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Finalmente scoperti i portatori del Covid-19: gli immigrati
di Il Pungolo Rosso
Ce l’aspettavamo da un po’, e puntuale è arrivata. La più falsa di tutte le false notizie da cui siamo bombardati h24: “c’è una evidente correlazione tra immigrazione e Covid”. Pensate che la frase sia del cumulo di spazzatura che è anche segretario della Lega? Errore! L’ha pronunciata il suo padre spirituale, il lugubre Marco Minniti, Pd, lo stato di polizia fatto uomo.
Visto che si chiama in causa l’evidenza, dovrebbe esserci una sovrabbondanza di fatti a provarlo. Sennonché la sola cosa di cui si ha evidenza da molte indagini o inchieste è che il Covid-19 è arrivato in Italia, precisamente in Lombardia, nel bergamasco, via Germania, non tramite lavoratori immigrati irregolari, ma per mezzo di manager e padroni-padroncini assatanati di affari e totalmente incuranti della salute pubblica, o anche – forse – di figure tecniche specializzate alle loro dipendenze. La responsabilità della sua diffusione, poi, si deve alle pressioni della associazione dei suddetti signori autoctoni, la Confindustria, contraria a qualsiasi forma di lockdown. Ed è anche del governo Conte-bis che l’ha decretato a metà o ad un terzo quando già era tardi, incalzato dalla protesta operaia nella logistica e tra i metalmeccanici, e terrorizzato che la massa dei ricoveri d’urgenza svelasse quanto è stata criminale la politica pluri-decennale di tagli alla sanità.
Ma “ora, dopo tanti sacrifici – qui è il trasformista Conte-2 che interviene, parlando da Conte-1 – non si può assolutamente accettare che si mettano [cioè: che gli immigrati mettano] a rischio i risultati raggiunti”.
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La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi
di Paolo Beffa e Lorenzo Piccinini
In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.
Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).
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Beirut: chi, cosa, dove, quando, perchè
Basta riavvolgere il filo
di Fulvio Grimaldi
“La fiducia dell’innocente è lo strumento più utile al bugiardo” (Stephen King)
Disinformare evitando il contesto
Clicca qui per vedere l'intervista fattami da Edoardo Gagliardi di Byoblu (aprire con CTRL e clic sul link), a poche ore dalle due esplosioni che il 4 agosto hanno distrutto il porto di Beirut, ucciso circa 150 persone, ferito altre 5000 e devastato gran parte della capitale libanese. Qui si tratta di un primo giro d’orizzonte lungo le domande che, codificate un tempo dalla stampa anglosassone, un qualsiasi cronista dovrebbe porsi. Le risposte dovrebbero inserire il fatto con le sue coordinate nel suo contesto ambientale, politico, geopolitico, temporale, storico. Un’abitudine da lungo tempo persa, o piuttosto abbandonata, dalla stragrande maggioranza della stampa nazionale e occidentale, che, in omaggio agli interessi dei suoi editori e referenti politico-economici, preferisce fornire le risposte da costoro richieste. Avendo attraversato più di mezzo secolo di pratica giornalista per un notevole numero di testate stampa, radio e televisive, sono testimone di questo trapasso.
Libano, la preda negata
E ho potuto anche essere testimone di ciò che è culminato ora a Beirut: una storia dei popoli arabi che, liberatisi dal gioco coloniale europeo, da quel momento subiscono la ritorsione, via via più feroce e letale, degli ex-colonialisti, dei quali hanno preso la guida due nuove presenze innestate in Medioriente, Usa e Israele.
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Quale sinistra?
di Salvatore Bravo
La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità
La sinistra che non c’è lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti utilizzati ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e riforme” contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata dalla riflessione non solo sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine ideologico.
Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo.
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Sei tesi su complottismo e rivoluzione
di Alessandro Lolli
Un contributo di Alessandro Lolli, autore de La guerra dei meme (effequ 2017), il quale del complottismo si è già occupato: sei tesi dallo sguardo obliquo articolate per punti, utili per cominciare ad aprire un dibattito necessario sulla questione
1. Che cos’è il complottismo.
a. Si definisce complottismo l’insieme di credenze aberranti, cioè che divergono in maniera inconciliabile dalle credenze comunemente accettate. Complottismo è anche il nome dato all’unificazione teorica di più credenze aberranti entro un quadro sistemico che aspira a una sua coerenza interna (il complotto giudaico, il complotto del Deep state, il complotto degli Illuminati, eccetera).
b. Fondamentale capire chi ha il potere di definire complottismo questo o quell’insieme di credenze. Complottismo è infatti un esonimo: un nome dato a quelle credenze da chi non le sostiene. I marxisti chiamano se stessi marxisti, i rapper chiamano se stessi rapper, i complottisti non chiamano se stessi complottisti.
c. Complottismo è il nome dell’insieme di credenze aberranti dato da chi reputa quelle credenze non solo aberranti, ma false. Il complottista sa che le sue credenze sono aberranti, cioè che divergono in modo inconciliabile dalle credenze accettabili, ma non le ritiene false.
d. Le singole credenze aberranti sono anche chiamate “bufale” o “fake news” e possono o non possono fare a capo a uno o più teorie del complotto.
2. Su cosa verte il complottismo
a. Un ampio spettro di affermazioni e teorie ricade nel complottismo al punto che questo viene spesso definito un’ideologia o una filosofia. Per questo è giusto sottolineare che l’affermazione inaugurale del complottista verte sui concetti di vero o falso, non di giusto e sbagliato.
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Ripartire da Marx
Alessandro Bartoloni intervista Giulio Palermo
Dal 25 al 29 agosto si terrà a Seriate (BG) la seconda scuola estiva internazionale diretta da Giulio Palermo in cui si parlerà di teoria marxista, istituzioni europee, crisi da coronavirus nel contesto della crisi globale e relative vie di uscita anticapitalistica, con l’obiettivo di porre la scienza al servizio della rivoluzione proletaria
Il nuovo Coronavirus ha reso evidente la crisi economica che covava da tempo. Ciononostante, sui grandi mezzi di informazione, nelle università e nei bar, il virus viene dipinto come la causa dei problemi. Un’operazione di disinformazione molto simile a quella messa in campo nel 2008 quando ad essere portati sul banco degli imputati furono l’avarizia dei banchieri, la deregulation, i mutui subprime. Per rimettere le cose al proprio posto c’è bisogno di analizzare la realtà in maniera scientifica e per farlo è necessario possedere le giuste categorie analitiche. Un’ottima occasione per impossessarsene è rappresentata dalla Scuola estiva internazionale organizzata dall’Università critica, l’Università di Brescia ed il Coordinamento comunista. Ne parliamo con Giulio Palermo, economista e animatore di questa seconda edizione che si intitola “crisi economica e lotte sociali nell’Unione europea”.
* * * *
D. Ciao Giulio. Innanzi tutto grazie per l’intervista. Puoi raccontarci come nasce questa scuola estiva e a chi è rivolta?
R. La scuola estiva nasce all’interno di un progetto scientifico-politico di trasformazione dell’università borghese e della società capitalista intitolato Università critica.
L’università svolge precise funzioni economiche e sociali nella produzione scientifica e nella riproduzione ideologica del capitalismo. La critica scientifica e la produzione di nuove conoscenze utili alla lotta non possono quindi separarsi dalla critica dell’università stessa, sempre più asservita al capitale, in cui non c’è coerentemente spazio per la critica anticapitalistica.
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L’inferno e il paradiso di Giorgio Cremaschi
di Leonardo Mazzei
Emergenza sì, emergenza no. Su MicroMega Giorgio Cremaschi ha detto la sua. Qui diremo invece la nostra.
Cremaschi prova a dare un colpo al cerchio (no alla proroga governativa dello stato d’emergenza) ed uno alla botte, scagliandosi contro i cosiddetti “negazionisti”. Per l’ex sindacalista della Cgil il vero problema sono però questi ultimi, semplicemente da “mandare all’inferno”. Viceversa, con i decisori dello stato d’emergenza si deve certo discutere, ma in maniera amabile e rispettosa, come si conviene a chi è destinato al paradiso.
Le argomentazioni di Cremaschi non mi convincono neanche un po’. Le comprendo e le rispetto, ma fanno acqua da tutte le parti, portando altro fieno in cascina a quel blocco dominante che sicuramente egli crede di combattere.
Per farla breve proverò a sintetizzare in cinque titoli i tragici errori del leader di “Potere al popolo”. Questi titoli sono: negazionismo, libertà e liberismo, emergenza ed emergenzialismo, democrazia e tecnocrazia, lavoro e popolo.
Negazionismo
Questa parola, che il Nostro utilizza a iosa, andrebbe semplicemente abolita. Essa sta infatti a significare l’esistenza di una verità assoluta che non ammette una discussione razionale. Una “verità” che, in maniera assolutamente analoga alle religioni, ha i suoi dogmi, i suoi riti, i sui sacerdoti.
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Il capitalismo trascendentale delle piattaforme
di Antonio Savino
Il capitalismo delle piattaforme1
Dal capitalismo immanente quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
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La vita agra dell’impresa pubblica
di Lorenzo Cresti e Giacomo Gabbuti
Il Rapporto sulle imprese pubbliche del Forum Disuguaglianze ci ricorda che nella pandemia, oltre ad aver bisogno della sanità, abbiamo necessità di poter mettere bocca sul perché, cosa, come e dove produrre ricchezza
L’evoluzione dei rapporti tra lo stato italiano e le imprese di sua proprietà ricorda un po’ quello di una commedia all’italiana: ricca di colpi di scena, spesso amari, ma con un finale per nulla scontato. A ravvivare una convivenza annoiata e rassegnata è arrivata una pandemia globale, che tra le sue varie conseguenze ha portato il governo ad annunciare la nazionalizzazione di Alitalia. Nonostante tutto, a parte le polemiche tra «liberisti da divano» e rappresentanti di uno stato inevitabilmente più attivo, continuavano a dominare la scena i soliti, inquietanti, piani «tecnici» di ispirazione neoliberale.
A movimentare sul serio la situazione ci ha pensato l’estate. La prima metà di luglio, due eventi – ben distinti per natura ed eco mediatica – ci hanno portato a riflettere sul ruolo che può giocare lo stato nell’economia, dopo anni spesi a discuterne solo le inefficienze, il clientelismo, la corruzione.
Il primo luglio 2020 si è tenuta un’iniziativa di confronto virtuale tra ministero dell’economia e delle finanze e dirigenti di imprese pubbliche sul ruolo che potrebbe avere lo stato nel guidare lo sviluppo del Paese. Il motivo è stato la presentazione del rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità sulle imprese pubbliche. Il Forum – un’alleanza di organizzazioni e ricercatori – ha individuato, sin dalla presentazione nel 2019 del Rapporto Atkinson, proprio nelle aziende di proprietà pubblica una leva importante per qualsiasi cambiamento che parta dall’attivazione di nuovi e più virtuosi processi di sviluppo economico. Mentre il dibattito sul «ritorno dello stato» assume toni grotteschi, una simile iniziativa permette di ragionare in modo meno astratto e più utile di quale stato servirebbe per risolvere i nostri problemi.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte IV
di Paolo Selmi
Qui, qui e qui le parti I, II e III
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
E dopo?
Il quadro era tutt’altro che roseo, alla fine del secondo conflitto mondiale: uno sfacelo economico mai visto nella Storia dell’uomo laddove, in aggiunta a quanto già riportato in questo stesso lavoro1, possiamo aggiungere dati più specifici relativi all’agricoltura, nella convinzione che ripeterli non sarà mai abbastanza per denunciare quanto accaduto:
Il danno, arrecato dagli occupanti fascisti all’agricoltura, fu calcolato in alcune decine di miliardi di rubli (prezzi del 1945-46). Nei territori occupati dai fascisti, prima della guerra si produceva fino al 55% dell’intero raccolto sovietico, di cui il 75% di grano, quasi il 90% di barbabietola da zucchero, il 65% di girasoli, il 45% di patate; inoltre, si produceva il 40% dell’allevamento sovietico, di cui il 65% di carne suina, il 40% di derivati del latte, ecc. Duecentomila fra trattori e macchinari agricoli, ovvero il 30% dell’intero parco macchine agricole sovietico del 1940, erano stati completamente distrutti dagli occupanti. Venticinque milioni di capi in meno rispetto al 1940, e il 40% in meno di aziende di trasformazione alimentare, completavano il quadro.2
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La distruzione del sapere
di Ezio Partesana
Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]
Si può odiare con tutto il cuore una verità anche quando non c’è nulla da fare. La sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla fine, non hanno un nemico contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel che è accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.
Il sapere necessario a uscire dal lutto non è disponibile sotto forma di un manuale di istruzioni ma va ottenuto con la forza e le difficoltà appaiono spesso insormontabili, serve tempo. La volontà da sola tiene sveglio l’istinto ma da solo l’istinto può andare in qualunque direzione. Una cattiva notizia segnala chi la riferisce, è vero, ma insieme a lui anche la conoscenza che l’ha prodotta.
Quando si passa sotto silenzio la fragilità dell’esistente, il colpevole è presto individuato, così come la constatazione rende tutti innocenti. In entrambi i casi chi volesse obiettare si troverebbe come Sansone tra le due colonne che lo tengono prigioniero, di fronte a una scelta obbligata tra la capitolazione e la rovina.
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L’età del capitalismo della sorveglianza
di Paolo Pecere*
Tra tecnologia, scienze cognitive e utopia negativa: presente e futuro secondo Shoshana Zuboff
L'espressione “capitalismo della sorveglianza”, coniata da Shoshana Zuboff, condensa efficacemente due concetti: quello di un nuovo capitalismo, alternativo a quello industriale dei secoli scorsi, e quello di un nuovo sistema di potere fondato sul controllo del comportamento individuale. Il sottotitolo del libro di Zuboff insiste su questo epocale significato politico: il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri.
Il capitalismo della sorveglianza, portato in Italia da LUISS University Press, con la traduzione di Paolo Bassotti, è un libro importante e ampio (oltre 600 pagine) che descrive una realtà con cui miliardi di persone hanno a che fare, spesso inconsapevolmente, e introduce conoscenze che dovrebbero far parte dell’istruzione di qualsiasi cittadino. Un’opera in cui è utile, per un primo orientamento, distinguere due aspetti: primo, l’analisi storica, giuridica e economica del nuovo capitalismo sorto all’inizio del millennio e fondato sulle nuove tecnologie digitali; secondo, la descrizione di una nuova forma di potere antidemocratico, basata sul sistematico e occulto condizionamento delle scelte individuali, su cui l’autrice vuole provocare “indignazione”, invocando l’azione politica.
La seconda parte del libro è meno ancorata ai fatti: guardando al futuro delinea un’utopia negativa, una previsione plumbea fondata su alcune assunzioni filosofiche e politiche che si ritrovano anche in altri tentativi recenti di futurologia, come quelli di Yuval Harari. Ma, come cercherò di spiegare più avanti, Zuboff e Harari, pur avendo l’ambizione di “leggere” il futuro nelle tecnologie del presente, trascurano il contributo dell’epistemologia, della filologia, della filosofia, e in genere delle discipline che insegnano a comprendere criticamente i discorsi scientifici e i testi.
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Subprime e Covid 19. Le due grandi crisi dell'economia del debito
di Giordano Sivini
Parte prima
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti
Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati.
La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie.
Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza.
Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti” [2].
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Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia
di Dante Barontini
Dopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.
I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.
Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.
I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.
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Interesse nazionale, storia, cultura, identità: la grande sfida di riunire l’Italia
Andrea Muratore intervista Marco Giaconi
L’insistenza di Mark Rutte, leader dei Paesi frugali e dell’Olanda austeritaria, ha fatto venire a galla definitivamente la pericolosità dei “vincoli esterni” politici, culturali e ideologici che nel discorso pubblico italiano sono, purtroppo, estremamente presenti. Con il professor Marco Giaconi cerchiamo oggi di capire come spezzare questi vincoli e riunire, definitivamente, il Paese.
* * * *
Professor Giaconi, per discutere del peso del “vincolo esterno” sull’Italia vorremmo partire dalla recente trattativa sul Recovery Fund europeo: vedendo le accuse lanciate dal premier olandese Mark Rutte al nostro Paese abbiamo finalmente osservato allo specchio l’origine non italiani di anni di svalutazione del nostro Stato in ambito politico e mediatico. Dal mito secondo cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” al dualismo tra rigoristi virtuosi e italiani “cicale”, il vincolo esterno ha costruito un forte retroterra narrativo e ideologico. Quali sono gli effetti di questa contaminazione culturale?
Ci si difende al potere, e mi riferisco qui a Mark Rutte e agli altri “frugali”, anche e soprattutto accusando gli altri delle nostre colpe e rendendoli immagini rovesciate delle nostre paure. Noi frugali, italiani spendaccioni o fannulloni. Già Goethe, nel suo “Viaggio in Italia” raccontava che i napoletani non sono affatto pigri, ma casomai caotici. Diventare indebitati come gli italiani, avere una burocrazia o una magistratura come noi, tutte cose che mettono paura e vengono utilizzate come strumenti del potere. E’ il meccanismo del “perturbante” di Freud. Das unheimliche, ciò che non è Patria-Casa e quindi spaventa.
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Negri lettore di Marx. Parte II
di Bollettino Culturale
Cosa fare dalla definizione del soggetto rivoluzionario al di là del lavoro e del potere?
Le basi teoriche di cui parliamo hanno cambiato le concezioni dell'organizzazione e dell'azione politica, del soggetto politico rivoluzionario e del progetto strategico. Dagli anni '70, tuttavia, la questione della definizione del soggetto rivoluzionario è rimasta senza risposta per Negri, fino al recupero del concetto spinoziano di moltitudine. La difesa di un potere costituente autonomo e alternativo come progetto distinto da un'idea di transizione fa emergere precisamente il tema del potere che prende il sopravvento e permea la discussione sullo stigma che porta il termine massa, a cui il concetto di moltitudine servirebbe da contrappunto. La novità della moltitudine sarebbe nel reindirizzamento delle dinamiche dello sfruttamento capitalistico che oggi si rivolgono verso lo sfruttamento della cooperazione. Questa stessa cooperazione sarebbe un fattore favorevole alla creazione di reti di resistenza. Ma, se esaminiamo le tesi di Marx sul lavoro vivo, vediamo che le reti di collaborazione menzionate da Negri, associate a questo concetto, non implicano un potenziale di resistenza. Le forme di lavoro cooperativo restano strettamente legate alle loro forme espropriate. Questo perché "gli individui che costituiscono la classe dirigente (...) dominano anche come pensatori, come produttori di idee, regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo".
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Bill Gates e la nemesi tecno-medica
di Bianca Bonavita
“L’Homo sapiens, che si destò al mito in una tribù e crebbe alla politica come cittadino, viene ora addestrato a essere un detenuto a vita di un mondo industriale. La medicalizzazione porta all’estremo il carattere imperialista della società industriale.”[1]
“Nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute.”[2]
Ivan Illich, Nemesi Medica
“Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.
Potere vuole dire ridurre la mente altrui in pezzi che poi rimetteremo insieme
nella forma che più ci parrà opportuna.
Cominci a intravedere adesso il mondo che stiamo costruendo?”[3]
George Orwell, 1984
Premessa
Denunciare la mistificazione costruita attorno al grande evento spettacolare Covid-19 (che distingueremo nel testo dal virus Sars-CoV-2) e alla forma di governo e di controllo della popolazione che si sta globalmente ridefinendo, non significa difendere la devastante normalità del prima, non significa porsi in una posizione di conservazione di un prima desiderabile da preservare. Così come non significa negare la morte delle persone.
Il virus non ci sembra, come molta della critica radicale vorrebbe, una speciale conseguenza della distruzione prodotta dal capitalismo e dai suoi allevamenti industriali umani e animali. Il nuovo coronavirus non ci sembra affatto un “demone della distruzione totale”, né “la produzione più devastante della devastazione della produzione”.
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Non solo settario
Bordiga lettore innovativo di Marx
di David Broder
Una recensione di The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), curato da Pietro Basso
Il 27 marzo del 1944, Palmiro Togliatti sbarcò a Napoli dopo diciotto anni trascorsi in esilio. Secondo un suo compagno, Maurizio Valenzi, al momento di incontrare i comunisti partenopei una delle prime domande del segretario del PCI fu: “Ma che cosa fa Bordiga?” Il fondatore del Partito Comunista era stato espulso dal partito clandestino nel 1930, in un momento in cui la sua organizzazione sul territorio italiano era stato pressoché schiacciata dal fascismo; tornando dall’URSS nel 1944 per costruire il suo “partito nuovo,” Togliatti voleva perciò combattere ciò che chiamava i residui di “bordighismo” nella base comunista. E come Togliatti stesso aveva insistito nel 1930, espellere Bordiga dal partito era una cosa; espellere il “bordighismo” tutta un’altra. Parallelamente, di fronte alle espressioni diffuse di “estremismo” e di “settarismo classista” tra la base comunista nelle regioni liberate (e anche all’ascesa di forze dissidenti organizzate in tutta Italia), gli agenti dell’Allied Military Government temevano la potenza sovversiva di uno spettrale Bordiga, sfuggente eppure “very popular amongst masses and especially amongst workmen”.
Che cosa faceva Bordiga, in quei mesi? I compagni di Togliatti risposero seccamente: non faceva quasi nulla, ancora non si era fatto vivo. Il segretario del PCI: “Non è possibile, cercate di capire” (o secondo un’altra versione, in tono più tetro: “Eppure con questo abbiamo un conto aperto e dobbiamo chiuderlo”.) Per lo storico Luigi Cortesi questo episodio evidenzierebbe un aspetto chiave della vicenda storica di Bordiga, che potremmo qualificare come lo scarto tra, da una parte, la presenza duratura fra la base comunista di un insieme di idee tendenzialmente “livorniste” e poco gramsciane, ma anche un po’ generiche (l’opposizione frontale al mondo borghese, la politica classe-contro-classe, l’imminenza della rivoluzione proletaria “come in Russia” ecc.), e, dall’altra, l’attività e i posizionamenti politici concreti del fondatore stesso.
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Parla Leonardo Mazzei del coordinamento nazionale di “Liberiamo l’Italia”
Intervista esclusiva di Marco Giannini
Buongiorno Leonardo, in questa intervista vorrei che spaziasse e non si limitasse allo “stretto necessario”. Sa, quando ascolto i TG ed i Talk Show ripenso alle parole del Nobel economico Stiglitz che, nel saggio “Freefall”, sosteneva che i poteri forti neoliberisti avrebbero fallito, qualora avessero cercato di combinare in Europa ciò che avevano provocato nel sud est asiatico, alla fine degli anni ’90. Io invece trovo che i media siano prodigiosi nel non fare accorgere, ai cittadini dei paesi che in UE soccombono (L’Italia), di essere sfruttati da quelli che della UE approfittano (Germania). A questo scopo hanno inventato il termine imbecille di “sovranisti”.
* * * *
1) Mi scusi la premessa Leonardo, ci parli di Liberiamo l’Italia: che ruolo ha lei all’interno di questa forza politica, quando nasce, quali sono i suoi scopi e la sua collocazione ideologica.
Liberiamo l’Italia (Lit) è un movimento nato con la manifestazione del 12 ottobre 2019, il primo corteo nazionale per l’Italexit. Visto il successo dell’iniziativa, i suoi promotori decisero di avviare il processo costitutivo di un soggetto politico che ne portasse avanti i contenuti. Uscire dall’Unione Europea e dal neoliberismo, riconquistare la sovranità nazionale, applicare la Costituzione del 1948 dando a tutti lavoro e dignità: questi gli obiettivi su cui siamo nati, la cui attualità è perfino superfluo ricordare. Lit ha un coordinamento nazionale di cui faccio parte.
2) Liberiamo l’Italia può trovare un percorso comune con altri soggetti, penso alla neonascente “Italexit” di Gianluigi Paragone e/o a “Vox” di Fusaro?
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La sfida di Gaia
di Alessandro Barile
Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020, pp- 420, € 24,00
Il nuovo ultimo libro di Bruno Latour riprende una serie di conferenze tenute nel 2013 attorno al tema della “religione naturale”. Nonostante gli anni trascorsi, possiamo dire con una buona dose di certezza che i problemi rimangono attuali, e in via di peggioramento. L’azione dell’uomo sulla natura sta cambiando e l’uomo e la natura. Questo il dato assodato. Da qui, però, iniziano le incognite, per nulla confinabili entro il dibattito tra scienziati ecologisti e lobby industriali. Latour prova a ricostruire una sorta di orizzonte di senso dei fatti e della posta in gioco, attraverso l’uso della sua strumentazione dialettica fortemente visionaria, dai tratti profetici a volte utili, altre volte affaticanti. Sono d’altronde i rischi e le virtù delle narrazioni ibride, e questa si colloca volontariamente al confine tra l’antropologia, la filosofia e la sociologia. Il risultato può essere spiazzante, come onestamente segnala nella prefazione Luca Mercalli, stordito – pare – da un linguaggio e da ragionamenti a volte eterei, altre mistici. C’è un fatto che però sembra dar ragione a Latour in questo suo tentativo forse naif: scienza e cultura sono andate separandosi nel corso del secondo Novecento, ma risultano oggi talmente intrecciate tra loro che senza il lavorio epistemologico delle scienze umane non è possibile cogliere l’essenza della nostra società: divisi a forza i loro destini, la scienza si è mutata rapidamente in tecnica (peggio, in tecnologia produttiva), la cultura in una sorta di sociologia dell’inessenziale. Occorre riavvicinare i due capi della scienza, ed è il condivisibile proposito di Latour.
La vicenda del Covid, d’altronde, lo ha dimostrato: ogni discorso anti-scientifico è destinato clamorosamente a contraddirsi; viceversa, ogni aristocrazia, sia essa fondata sulla ricchezza o sulla sapienza scientifica, confligge con la democrazia e con la logica dello sviluppo umano.
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La contraddizione è ciò che muove il mondo
Leo Essen intervista Vladimiro Giacché
Intervista sul suo libro “Hegel. La dialettica” (Diarkos, 2020)
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Hegel non è un autore facile. Il suo pensiero è sottomesso alla stessa legge di ciò di cui è legge. Tutto ciò imprime al suo sistema una forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile. In più, il tempo è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume, una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora, ma sono io il fuoco (Borges).
Avere ragione di questo processo significa andare fino in fondo, vedere la fine, mettersi alla prova. Ma la prova non è un esperimento, un saggio o una verifica. È piuttosto un errare, costellato di difficoltà e sconfitte.
Come in un romanzo di formazione, la prova è un mettersi in cammino attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.
La sua ricerca su Hegel inizia con «Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel»*, e termina con «Hegel. La dialettica». Si tratta di un cammino – e non potrebbe essere altrimenti, visto che qui in causa c’è proprio Hegel – un cammino iniziato con un libro molto tecnico, e chiuso con un libro altrettanto rigoroso, ma accessibile a un pubblico di non addetti ai lavori. Cosa ha determinato questo cambiamento di rotta, questo passaggio a una scrittura apparentemente più semplice e lineare, ma in realtà molto più sorvegliata?
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Capitalismo, razzismo, guerra, e devastazione dell’ambiente
di Angelo Baracca
Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri»[1], discute in termini molto efficaci “il disastroso presente, la vulnerabilità, il futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi, soffocati appunto dalla triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri.
Apprezzo molto, fra le altre cose, la caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna, interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo rivoltante “we think the price is worth it”.
Proprio questo mi da l’occasione, nel mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti.
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Lenin e la dialettica. Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario
di Massimo Piermarini
Recensione a Costantino Avanzi, Lenin e la dialettica. Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario, Mimesis, Milano-Udine, 2020, ISBN-13: 978-8857563688, € 28
In un corposo volume di oltre 300 pagine, Costantino Avanzi affronta un argomento controcorrente, anacronistico ad opinione di molti, in tempi di post-comunismo e di conclamata egemonia del neoliberismo: il valore della dialettica nel pensiero e nell’opera politica dell’artefice della Rivoluzione socialista d’Ottobre, Vladimir Ilic Ulianov Lenin. L’uscita stessa di questo volume dedicato ad un personaggio chiave della storia del Novecento, il secolo che non finisce, segnala la possibilità di un’articolazione diversa della riflessione sul presente e sulla dimensione storica del suo sviluppo. Dopo i saggi di G.Lukács, più volte richiamato nel testo, e quelli di A. Negri (1973) e quello più recente (2017) di S. Žižek, che si muovono su linee teoriche e un approccio metodologico molto diverso, Avanzi affronta la polpa della filosofia e del metodo rivoluzionario di Lenin: la dialettica. La dialettica si presenta non soltanto come la logica rivoluzionaria del marxismo in quanto materialismo dialettico, essa è la chiave di comprensione degli avvenimenti e della lotta politica e del metodo della prassi rivoluzionaria e viene ricostruita nel volume attraverso un’attenta disamina del suo ruolo nella preparazione e nella realizzazione della Rivoluzione d’ottobre e nei problemi di costruzione del socialismo dopo la rivoluzione. Le avventure della dialettica nella politica leninista suggeriscono dunque un orizzonte di discussione intorno alle dinamiche reali della storia del comunismo. Come segnala E. Alessandroni nell’Introduzione al volume esso si misura sulle contraddizioni reali che il processo rivoluzionario e la costruzione del socialismo produce e sul metodo di trattarle cogliendo le articolazioni reali dei conflitti sociali e la logica nascosta del “determinismo dialettico” delle contraddizioni da parte di Lenin:
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PD e “movimenti”. Per provare ad uscire da un equivoco
di Militant
Nei giorni scorsi abbiamo preso pubblicamente una posizione piuttosto netta sui comportamenti giudiziari dell’enfante prodige della politica cittadina e questo ci ha fatto “guadagnare” qualche attenzione da partedella Digos romana, arricchendo così l’intera vicenda, già piuttosto triste di suo, di tutte quelle sfumature che separano il grottesco dal ridicolo. Ora che la polemica si è un po’ raffreddata, soprattutto sui social, vorremmo però tornare sulla questione per provare a affrontare quello per noi è il vero nodo politico che sottende tutta questa vicenda, ossia il collateralismo al Partito Democratico di alcuni pezzi di quello che una volta avremmo chiamato movimento. Sgomberiamo immediatamente il campo da possibili equivoci, non abbiamo alcuna velleità di tirare fuori scomuniche o giudizi di natura moralistica. Qui non stiamo parlando di “tradimenti”, carrierismi o cose del genere, che pure nelle storie anche piccole della sinistra di movimento non sono mai mancate, quanto piuttosto di scelte politiche che nel corso del tempo immaginiamo siano state attentamente ponderate e che, però, proprio per questo, crediamo vadano criticate con estrema nettezza.
Immaginiamo che in questi anni di continuo arretramento sociale e politico in alcune aree della sinistra antagonista sia progressivamente maturata l’idea che l’unico modo per garantire una qualche efficacia alla propria azione non potesse essere altro che il lavorio ai fianchi del PD e del centrosinistra. Una sorta di lobbing del sociale che facesse perno sulle “affinità elettive” con qualche dirigente particolarmente illuminato, o sensibile su specifici temi, e che ha spinto più di qualcuno a fare direttamente il “salto della quaglia” ed entrare per provare a “cambiare da dentro”, per “spostare l’asse a sinistra”, per “imporre i nostri temi”… Ancora una volta: nessun giudizio morale.
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Un confronto tra marxismo ed MMT
di Bollettino Culturale
La teoria della moneta moderna (MMT) basa il suo sviluppo sullo storico disaccoppiamento del denaro dal gold standard. Dal 1971, con il crollo del sistema di Bretton Woods e l'abbandono del gold standard da parte degli Stati Uniti, il denaro divenne denaro fiat (valuta convertibile solo con sé stessa, senza l’obbligo di essere convertibile in oro) e controllata totalmente dalla banca centrale e dallo Stato.
Raccogliendo le tasse, lo Stato impone la propria valuta sull'economia nel suo insieme. In altre parole, il denaro statale viene riconosciuto e utilizzato da altri agenti economici perché devono pagare le tasse in quella valuta.
Non dovendo sostenere il denaro esistente nell'economia con una certa quantità di oro, lo Stato perde, afferma la MMT, tutte le restrizioni oggettive sulla sua spesa. Emette la moneta e può spendere tutto ciò che vuole nella propria moneta, il che ovviamente non significa che sia sempre consigliabile farlo. In ogni caso, la valuta sarà sempre accettata nel territorio sotto la sovranità dello Stato, poiché altri agenti economici ne hanno bisogno per pagare le tasse. Pertanto, il confine tra politica fiscale e politica monetaria è, secondo la MMT, artificiale.
Né per finanziare né per spendere lo Stato ha bisogno di riscuotere le tasse. Finanzia la sua spesa, è colui che emette la valuta e quindi non può mai esaurirla.
Attraverso la spesa, lo Stato infonde liquidità nell'economia, poiché la spesa pubblica implica un aumento delle riserve nelle banche private. Aumentando o vendendo il debito pubblico, al contrario, preleva denaro da se stesso.
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