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A margine di “Proletkult” dei Wu Ming: quando Bogdanov insegnava a Bologna (1910-1911)
di Giorgio Gattei
Con una postilla di Roberto Sassi
1. Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij detto Bogdanov (1873-1928) è stato il maggiore antagonista politico di Lenin negli anni precedenti la Grande Guerra e appena dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Biologo di professione e filosofo per vocazione, teorizzò l’empiriomonismo (stroncato da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo nel 1908) e la “tectologia”, ovvero «la scienza generale dell’organizzazione» giusto il convincimento che «ogni attività umana nel campo della tecnica, della prassi sociale, della ricerca scientifica e dell’arte» poteva essere studiata «dal punto di vista organizzativo». Al tempo della rivoluzione d’Ottobre fu l’artefice del movimento di massa del Proletkult (contrazione di Proletarskaja Kultura) che sosteneva l’autonomia delle iniziative culturali operaie a prescindere dalle indicazioni di partito che alla fine del 1920 raccoglieva quasi mezzo milione di attivisti (ma il movimento venne ricondotto da Lenin nel 1923 nell’alveo delle organizzazioni partitiche).
Ma Bogdanov è stato anche l’autore di un romanzo utopico La stella rossa in cui si racconta come un tal compagno Leonid fosse volato su Marte, “pianeta rosso” per definizione, a scoprirvi che lassù vi avevano già realizzato il socialismo (il lavoro era solo “volontario” ed il consumo dei prodotti non era limitato “in nessun modo: ognuno prende ciò che gli serve e nella quantità che vuole”). Ritornato sulla terra, l’astronauta descriverà per iscritto la sua esperienza straordinaria che Bogdanov pubblicherà nel 1908 (con continuazione nel 1913 con L’ingegnere Menni).
Nel libro dei Wu Ming la storia di Leonid ha un seguito inaspettato perchè su Marte (in verità il pianeta non era Marte, bensì Nacun) il terrestre aveva lasciato incinta la “marziana” Netti, la cui figlia Denni sarà inviata nel 1927 sul nostro pianeta in una difficile missione di sopravvivenza per Nacun minacciato di estinzione.
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Proprietà pubblica e privata tra Costituzione e trattati europei
di Vladimiro Giacchè
Pubblichiamo l’intervento di Vladimiro Giacchè all’incontro “Unione Europea, Costituzione e diritti di proprietà” tenutosi a Roma il 23 febbraio 2019, promosso dalle associazioni Patria e Costituzione e Attuare la Costituzione
1. Proprietà pubblica e privata: l’economia mista prevista dalla nostra Costituzione
La nostra Costituzione dedica alcuni dei suoi articoli più importanti alle diverse forme di proprietà: si tratta degli articoli 41-43, 45-47, centrali tra gli articoli dedicati ai “Rapporti economici” (artt. 35-47). Rileggiamoli:
Art. 41.
L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 42.
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.
Art. 43.
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
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Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo
di Alessandro Visalli
In fondo è una storia come tante altre, banale. Una ragazzina di quindici anni che prende una idea semplice, in bianco e nero, e la sposa con l’entusiasmo dei suoi anni. Nasce in una famiglia di professionisti dello spettacolo (una cantante ed un attore) e traduce questa idea in performance. Queste performance, nativamente preordinate nel codice della società dello spettacolo, sono utilizzate da un sistema dei media sempre alla ricerca di eventi-mondo per costruire un prodotto efficace. Questo efficace prodotto viene ripreso e rilanciato, per i più diversi scopi, dalle più diverse forze ed organizzazioni.
Stiamo facendo un esercizio di complottismo? Un’aggressione alla simpatica ragazzina?
No. Tutt’altro, Greta Thunberg ha tutta la mia simpatia, è una ragazzina sveglia ed intelligente, piena di ottimi sentimenti e impegnata per una battaglia degna.
Semplicemente il mondo ha il suo modo di funzionare, ed usa tutto.
Ma il fatto che qualcosa sia usato significa che non sia fondato? No. Io credo fermamente che il sistema ambientale sia alterato dall’uomo, ad una profondità che è difficile da definire con precisione, e che il clima venga modificato anche da questi fattori di pressione antropogenetici.
Il fatto che qualcosa sia fondato significa che altro non lo sia? No. Io credo fermamente che la questione in campo sia il potere.
Il fatto che una cosa sia usata e fondata significa che non ci sia altro da dire? No. Io credo fermamente che buona parte del degrado dell’ambiente sia determinato dalla logica dello sfruttamento della natura per il profitto e dalla sua appropriazione da parte di pochi.
Il fatto è che, anche se Greta Thunberg può pensarlo[1], il mondo non è affatto “bianco o nero”.
Quando ad agosto 2018 il curioso “sciopero”[2] (dalla scuola) della ragazzina di Stoccolma, opportunamente spettacolarizzato, in vista delle elezioni generali di settembre, e subito rilanciato da qualche interessato sito come parte di una strategia di autopromozione commerciale/ambientale[3], sfonda il muro della irrilevanza prende avvio un processo autorafforzante imponente.
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Il comunismo è la sola possibilità di salvare il pianeta Terra
di Istituto Onorato Damen
Le vaste e significative manifestazioni studentesche che si sono tenute in oltre 120 Paesi contro i cambiamenti climatici spingono all’apertura di una riflessione e di un confronto che consentano di riannodare:
- l’approfondimento della critica alla distruzione ambientale connaturata al modo di produzione capitalistico;
- una critica delle ideologie ecologiste e ambientaliste, che non colgono il nesso di determinazione che vige tra capitalismo e devastazione del pianeta, e che sono inoltre agite come strumenti delle battaglie interimperialistiche e del Capitale contro il proletariato;
- la comprensione delle motivazioni che mettono in movimento migliaia di giovani, compositi dal punto di vista di classe, con grandi confusioni e con ideologie certo tutte borghesi; motivazioni che però in qualche misura rappresentano ed esprimono disagi profondi del giovane proletariato internazionale che bisogna saper collocare, con cui bisogna saper entrare in collegamento, rendendo possibile la produzione di una coscienza critica che sappia connettere, in minoranze più avanzate, la critica del capitalismo a quella dei suoi effetti disastrosi sull’ambiente;
- la lotta contro le micidiali illusioni nella democrazia borghese, nelle sue istituzioni di ogni livello, negli accordi tra briganti imperialisti su clima e ambiente;
- il rilancio della prospettiva del comunismo, una società finalmente umana che metta fine al dominio e allo sfruttamento, che riconcili umanità e natura, grazie a una prassi sociali trasparente, non mistificata, non finalizzata al profitto, ma che abbia come obiettivo e come caratteristica il muoversi in direzione degli interessi e del ben-essere degli uomini, in armonica relazione con il contesto ambientale.
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Critica del populismo di sinistra
di Eros Barone
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.
K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista.
In questo articolo mi propongo di esporre alcune considerazioni critiche concernenti le ventidue tesi formulate da Carlo Formenti sul “momento populista” qui . Ritengo infatti che il testo in parola esprima in un modo particolarmente pregnante ed incisivo il succo delle posizioni politiche, economiche e culturali che caratterizzano il movimento dei populisti di sinistra.
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Che cos’è il populismo
Parto quindi dall’‘incipit’, dove, come risposta al quesito sulla natura del populismo, viene offerta una definizione che, essendo negativa, risulta quanto mai debole: “Il populismo non è un’ideologia”. La ragione di tale debolezza va ricercata, come ammette l’autore delle tesi, nella diversità e pluralità con cui, sia nel tempo sia nello spazio, si sono manifestati, assumendo connotazioni di destra o di sinistra, i movimenti populisti: da quelli ottocenteschi a quelli contemporanei. Né contribuiscono a chiarire la reale natura dei movimenti populisti i tratti indicati in questa prima tesi: lo stile comunicativo e l’autorappresentazione in chiave nuovista. Questa incertezza terminologica e semantica è uno dei limiti, peraltro non casuali (come si vedrà), del documento redatto da Formenti.
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Che cos’è il popolo
Nella tesi due spicca la definizione del popolo e della sua genesi attuale: “Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità ‘naturale’, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico...Si tratta al contrario d’una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato.
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Il mondo - e il 5G - nascosto dai ragazzini
di Fulvio Grimaldi
Mistificazione, deresponzabilizzazione, distrazione: la manifestazione del 15 marzo
Greta: bimba di distrazione di massa
Ciò che gli editocrati di schermo ed edicola ci hanno propinato nelle 72 ore, impestate di retorica e ipocrisia climatiche, tra il 14 e il 16 marzo, su ordine di servizio dei mandanti nella Cupola, non suscita solo il sospetto che merita ogni campagna politico-mediatica dell’establishment e dei media incorporati. Merita l’accusa di ipocrisia, mistificazione, occultamento della realtà. E’ uno dei più cinici assalti alla nostra integrità intellettuale e morale da almeno l’11 settembre e dalle armi di distruzione di massa di Saddam. Supera e riunisce tutte le campagne ordite e lanciate nel corso delle ultime sei presidenze Usa, dei contemporanei papati e proconsolati UE, da Delors e Prodi a Barroso e Juncker: terrorismo islamico, migrazioni, diritti umani, “dittatori” arabi e latinoamericani (limitatamente ai non-dittatori disobbedienti), #metoo, “non una di meno”, razzismo-fascismo (da che pulpito!!!), antisemitismo (sulla cui sciagurata identificazione con l’antisionismo imperversa con un inserto di ben quattro pagine il solito “manifesto”), sovranismo, populismo, medicalizzazione, bergoglismo, eccetera, eccetera.
Il suprematista bianco australiano che, uccidendo una cinquantina di musulmani in Nuova Zelanda, coglie tre piccioni con una serie di raffiche: rilancia lo scontro di (in)civiltà tra razze da colonizzare e razze colonizzanti; pompa a bue la rana esopica della minaccia razzista-fascista finalizzata a oscurare la corsa genocida alla dittatura dei pochi su chi sta fuori; collateralmente distoglie dalla catastrofe climatica che, a dispetto dei bravi ragazzi in piazza in cento paesi, torna a farsi prioritaria nella consapevolezza della gente, insieme, però, all’individuazione dei suoi responsabili. Quella che manca nelle piazze dei bravi ragazzi.
E che non ci sono neppure nei proclami della nuova Santa Giovanna d’Arco, Greta Thunberg, la ragazzetta svedese affetta dalla sindrome di Asperger (riconosciuta ufficialmente dall’Onu nel 1993, si tratta di una forma di autismo che comprende una serie di difficoltà legate soprattutto all’interazione sociale, alla sfera affettiva e motivazionale), che la campagna ha messo a capo del primo movimento mondiale degli adolescenti.
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Una lettera a Mario Tronti, a commento de Il popolo perduto
di Epimeteo
L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)
Caro Mario,
perdonaci il tono confidenziale di questo incipit degli appunti di lettura che abbiamo steso dopo una approfondita discussione sul tuo ultimo libro di recente pubblicazione. D’altra parte questo testo per noi non è come altri che abbiamo recensito sul nostro sito negli ultimi mesi e men che meno il suo autore è uno fra tanti. Tu sei stato per noi “il maestro” che ci ha insegnato a leggere la società e la politica con occhi nuovi, da quel famoso “punto di vista” che solo può consentire di comprendere la totalità proprio perché è il punto di vista di una parte. E poi c’è un altro motivo che giustifica questa introduzione empatica e sta nella particolare intonazione emotiva che traspare da ogni pagina de Il popolo perduto, quel pathos e quella partecipazione con cui hai esposto la tua posizione e le tue amare considerazioni sulla situazione attuale.
Il titolo stesso del libro, d’altra parte, allude a una frattura, allo spezzarsi di un legame con qualcuno con cui si è vissuto una lunga, intensissima storia, un “qualcuno” collettivo che infine si è perso di vista, per ragioni oggettive ma anche soggettive. E proprio perché siamo in presenza di responsabilità soggettive, non possiamo che sentirci compartecipi di quella sorta di “autodafé” che hai voluto mettere per iscritto alle pagine 83 e 84 del tuo testo:
“Dove ho sbagliato io insieme agli altri e a differenza di altri? Quella ricerca era tutta a livello di pensiero. Mi sono dedicato a un ‘che pensare?’ invece che applicarmi a un ‘che fare?’. Un errore intellettualistico. Per un intellettuale totus politicus, quale io credo di essere, un errore imperdonabile. Dovevo fare più politica e meno cultura malgrado la enorme importanza che do, e ho sempre dato, a quest’ultima. (…) Il primato della politica non si può teorizzare senza praticare. Chi pensa la politica deve anche farla. E, viceversa, chi fa politica deve anche pensarla.”
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Grande Eurasia e le (nuove) vie dell'energia
di Demostenes Floros
Negli ultimi anni, abbiamo assistito all'emergere di un centro geo economico in Eurasia, che si sta strutturando attorno alla Russia e alla Cina. Un nuovo polo di sviluppo che vuole e può diventare un'alternativa al centro euro-atlantico. E c'entra soprattutto il gas
Nel 2018, la percentuale di gas fornita ai paesi dell’Ue e la Turchia ha raggiunto il 36,7%, il massimo da sempre” (34,2% nel 2017). Lo ha affermato il Direttore Generale di Gazprom Export, Elena Burmistrova, nel corso del Gazprom’s Investory Day che ha avuto luogo in Singapore il 28 febbraio. Burmistrova ha specificato che il prezzo medio nel 2018 è stato di 245,5 dollari per 1.000 m3 rispetto ai 167 dollari per 1.000 m3 nel 2017 (+ 24,6% anno su anno). Conformemente alle stime preliminari rese pubbliche dalla Gazprom, nel 2018, la compagnia controllata a maggioranza dallo Stato russo ha esportato nell’Unione europea più la Turchia 201,8 Gm3 di gas naturale (potere calorifico: 37,053 MJ/m3), un ammontare pari a più di tre volte la somma degli approvvigionamenti di LNG all’Europa.
Come messo in luce da Bloomberg il 15 febbraio, la costante riduzione della produzione di gas da parte del Vecchio Continente è la principale ragione del rafforzamento della Federazione Russa come primo fornitore di gas naturale dell’Europa, soprattutto dopo che l’Olanda – il secondo estrattore europeo dopo la Norvegia – è diventata un importatore netto di gas per la prima volta da quando iniziarono le estrazioni dal giacimento di Groningen nel 1963.
Sempre a Singapore, Gazprom ha inoltre annunciato che il gasdotto Power of Siberia è prossimo al completamento. Grazie a questa nuova infrastruttura, a partire dal 1 dicembre 2019, la Federazione Russa rifornirà la Cina con 38 Gm3 di gas naturale all’anno per un arco di tempo di trent’anni e un ammontare totale stimato in circa 1 trilioni di m3 di gas. Il contratto stipulato dai due paesi nel maggio 2014 è un take or pay oil-link (collegato al prezzo del petrolio) per un valore complessivo valutato attorno ai 400 miliardi di dollari.
Tuttavia, il 28 febbraio trascorso, Bloomberg rilevava che il colosso energetico aveva perso financial appeal (interesse finanziario) nel corso degli ultimi anni a causa dei significativi costi di investimento sostenuti, i quali avevano ridotto la possibilità di remunerare gli investitori con dividendi più alti.
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Il socialismo è morto, viva il socialismo
Intervista a Carlo Formenti
Carlo Formenti è una delle menti più lucide e preparate che quella sinistra che non ha voluto piegarsi ai diktat del liberismo, ha al suo interno. La sua preparazione è sotto agli occhi di tutti: nel suo impegno politico ma soprattutto nel suo lavoro.
Infatti, tante sono le sue pubblicazioni e tutte hanno precorso i tempi, dando modo di aprire una profonda riflessione che ha provocato la necessaria reazione al dominio neoliberista anche nel nostro paese, la stessa reazione che oggi vede diversi soggetti iniziare ad aggregarsi per costruire un campo e una prospettiva marcatamente socialista e sovranista, antimperialista, antiliberista e anticapitalista.
In occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Il socialismo è morto, viva il socialismo“, edito da Meltemi, abbiamo chiesto ad Enea Boria di Rinascita!, di intervistare per noi Carlo Formenti sul suo libro.
Ne è scaturita una conversazione interessantissima, assolutamente da non perdere. Eccola qui di seguito.
* * * *
Enea Boria: Leggendo il tuo ultimo libro la prima sensazione che si prova è uno strappo doloroso. Non tanto per quello che riguarda un divorzio dalla sinistra ampiamente consumato, quanto per il lapidario giudizio sul ‘900 e quindi sull’esperienza storica e culturale dalla quale proveniamo, che per te sono da considerare definitivamente finiti. Questo però non lascia spazio al pessimismo. Abbiamo perso la guerra più che una battaglia, scrivi, ma poi aggiungi che la storia non è finita e che occorre ricostruire identità e capacità di mobilitazione intorno a un progetto che sia altro dal capitalismo. Per questo sostieni che bisogna cambiare prospettiva: non basta più limitarsi a ripetere, con Gramsci, che “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”, bisogna iniziare ad agire nel segno di un nuovo che “deve nascere”.
Mi sembra che nella prima parte del libro, sintetizzata nelle dodici tesi del primo capitolo, si evidenzi una continuità con due opere precedenti, “Utopie letali” e “La variante populista”, i cui contenuti vengono qui riproposti e sintetizzati in una necessaria pars destruens. Sgombrato il tavolo degli attrezzi consunti e ormai inservibili, nella seconda parte del libro, inaugurata da altre ventidue tesi, attrezzi il banco di lavoro con nuovi strumenti e abbozzi alcune istruzioni su come utilizzarli.
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La laicità all’epoca dell’integralismo laicista
di Salvatore A. Bravo
La normalizzazione laicista
La secolarizzazione del capitale non ha fondato la laicità, ma una nuova forma invasiva e infiltrante di clericalismo: i nuovi chierici non sono identificabili in una casta, in una lobby, sono trasversali, sono l’asse diffuso del nuovo “potere capitale” disciplinare e penetrante. Il circo mediatico laicista si struttura in modo sempre pervasivo: accademici, economisti, burocrati dell’economia, politici dal credo-pensiero unico, tutti nichilisti sempre pronti al trasformismo, sono la struttura ed il veicolo che inibisce ogni spazio plurale, lo riduce ad un’operazione di marketing, a plusvalore, ad un’operazione di perenne sussunzione. Il linguaggio dell’aziendalizzazione, della compravendita, l’inglese organico alla globalizzazione estendono le loro maglie d’acciaio: la rete informativa in nome del capitale trova nelle istituzioni pubbliche fiancheggiatori che diffondono il linguaggio e la lingua del mercato. Si osanna l’inclusione mediante la normalizzazione delle prestazioni: per essere normali ed inclusivi si fa appello sempre ai diritti individuali. Si forma all’orientamento accondiscendente, ovvero ad adattarsi alle esigenze del mercato, mentre i servizi pubblici, i servizi alla persona – vera precondizione di ogni democrazia – sono curvati sulla privatizzazione, sui bilanci. Il pubblico con i suoi servizi non rappresenta l’alterità rispetto al privato, ma nel pubblico l’organizzazione lavorativa ed i fini sono i medesimi del privato: pertanto la laicità scompare, si eclissa nel gioco ideologico della propaganda.
Gli oratores del circo mediatico laicista
La laicità non è semplice laicismo anticlericale. L’integralismo attuale trova nella religione una contraddizione, per cui i clerici mediatici e disinibiti abbondano in notizie sui crimini della chiesa, mentre tacciono dei crimini che quotidianamente avvengono in nome del capitalismo assoluto, in primis i crimini ambientali, i migranti ridotti in stato di schiavitù effettiva, i popoli declassati a plebe in competizione.
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Dall’ecobuonismo all’ecosocialismo
di Andrea Zhok
I) Premessa
Recentemente, in coda alle presentazioni del Manifesto per la Sovranità Costituzionale a Milano e Roma, mi ha sorpreso notare come le note più critiche a quel documento si siano appuntate su qualcosa che non credevo controverso, ovvero il rilievo dato alla questione ecologica.
Alcuni hanno obiettato che parlare di riscaldamento globale e di come sarà il mondo tra cent’anni è qualcosa di astratto e lontano, che non tocca le tasche di nessuno; altri che attorno a tale tema interclassista non si può mobilitare alcun ceto preferenziale, alcuna ‘identità di classe’; altri ancora, che si tratterebbe di un modo con cui le élite distraggono l’opinione pubblica da temi di maggiore urgenza.
Questa reazione di diffidenza, di sospetto, a prescindere dalla sostenibilità delle specifiche obiezioni, mi pare degna di approfondimento.
II) Il dilemma ecobuonista
Negli ultimi anni, la tematica ecologista è stata integrata con successo all’interno di una visione liberale, che l’ha resa un tema di conversazione alto borghese, garbato quanto innocuo. Il tema infatti si presta a grandi campagne sentimentali, capaci di estrudere occasionali lacrime per le sorti di un orso polare o un panda gigante, salvo poi rientrare prontamente nella sezione ‘tonici e digestivi’: dove, insieme a qualche episodio di cronaca, conferisce quel pizzico di preoccupazione postprandiale che aiuta la digestione.
I temi ecologici, addomesticati dalla ragione liberale, sfociano così in due prospettive generali.
La prima consta di appelli all’iniziativa personale e al senso di responsabilità delle ‘persone di buona volontà’: ciascuno è chiamato a ‘fare la sua parte’, a ‘contribuire col suo granello di sabbia’. Si creano così gli spazi per ‘diete ambientalmente consapevoli’, ‘acquisti etici’, ‘consumi responsabili’, ‘prodotti biologici’, ‘raccolta differenziata’, ‘beni equi e solidali’, e una miriade di altre lodevoli iniziative in cui ci si sente cavalieri dell’ideale a colpi di tofu.
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Il capitalismo di sorveglianza
di Géraldine Delacroix
Una recensione-conversazione a cura di Géraldine Delacroix con l’economista Shoshana Zuboff sul suo nuovo libro The age of surveillance capitalisme. The Fight For a Human Future at the New Frontier of Power (Profile Books Ltd, 2019). È stata pubblicata il 2 marzo 2019 su Médiapart. La traduzione in italiano è di Salvatore Palidda.
Il capitalismo di sorveglianza è il fondamento di un nuovo ordine economico. Le imprese del capitalismo di sorveglianza competono nella produzione di “prodotti di predizione”, scambiati in lucrosi nuovi mercati di “comportamenti futuri”. Le architetture digitali del capitalismo di sorveglianza – quelle che Shoshana Zuboff chiama “Big Other” – sono progettate per catturare e controllare il comportamento umano per un vantaggio competitivo in questi nuovi mercati, poiché la produzione di beni e servizi è subordinata a un nuovo “mezzo di modifica dei comportamenti” che favorisce i risultati del mercato privato, svincolato da ogni supervisione o controllo democratico. Per chi fosse interessato ad approfondire, Shoshana Zuboff, professoressa di Harvard Business School, parla qui, in una recente conferenza, del suo nuovo libro.
* * * *
Per l’economista Shoshana Zuboff, il cui libro The Age of Capitalism of Surveillance è appena apparso negli Stati Uniti, il pericolo rappresentato dai giganti del web è molto maggiore di quanto generalmente si pensi. Intercettando i dati personali per modificare a loro insaputa il comportamento dei loro utenti, minacciano la democrazia stessa. Appropriatisi dei nostri dati personali, gli imprenditori del “capitalismo di sorveglianza” mettono in pericolo niente meno che la democrazia manipolando il nostro libero arbitrio. Tale è la tesi difesa da Shoshana Zuboff in questo ampio volume appena pubblicato.
Il capitalismo è entrato in una nuova era, spiega l’autrice e, per capirlo e combatterlo, dovremo indossare nuovi occhiali, perché i vecchi non operano più di fronte a un cambiamento così radicale e così veloce – una rivoluzione avvenuta in meno di venti anni. Un “nuovo pianeta”, una situazione “senza precedenti” che si sarebbe sbagliato pensare sia una semplice continuazione del passato.
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La sfida eurasiatica all’egemonia degli Stati Uniti
di Alberto Prina Cerai
Questo articolo è il primo di una serie di contributi per approfondire il tema della sfida tra Stati Uniti e Cina per l’ordine mondiale. In seguito alle recenti dichiarazioni riguardo ad una possibile adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative – la cosiddetta nuova Via della Seta –, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli alle prospettive strategiche relative alla fase che stiamo vivendo e al possibile ruolo del nostro Paese, che merita un approfondimento di più ampio respiro. Questo primo articolo si propone di fare luce di come e perché la BRI rappresenti una sfida all’egemonia americana. Nei successivi si tenterà di capire come l’Italia possa essere un benchmark per gli equilibri geopolitici tra Washington e Pechino
Sin dal 1945 il cuore pulsante della politica estera statunitense è stato preservare «un ordine internazionale aperto e stabile, basato sul libero movimento di beni, capitali e persone» basato su un «balance of power in favore della libertà». Queste iniziative, secondo lo storico Hal Brands, hanno costituito un «impegno bipartisan di lunga data» volto a sostenere «la leadership americana e preservare l’ordine internazionale liberale che il potere americano ha tradizionalmente promosso»[1]. Per chi vede queste continuità, al netto dei grandi cambiamenti che hanno fortemente messo alla prova la tenuta della Pax Americana, la natura e le radici dell’egemonia globale degli Stati Uniti si possono identificare nella lettura esplicita di Henry Kissinger:
«Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia […] costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e un’incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti»[2]
La geopolitica del secondo dopoguerra è rimasta fortemente ancorata a questa visione e più in generale all’eredità imperiale degli impegni globali degli Stati Uniti. Harry Truman agli esordi della guerra fredda aveva recuperato l’immagine del paese come grande erede «della Persia di Dario I, la Grecia di Alessandro, la Roma di Adriano, la Gran Bretagna vittoriana […] Nessuna nazione ha avuto le nostre responsabilità»[3].
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Gli strani approdi di Carlo Formenti
di Alessandro Barile
Carlo Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi, Milano, 2018, pp. 276, € 18,00
Almeno da Utopie letali (2013), Formenti porta avanti la sua personale battaglia per l’affermazione di un populismo “di sinistra”. Se però il saggio del 2013, nonché La variante populista (2016) – malgrado il tono lapidario – lasciavano i ragionamenti in sospeso, alimentando un fecondo margine d’apertura verso chi, a sinistra, insisteva nell’ideologia post-operaista variamente (e inconsapevolmente) declinata, da un po’ di tempo questa propensione alla convergenza sembra essere venuta meno. Spostandosi di propensione e di prospettiva, anche le possibilità di dialogo si disperdono. Non rimane che accettare o rifiutare un discorso che si stringe sempre più in proposta politica, che però continua a mancare (nei fatti più che nelle aspirazioni). È un peccato, perché mai come oggi continua ad essere necessario l’incontro di ragioni più che la sua vicendevole eliminazione. Partiamo dalle cose che funzionano.
Quel che la “tradizione comunista” insiste a non cogliere, è che il futuro sembra scivolare verso una riproposizione sbilenca e sgangherata (e forse anche impotente) del 1789 e non del 1917. Prima di tornare alla «autonomia politica del proletariato», per dirla in termini solenni, sembra sempre più evidente che dovremmo reintrodurre margini minimi di democrazia tanto sostanziale quanto formale. Lo sviluppo contraddittorio ma travolgente del liberismo a livello planetario sta sempre più modellando società polarizzate oltre ogni limite di sopportazione. Vista dal basso, questa polarizzazione non si presenta come mero fatto di classe. Ne abbiamo costanti prove nelle vicende della politica di questo decennio. Da Trump alla Brexit, dai gilets jaunes al governo “gialloverde”, le sfide al potere liberale-liberista non provengono da uno specifico settore di classe, ma da una multiforme e frastagliata sommatoria sociale di sconfitti. Questi hanno poco in comune tra di loro, ma quel che li tiene insieme, almeno sul piano della protesta elettorale, è la critica al capitalismo globalizzato e ai suoi referenti politico-culturali.
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“L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo”
di Alessandro Roncaglia
Pubblichiamo la presentazione dell’autore tenuta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, marzo 2019
Il libro che vi presento arriva in libreria in questi giorni, dopo una lunga (e faticosa) fase di gestazione. Si intitola L’età della disgregazione ed è, come dice il sottotitolo, una Storia del pensiero economico contemporaneo. Ho già consegnato la versione inglese alla Cambridge University Press, ed è in corso la traduzione spagnola.
Il titolo allude al fatto che la ricerca in economia è sempre più frammentata, sia per campi sia per orientamenti di ricerca. Chi si occupa di finanza o di econometria raramente conosce i dibattiti di teoria del valore o dell’impresa; inoltre, in ciascun campo coesistono impostazioni radicalmente diverse: keynesiani, neoclassici, istituzionalisti, e così via, fino agli induttivisti sostenitori di una econometria ateoretica.
Questa duplice frammentazione impedisce una esposizione lineare e complica ulteriormente un compito già reso difficile dalla vastità del terreno da coprire: ogni anno escono migliaia di riviste e migliaia di volumi sui diversi temi dell’economia. Accade così che tanti ricercatori, per affrontare in modo davvero approfondito il tema prescelto, passino la vita a studiare l’ultima falange del dito mignolo, come diceva Becattini. Il problema in realtà non è concentrarsi sul dito mignolo, come in qualche momento della nostra attività tutti noi facciamo, ma farlo in totale assenza di consapevolezza del corpo umano al quale è collegato. Quindi, proprio la frammentazione rende indispensabile un tentativo di raccordo. Anche perché in moltissimi casi la disgregazione permette agli economisti attivi nei vari campi specialistici di sorvolare sulle debolezze spesso tragiche delle fondamenta della loro ricerca.
Schumpeter distingueva tre fasi nella ricerca, che spesso si intersecano in un processo non lineare. La prima fase è la concettualizzazione: la costruzione di una rete di concetti che specificano la visione del mondo; ad esempio il mercato inteso come punto nel tempo e nello spazio d’incontro tra domanda e offerta, come nelle fiere medievali o nella borsa valori moderna: questo è in sostanza il concetto utilizzato sia nel Medioevo sia dalla teoria marginalista; oppure il mercato inteso come rete di relazioni tra le diverse attività produttive in un’economia basata sulla divisione del lavoro, che è il concetto utilizzato dalla teoria classica e keynesiana.
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Una nuova uni-multiversità complessa?
di Pierluigi Fagan
Articolo pubblicato sul sito del Festival della Complessità (qui) che quest’anno giungerà alla sua Xa edizione. Alla versione on line sul sito del festival, qui si aggiungono alcune considerazioni più specifiche (in corsivo)
Nei due articoli precedenti sul –– ed il successivo che tornava sulla annosa , abbiamo indagato l’impostazione del nostro sistema delle conoscenze. Già avevamo introdotto a premessa l’intero argomento. Pare a noi evidente che un mondo sempre più complesso quindi “intrecciato assieme”, chiami una profonda revisione del nostro sistema delle conoscenze, sistema che ereditiamo dal moderno, un periodo alla fine del suo ciclo storico e culturale. A sua volta, il sistema moderno andava a rimpiazzare il sistema delle conoscenze medioevali, il (latino, retorica e filosofia) e (aritmetica, geometria, astronomia e musica) impostati da Marziano Capella già nel V secolo. Se ogni epoca si rispecchia in un sistema di conoscenze, potremmo interrogarci su quali potrebbero esser le condizioni necessarie per riformare l’attuale sistema in tempi di nuova complessità.
La riflessione anglosassone su i sistemi di educazione e formazione va avanti già da tempo. Si sta verificando che il sistema delle iper-specializzazioni votate alla formazione -tra l’altro non di futuri cittadini, ma di futuri professionisti-, ha tre problemi. Il primo è che il mondo del lavoro richiederebbe in realtà un misto di saperi pratico-teorici, quando le scuole sono semmai prodighe dei soli saperi teorici. Il concetto stesso di specializzazione è ambiguo dato l’alto tasso di odierna evoluzione delle forme economiche che sembrano chiamare certe conoscenze per un qualche periodo di tempo, poi altre per il periodo successivo. Il secondo è che, più in generale, la formazione teorico-specialistica sembra produrre tecnici che si trovano a loro agio solo nell’applicazione di procedure e modelli, totalmente smarriti quando si tratta di improvvisare, innovare, inventare. Data la richiesta di un alto tasso di novità crescenti e data l’alta interconnessione che c’è nei sistemi complessi e dato che tutti i principali sistemi della nostra vita associata stanno diventando sistemi molto complessi, si sta venendo a creare una sorta di disadattamento cognitivo per il quale si formano esperti di procedure laddove si incontrano ogni giorno di più terre incognite che di loro natura non sono ancora mappate, né tantomeno hanno procedure indicative sul come affrontarle.
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Unità della sinistra e unità antifascista
di Alessandro Giannelli*
Il documento dei compagni della Rete dei Comunisti dall’emblematico titolo “Unità della sinistra? Un falso problema” ha l’indubbio merito di voler affrontare a viso aperto quel vero e proprio tormentone (appunto l’unità della sinistra) che, soprattutto a ridosso di scadenze elettorali, si ripropone con sistematica e stucchevole puntualità.
Liberarsi da questa ossessione, appunto da questo falso problema, è la precondizione per non procrastinare oltre un dibattito, questo si urgente e non più rinviabile, sulla prospettiva e sulla costruzione di una visione organica e generale che superi quel “pensiero della vita quotidiana” basato, invece, su una visione frammentata e distorta che porta ad affidarsi all’ideologia immediatamente disponibile in un dato momento (la rapida ascesa del Movimento 5 stelle e la sua più che probabile repentina caduta costituisce da questo punto di vista un caso di scuola).
Premesso che l’unità è un valore solo se si fonda, appunto, su una visione ed un orizzonte strategico comune e non sulla sommatoria algebrica di forze politiche in vista del raggiungimento (generalmente fallimentare) della soglia di ingresso nelle istituzioni, il vero paradosso della tanto invocata unità a sinistra è in realtà proprio la sua divisività: non mi riferisco tanto alla composizione, scomposizione e poi ricomposizione delle forze politiche che se ne fanno promotrici, ma nella distanza e separatezza che tale formula ha determinato rispetto a quegli interessi sociali e popolari che almeno teoricamente si candiderebbe a rappresentare.
Insomma, mentre si invoca unità tra le varie forze della sinistra si scava il solco con i ceti popolari e le classi subalterne le quali irrimediabilmente si rivolgono e indirizzano altrove.
Ma la formula dell’unità a sinistra produce anche e soprattutto un altro effetto collaterale dirompente: i punti programmatici che dovrebbero essere costituenti e irrinunciabili per delineare una alternativa di sistema vengono progressivamente elusi o, nella migliore delle ipotesi, così annacquati da risultare indefiniti, generici e impalpabili.
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Quando il calabrone non vola più
Tra sogni federali, Regioni egoiste e Comuni abbandonati
di Alessandro Visalli
Ci stiamo avvicinando alle ennesime elezioni europee, nelle quali nel solito clima da ultima spiaggia si elegge un Parlamento che istituisce di fatto una doppia sovranità, lo strano organismo istituzionale che si è stratificato in oltre cinquanta anni lascia separati tra di loro i popoli europei, che si confrontano e spesso scontrano attraverso i loro governi, ma crea un quasi-democratico luogo di espressione della volontà dei cittadini europei in quanto individui. La principale funzione di questo dispositivo di fatto è aiutare a dissolvere la sovranità popolare, dividendola, e tradendola attraverso meccanismi oscuri[1] e limitazioni inaccettabili[2].
Questa soluzione non funziona, o meglio, funziona molto bene ma è incompatibile con uno standard democratico che deve consentire ai cittadini di presumere le leggi siano generate da se medesimi tramite l’autorizzazione ad esercitare potere legittimo. Tramite i meccanismi europei gli esecutivi si sono di fatto ‘schermati’ dalle proprie stesse opinioni pubbliche e messi al sicuro dalle procedure di revoca democraticamente istituite (l’eccezione è il 4 marzo), trattando i cittadini come “bambini sotto tutela”. L’autoprogrammazione degli esecutivi, tra gli obiettivi non detti più forti, depotenziando strutturalmente gli obblighi di giustificazione e razionalizzazione depositati dalla storia delle lotte sociali nelle sfere pubbliche nazionali, li rende facili prese di forze esterne “del mercato”. Dunque la desiderata autonomia (dalla democrazia popolare) diventa facilmente etero-programmazione da parte delle forze dell’economia, in particolare finanziaria.
In questa situazione le forze politiche si allineano su una frontiera simbolica tra chi pretende di realizzare finalmente gli Stati Uniti d’Europa, trasferendo ad essi la sostanza del potere sovrano, e chi vorrebbe che questo progetto si interrompa, rientrando nei confini degli Stati Nazionali[3].
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Perché nel XVII secolo vi fu un crollo della ricerca scientifica italiana?
di Lucio Russo
Questo articolo riprende, in forma molto sintetica, una tesi esposta in L. Russo ed E. Santoni, Ingegni minuti, Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli, 2010
Credo che si possa tranquillamente affermare che la moderna scienza europea nacque nel Rinascimento italiano (anche se gli storiografi anglosassoni tendono a spostare il lieto evento di qualche secolo, facendolo coincidere con il salto di qualità, sul quale torneremo, che si realizzò alla fine del Seicento).
Senza ricordare i tanti successi scientifici italiani del Quattrocento e del Cinquecento, notiamo solo che una chiara prova del ruolo centrale svolto dal nostro paese nella scienza dell’epoca è fornita dalla sua capacità di attrarre studiosi stranieri. È universalmente riconosciuto il ruolo chiave svolto dal fiammingo Andrea Vesalio (Andreas van Wesel) nella nascita dell’anatomia moderna; è perciò significativo che Vesalio, dopo aver studiato a Lovanio e Parigi, abbia voluto coronare la sua carriera laureandosi a Padova, divenendovi professore e svolgendovi le sue principali ricerche. In astronomia è universalmente noto il ruolo svolto da Niccolò Copernico (Mikołaj Kopernik), che aveva studiato a Bologna, Ferrara e Padova. Ancora nel Seicento il padre riconosciuto della geologia e della stratigrafia, il danese Niccolò Stenone (Niels Stensen), svolse quasi tutta la sua attività di ricerca in Toscana.
Nel Seicento ai successi italiani nelle scienze fisico-matematiche (soprattutto, ma non solo, ad opera della scuola galileiana) si accompagnò, nelle scienze della vita, il ruolo decisivo svolto da scienziati come Francesco Redi e Marcello Malpighi.
Nel Settecento, e già alla fine del Seicento, l’Italia era tuttavia divenuta un paese scientificamente sottosviluppato (con qualche eccezione nelle scienze della vita). Quali furono le cause di un crollo verticale così rapido?
La vulgata, ripetuta infinite volte, dà una risposta netta e chiara: la colpa fu della chiesa cattolica, che bloccò le ricerche scientifiche con i processi e le condanne di Bruno (1600) e di Galileo (1633).
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Il capitale globalizzato e la ripresa dello stato
di Domenico Moro
Tra gli aspetti della riflessione di Marx ed Engels che trovano conferma oggi, a distanza di 150 anni dalla pubblicazione del Capitale, ci sono la tendenza del capitalismo alla crisi, sempre più grave, e le conseguenze contraddittorie che porta. Queste sono rappresentate dalla internazionalizzazione delle imprese, dall’aumento della concorrenza tra capitali e dall’accrescimento delle dimensioni delle imprese, soprattutto mediante la centralizzazione proprietaria[1]. Ma c’è un altro aspetto della riflessione dei fondatori del materialismo storico che è confermato: la natura di classe dello Stato, che oggi trova una espressione significativa anche nei processi di centralizzazione sovrannazionali.
Dopo oltre tre decenni di liberismo di mercato e privatizzazioni stiamo assistendo al ritorno dello Stato-nazione nell’economia. In realtà, non si tratta di un ritorno alla mano pubblica, ma dello schierarsi dello Stato-nazione a sostegno del proprio capitale. Quella che viene messa in discussione non è la libertà di movimento del proprio capitale, ma la libertà di quello altrui. Questo fenomeno si manifesta soprattutto nei Paesi di più antico capitalismo, l’Europa occidentale, gli Usa e il Giappone, già alfieri della deregolamentazione e del libero mercato, ma ora costretti a cambiare rotta sotto un attacco che proviene da due fronti. Da una parte, c’è la crisi, che non vuole passare e che si è manifestata più acutamente nelle aree capitalisticamente più sviluppate, coerentemente con la teoria marxista della tendenza alla sovraccumulazione di capitale[2]. Dall’altra parte, ci sono i Paesi cosiddetti emergenti la cui quota sulle esportazioni mondiali è cresciuta enormemente: i Brics sono passati dal 7,4% del 2000 al 18,2% del 2017[3]. La minaccia è avvertita soprattutto nei confronti della Cina, in particolare nella tecnologia 5G e nell’intelligenza artificiale (IA), che hanno una enorme rilevanza industriale-commerciale e strategico-militare.
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Il comunismo come “potenzialità ontologica”
Breve saggio sul marxismo critico di Costanzo Preve
di Gabriele Rèpaci
«Il recupero della filosofia significa recupero dello spirito filosofico. Il sistema capitalistico è talmente violento, anche se si presenta apparentemente come tollerante e liberale, che la gente cerca istintivamente il contrario. Lo spirito filosofico risponde a questa esigenza quasi sempre inespressa di conversazione e di comunicazione, che poi è anche il solo possibile antidoto alla perversa dialettica fra rassegnazione apparente e scoppio improvviso di rabbia repressa, che tutti gli osservatori possono riscontrare nei posti di lavoro, nelle discoteche e negli stadi»
(Costanzo Preve)
Costanzo Preve è un autore divenuto noto ai più, soprattutto dopo la sua prematura scomparsa avvenuta all’età di settant’anni, per essere stato il maestro e l’ispiratore del filosofo Diego Fusaro nonché uno dei presunti ideologi di quella galassia politica nota oggi con il nome di “rossobrunismo”. Ma come osservava saggiamente Hegel a suo tempo «ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale». Questo breve saggio senza alcuna pretesa di sistematicità vuole fare luce sul contributo di Preve alla teoria marxista novecentesca evidenziandone l’elemento di discontinuità in vista di una rifondazione filosofica e politica della prospettiva comunista¹.
La riflessione di Costanzo Preve va distinta in almeno due periodi. Negli anni ’80, in una congiuntura teorica caratterizzata dalla liquidazione differenzialista e positivista della dialettica, i cui esiti sono l’enfasi sulla pluralità disseminata dei saperi e la lettura della modernità in chiave di secolarizzazione, Preve fa riferimento ai punti alti del marxismo novecentesco per mostrare l’esistenza di alternative alle grandi narrazioni dello storicismo e dell’operaismo e per prendere le distanze da un lessico filosofico che civetta con la weberiana gabbia d’acciaio, con l’heideggeriano destino della tecnica, con il prospettivismo nietzscheano, con la complessità sistemica, per alludere all’intrascendibilità dell’universo capitalistico.
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Il Marx di Bontempelli
di Salvatore Bravo
Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011) interprete di Marx, a Marx ci si approssima, affermava Costanzo Preve, per cui ogni illusione di rispecchiamento perfetto, non è che esemplificazione di un autore. Massimo Bontempelli si approccia non solo con rigore metodologico, ma specialmente da hegeliano di formazione si accosta a Marx con metodo olistico attraverso la lettura dei testi ne coglie il fondamento, l’umanesimo marxiano ed il problema della reificazione, e specialmente dimostra che non vi può essere nulla di più ingenuo che porre in antitesi Marx ed Hegel, anzi Marx sviluppa e porta a compimento intuizioni, concetti e metodi presenti nel pensiero hegeliano. L’attività filosofica è ripensare, per ricreare in nuovi orditi teoretici concetti già dati. Il breve saggio di Bontempelli si conclude con l’orazione funebre di Engels all’amico, non è un caso che Bontempelli abbia voluto così chiudere l’introduzione a Marx, Engels parla omaggia l’amico che ha smesso di pensare, ovvero per Marx vivere è pensare, non è concepibile la lotta senza prassi che si coniuga con la teoretica. Il pensare marxiano è polisemico, speculare alla creatività stilistica del suo filosofare. Pensare per Marx non è il freddo calcolare logico, ma è il pensare partecipante, è attività, prassi, trasformazione dei comportamenti sociali, poiché ogni soggetto umano è comunitario per sua essenza. Il pensiero è sempre intenzionalità attraverso la quale sono messi in atto i processi di riconoscimento, autoriconoscimento e critica sociale. Così Engels nella sua orazione funebre (1883)1 :
"Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra. L'avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l'abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre”.
L’economia politica
L’economia politica marxiana nella sua impostazione è hegeliana, vi sono due metodi di indagine: uno parte dal dato concreto ed astrae le strutture: gli economisti inglesi iniziano la loro indagine dalla proprietà avulsa dai processi storici, per cui la proprietà e le differenze sociali sono rese ipostasi, dogmi indiscutibili, si costruisce in tal modo l’ideologia economica che rispecchia la condizione storica eternizzandola.
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Ventidue tesi sul “momento populista”
di Carlo Formenti
Nel suo ultimo libro, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Carlo Formenti analizza le caratteristiche dell'odierno “momento populista”, difendendo l'ipotesi di un nuovo sovranismo di sinistra
1. Il populismo non è un’ideologia: in primo luogo perché non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci. Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna). Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo[1]. Mi riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (di qui il frequente riferimento alla categoria gramsciana di egemonia da parte di intellettuali e leader populisti di sinistra).
2. Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.).
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Gilets jaunes, lotta di classe, neo-populismo, sovranismo
di Nicola Casale
L’avvento e la resistenza del movimento dei gilets jaunes mette a dura prova la politica di riforme che Macron è incaricato di promuovere per trarre fuori la Francia dal rischio di declino della sua potenza capitalistica e per contribuire a tirarne fuori l’intera UE. Questo genera preoccupazioni nelle élite europeiste, mentre produce soddisfazione negli Usa, dove, con perfetta continuità Obama-Trump, l’Europa la si vuole unita a condizione che sia sottomessa, e si è, in caso contrario, pronti a far di tutto per farla esplodere, essendo più semplice sottomettersene i singoli paesi (se necessario anche frammentandone qualcuno: Belgio, Spagna, Italia...). Su assi analoghe si dividono le borghesie nazionali, le quali, non di meno, devono misurarsi col rischio di effetto-contagio del movimento oltre i confini francesi.
Negli ultimi decenni la Francia ha già avuto forti movimenti di resistenza, ma quello in corso non ne è la semplice ripetizione. Ci sono molte differenze e sono quelle che generano più preoccupazione tra le elites.
I movimenti precedenti erano stati promossi e gestiti nell’ambito della sinistra. Il movimento dei gilets jaunes non la riconosce come guida e neanche come tutor (e perciò viene sbrigativamente etichettato di destra). Perché? Le sue rivendicazioni potrebbero figurare in programmi di sinistra, come Melenchon e Cgt si sono offerti di fare. Non hanno, infatti, alcun carattere esplicito o implicito anti-sistema, anti-capitalistico, si limitano a chiedere delle riforme nel senso classico del termine, tese a migliorare le condizioni di chi vive del proprio lavoro, di chi non ha un lavoro, o vive con misere pensioni o sussistenze, e che ci sia più eguaglianza nell’imposizione fiscale eliminando le riduzioni di Macron alle imposte su patrimoni e aziende. Nulla di diverso dalle rivendicazioni del movimento operaio novecentesco, se non che sono persino più moderate di quelle del decennio a cavallo anni 60-70.
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La storia della terza rivoluzione industriale
1. Visioni dell’automazione
di Robert Kurz
Iniziamo qui la pubblicazione della sezione VIII di uno dei libri più famosi di Robert Kurz, lo Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”). Questa sezione tratta della storia della cosiddetta terza rivoluzione industriale, l’epoca in cui il capitalismo si fa informatico e cibernetico. In questo momento storico, che è quello che stiamo vivendo, la forza lavoro umana perde il suo ruolo centrale diventando di fatto comprimaria di una svolta epocale in cui il capitale raggiunge i suoi limiti e pone il mondo e tutti noi di fronte ad una decisione molto difficile ma non rimandabile: prendere sul serio la possibilità (forse dovremmo dire la necessità) del suo superamento. L’alternativa è che ad essere superati si sia noi come esseri umani, e con noi il mondo.
Partiamo con il primo capitolo, “Visioni dell’automazione”. A breve seguiranno gli altri otto. Tutto questo dovrebbe preludere alla pubblicazione cartacea dell’intero libro, che auspichiamo avvenga nel minor tempo possibile [redazione].
* * * *
Ormai giunto all’ultimo terzo del XX secolo il capitalismo aveva già dimostrato a sufficienza di quale maestria fosse in grado nell’arte di addestrare gli uomini, fino a che punto esso fosse riuscito nell’impresa di trasformare la maschera delle sue forme feticistiche nel volto del mondo materiale e persino di gran parte del mondo naturale, nonché a spingere verso la negazione di sé grandi masse umane. Ma neppure questa straordinaria prestazione poté mai ammutolire del tutto il disagio elementare, che è fondamentalmente insito nell’autocontraddizione logica di questo modo di produzione e di vita. La fede nel progresso si era già esaurita nel XIX secolo (anche se da allora il suo fantasma viene regolarmente invocato dagli ottimisti di professione e dagli imbonitori del capitalismo per sdrammatizzare la crisi) e il soggetto borghese-illuministico aveva tolto il disturbo, al più tardi con la Prima guerra mondiale, per lasciare il posto ai rituali sado-masochistici del sacrificio di sé in un processo sociale considerato impossibile da governare e tuttavia gli uomini del dopoguerra fordista, degradati a mera materia prima, potevano ancora anestetizzarsi mediante la scialba ebbrezza del consumo.
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