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Michéa e una sinistra sedotta dal capitale
Marco Gatto
Jean-Claude Michéa ha il merito di riportare le questioni che affronta alla radice, senza mai dissimulare il rischio di ridurre all’osso i problemi, e anzi insistendo sull’aperta complessità delle sue argomentazioni. Ne viene fuori una forma di saggismo militante che il nostro paese ha da molto tempo accantonato per rifugiarsi in una pamphlettistica di mercato spesso vacua quanto politicamente innocua. Si può forse riassumere in una duplice argomentazione il nocciolo di I misteri della sinistra (Neri Pozza, pp. 128):
1) la crisi del progetto socialista di emancipazione si spiega attraverso l’accettazione – non solo ideologica, ma etica e comportamentale – del modello di pensiero unico imposto dalla società capitalista, in grado di attribuire alla sinistra una funzione solo fintamente contrastiva, e anzi pacificamente coesistente con le ragioni del libero mercato;
2) tale accettazione si fonda sullo sbilanciamento della sinistra verso un orizzonte di senso in cui l’elemento fondamentale non è più la collettività, ma l’individuo, colto nel suo diritto solipsistico alla libertà (e, dunque, al consumo) – individuo che la sinistra ha trasformato nell’unica ragione di mantenimento di un supposto progetto emancipativo, a scapito, come scrive Michéa, “della difesa prioritaria di coloro che vivono e lavorano in condizioni sempre più precarie e sempre più disumanizzanti”.
Non si tratta della solita lamentazione nostalgica. Il docente e filosofo francese articola le due tesi che abbiamo appena menzionato ricostruendone la ragione d’essere attraverso un’analisi ideologica delle recenti politiche socialiste in Europa.
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Stragi di Bruxelles: registi, aiuto registi, attori e comparse
Stefano Zecchinelli
La capitale belga, Bruxelles, è nuovamente sotto attacco terroristico. Alle otto del mattino, un kamikaze si è fatto esplodere all’aeroporto internazionale Zaventem, mentre, un’ora dopo, sono scoppiati degli ordigni in metropolitana tra le fermate di Maelbeek e Schuman, nei pressi delle istituzioni comunitarie. I media locali, dopo le ore 13, hanno riferito che il bilancio è di 34 morti.1
L’attentato è stato rivendicato da Daesh, mentre – sempre a Bruxelles – pochi giorni fa è stato arrestato Salah Abdeslam, ultimo degli attentatori parigini, il quale, fra lo stupore dei servizi d’intelligence, s’era trasferito a 300 metri dalla sua precedente abitazione: “Salah è rimasto tra noi per mesi, attraversando indisturbato le frontiere”, commenta Alberto Negri con un interessante articolo scritto, a caldo, subito dopo la diffusione della notizia2.
Il giornalista de Il Sole 24 Ore, più acuto di molti altri suoi colleghi, tocca un aspetto importante della questione: “L’Europa deve rendersi conto che il terrorismo vive tra noi, che vittime e carnefici stanno gli uni accanto agli altri, che non si tratta di episodi isolati, che hanno radici profonde tra le guerre mediorientali e nei conflitti che percorrono lo stesso continente”. Nello stesso modo – aggiungo – l’Europa è fra i responsabili della catastrofe in corso.
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Basta con questa Europa: il terrorismo è figlio delle sue guerre
di Giorgio Cremaschi
È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata.
Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni.
Ricordate l'immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c'era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli.
Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale?
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Il terrorismo è la loro lotta di classe
Fulvio Grimaldi
TARATATATA TRAK-TRAK PIC-PAC-PUM-TUMBPLUFF PLAFF FLIC FLC ZINH ZING SCIAAACKCROOOC-CRAAAC PAACK CING BUUM CING CIAKKK CIACIACIACIACIAAK VAMPEVAMPE VAMPEVAMPE VAMPE VAMPE...
Neanche le più scatenate onomatopee dei futuristi potrebbero riprodurre il kolossal terroristico di queste ultime ore in giro per il mondo. Scusate, questo Palazzeschi onomatopeico vi risulterà un po’ tirato per i capelli, forse anche incongruo se riferito ai macelli che il mercenariato jihadista dell’imperialismo va moltiplicando, ormai senza posa, pur di arrivare al suoi risultato –riconquiste coloniali, stati di polizia - prima che un po’ di masse se ne avvedano ed escano dalla sincope indotta dalla tecnologia smart phone e altre. Ma se ogni tanto non ci mettiamo un po’ di cultura, un po’ di memoria di quando ancora pensavamo, immaginavamo, non ci eravamo smarriti e dispersi, annegati nelle seghe mentali della “comunicazione social”, o storditi dalle pere di eroina televisiva, vuol dire che quelli hanno già vinto e il discorso è chiuso.
L’escalation è frenetica e sempre più scellerata: Costa d’Avorio, Mali, Burkina Faso, Ankara, Bruxelles, di nuovo Parigi… 14 morti, 30 morti, 90 morti, 37 morti….Quelle africane e turche sono tragedie, quelle europee, per come gli operatori della sicurezza si scoprono a recitare, svarieggiano tra la tragedia (quando qualcuno ci rimette la pelle) e la farsa (quando diventa manifesto il trucco). L’organizzazione criminale è unica e conduce, per mandato dall’alto, la lotta di classe. Ormai senza più opposizione, se non in qualche pezzo di Sud del mondo.
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Migranti e keynesismo militare
di Guglielmo Carchedi
I. Nella discussione attuale sugli immigrati si fa una distinzione tra migranti economici e rifugiati politici. Solo i rifugiati politici dovrebbero essere accolti per ragioni umanitarie. I migranti economici dovrebbero essere messi in prigione (come proposto dal partito razzista olandese) o accolti a fucilate (come proposto dal partito razzista tedesco). La distinzione tra rifugiati politici ed economici è falsa, ipocrita e cinica. Se le guerre creano povertà, i rifugiati politici sono anche migranti economici. E se i migranti economici scappano dalla disoccupazione e dalla povertà creata dalle guerre, i migranti economici sono anche rifugiati politici. Tutti devono essere accolti per ragioni umanitarie.
Gli xenofobi e razzisti nostrani se ne fregano delle ragioni umanitarie. Per loro i migranti economici dovrebbero essere respinti perché essi ruberebbero il lavoro agli Italiani. Falso. L'Italia è un paese a forte decrescita. La presenza degli immigrati è tale che se improvvisamente domani partissero, il paese andrebbe a rotoli. Senza gli immigrati, interi settori fallirebbero e molti italiani perderebbero il loro lavoro.
Ma, proseguono i beceri difensori del patrio suolo, se non ci fossero stati gli immigrati, quei lavori sarebbero andati ai lavoratori Italiani. Questo è il tipico esempio in cui si dà la colpa alla vittima. La questione è: chi ruba il lavoro agli Italiani? Non certo gli immigrati. Sono certi imprenditori che, approfittandosi della debolezza contrattuale degli immigrati, possono assumerli illegalmente o comunque a salari inferiori a quelli che dovrebbero pagare ai lavoratori Italiani.
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L’Agenda libica svelata
Un esame serrato delle e-mail di Hillary
Ellen Brown
Gli analisti politici si sono a lungo interrogati sul motivo per cui in Libia è stato necessario un intervento di forza violento. I messaggi di posta elettronica di Hillary Clinton di recente pubblicazione confermano che l’obiettivo di proteggere le persone da un dittatore era del tutto secondario rispetto a questioni di soldi, di operazioni bancarie, e al problema di prevenire l’instaurarsi della sovranità economica e monetaria dell’Africa
La breve visita dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton in Libia nell’ottobre del 2011 veniva commentata dai media come un “traguardo vittorioso”. “Siamo arrivati, abbiamo visto, è morto!”, così la Clinton si gloriava in una video-intervista alla CBS, commentando la cattura e l’uccisione brutale del leader libico Muammar el-Gheddafi. [N.d.tr.: Evidentemente la Clinton scimmiottava Giulio Cesare! “Veni, vidi, vici” (lett. Venni, vidi, vinsi) è la frase con la quale, secondo la tradizione, Gaio Giulio Cesare annunciava la straordinaria vittoria riportata il 2 agosto del 47 a.C. contro l’esercito di Farnace a Zela nel Ponto.]
Ma il traguardo vittorioso, come hanno scritto Scott Shane e Jo Becker sul New York Times, era lungi dall’essere conseguito. La Libia veniva relegata in secondo piano dal Dipartimento di Stato , come “un paese dissolto nel caos, piombato in una guerra civile che avrebbe destabilizzato la regione, che avrebbe alimentato la crisi dei rifugiati in Europa e consentito allo Stato Islamico di stabilire in Libia un’enclave, che gli Stati Uniti ora stanno disperatamente cercando di contenere."
L’intervento degli Stati Uniti e della NATO veniva intrapreso presumibilmente per motivi umanitari, dopo voci di atrocità di massa; ma le organizzazioni per i diritti umani mettevano in discussione queste affermazioni per mancanza di prove. Comunque, è oggi che si stanno riscontrando atrocità verificabili. Come Dan Kovalik ha scritto sul Huffington Post,
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La genetica umana e l’eterno ritorno delle “razze”
di Elena Canadelli
Nonostante sia biologicamente errato parlare di “razze” umane, nell’era post-genomica l’impiego del termine “razza” come categoria biologica applicata alla specie umana è cresciuto. Un recente articolo uscito su Science a firma di quattro studiosi statunitensi chiede a gran voce di estromettere questo concetto dalla genetica umana, invitando la comunità scientifica a riflettere con più rigore su questi temi. Al di là di importanti conseguenze socio-economiche, la questione aperta della “razza” rischia infatti di compromettere la nostra comprensione della diversità genetica umana
Nel dibattito scientifico alcune idee fanno fatica a scomparire, nonostante le evidenze raccolte contro di esse. Si è convinti di averle smantellate una volta per tutte e loro invece rientrano dalla porta di servizio, o forse non se ne erano mai andate. È questo il caso delle “razze” nello studio della diversità genetica umana. Pagine e pagine sono state scritte sull’origine, l’evoluzione, la pericolosità e l’inutilità di questo concetto. Per limitarsi al Novecento, basti ricordare i lavori del genetista ed evoluzionista Theodosius Dobzhansky, sul fronte biologico, e quelli dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, sul fronte dell’antropologia culturale. Già nel 1942 l’antropologo Ashley Montagu l’aveva definita uno dei miti più pericolosi elaborati dall’essere umano. Nel 1950, pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la Dichiarazione sulla razza stilata a Parigi dall’Unesco puntava a fare ordine sulla questione, con la consapevolezza che i confini tra biologia, cultura e politica erano ormai indissolubilmente e tragicamente intrecciati tra loro.
Tutto a posto allora? Stando a un articolo uscito poche settimane fa su Science sembrerebbe proprio di no[1].
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Cinque tesi sull'euro
di Jacques Sapir
Come di consueto, Sapir ha parole sagge sul suo blog in tema di eurocrisi. L’economista francese articola in cinque tesi i modi in cui la moneta unica sta condannando alla miseria un intero continente. Occorre al più presto riconoscere la verità: l’euro è la causa, non la soluzione dei nostri problemi. E l’unico modo di salvare l’Europa è superare questo strumento inadeguato, tornando alle flessibilità valutarie
I problemi posti dall’euro diventano sempre più evidenti con le mobilitazioni e le dimostrazioni di piazza in Francia contro la cosiddetta legge “Labour”. E’ ormai evidente che la basi economiche di questa legge sono imposte dalla nostra partecipazione all’eurozona. Dal momento in cui gli Stati vengono privati della possibilità di regolare la loro situazione economica tramite la svalutazione (o la rivalutazione) del cambio valutario, e in assenza di qualsivoglia sistema di trasferimenti fiscali previsti a priori, gli aggiustamenti possono avvenire solo a spese del fattore lavoro. Questa è l’amara verità, che si evidenzia sempre di più sotto forma della legge “labour”, la cosiddetta legge El Khomri, ossia il nome del Ministro a cui è stato imposto di presentarla, senza avere la possibilità di prendere parte alla sua ideazione. I problemi creati dall’euro possono essere esposti in 5 punti.
1. L’euro non è una moneta; non corrisponde a un singolo soggetto politico né a una volontà politica basata sulla legittimazione popolare.
L’euro è un sistema che paralizza il commercio tra paesi. E’ un regime di cambi fissi di fatto affine al gold standard. Non ammette alcuna flessibilità.
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La deriva culturalista della questione migrante
Zizek e il fardello dell’uomo bianco
di Militant
A gennaio è uscito un interessante articolo del filosofo sloveno Slavoj Zizek sui fatti di Colonia nella notte di Capodanno. Interessante non perché condivisibile, ma perché illustra bene tutti i cliché mentali di una certa sinistra, radicale ma anti-marxista. Ci sembra importante tornare sull’argomento perché il testo di Zizek ha carattere generale, parte dai fatti di Colonia per allargare lo spettro e affrontare di petto la questione migrante. E’ il risultato di un ragionamento di lungo(?)periodo, e siccome Zizek è uno dei punti di riferimento intellettuale della sinistra di cui sopra, ha senso rifletterci sopra.
Per Zizek i fatti di Colonia costituirebbero la rappresentazione oscena-carnevalesca dell’invidia migrante nei confronti del tenore di vita occidentale. Un tenore di vita al quale loro aspirerebbero e che, frustrati dall’impossibile raggiungimento, scatena pulsioni individuali e sociali di invidia e di odio. “L’islamo-fascismo” non sarebbe altro che la materializzazione sociale di questa invidia, di società che vorrebbero adeguarsi agli standard di vita dei paesi occidentali (o almeno competere su di un piano di parità) e non ci riescono, generando forme di reazione autoritaria, pre-moderna, religiosa, in altre parole forme aggiornate di fascismo, che altro non sarebbero che la concretizzazione politica di questo odio. Per leggere interamente il ragionamento di Zizek rimandiamo comunque alla sua versione originale e, in calce a questo articolo, alla nostra traduzione. Ne consigliamo vivamente la lettura, per comprendere la natura dei problemi e delle contraddizioni da lui sollevati.
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Il capitale umano nella fabbrica della vita
Damiano Palano
Chi riveda oggi Traitement de choc – un vecchio polar francese del 1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo L’uomo che uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur nella forma esasperata della cinematografia di genere, almeno alcuni dei problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della vita. Nel film la protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle cure della dottor Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite della clinica, la donna inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura, che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una sostanza di origine ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani che parlano solo portoghese, inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che il misterioso componente in grado di ringiovanire viene estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo prelievo, si indeboliscono fino a morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni buon film d’azione – ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il film si conclude così con le immagini di un furgone che conduce verso la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di carne viva l’inquietante fabbrica della giovinezza.
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Le presidenziali Usa le decide Google?
Big G può condizionare gli elettori. Lo dice una ricerca Usa
di Sergio Braga
Qual’è l’influenza del web sulle nostre scelte quotidiane, in particolare quelle politiche? Ormai siamo abituati alle esternazioni degli uomini politici sui social, le sappiamo filtrare, come filtriamo, le tante bufale che incontriamo navigando. Sono possibili, invece, condizionamenti più sottili, quasi subliminali? Secondo una ricerca effettuata realizzata online da ricercatori comportamentali Usa, negli Stati Uniti ed in India, la risposta è sì.
L’esperimento, descritto da un articolo intitolato The new mind control (Il nuovo controllo della mente – sottotitolo: Internet ha diffuso sottili forme d’influenza che possono condizionare le elezioni e manipolare qualsiasi cosa diciamo, pensiamo e facciamo) pubblicato sull’eZine Aeon da uno degli autori, Robert Epstein, psicologo e ricercatore dell’Istituto Americano di Ricerche comportamentali e Tecnologie di Vista, in California. Il paper relativo alla ricerca è stato invece pubblicato nell’agosto del 2015 sulla prestigiosa rivista scientifica statunitense Pnas, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti d’America).
Una ricerca che s’ispira alla letteratura ed ad un classico delle scienze della comunicazione
Epstein, nell’articolo, puntualizza che l’esperimento realizzato con i suoi colleghi s’ispira a spunti letterari come i romanzi di Jack London “Il Tallone di Ferro”, “Noi” di Yevgeny Ivanovich Zamyatin, “1984″ di George Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley.
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11 Marzo 2016: Noi non dimentichiamo
A dieci anni dalla morte di Milosevic
di Enrico Vigna
Premessa storica
Nell'affrontare gli eventi verificatisi a Belgrado alla fine del Giugno 2001, culminati con il rapimento e poi la morte nel 2006 di Slobodan Milosevic, occorre partire da un dato, mai citato qui in Occidente. Alla scadenza dei tre mesi di carcerazione nella prigione di Belgrado, il collegio difensivo dell'ex Presidente della Jugoslavia, accusato, tra l'altro, di abuso di ufficio, corruzione, omicidio, stragi e concussione, presentò la domanda di scarcerazione entro il 30 giugno 2001 per assoluta mancanza di prove. Le accuse, infatti, erano tutte basate su supposizioni personali rilasciate da 12 testimoni d'accusa considerati decisivi. Nessuno di essi però andò oltre genericità, supposizioni e ipotesi di colpevolezza.
Ed ecco che, casualmente, il 28 Giugno 2001, dopo pressioni, ricatti e ultimatum da parte degli Usa e della Nato al governo fantoccio DOS, scatta l'operazione che portò al rapimento di Milosevic sotto la regia CIA avendo dichiarato che lo Stato Maggiore dell'Esercito Jugoslavo non aveva fornito né un uomo, né un mezzo per l'estradizione dell'ex Presidente.
Ci sono tuttavia delle verità nascoste, poi svelate dagli stessi stipendiati dell'Occidente, che dimostrano il grado di completa sottomissione e dipendenza dei “nuovi” governanti “liberi e democratici” incaricati di far crollare e asservire agli interessi occidentali la piccola Jugoslavia.
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Trump, Clinton & C. Come inquadrarli?
di Piotr
Chiedere a noi se 'teniamo' per Trump o per la Clinton somiglia molto a chiedere a un abitante della Gallia se teneva per Pompeo o per Cesare
L'ultimo «Supermartedì» ha ormai diradato una parte delle incertezze sulla piega che assumeranno le candidature alle presidenziali statunitensi. Alcune delle definizioni coniate fin qui delle personalità emergenti di USA 2016 meritano una riflessione, per inquadrarle meglio.
1) Utilizzare la categoria di "fascismo" in questa circostanza ha un sapore morale, non politico. Anzi spesso si usa questo termine per una sorta di populismo di sinistra, facendo leva sulla sua capacità evocativa ma non esplicativa. Per lo meno, è evocativa per la mia generazione, per questioni anagrafiche e per la sua comprovata superficialità politica ma, a quanto sembra, non è molto evocativa per le nuove generazioni e per quei ceti sociali che assieme alla crescita del politically correct hanno visto anche quella drammatica delle proprie difficoltà.
2) Innanzitutto, se proprio si vuole utilizzare questa categoria, allora occorre confrontare tutte le caratteristiche del fascismo. Solitamente se ne dimenticano almeno due: a) l'utilizzo di bande paramilitari, b) il progetto antiparlamentare. A Donald Trump mancano entrambe. E' un fascista a metà, allora? Quand'è che un fenomeno smette di essere fascista per diventare un'altra cosa, magari disdicevole e censurabile, ma comunque differente?
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Piketty, gli manca solo il loden
di Luca Fantuzzi
Finalmente ho terminato la lettura de "Il Capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty.
Chi non l'ha fatto, comunque, può tranquillamente restare nell'ignoranza.
Il saggio ha mille difetti, il minore dei quali è quello di essere lungo poco meno della Bibbia, peraltro con risultati - si spera - assai meno profondi e duraturi: è tutto incentrato sul capitale, ma non prende mai in considerazione i capitalisti (per cui, sembrerebbe, si dovrebbero tassare allo stesso modo il professionista che si è fatto la villa alle porte di Roma e la casa al Circeo, l'imprenditore che possiede la maggioranza di una media azienda che fattura qualche milione di Euro all'anno, il manager che - giusto alla pensione - investe la liquidazione in strumenti finanziari); sospetta fortemente il debito pubblico - in base, par di capire, ad una concezione un po' aziendalistica dello Stato sociale -, ma non si interessa in alcun modo al debito privato (che è visto, in sostanza, come un "minor capitale"), né valuta in profondità gli effetti delle bilance dei pagamenti (d'altronde, per Piketty l'ottimo sarebbe un unico governo mondiale, anzi galattico); postula tassi di rendimento pressoché stabili nel tempo per il capitale (che, nel retro-pensiero dell'autore, è eminentemente finanziario: azioni, obbligazioni e titoli di Stato), senza però mai porsi il problema della formazione di quei tassi (sono per esempio totalmente assenti le dinamiche salariali, o le scelte normative in materia bancaria); annette importanza, nella riduzione della concentrazione patrimoniale nel secondo dopoguerra, alle sole imposte progressive, senza in alcun mondo considerare la le dinamiche salariali (rispetto alle quali, io guarderei questo); soprattutto, annacqua in affreschi anche di lunghissimo periodo fibrillazioni epocali derivanti da fondamentali eventi sociali, politici, legislativi (con esclusione, bontà sua, delle Guerre Mondiali).
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Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre
Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei
Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano.
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano.
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I misteri dell'attentato di Parigi del 13 novembre 2015. E non solo
di Giulietto Chiesa
L'intera narrazione ufficiale delle Stragi di Parigi del 2015 è stata inquinata da disinformazione, manipolazione, distrazione di massa. Ecco i fatti
A inizio 2015 scrissi un saggio e pubblicai un video su Pandora TV, intitolato "I Misteri di Parigi". Si riferiva alla tragedia del Charlie Hebdo del gennaio di quell'anno.
Avendo studiato a fondo gli eventi dell'11 settembre 2001, avevo la certezza che alle mie domande sul caso Charlie Hebdo non ci sarebbe stata risposta. I misteri dell'epoca dell'inganno universale non sono rivelabili. La società intera dell'Occidente esploderebbe se la verità venisse scoperta. Si può solo, testardamente, accumulare gl'indizi che dimostrano che essa non corrisponde a ciò che ci lasciano vedere e che ci costringono a credere. Le conseguenze le lascio a coloro che tramano contro di noi.
Ma allora non potevo nemmeno immaginare che avrei raggiunto la certezza della validità dei miei dubbi solo qualche mese dopo averli espressi.
Ora possiamo affermare che l'intera narrazione ufficiale degli eventi del Charlie Hebdo - insieme alle sterminate narrazioni "derivate" che la stampa e tutti gli organi del mainstream hanno prodotto - sono opera di disinformazione, di manipolazione, di distrazione di massa. Il ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve, dopo adeguata meditazione, ha infatti deciso che l'indagine in corso per accertare tutte le responsabilità di quella strage doveva essere fermata, chiusa a chiave, archiviata. La motivazione? "Segreto militare" [1].
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Il significato della supremazia bianca oggi
Racconto della conferenza di Angela Davis
di Militant
«Non sono più iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista». Questa una delle affermazioni di Angela Davis durante la lezione magistrale che ha tenuto lunedì scorso all’Università di Roma Tre. Parole decise, prive di ipocrisia e senza toni attenuati, pronunciate in risposta all’intervento polemico del germanista Marino Freschi, che – e la frecciatina anticomunista nelle sue affermazioni era palese – evidenziava i rapporti di Davis con Erich Honecker, segretario della Sed (il partito comunista della Repubblica democratica tedesca) e poi presidente della Ddr, e l’esistenza di una foto che la ritrae con sua moglie Margot. La foto in questione, che vede anche la presenza della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, è del 4 agosto 1973, pochi giorni dopo la morte di Walter Ulbricht, fino ad allora presidente della Ddr con pochi poteri effettivi: Freschi non ha potuto fare a meno di fare un po’ di polemica, dicendo che Honecker aveva tenuto nascosta questa morte perché allora nella Ddr non si poteva dire la verità. La dichiarazione di Davis di essere ancora comunista e l’affermazione precedente sulla possibilità di un futuro socialista («Non solo perché non ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci sarà più un mondo socialista in futuro», ma andiamo a memoria) assumono, in questo contesto ufficiale, ancora più valore.
Queste parole, infatti, sono state pronunciate da Davis nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre, nel corso di un incontro ufficiale organizzato dall’istituzione universitaria. Le cinquecento poltrone dell’aula non sono bastate a contenere tutto il pubblico, composto in gran parte di compagne e compagne, e molti si sono seduti a terra o sono rimasti in piedi.
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Una Eurozona da Draghi?
di Giorgio Gattei, Antonino Iero
1. È stupefacente vedere come il governatore della Banca Centrale Europea si dia da fare per evitare che l’Eurozona precipiti nel baratro della deflazione (-0,2% il dato di febbraio per l’area euro[1]) e non ci riesca.
Il pericolo è che anche l’Eurozona cada in quello stato comatoso dell’economia che, resistendo ad ogni terapia, affligge da vent’anni il Giappone (cfr. G. Visetti, La strenua lotta del Giappone ad una deflazione ventennale, “Affari e Finanza”, 23.11.2015). Ma, siccome per curare bisogna prima diagnosticare la malattia, è proprio qui che Mario Draghi inciampa, facendo il reticente quando rinvia a generiche «forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo bassa l’inflazione» (“La Repubblica”, 5.2.2016). Ma quali queste “forze” (“oscure”, come si sarebbe detto una volta) se non precise variabili macroeconomiche che per pudore non s’intendono nominare?
Più espliciti sono stati i due governatori di Bundesbank e Banque de France in una lettera congiunta (ma il governatore della Banca d’Italia dov’era?) in cui hanno proposto che gli Stati europei cedano più sovranità, allo scopo di «rafforzare la governance della zona-euro», mediante l’istituzione di un Ministro unico del Tesoro con il compito di coordinare l’«unione dei finanziamenti e degli investimenti» per affrontare «il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, 9.2.2016).
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L'euro e l'irrisolvibile deflazione
Saccenti e metodo dell'aggressione polemica nella profezia di Caffè
Quarantotto
1. Niente. Deflazione, insolvenze diffuse delle famiglie, fallimenti seriali di imprese e deindustrializzazione non contano nulla.
Quello che conta è mantenere la moneta unica.
L'euro, lo diciamo in altre parole rispetto a quelle che abbiamo tante volte detto, è una scelta politica volta a eradicare definitivamente la possibilità di redistribuzione del potere sociale al di fuori dell'oligarchia.
L'euro è infatti il presupposto e il fine ultimo (in un processo circolare inavvertito dalle masse anestetizzate dai media) che conferisce la legittimazione per poter adottare misure come quelle cui fanno riferimento le dichiarazioni sopra riportate.
In assenza del vincolo dell'euro, la necessità di quanto preannunciato da Nannicini non avrebbe nè la priorità assoluta nè l'intensità che gli viene, variamente ma costantemente attribuita, da quando l'Italia ha intrapreso il cammino della convergenza dettata da Maastricht, aderendo poi alla moneta unica.
2. Accettiamo pure quello che non appare affatto così scontato, cioè che l'Italia debba essere una economia fortemente "aperta", in modo massimizzato rispetto all'area UE, e in modo negoziato "in crescendo", in base alla intensificata apertura prevista da altri trattati rispetto al resto del mondo.
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Draghi prepara la prossima crisi nell'eurozona
di Pasquale Cicalese
“La Cina non potrà farsi ingabbiare in schemi
come il Trattato di Maastricht. Che non vanno
affatto bene per l’economia cinese”*
Pochi ci hanno fatto caso, ma nell’annunciare le nuove misure della Bce, Draghi il 10 marzo scorso comunicava che il tasso di inflazione atteso per il 2016 nell’eurozona passava da +1% allo 0,1%. Da anni le previsioni della banca centrale vengono smentiti dai fatti, dunque è probabile che, nonostante il QE dell’anno scorso, l’eurozona è in preda alla deflazione. Lo stesso Draghi in conferenza stampa faceva capire che non è attesa una fiammata inflazionistica giacché non ci sono rivendicazioni salariali consistenti. Tradotto: il proletariato europeo è ben bastonato.
Draghi ha spronato i governi alla deflazione salariale e ora quasi si rammarica, come la Yellen della Federal Reserve, che i salari non aumentano. Gira e rigira, la questione è quella: quanto guadagnano i lavoratori dell’eurozona. Il rapporto capitale-lavoro, per chi pensasse che gli operai non ci siano più ci pensa Draghi a far capire che sono determinanti, a tal punto di ucciderli del tutto. Con evidenti contraccolpi, appunto la deflazione e la crisi da domanda.
Ma Draghi si è spinto oltre, invitando i governi ad una politica espansiva per spese per investimenti ad invarianza della stabilità dei conti. In pratica ha detto: fate la Salerno Reggio Calabria ma nel frattempo tagliate posti di lavoro nel settore pubblico, riducete le spese per sanità e soprattutto tagliate le pensioni. Con quel che risparmiate fate lavori pubblici e fate pagare meno tasse alle imprese con minor costo del lavoro e minor tassazione sui profitti (protezionismo fiscale).
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La bolla di Mario Draghi
Sergio Bruno
Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il QE non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10 marzo scorso (<http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016 <) il Presidente della BCE ha preannunciato una lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche, il rafforzamento del Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di acquisto alle obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations) miranti a premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per investimenti, si immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
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Power to the people: politiche monetarie alternative
di Andrea Fumagalli
Giovedì 10 marzo, Mario Draghi è intervenuto in modo deciso per potenziare le politiche di Quantitative Easing (QE). Non solo ha alzato a 80 miliardi al mese il livello degli acquisti di titoli di stato estendo anche l’acquisto a nuovi titoli privati per creare liquidità, ma ha anche abbassato i tassi di interesse di riferimento allo 0.0%. La stampa italiana ha salutato questa manovra con entusiasmo e ha declamato le lodi e il coraggio del governatore della Bce. Ma si è trattato, crediamo, di un coraggio dettato dalla disperazione
Il bilancio di due anni di QE è infatti deludente e i risultati attesi non si sono realizzati, come argomentiamo nel presente articolo. E per di più una nuvola nera si affaccia all’orizzonte: l’insofferenza crescente del potentato economico rappresentato dalle Sparkasse tedesche (e non solo) che mal sopporta la riduzione dei tassi d’interessi se questi diventano negativi. Per il sistema bancario, infatti, tassi d’interesse reali negativi implicano una drastica riduzione degli introiti dell’intermediazione bancaria, in un momento in cui lo scoppio della recente bolla mette a rischio anche le plusvalenze di natura speculativa. E’ facile prevedere un aumento di tensione all’interno del board della Bce. Le avvisaglie di una crisi finanziaria ci sono tutte e Drsghi insiste nel perseverare della sua politica e soprattutto nel metodo finora adottato. Finanziare il sistema finanziario ben sapendo che difficilmente ci saranno ricadute sull’economia reale. Errare è umano ma perseverare è diabolico.
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La lucida eresia di un “protezionismo moderato”
di Emiliano Brancaccio
Addio a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso della storia monetaria e finanziaria internazionale, critico della globalizzazione indiscriminata. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra moneta e potere, senza astrattismi
L’economista Marcello De Cecco è morto lo scorso 3 marzo, a Roma. Nato nel 1939 a Lanciano, laureatosi in legge a Parma e in economia a Cambridge, ha insegnato in numerosi atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Dotato di simpatia innata, colto e raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del “gold standard”, il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un autorevole esempio di analisi storico-critica delle relazioni monetarie internazionali. Il libro, basato su una accurata disamina delle fonti documentali, rivela il radicato scetticismo dell’autore verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche tra paesi in base a teoremi astratti e decontestualizzati [1].
Alla luce di questa metodologia di ricerca, De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico sostenitrice dei “meccanismi di aggiustamento automatico”, secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era assicurato dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eventuale eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro verso l’estero tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con un conseguente aumento della competitività e un riequilibrio tra import ed export.
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On vaut mieux que ça – Noi meritiamo di più!
Cosa succede in Francia e cosa ha a che vedere con noi
Scritto da Clash City Workers
L'altro giorno in Francia sono scese in piazza quasi mezzo milione di persone. Si, avete capito bene, quasi 500 mila persone in piazza mentre uno sciopero generale e le proteste degli studenti bloccavano trasporti, aziende e scuole. Tutto questo nel silenzio generale dei media italiani.
Un popolo in lotta, il “debutto di un movimento” come lo ha definito Le Monde, il secondo giornale di Francia, che si è scagliato contro la riforma del lavoro di Myriam El Kohmri, il ministro del Lavoro. Un intervento del Governo socialista che se dovesse essere approvato in primavera inciderà profondamente nel diritto del lavoro francese. Per il lettore italiano, tuttavia, tutto ciò risuonerà come un film già visto: le affinità con le riforme degli ultimi anni, dagli accordi di Pomigliano del 2011 fino al Jobs Act, sono sorprendenti. Chi sa che non sia per questo che i giornali di regime non danno notizia delle proteste francesi? D’altronde, se c’è un qualcosa che accomuna i paesi europei in questo momento storico, esso è stato pienamente riassunto da Myriam El-Khomri in un’intervista rilasciata al giornale Echos il 19 febbraio scorso: “L’obiettivo […] è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”.
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Le radici filosofiche dell’arte astratta
di Giacomo Fronzi
I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica, come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro, L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la rivoluzione culturale europea dell’inizio del xx secolo, collocando al centro del discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue manifestazioni
Nell’ambito degli studi sull’arte d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente storico quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è notoriamente vasta. Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha percorso itinerari di ricerca inediti e accattivanti, stupisce per l’originalità e la profondità con cui affronta il tema delle radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei capitoli in cui è organizzato il saggio, viene proposta una lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti ermeneutici realmente inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi dell’arte astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue tendenze principali) una luce nuova e inaspettata.
Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca otto-novecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8).
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