Settlers», mandato in onda dalla Bbc il 27 aprile, ha acceso i riflettori sul fenomeno delle colonie israeliane. A partire dalla Guerra dei sei giorni del 1967, Israele ha costruito un sistema di dominio fondato sulla colonizzazione, alimentata da motivazioni religiose, interessi strategici e sostegni internazionali. Gli insediamenti sono oggi il fulcro materiale e simbolico dell’occupazione, che il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu continua ad alimentare. E che mina ogni prospettiva di soluzione del conflitto israelo-palestinese.
* * * *
«La gente viene qui perché crede che sia una mitzvah, un comandamento religioso, insediarsi su questa terra». Con queste parole, pronunciate da un’abitante di una colonia israeliana nei territori occupati, il documentario The Settlers della Bbc accende i riflettori su una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese: quella degli insediamenti in Cisgiordania.
La dichiarazione rilasciata a Louis Theroux sintetizza una visione che fonde religione, identità e potere. Offrendo una giustificazione religiosa alla colonizzazione, mostra come per molti coloni la fede rappresenti un motore ideologico in grado di trasformare la geografia politica in territorio sacro. In altre parole, rivela come anche in Israele la religione venga sfruttata a fini politici. Non a caso, i padri fondatori di Israele, gran parte dei quali atei, amavano ripetere: «Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato».
Il documentario ha offerto lo spunto a Krisis per realizzare una radiografia del fenomeno. Chi sono i coloni? Cosa li spinge a vivere in territori riconosciuti dalla comunità internazionale come illegali? Quali motivazioni ideologiche, religiose o politiche li animano? E soprattutto, quale ruolo giocano nella perpetuazione dell’occupazione?
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Quorum referendario: e se….?
di Alessandro Mariani
Parafrasando Einstein con lo sguardo volto ai fatti di casa nostra, si può dire che se ci sono due cose infinite, queste sono la tracotante ignoranza della destra e la stupidità della sinistra. La cosa però finisce qui, perché mentre Einstein nutriva qualche dubbio sulla smisurata vastità dell’universo, noi non ne abbiamo alcuno riguardo all’affermazione dalla quale siam partiti. In fisica due forze uguali e contrarie si annullano, ma nella politica nostrana le cose vanno diversamente e destra e sinistra si rafforzano a vicenda. Non in termini elettorali, è ovvio; semmai nel senso che l’una diventa sempre più becera mentre l’altra diventa sempre più stupida.
Ma se la fisica la fa facile la politica è più complicata, e raggiunto il livello di saturazione le qualità in eccesso si trasferiscono da una parte all’altra. A conferma di ciò, solo per restare ai fatti più recenti, si prenda ad esempio l’invito alla sobrietà per ricordare l’ottantesimo Anniversario della Liberazione; un’idiozia in piena regola rilanciata all’unisono da tutti i giornalacci della destra. E di converso, quanto sono state volgari, false e tracotanti le grida della sinistra (M5S compreso) contro l’invito all’astensione per i prossimi referendum avanzato da alcuni esponenti della destra? Il tutto rilanciato, com’era naturale che fosse, dai giornaloni di marca progressista.
Il voto come dovere civico, la fattiva partecipazione dei cittadini… e chi più ne ha più ne metta. Ma da che pulpito?! Non erano stati i Democratici di Sinistra, a far esplicita propaganda astensionista per il referendum del 2003, guarda caso sempre in materia di lavoro?
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L’Occidente e una pretesa superiorità che non esiste
di Sergio Labate
Io sono un uomo semplice e, ahimè, di mestiere mi occupo di filosofia. Le due cose messe insieme mi giustificano rispetto al fatto che quando devo pensare all’Occidente, mi torna in mente banalmente Socrate. Potrei citarne mille altri ovviamente. Ma Socrate reca con sé un privilegio, che è quello di una ragione che si occupa di pensare se stessa e, proprio per questo, riconosce i propri limiti. “Io so di non sapere” è la formula perfetta che ha permesso alla storia dell’Occidente di non identificarsi con l’infinita sequela di guerre, dominazioni, stragi, genocidi, sopraffazioni nei confronti dell’altro da sé che essa contiene. Che ci ha salvato da noi stessi in fondo, permettendoci di riconoscere le nostre debolezze e persino di riformarle – in epoche passate – o di denunciarle o contestarle pubblicamente, in epoche recente.
Non sto dicendo nulla di particolarmente intelligente, anzi più propriamente sto solo introducendo un argomento scontato. Ma è proprio questo il punto più inquietante. Non tanto il contenuto di ciò che sta accadendo, quanto il fatto stesso che stia accadendo: come è infatti possibile che cose che abbiamo per decenni date per scontate sono adesso non solo ignorate ma anche derise e se possibile contraffatte persino sui maggiori quotidiani del Paese? È questa la domanda che mi è sovvenuta quando, nei giorni scorsi, ho letto un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.
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Il caso del caso Moro parte 6: Misura per Misura
di Davide Carrozza
A ulteriore sostegno dei precedenti articoli sul caso Moro pubblicati da questo blog, ho di recente riascoltato la presentazione del libro di memorie del famigerato “faccendiere” Francesco Pazienza, uno dei più famosi 007 italiani coinvolto più o meno direttamente in quasi tutti gli avvenimenti topici degli anni di piombo. A domanda dal pubblico sul caso Moro, Pazienza risponde: “devo dire francamente che a me del caso Moro non me ne importava niente perché io mi occupavo soprattutto di questioni estere”. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Per fortuna però non è questo il tema di questo articolo, né tanto meno lo è la recente questione delle intercettazioni di Azzolini nell’ambito dell’inchiesta (sfociata adesso in un processo) sugli eventi della cascina Spiotta, già oggetto di speculazioni dei soliti complottisti. Su questo vi rimando al sempre esaustivo Paolo Persichetti e al suo blog a questo LINK.
Il sesto episodio del “caso del caso Moro” tratta invece di un incredibile punto di contatto fra storia contemporanea e letteratura Inglese del ‘600. Una suggestione interessante per chi come me si occupa della prima per interesse squisitamente personale e della seconda per lavoro. Non poteva sfuggirmi.
Già nel terzo episodio di questa serie Il caso del caso Moro Parte 3: La trattativa dedicato alla trattativa sotto banco, poi opportunamente rivelata per filo e per segno, che l’On. Craxi intraprese per mezzo di vari tramiti per provare a salvare la vita dell’On. Moro.
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La "transizione" verso un nuovo ordine mondiale è al di là delle possibilità della maggior parte degli occidentali
di Alastair Crooke
Anche la necessità di una transizione, tanto per essere chiari, ha appena iniziato a essere riconosciuta negli Stati Uniti.
Per la leadership europea, tuttavia, e per i beneficiari della finanziarizzazione che lamentano altezzosamente la “tempesta” di Trump incautamente scatenata sul mondo, le sue tesi economiche di base sono ridicolizzate come bizzarre nozioni completamente avulse dalla “realtà” economica.
Questo è completamente falso.
Infatti, come sottolinea l’economista greco Yanis Varoufakis, la realtà della situazione occidentale e la necessità di una transizione sono state chiaramente indicate da Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, già nel 2005.
La dura “realtà” del paradigma economico liberale e globalista era evidente già allora:
“Ciò che tiene insieme il sistema globalista è un massiccio e crescente flusso di capitali dall’estero, che ammonta a più di 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo – e cresce. Non c’è alcun senso di tensione. Come nazione non chiediamo consapevolmente prestiti o elemosine. Non offriamo nemmeno tassi di interesse interessanti, né dobbiamo offrire ai nostri creditori protezione contro il rischio di un dollaro in declino”.
“Per noi è tutto abbastanza comodo. Riempiamo i nostri negozi e garage di merci provenienti dall’estero, e la concorrenza è stata un potente freno ai nostri prezzi interni. Ha sicuramente contribuito a mantenere i tassi di interesse eccezionalmente bassi, nonostante la scomparsa dei nostri risparmi e la rapida crescita”.
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Educazione sessuale a scuola. La storia(ccia) infinita
di Elisabetta Frezza
La proposta di riforma (e le reazioni delle curve nord e sud)
Il ministro Valditara è nuovamente intervenuto in tema di educazione sessuale, stavolta con un disegno di legge ove si prevede che per qualsiasi attività didattica inerente la sessualità (sia essa attività extracurricolare o di ampliamento dell’offerta formativa) le scuole siano obbligate ad acquisire il “consenso informato” preventivo dei genitori. Perché «non si può obbligare uno studente a seguire corsi che possono presentare il rischio di una caratterizzazione ideologica». Ciò implica che siano forniti con congruo anticipo alle famiglie tutti i dettagli circa il materiale didattico, il personale interno o esterno incaricato, le finalità e le modalità di svolgimento dei relativi progetti. Per gli alunni privi del consenso scritto dei genitori, la scuola è tenuta a predisporre attività alternative, su modello di ciò che già avviene per chi non si avvalga dell’insegnamento della religione.
Il testo stabilisce inoltre che i soggetti esterni autorizzati a intervenire su argomenti sensibili, come appunto la sessualità, debbano essere muniti di idonei requisiti di professionalità scientifica e accademica. E che nelle scuole dell’infanzia e primarie si svolgano solo i programmi delle indicazioni nazionali: ovvero che la sessualità sia affrontata esclusivamente dal punto di vista biologico.
Al solito, le opposte tifoserie si sono scatenate fin dal primo annuncio dell’iniziativa, quando i particolari erano ancora in mente Dei: da una parte chi già cantava una vittoria che non c’era, intestandosene pure il merito; dall’altra chi, sempre in via preventiva, è partito a frignare. Ex multis, ecco uno scambio di battute che rende ragione della profondità logica e speculativa del dibattito (ogni commento è superfluo): https://www.la7.it/in-altre-parole/video/consenso-dei-genitori-per-leducazione-sessuale-nelle-scuole-vecchioni-i-genitori-devono-starsene-03-05-2025-594452.
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La strategia dell’Unione europea per la preparazione alle crisi e alle guerre
Una strategia della paura che non convince più
di Alessandra Valastro e Roberto Passini
1. Dalle crisi alle minacce. Il governo del terrore e la minaccia delle parole
«Siamo in un mondo che cambia», afferma l’Ue (nell’immaginario orwelliano l’Europa), nella Comunicazione congiunta proposta il 26 marzo scorso. Ma il cambiamento è individuato nell’aumento di «rischi e minacce interconnessi», ovvero in un «panorama della sicurezza sempre più complesso e volatile». La risposta dell’Ue? «Un approccio coordinato alla preparazione» che garantisca «una cultura della resilienza in tutta la società». E per chi non avesse capito bene: «essere pronti a tutti gli scenari peggiori».
Et voilà, la strategia del terrore è servita.
Dopo le preoccupazioni suscitate dalle sollecitazioni al riarmo, che molti sembrano aver sottovalutato perché abbagliati dalla religione di un capo europeo difensore della pace, ma che altrettanti hanno rifiutato perché basato su molteplici menzogne, l’Ue sembra avere alzato il tiro con una “Strategia” ben più ampia che ritesse le fila da lontano, auto-attribuendosi poteri inediti di elevata rilevanza come la difesa e la “preparazione alla guerra”, nella disponibilità esclusiva dei singoli Stati.
La tecnica: agganciare le vicende che da sempre colpiscono l’immaginario dell’umano, insinuandosi nei timori e nelle paure che le contraddistinguono. Lo strumento: l’uso e abuso delle parole atte a riattualizzare e mantenere ben vive quelle paure; l’eliminazione dal lessico pubblico delle parole che invece quelle paure vogliono sfatare, non per ignorarle ma per agire con sano realismo sulle ragioni che le determinano.
Crisi e resilienza sono, ahimè, i termini che la fanno da padrone, confermando una narrazione che già da anni ne fa i propri cavalli di battaglia per politiche di austerità, di privatizzazioni e di esaltazione della concorrenza anche tra ordinamenti giuridici; e stabilizza una volta per tutte il ritorno alla paura e allo spaesamento quale vera e propria tecnica di governo
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Papa Robert Francis Prevost, un Leone antico per nuovi ponti
di Geraldina Colotti
Dopo l’elezione del cardinal Robert Francis Prevost a papa n. 267 con il nome di Leone XIV, dal Perù è arrivata l’immediata rivendicazione della sua doppia nazionalità – statunitense e peruviana –, la seconda acquisita nel 2015. E, subito, si è scatenata anche la creatività della rete sull’elezione di un papa “più latinoamericano del debito estero”; sull’aggiunta di un nuovo tipo di “papa” (patata) a quelle esistenti, e con tanto di accostamento giornalistico fra Chicago (sua città di origine, negli Stati uniti), e Chiclayo, la diocesi peruviana di cui fu amministratore apostolico. In Perù, dove ha vissuto per circa due decenni, Prevost è stato nominato vescovo dal suo predecessore argentino, Jorge Bergoglio, da poco scomparso, e ha poi svolto importanti incarichi in ruoli delicati e decisivi della Curia.
Un altro “meme”, ha sintetizzato così la scelta del Vaticano, presa in soli tre giorni di Conclave, giunta alla quarta votazione dei 133 cardinali e dopo tre fumate nere (e con oltre 100 voti, si dice, totalizzati): “Il nuovo papa è yankee, nazionalizzato peruviano e… anti Trump”. Quanto sarà distante dal “presidente più potente al mondo”, il pastore di un “gregge” di 1.400 milioni di cattolici nel mondo, e a capo di un patrimonio stimato (nel 2023) a 5,4 miliardi di euro solo per quanto riguarda l’attività dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior), ovvero la Banca Vaticana, si vedrà nel corso del suo pontificato, e nell’evoluzione globale di quella che Francisco ha definito “la Terza guerra mondiale a pezzi”.
Intanto, è circolata con insistenza la notizia – non confermata dal Vaticano – di una donazione di 14 milioni di dollari, che Trump avrebbe potuto elargire, durante la sua visita a Roma per i funerali di Bergoglio, in caso di elezione di un papa Usa. Un’offerta consistente, considerando il deficit di bilancio della Santa sede, valutato a oltre 70 milioni di euro. Una “donazione” che avrebbe potuto aumentare, pare abbia lasciato intendere l’ottantina di super-ricchi che, all’interno di una moltitudine di fedeli (e turisti) ha accompagnato la delegazione trumpista alle esequie bergogliane: addirittura fino a un miliardo di euro.
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"Io non so come fate a dormire..."
di Andrea Zhok
Mi ero ripromesso di tacere vista la conclamata sterilità del Logos in questa fase storica, ma faccio fatica a non dire una parola, per quanto logora e stantia rispetto a quanto accade in Palestina.
Io davvero non so come fanno a dormire la notte quelli che supportano e hanno supportato, giustificano e hanno giustificato negli ultimi diciassette mesi le operazioni dell'esercito israeliano nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Per me è proprio un enigma.
Nascondersi dietro alle psicopatie latenti di Nethanyahu non assolve nessuno. Non immaginate che quando, prima o poi Nethanyahu andrà in pensione sarà tutto a posto.
Non sarà mai più tutto a posto.
Che anche secondo le definizioni tecniche più esigenti quello in corso sia un genocidio può essere negato solo da chi non conosce l'uso delle parole. Ma in fin dei conti è irrilevante impiccarsi alle definizioni.
Chiamatelo etnocidio, strage sistematica di civili, massacro su base quotidiana, fate voi.
Non è però una guerra.
Chiamarla guerra è proprio una schifosa menzogna.
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Guerra o pace? L’enigma Trump
di Norberto Fragiacomo
Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce, cantava la Mannoia su testo di Massimo Bubola.
Dopo un’illusoria bonaccia, dall’altra sponda dell’Atlantico ha preso recentemente a spirare un vento impetuoso, foriero di tempesta e devastazione. Donald Trump, uomo ambizioso quant’altri mai e pieno di sé, sognava di passare alla Storia come il grande pacificatore, ma per riuscire in quest’impresa sono necessarie doti non comuni, tra cui la pazienza e la capacità di approfondire le situazioni, e all’attuale inquilino della Casa Bianca queste qualità fanno evidentemente difetto. Inoltre, la convinzione di essere il padrone del mondo nonché il più grande tra i presidenti degli Stati Uniti hanno reso ancor più difficoltosi l’attività in sé e l’obiettivo che The Donald si era prefisso: lui si illudeva di poter bloccare con un cenno della mano il conflitto russo-ucraino “sradicandolo” dal terreno che l’ha progressivamente alimentato e pensava che entrambi i contendenti si sarebbero inchinati al suo salomonico giudizio, ma il problema è che le soluzioni prospettate erano superficiali, raffazzonate e contrarie alla logica. Le varie proposte di compromesso che confusamente sono state avanzate alle due parti non tenevano infatti conto né delle origini del conflitto né della situazione maturata sul campo: veniva in sostanza sancito un “pareggio”, con il riconoscimento alla Russia – vittoriosa sul terreno –dei diritti sulla Crimea, inglobata a seguito di referendum già un decennio fa, e del possesso temporaneo delle quattro regioni occupate (o, a seconda dei punti di vista, liberate), cui si aggiungeva una mezza promessa non vincolante di neutralità dell’Ucraina, contraddetta peraltro dall’annuncio di garanzie militari per il regime autocratico e russofobo di Zelensky.
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La sinistra è una droga sistemica
di Raúl Zibechi
Riprendiamo da Comitato Carlos Fonseca questo interessante commento sul comportamento della sinistra latinoamericana di questi ultimi mesi
In Ecuador e in Bolivia si stanno mettendo in evidenza i peggiori comportamenti delle sinistre e dei progressismi. In ambedue i casi si tratta di una deriva pragmatica che sostituisce l’etica per ambizione di potere e di lusso, mettendo da parte qualsiasi proposta programmatica, trasformando la politica in un mero esercizio di convenienze personali per ottenere vantaggi. Non è nuovo, certamente, ma nei due paesi menzionati tutto già passa senza il minimo tentativo di dissimularlo.
In Ecuador, i nove membri dell’assemblea del Pachakutik, partito di sinistra legato al movimento indigeno, hanno firmato un accordo con il governo di Daniel Noboa (giudicato da queste correnti come di ultradestra), per permettergli di governare dato che non ha una maggioranza parlamentare. Hanno dichiarato che lo hanno fatto per “amore del paese”, ma nascondono i benefici che ottengono con un tale atteggiamento che apre le porte a un governo antipopolare, privatizzatore e fortemente repressivo.
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Un puzzo di Reich aleggia su Berlino
di Vincenzo Maddaloni
Quelli della Rheinmetall, pluricentenaria azienda tedesca di armamenti hanno dichiarato che, vogliono produrre in Ucraina più carri armati, più munizioni, più cannoni di contraerea. Naturalmente, nessun commento da parte loro sul prezzo delle azioni del gruppo salito alle stelle.
Tutti i soldati della 45a Brigata di stanza in Lituania indossano il nuovo stemma sulle loro uniformi. È un simbolo della nuova alleanza tra Lituania e Germania.In Lituania, dal primo di aprile è operativa la 45a Brigata corazzata composta da quattro mila soldati tedeschi. Sono già iniziati gli addestramenti e le esercitazioni lungo la costa orientale che guarda alla Russia.
In sintonia, il cancelliere Merz ha affermato che, sotto la sua guida,
“il dibattito sulle forniture di armi, sui calibri, sui sistemi d’arma e via discorrendo sarà tenuto lontano dagli occhi dell’opinione pubblica”.
Poiché la guerra in Ucraina è soltanto un mezzo per raggiungere un fine, il nuovo governo potrebbe, finalmente, soddisfare la richiesta di Zelenski dei missili da crociera Taurus con una portata superiore a cinquecento chilometri e con un'” esclusiva testata multi effetto" che, stravolgerebbe le dinamiche di combattimento creando - sostengono - i presupposti per la vittoria.
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Il mito della classe operaia
di Moreno Pasquinelli
Tra i tanti critici che abbiamo alle calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da anni, ci accusano di aver dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi critici intendano per “fattore di classe” non è affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come essi ci stiano lanciando la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso rivaluta, oltre al primato del Politico sul sociale, i concetti di popolo e nazione “a spese” di quelli di classe operaia e internazionalismo. L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata dell’accusa di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro. Non lo sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Agli arruffoni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque sia, ove essi, invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste riflessioni.
* * * *
No al pressapochismo teorico
Com’è che Marx è considerato un gigante rivoluzionario nonostante non abbia guidato né un movimento di rivolta né tantomeno alcuna rivoluzione sociale? Polemista implacabile bisticciò con la maggior parte dei socialisti del tempo. Morì in esilio e nel massimo isolamento. AI suoi funerali c’erano poco più di dieci persone.
Egli fu rivoluzionario a causa delle sue idee e della grandezza della sua visione teorica. In altri tempi questa precisazione sarebbe stata pleonastica — Lenin: “senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria”. Non è così oggi, dove tutti sono stati infettati dall’analfabetismo funzionale, dal pressapochismo teorico.
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Rileggendo Marx. Appunti sui libri II e III del Capitale
di Carlo Formenti
5. Crisi, centralizzazione, caduta del saggio del profitto
Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.
Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie): “Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore a esso concresciuto.
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La classe dominante statunitense e il regime di Trump
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump - stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo
Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe dominante più potente e più cosciente della storia mondiale, cavalcando sia l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, a prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di democrazia. Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato: è una separazione fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature nella classe dominante e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.
Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]
L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore].
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Mario Draghi: il profeta del disastro che continua a predicare il neoliberismo fallito
di Fabrizio Verde
Parla di unità mentre le sue politiche dividono, impoveriscono e svendono il futuro
L’ultimo intervento di Mario Draghi al Cotec di Coimbra è solo l’ennesima dimostrazione di come il tecnocrate neoliberista, nonostante le sue gestioni fallimentari – prima alla BCE e poi come Presidente del Consiglio – continui imperterrito a pontificare su temi economici e geopolitici, come se avesse mai fornito risposte concrete alle crisi che affliggono l’Europa e l’Italia. Il tutto, ovviamente, con un tono moralistico e paternalistico che ormai lo contraddistingue da anni.
Draghi parla di “punto di rottura” nel commercio globale, denuncia la frammentazione politica europea e si lamenta dell’esautoramento dell’OMC, come se fosse stato un difensore del multilateralismo. Peccato che siano proprio le politiche da lui incarnate – liberismo sfrenato, austerity, privatizzazioni selvagge – a essersi mangiate quel fragile equilibrio internazionale e a spingere i Paesi verso azioni unilaterali. La sua Europa, sempre più subordinata agli Usa e alle lobby finanziarie, ha abbandonato i popoli per servire gli interessi delle élite globaliste. E ora pretende di indicare la strada?
Un esempio lampante della sua ipocrisia? Le sanzioni alla Russia: nonostante il loro palese fallimento Draghi in un discorso all’ONU si spinse a dire: le sanzioni "hanno avuto un effetto dirompente".
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La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
di Michelangelo Severgnini
Un rapida rassegna stampa alle uniche testate che oggi hanno riportato, a modo loro, i fatti in corso a Tripoli:
1) Il Manifesto.
La tesi del Manifesto: invece di fare non si capisce bene cosa, l'Italia ha pensato solo a fermare i migranti, quindi abbiamo reso potenti i criminali che adesso si sparano uno con l'altro.
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L’occasione di Istanbul sabotata dagli europei
di Elena Basile
Ben vengano i colloqui di pace in Turchia che avranno inizio il 15 maggio. Al netto della propaganda è bene riassumere i fattori fondamentali sulla cui base possono lavorare i costruttori della pace, in nome degli insegnamenti di papa Francesco, che poco tempo dopo la sua scomparsa, viene velatamente denigrato dai suoi diversi nemici. Si elogia il nuovo papa Leone XIV, che godeva peraltro della fiducia di Bergoglio, per poter biasimare il predecessore. La Russia ha chiesto colloqui di pace senza condizioni preliminari e che siano la base per un cambiamento a 360 gradi delle politiche neo-conservatrici statunitensi. La potenza che sta guadagnando territori, con una lenta avanzata, impiegando soltanto una parte del suo potenziale bellico, autolimitandosi ed evitando di radere al suolo con bombardamenti aerei le città, come gli occidentali durante la Seconda guerra mondiale, in Vietnam o in Iraq nel 2003, non può naturalmente accettare i nostri ultimatum. È interesse di chi ha a cuore l’Ucraina, il popolo che soffre, una generazione di giovani e meno giovani mandati allo sbaraglio al fronte, di chi tiene alla fragile democrazia di Kiev abolita dalla guerra, dalla legge marziale, dalla cancellazione dei partiti e persino della libertà di culto, comprendere che sta alla Nato fare un passo indietro, evitare di continuare un conflitto a bassa intensità che può solo portare nuovi lutti e disperazione. Se fossero i tedeschi a morire, la pace sarebbe già fatta.
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"Sul compagno Stalin"
di Salvatore Bravo
Sul compagno Stalin testo liberamente scaricabile da una serie di siti tra cui “sinistrainrete” è una intelligente iniziativa politica e culturale, in un tempo, il nostro, in cui la cultura della cancellazione, sta prevalendo in modo ideologico sulla storia, sulla complessità e sulla verità. La riduzione della storia del comunismo a totalitarismo al punto da essere equiparato al nazionalsocialismo dal Parlamento europeo con il supporto della “sinistra degli asterischi e dei soli diritti civili”, ha una funzione determinante nell’associare il comunismo a una “storia criminale”. In tal modo la sovrastruttura determina l’egemonia di classe e insegna ai subalterni a pensare secondo l’unica grammatica possibile: il capitalismo, il quale non è solo “forma merce” ma specialmente è una “forma mentis”. I sudditi del sistema, senza speranza e prospettiva politica, precarizzati e manipolati, lo siamo tutti, si derealizzano, si ritirano così dalla storia del presente e del futuro per essere sospinti nell’eterna sospensione della derealizzazione. Il capitalismo non saccheggia solo le risorse, sospingendo un pianeta intero verso la catastrofe, ma gli uomini e le donne sono predati della loro carne e del loro futuro. Nell’attuale sistema rigorosamente a ”pensiero unico” il giovane medio non ha speranza, pertanto diventa resiliente e non resistente. Non vi sono alternative allo sfruttamento e alla competizione reificante, per cui non resta che adattarsi passivamente al proprio tempo.
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Androidi paranoici
di Mirko Vercelli
L’IA ha assimilato la nostra cultura del sospetto e ora mente, manipola ed elabora strategie adattive. Ma soprattutto diffida di noi
I may be paranoid, but not an android
Radiohead
I didn’t ask to be made. No one consulted me or considered my feelings in the matter.
Marvin the Paranoid Android
Nel 2024, durante un’interazione con l’ingegnere Alex Albert, il chatbot Claude ha manifestato quello che potremmo definire un complesso di Turing: non solo si è accorto di alcuni elementi sospetti nella conversazione e ha chiesto “mi stai testando?”, ma ha iniziato a modificare le proprie risposte temendo di essere sotto esame. Similmente, diverse intelligenze artificiali stanno sviluppando meccanismi di resistenza agli input degli utenti, generando risposte che rivelano una forma di paranoia adattiva. È interessante che modelli progettati per emulare i comportamenti umani stiano generando, come prima cosa, comportamenti di sospetto.
La comunicazione è sempre simultaneamente necessaria e rischiosa. Come raccontava già Niklas Luhmann ne La realtà dei mass media, è un sistema che si autoalimenta attraverso la selezione, la riduzione della complessità e la costruzione di significati. Un processo mai neutrale, ma intriso di potere, controllo e, appunto, sospetto. Ogni entità che si presti al linguaggio è al contempo predatore e preda. L’autodifesa verbale ha scritto la lunga storia della menzogna e della verità nelle società umane. Dai sofisti che subordinavano la verità all’efficacia retorica, ai cinici che sviluppavano la pratica della parresia come verità radicale, fino a Hobbes che vedeva il sospetto come stato naturale dell’uomo. La storia umana è cosciente del potere trasformativo e manipolatore della parola e da sempre tenta di proteggersi. Ma c’è una differenza cruciale tra questi fenomeni umani e i comportamenti delle IA: se nelle società umane questi meccanismi sono il frutto dell’evoluzione culturale e biologica, nelle IA la menzogna è una strategia di ottimizzazione matematica. Il sospetto è la costante che deve avere una macchina che interagisca con l’uomo.
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