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Alienazione, storia di un concetto
di Marcello Musto
Il rapporto tra lavoro e sfruttamento, tra attività creatrice e oggetti prodotti, è centrale nell'analisi di Marx e nella sua idea di superamento del capitalismo
Da quando sono stati pubblicati per la prima volta negli anni Trenta, i primi scritti di Karl Marx sull’alienazione sono serviti come pietra di paragone radicale nei campi del pensiero sociale e filosofico, dando vita a consensi, contestazioni e dibattiti. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sviluppò per la prima volta il concetto di lavoro alienato, spingendosi oltre le nozioni filosofiche, religiose e politiche esistenti di alienazione per collocarlo nella sfera economica della produzione materiale. Si è trattato di una mossa rivoluzionaria e l’alienazione è stato un concetto che Marx non ha mai messo da parte e che avrebbe continuato a perfezionare e sviluppare nei decenni successivi. Sebbene i teorici sul tema dell’alienazione abbiano, per la maggior parte, continuato a fare uso dei primi scritti di Marx, è nell’opera successiva che Marx fornisce un resoconto più completo e sviluppato dell’alienazione, nonché una teoria del suo superamento. Nei taccuini dei Grundrisse (1857-58), così come in altri manoscritti preparatori de Il Capitale (1867), Marx propone una concezione dell’alienazione che trova storicamente fondamento nella sua analisi dei rapporti sociali sotto il capitalismo. Se questo importante aspetto della teoria di Marx è stato finora sottovalutato, resta la chiave per comprendere cosa intendesse il Marx maturo per alienazione – e contribuisce a dare gli strumenti concettuali che saranno necessari per trasformare il sistema economico e sociale dell’ipersfruttamento in cui viviamo oggi.
Una lunga traiettoria
Il primo resoconto sistematico dell’alienazione è stato fornito da Hegel ne La fenomenologia dello spirito (1807), dove i termini Entausserung («alienazione»), Entfremdung («straniamento») e Vergegenständlichung (letteralmente: «oggettivazione») sono stati usati per descrivere il divenire altro da sé dello Spirito nel regno dell’oggettività.
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Covid: ricoveri abbattuti drasticamente se curata entro tre giorni. Lo studio italiano che lo dimostra
Valentina Bennati intervista Paolo Bellavite
Ci sono medici che hanno riposto ogni fiducia solo nel “vaccino” e altri che, invece, in questi ultimi 20 mesi hanno lavorato, e molto, per curare i malati ed evitare che giungessero troppo aggravati in ospedale. Dalla loro esperienza – che ha dimostrato che, se si interviene nella fase iniziale con terapie appropriate, di COVID si può guarire tranquillamente a casa – è nato uno studio, ora a disposizione della comunità scientifica.
Pubblicato in anteprima l’8 dicembre dalla rivista peer-review ‘Medical Science Monitor’ con il titolo “Retrospective Study of Outcomes and Hospitalization Rates of Patients in Italy with a Confirmed Diagnosis of Early COVID-19 and Treated at Home Within 3 Days or After 3 Days of Symptom Onset with Prescribed and NonPrescribed Treatments Between November 2020 and August 2021 (Studio retrospettivo sugli esiti e sui tassi di ospedalizzazione di pazienti in Italia con diagnosi confermata di COVID-19 precoce e trattati a casa entro 3 giorni o dopo 3 giorni dall’insorgenza dei sintomi con farmaci di prescrizione e non di prescrizione tra novembre 2020 e agosto 2021)”, il lavoro ha, come prima firma, quella del professore Serafino Fazio, componente del Consiglio Scientifico del Comitato Cura Domiciliare COVID-19, già professore di medicina Interna all’Università di Napoli. I co-autori sono Paolo Bellavite (già professore di Patologia generale alle Università di Verona e di Ngozi-Burundi), Elisabetta Zanolin (Dipartimento di Diagnostica e Sanità Pubblica dell’Università di Verona), Peter A. McCullough (Department of Cardiology, Truth for Health Foundation, Tucson, AZ, USA) che ha sottoscritto lo schema terapeutico del Comitato Cura Domiciliare COVID-19, Sergio Pandolfi (Neurochirurgo – Ozonoterapeuta, Docente al Master di II° livello in ossigeno-ozono terapia Università di Pavia) e Flora Affuso (ricercatrice indipendente).
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Considerazioni sul primo anno di una strana campagna vaccinale
di Marco Mamone Capria
Dobbiamo pianificare la libertà, e non solo la sicurezza, se non altro perché solo la libertà può rendere sicura la sicurezza.
Karl R. Popper
“Più della stessa cosa” è una delle più efficaci ricette per un disastro che si sono evolute sul nostro pianeta
P. Watzslavick
Introduzione
C’è bisogno di dire altro sulla campagna vaccinale anti-covid-19? Secondo me tutto ciò di essenziale che doveva essere detto per orientare i cittadini a una decisione razionale lo è già stato da un anno o quasi (da me e da altri).
Eppure in ogni ora del giorno e della notte i principali media e i nostri presunti rappresentanti politici continuano instancabilmente a dire – no, non occasionali inesattezze, ma il contrario della verità. E la verità è che siamo testimoni di un gigantesco fallimento di misure sanitarie, che era prevedibile, era stato previsto e, come vedremo, è tacitamente ammesso anche dalle autorità, ma che soggetti economici e politici capaci di influenzare il governo e il sistema dei media in Italia e nel resto del mondo cosiddetto “sviluppato” volevano e sono riusciti a imporre a una cittadinanza terrorizzata.
I principali media, con il conforto di istituti che stanno dilapidando sconsideratamente la propria reputazione – come il Censis («Da oltre 50 anni interpreti del Paese») –, cercano di rappresentare quello che si potrebbe più realisticamente descrivere come il conflitto tra una maggioranza di illusi e ossequiosi alle direttive del governo e una minoranza (ma crescente) di resistenti all’inganno, come la riedizione di un mitico conflitto tra scienza e antiscienza – la scienza essendo, per fortunatissima coincidenza, rappresentata dalla suddetta maggioranza. Insomma, dopo essere stati ammorbati per due anni con il vaniloquio che «la scienza non è democratica», scopriamo adesso che la verità scientifica è... ciò in cui crede la maggioranza.
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La nascita dell’alleanza Australia-Gran Bretagna-Stati Uniti (Aukus) e la guerra fredda americana contro la Repubblica Popolare Cinese
di Alberto Bradanini
Il tema è complesso, lo spazio limitato per definizione e alcuni passaggi appariranno apodittici. D’altro canto, tale percorso guadagna in limpidezza e posizionamento, specie quando si ha a che fare con temi cruciali come la pace, la guerra e il futuro del mondo.
Già nel V secolo a.C., Confucio aveva rilevata la necessità di procedere a una rettificazione dei nomi. Se questi sono manipolati e non riflettono la realtà – egli rimarcava – il loro uso è fonte di malintesi, un dialogo autentico tra gli uomini diviene impossibile e la vita sociale ne risente in profondità.
Giacomo Leopardi osservava al riguardo: “I buoni e i generosi sogliono essere odiatissimi perché chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. Cosicché, mentre chi fa male ottiene ricchezze e potenza, chi lo nomina è trascinato sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a soffrire qualunque cosa dagli altri o dal cielo, purché a parole ne siano salvi”.
In un suo scritto, Malcom X afferma che “se non si fa attenzione, i media ci fanno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”. E questo vale anche per le nazioni.
Semplificando un po’, ma a vantaggio della chiarezza, gli Stati Uniti, a partire da Reagan essenzialmente – alla luce di un relativo ridimensionamento sulla scena mondiale – hanno gradualmente imposto una militarizzazione delle relazioni internazionali (colpi di stato, invasioni, sanzioni e interferenze di vario genere, in Europa un azzardato avanzamento della Nato verso Est, in violazione degli accordi a suo tempo definiti tra Bush padre e Gorbaciov, e via dicendo).
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“L’essenza, per le fondamenta”
Intervista a Rolando Giai-Levra
D. Non si può parlare di comunismo senza parlare di classe operaia: Vorresti dirci qualcosa sulla storia del movimento operaio in Italia, sulle sue lotte e sulle sue conquiste?
Lo sviluppo della lotta fra le classi ha generato una classe formidabile e generosa, quella operaia, che Marx-Engels-Lenin indicavano come la classe che, liberando se stessa dalla schiavitù del lavoro salariato, libererà tutta l’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistico. È la classe che Gramsci definiva classe dei produttori in grado di produrre una grande ricchezza sociale, più di quanto necessita alla sua riproduzione; quindi, caratterizzata da un alto carattere sociale, di dimensione internazionale e che nel sistema dei rapporti di produzione si trasforma in profitto di cui si appropriano i capitalisti, tramite il loro potere politico borghese. Questa è la condizione materiale in cui si genera e si sviluppa la contraddizione fondamentale di classe e il conflitto tra capitale e lavoro, tra salario e profitto.
In questo processo storico, la classe operaia italiana ha dimostrato di saper affrontare situazioni complesse e difficili, andando oltre i confini della lotta di resistenza (sindacale) contro lo sfruttamento della classe capitalista, ponendo una questione centrale relativa al controllo e alla gestione del lavoro e della produzione in fabbrica. La prima esperienza storica è stata quella del biennio rosso del 1919/1920 in cui gli operai con i propri Consigli di Fabbrica sostenuti dai comunisti dell’“Ordine Nuovo”, passarono all’occupazione delle fabbriche, anche con le armi, per sottrarle al controllo dei capitalisti. Questa esperienza fallì per il boicottaggio del riformismo italiano, in quel momento annidato nel P.S.I. che egemonizzava anche la direzione della CGIL. La seconda esperienza storica è stata quella del grande movimento dei Consigli di Fabbrica nato nei primi anni ‘60 con le lotte degli elettromeccanici e dei tessili, fino a raggiungere un elevato livello politico nel 1969 in grado di controllare l’organizzazione del lavoro e della produzione in fabbrica.
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Always Totalize!
Perché abbiamo ancora bisogno della totalità (e della dialettica)
di Marco Gatto
I.
In uno scritto autobiografico del 1977, Cesare Cases ripercorreva le tappe filosofiche che lo avevano condotto alla Perdita della totali- tà, al tracollo della fiducia nei confronti di ricostruzioni sistematiche e di narrazioni universali: «crollata questa fede, sono crollate anche le mie presunzioni teoriche»,1 egli confessava. E nello stesso tempo quest’ammissione rappresentava un rilancio, perché, al netto della sconfitta, restava ferma, persino negli scritti più brevi e occasionali, «un’inclinazione al compiuto, al conchiuso, un’inclinazione […] di per sé antiavanguardistica, ma di un antiavanguardismo consapevole dell’impossibilità di fare la cosa chiusa»,2 in larga parte proveniente, si potrebbe aggiungere, dalla lunga frequentazione di Cases con i pensatori novecenteschi dell’Intero, Lukács su tutti.3 La pervasiva e capitalistica «frammentazione della vita», dialetticamente legata alla «nostalgia della totalità»,4 secondo la lezione proveniente dall’autore di Teoria del romanzo (1920),5 rendeva per Cases posticcia, all’altezza degli anni Settanta del secolo scorso, qualsiasi tensione universalizzante, ma poneva forse in rilievo (ancora per poco) la possibilità di tenere avvinti la parte e il tutto, il particolare e il totale, prima che si scivolasse storicamente (e drammaticamente) nella dittatura ideologica del primo polo sul secondo. Cases, quasi da post-lukacsiano, si schierava con Adorno e con la «sua critica allo spirito hegeliano di sistema».6 «Non è che il desiderio di totalità sia in sé malvagio – continuava il grande germanista –, ma è prematuro, poiché in realtà la totalità esiste», ed è quella del capitalismo e delle sue forme sociali, e pertanto «ogni tentativo di tipo hegeliano di irreggimentare il mondo in sistema finisce per consegnarlo all’esistente».7 L’apertura di una breccia nella costrittiva totalità del capitalismo diventava, pertanto, l’obiettivo di una critica che non poteva rischiare di riprodurre, nelle sue movenze totalizzanti, i meccanismi egemonici dell’avversario.
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Guarda in alto, non solo la cometa
di Massimo De Angelis
Don’t look up è un film interessante per diversi motivi. Il principale, secondo Massimo De Angelis, ha a che fare con il possibile destino dei nostri sforzi di cambiare il mondo e di comunicare l’urgenza di questo cambiamento, ma anche di fare di questa comunicazione uno strumento di azione comune e collettiva. Non basta cominciare a guardare in alto per vedere la cometa in picchiata sulla Terra (il cambiamento climatico più della pandemia), c’è da riconoscere e sovvertire in basso l’ordine gerarchico della società nella quale il profitto viene prima di tutto.
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Il film Don’t look up è come uno specchio che riflette la coscienza del mondo, uno specchio che ci mostra attraverso quali meccanismi perversi sia possibile che la potenza collettiva accumulata in trecento anni di sviluppo economico si trasformi in impotenza collettiva nella salvaguardia della riproduzione sociale a fronte di una grave minaccia. E questo non per mancanza di conoscenza o tecnologia, ma semplicemente per il modo in cui il nostro mondo è organizzato.
Nel film, la questione della riproduzione sociale è posta dalla minaccia di una cometa gigantesca destinata a colpire la terra, con conseguenze catastrofiche per tutta la vita sul pianeta. Non credo siano concepibili emergenze più gravi della minaccia imminente dell’estinzione di massa (lontana poco più di sei mesi), e sebbene nelle intenzioni del regista il film voglia evocare altre reali minacce alla riproduzione sociale, a cominciare dal cambio climatico, quest’ultima non si presenta ai nostri occhi con lo stesso grado e intensità di catastrofismo di una gigantesca cometa che colpisce il nostro pianeta.
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Il Consiglio europeo
di Perry Anderson
L’intervento che segue, a firma di Perry Anderson (storico accademico e saggista britannico), è stato pubblicato sulla London Review of Books, Volume 43, n. 1, gennaio 2021 (1) e affronta, da un punto di vista storico, le cinque istituzioni principali dell’Unione europea: la Corte di Giustizia, la Commissione, il Parlamento, la Bce e il Consiglio. Dopo aver pubblicato la parte relativa alla Corte di Giustizia (2), alla Commissione (3), al Parlamento e alla Bce (4), chiudiamo con il Consiglio europeo e le conclusioni su economia, euro, diritti, democrazia
Il Consiglio europeo comprende capi di governo che godono di maggioranze in veri e propri parlamenti, frutto di elezioni significative. Come tale, è diventato la massima autorità dell’Unione. The Passage to Euro- pe di Van Middelaar è in gran parte la storia della sua ascesa a questa posizione, ed è giustificata la sua affermazione che il Consiglio è ora il principale motore dell’integrazione europea. Quello che non fa è guardare sotto il cofano. Che tipo di veicolo sta avanzando? È questo il soggetto della più fondamentale di tutte le opere sulla Ue dell’ultimo decennio, European Integration di Christopher Bickerton, il cui titolo anodino, condiviso da decine di altri libri, nasconde la sua distinzione, che si concretizza nel sottotitolo che fornisce la sua argomentazione: “Dagli Stati nazionali agli Stati membri”.
Tutti hanno un’idea di cosa sia uno Stato-nazione, e molti sanno che 27 Paesi (dopo l’uscita del Regno Unito) sono Stati-membri dell’Unione Europea. Qual è la differenza concettuale tra i due? La definizione di Bickerton è succinta. Il concetto di Stato-membro esprime un cambiamento fondamentale nella struttura politica dello Stato, con i legami orizzontali tra i dirigenti nazionali che hanno la precedenza sui legami verticali tra i governi e le loro società. Questo sviluppo lo ha colpito per la prima volta, spiega, al momento del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona.
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Per un’opposizione di classe alla gestione autoritaria della pandemia
di Assemblea militante
Quello che segue è un testo frutto dell’elaborazione collettiva e condivisa di un gruppo di compagni, provenienti da diverse realtà territoriali e da diverse esperienze politiche pregresse, sebbene tutte riconducibili alla sinistra classista. Nel corso di questi mesi siamo stati attivi nelle mobilitazioni contro la gestione autoritaria della pandemia e abbiamo promosso proprie iniziative per estendere e qualificare in senso classista il movimento in corso.
Dallo scambio iniziale di materiali e di esperienze si è creato un circuito di confronto che ha cercato di mettere a fattor comune le pratiche e le riflessioni maturate nel corso di quest’attività. Il testo vuole essere un contributo per estendere ancora di più questo confronto ad altri compagni che in questi mesi hanno maturato un giudizio simile al nostro sulla vicenda della pandemia e un invito a unirsi a noi (nel caso si riconoscano in esso) in questo circuito che abbiamo chiamato Assemblea Militante, per sottolineare che il nostro non vuole essere un consesso di pura discussione ma di impegno attivo e possibilmente coordinato e condiviso.
Siamo convinti che, anche se il movimento dei mesi scorsi vive una fase di difficoltà, esso sia un interessante banco di prova per le caratteristiche con cui si ripresenterà lo scontro tra le classi e la lotta anticapitalistica nel prossimo futuro. Inoltre riteniamo che il movimento stesso non abbia esaurito tutte le sue potenzialità e che nei prossimi mesi, anche per la pervicacia e la manifesta irrazionalità delle misure imposte dal governo, esso sarà costretto a ritornare in campo.
Siamo altresì convinti che la vicenda della pandemia abbia rappresentato uno spartiacque per tanti compagni che hanno dovuto assistere al fallimento delle varie sigle della cosiddetta sinistra antagonista sindacale e politica che nella stragrande maggioranza si sono adeguate alla narrazione dominante sul tema della pandemia diffusa dalle istituzioni e dai mass media, assumendo posizioni politiche di piena subalternità alla suddetta narrazione.
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Il Partito che vogliamo
di Fosco Giannini
“Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario della Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, più che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell’immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo così a chiarire la nostra situazione, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti più qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il più grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l’avvenire.
Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del Partito socialista, se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera?”
Così scriveva Antonio Gramsci all’inizio di un suo articolo (“Contro il pessimismo”) su “L’Ordine Nuovo” del 15 marzo 1924.
Nuvolaglia di pessimismo, passività politica, torpore intellettuale, scetticismo verso l’avvenire: non si addicono perfettamente, queste denunce di Gramsci del ’24, alla condizione politica, esistenziale, psicologica di una parte sicuramente non irrilevante dei comunisti italiani di questa nostra fase, siano essi iscritti ai loro partiti che comunisti senza tessera e organizzazione, cellule comuniste dormienti?
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La dialectica interrupta del Censis, la verità dell’irrazionalismo e l’immaginario
di Fabio Ciabatti
“La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali”. Questa affermazione contenuta nell’ultimo rapporto del Censis sembra catapultarci direttamente nella dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. E non è tutto. “L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale”, denuncia l’istituto di ricerca, utilizzando un’argomentazione dal vago profumo di materialismo storico per spiegare questo sinistro fenomeno: il rifiuto di scienza, medicina, innovazioni tecnologiche, che in passato hanno costruito il nostro benessere, “dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale”.1
Gli estimatori della scuola di Francoforte non devono però eccitarsi troppo. Se quella del Censis è dialettica è senz’altro una dialectica interrupta perché, semplificando al massimo, l’antitesi tra razionale e irrazionale non prospetta alcun tipo di sintesi, di superamento dei due termini della contraddizione. L’irrazionalismo viene evocato solo come momento fallace per confermare la bontà del suo opposto, la razionalità dominante. Che le cose stiano effettivamente così lo possiamo intuire quando leggiamo che a fare da contraltare all’onda di irrazionalità c’è “una maggioranza ragionevole e saggia”. Un’ulteriore conferma viene dal fatto che l’irrazionalismo si esprimerebbe nell’opposizione alle politiche governative: “Le proposte razionali che indicano la strada per migliorare la situazione vengono delegittimate a priori per i loro supposti intendimenti, con l’accusa di favorire interessi segreti e inconfessabili.
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Chi critica la critica? Alla ricerca di soggetti storici
di Roberto Fineschi
I. Per una definizione meno vaga del concetto di “critica” attraverso Marx
Nel mondo anglosassone e non solo, la popolarità del termine “critica” è tale che sulla “critical theory” si possono trovare in libreria dizionari, glossari, antologie.1 Sfogliando le pagine di queste pubblicazioni, tuttavia, talvolta si resta un po’ disorientati vedendo accostati autori assai lontani tra di loro, al punto che è difficile scovare un tratto comune, se non in un generico atteggiamento anti-mainstream. Che cosa sia mainstream resta d’altra parte non chiaramente espresso. Ovviamente, non si intende qui liquidare il contributo di autori assai importanti; si tratta piuttosto di prendere atto che questo galassia pare riconducibile a una qualche unità solo per via negativa, un criterio di distinzione/identificazione troppo generico e, da sempre, potenzialmente foriero di accostamenti pericolosi.2
Un tentativo di ricostruzione della storia del termine andrebbe ovviamente molto al di là dei limiti di questo contributo, in questa prospettiva però si può forse fare qualche considerazione di carattere generale a partire dall’autore che meglio conosco, vale a dire Karl Marx. È noto, infatti, che molte delle sue opere contengono la parola “critica” addirittura nel titolo3 e che l’ambiente della “critica critica”, come sarcasticamente Marx la defi e nel sottotitolo della Sacra famiglia, rappresentò il contesto culturale nel quale avvenne la sua formazione e dal quale prese successivamente le distanze. La tesi da indagare, che qui si espone solo come spunto di ricerca da approfondire, è che il termine venga utilizzato in una maniera analoga a quella che si confi ura nell’ambito della metodologia storico-critica dell’esegesi biblica tedesca degli anni trenta e quaranta dell’ottocento grazie a interpreti come Strauss, Bruno Bauer, ecc.4
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Il caso italiano
Editoriale di Paolo Ferrero
Con questo numero di “Su la testa” cerchiamo di dare un contributo alla comprensione della realtà del nostro Paese, con particolare attenzione alla condizione “materiale e spirituale” del popolo italiano.
Non vi troverete quindi i pensieri delle élite – che occupano la totalità dello spazio pubblico e colonizzano il senso comune – ma alcuni spunti per capire meglio la situazione in cui viviamo, nei suoi aspetti problematici e nelle sue potenzialità.
Così, accanto all’analisi degli elementi strutturali del Paese troverete anche riflessioni su immaginari, aspettative e comportamenti degli strati popolari.
Riteniamo infatti, che per comprendere il contesto in cui facciamo politica, non sia sufficiente guardare ai dati economici e produttivi, ma sia necessario cogliere i protagonisti nella loro complessità.
In primo luogo, perché i rapporti sociali di produzione vanno ben al di là del puro dato economico e riguardano l’esercizio del potere, il senso comune, la cultura, le identificazioni, le narrazioni egemoniche.
In secondo luogo perché la classe degli sfruttati non può essere desunta semplicemente dall’osservazione del capitale: come ci ha ricordato Raniero Panzieri, la classe ha una sua dinamica soggettiva che va compresa attraverso l’inchiesta. In altre parole il materialismo che Marx ci ha insegnato non ha nulla a che vedere con l’economicismo o con il determinismo: è un metodo dialettico e scientifico di analisi della società nella sua totalità, finalizzato alla comprensione del reale, delle effettive dinamiche sociali.
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La società offensiva
di lorenzo merlo
Troppe persone, troppa informazione, troppo individualismo, troppa disgregazione, una sola miccia. Meglio fare attenzione
La stirpe
Si va di fretta. Era ieri il tempo del capitalismo finanziario – che da poco aveva mandato al macero, quantomeno culturale, quello storico, effettivamente ormai anziano – e strane avanzate cinesi lo hanno obbligato ad alzarsi – nonostante i consigli di Mr Lehman e dei suoi fratelli – dagli allori. Una sveglia piuttosto dura, da scuola ufficiali, gli è entrata nel cervello. E si è effettivamente svegliato. E dato da fare. Da dove sennò il globalismo economico? Bella idea, ma ancora carente. Ancora troppo lassista: non aveva dato il giusto peso inerziale implicito nelle nazioni, nelle tradizioni locali. L’ordoliberismo era servito su tutti i tavoli dell’Occidente (in senso lato). Sembrava a basta. E invece no. Oppure, non da solo. Il suo gemello meno appariscente porta ancora il nome dell’avo, ma ha doti tutte sue. È il capitalismo della sorveglianza. Doti nascoste, esattamente come è nascosta alla maggioranza la sua modalità di azione. Anzi, di coercizione. Una vera magia. Un incantesimo che ci fa credere sia bene per noi ciò che serve a lui per prosperare. E, se già non in atto, con propaggini fino a dentro di noi.
Così, in men che non si dica, il capitalismo che era cosa solo violenta e problema solo proletario, si è evoluto in umiliante per tutti e offensivo per la politica e la società. Politica in senso gramsciano, democratico, di una volta. Non quella di oggi, attrezzo di servizio del liberismo.
At TENTI aaa… Est!
L’excursus appena riassunto permette di osservare – come fosse ancora necessario – i segni del suo corso. Dai rubinetti della grande diga del pensiero unico sono sgorgati vari regali: la riduzione del welfare, l’abbattimento dell’articolo 18, la determinazione a digitalizzare, la diffusione del 5G, la precarietà come valore alla libera iniziativa, le privatizzazioni.
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Fuga dalla libertà
di Geminello Preterossi
Non voglio parlare della Grande Mistificazione. Bugie, contraddizioni, opacità, presunte verità “scientifiche” spacciate per assoluti indiscutibili e poi rinnegate (facendo finta di niente) sono squadernate davanti a noi. Del resto, la neolingua del potere – e della pseudoscienza fattasi potere – è eloquente. Chiunque abbia occhi per vedere non può non chiedersi perché stia accadendo tutto questo. Quali siano le cause di questa cieca e furente isteria fomentata dall’alto, nel seno dell’Occidente, e in particolar modo nel centro dell’Europa.
Voglio parlare della fuga dalla libertà, che è anche fuga dalla giustizia e dalla democrazia. Come chiariva Piero Calamandrei, sulla rivista Il Ponte, nel 1945: “La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale”. L’Evento che in questi giorni, in virtù del nichilismo in atto, non può essere realmente celebrato, ma solo rinnegato dalle istituzioni (tra cui la Chiesa stessa), proprio in quanto “forza del passato”, attraverso una via complessa, fatta di contaminazioni e transiti post-tradizionali, serba una promessa di liberazione forse non esaurita. Grazie a un lascito teologico-politico in perenne dialettica, contraddittoria ma generativa, con la modernità, il principio della soggettività, l’idea stessa di una mitigazione post-sacrificale del potere. L’Incarnazione come premessa dell’autoaffermazione del soggetto, che deve però rimanere capace di trascendere l’immanenza materiale degli interessi, la pretesa di assolutezza dell’economicismo. Il neoliberismo (esiste, eccome se esiste…) ha generato la perversione di quella spinta – di per sé legittima – auto-affermativa, creando le condizioni di un nuovo asservimento di massa, algoritmico. È di questa estremizzazione perversa che occorre liberarsi, perché distruttiva.
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La Cina è un paese imperialista? Le implicazioni di una 'classificazione'
di Lorenzo Lodi
Gli sviluppi della pandemia di Covid–19 hanno intensificato il clamore mediatico e accademico relativo allo scontro Stati Uniti-Cina, sulla scia di una retorica che tende a dipingere quest’ultima come una potenza imperialista. Questo termine viene utilizzato soprattutto con intenti propagandistici, volti a demonizzare il gigante asiatico, in quanto attore sempre più aggressivo sul piano geopolitico. Quando invece la definizione viene utilizzata ‘scientificamente’, essa si limita a constatare la crescente influenza economica e diplomatica cinese in Asia e Africa, che fa il paio con l’affermazione della Cina come seconda potenza mondiale per prodotto interno lordo e aspirante rivale degli USA nei settori high-tech (5G, intelligenza artificiale, auto elettrica ecc.). Caratterizzare in maniera approfondita il significato dell’ascesa geopolitica ed economica cinese è però necessario per costruire una strategia rivoluzionaria internazionalista.
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Introduzione
Scopo di questo articolo non è tanto confrontare la Cina con gli altri attori globali tramite indicatori quantitativi di influenza economica, militare e diplomatica, senza cogliere l’essenza sociale ed economica delle relazioni internazionali. L’obiettivo è invece quello di contribuire al dibattito nella sinistra radicale e nel marxismo attorno ai seguenti quesiti: in che senso si può parlare di imperialismo? La Cina è un paese imperialista? Non si tratta, sia chiaro, di una questione classificatoria: la natura imperialista o meno di un paese non coincide necessariamente con la sua potenza, ma si intreccia con essa definendone le possibilità di sviluppo. Fornire una caratterizzazione precisa della Cina può dunque aiutarci a capire la specificità delle tensioni geo-politiche e di classe che il suo tentativo di scalare le gerarchie mondiali comporta, come cercheremo di argomentare nell’ultimo paragrafo.
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“L’essenza, per le fondamenta”
Intervista a Federico Fioranelli
Ai suoi tempi, l’approccio di Marx all’economia e la sua critica all’economia politica fu senz’altro rivoluzionario. Potresti dirci se reputi che il pensiero economico di Marx sia valido ancor oggi?
Tutte le riflessioni di Karl Marx sono indispensabili per comprendere il funzionamento e le contraddizioni del modo di produzione capitalistico e, quindi, del mondo in cui viviamo.
Vi sono tuttavia alcuni aspetti dell’analisi marxiana che mostrano più di altri in modo chiaro e lampante i loro agganci con il presente.
Il primo è sicuramente quello che spiega l’origine del profitto, cioè lo sfruttamento del lavoratore.
Marx mostra che il modo di produzione capitalistico non è un processo del tipo M – D – M (dove M indica la merce e D il denaro), in cui la moneta serve solo all’intermediazione nello scambio delle merci, ma un processo del tipo D – M – D’, in cui si cede denaro per avere altro denaro e lo scopo è conseguire un profitto. Questo profitto si può però realizzare solo perché vi è una merce, la forza lavoro, che è fonte di valore.
Per forza lavoro, Marx intende la porzione del tempo di vita che il lavoratore, in cambio del salario, si trova costretto a vendere al capitalista per un motivo molto semplice: sopravvivere; dato che solo apparentemente il salariato esercita una libera scelta nel momento in cui cede la propria forza lavoro e che lo scambio sul mercato del lavoro, a differenza di tutti gli altri che avvengono all’interno del sistema economico, non è uno scambio tra pari, il capitalista può permettersi di pagare un salario più basso del valore che il lavoratore produce.
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La composizione organica del capitale dal punto di vista dei lavoratori
di Bollettino Culturale
Per Marx, il capitolo ventitreesimo del primo libro del Capitale mira ad esaminare "come l’aumento del capitale influisca sulle sorti [e sulla composizione] della classe operaia”. Quindi, anche se il titolo di questo capitolo è “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”, non sono solo le leggi dello sviluppo del capitale che sembrano interessare il pensatore tedesco, ma soprattutto la classe operaia, il suo destino e il rapporto che mantiene con lo sviluppo capitalistico. Tuttavia, nell'intraprendere la sua indagine, Marx prende come linea guida la composizione del capitale e le alterazioni che subisce durante il processo di accumulazione.
“La composizione del capitale va considerata secondo il carattere duplice e contrapposto del lavoro rappresentato nelle merci.”
In primo luogo “dal lato del valore” ed in questo caso “si determina mediante la proporzione in cui il capitale si suddivide in capitale costante (ossia il valore dei mezzi di produzione, ossia le macchine, le materie prime...) e in capitale variabile (ossia il valore della forza di lavoro, ossia il monte salari).” In altre parole, "dal lato del valore" la composizione del capitale è definita come il rapporto tra le parti costante e variabile del capitale, che è comunemente rappresentato dall'espressione 𝑐/𝑣 (dove c rappresenta il capitale costante e v rappresenta il capitale variabile). Questa proporzione viene chiamata da Marx “composizione di valore del capitale”. In secondo luogo abbiamo la composizione del capitale “dal lato della materia”. “Essa opera nel processo di produzione, ogni capitale si suddivide in mezzi di produzione e in forza di lavoro vivente, e questa composizione si determina mediante il rapporto fra la massa dei mezzi di produzione utilizzati e la quantità di lavoro necessaria per il loro utilizzo.”
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“Le radici della disuguaglianza”. L’emergere dell’Individualismo proprietario
di Gerardo Lisco
PARTE I
Hobbes, Rousseau.
Il lavoro si ripromette di indagare il tema a partire da il libro “ Le radici della disuguaglianza del filosofo della politica Antonio Martone. Il saggio individua le “radici della disuguaglianza” nel pensiero moderno, attraverso l’analisi di alcuni autori che per ciò che hanno scritto e sostenuto sono da considerare come una sorta di ideal-tipo della “modernità”.
Gli autori presi a riferimento abbracciano un arco di tempo che va dagli inizi del 600 alla fine dell’800: T. Hobbes, J.J. Rousseau, A. de Tocqueville, M. Stirner e F. Nietzsche. Passiamo dall’Assolutismo di Hobbes all’idea Democratica di Rousseau, dall’analisi critica della nascente Liberal-Democrazia americana di Tocqueville per concludere con Stirner e Nietzsche, i quali analizzano in profondità categorie quali Democrazia, Socialismo, Liberalismo e ne mettono a nudo le contraddizioni creando i presupposti per la critica alle ideologie e aprendo la strada al post-modernismo e all’egemonia dell’individualismo e del totalitarismo liberal-capitalista contemporaneo. In modo particolare questi ultimi due autori, con le loro potenti critiche, sono riusciti a produrre l’effetto contrario rafforzando ciò che intendevano combattere.
Ragionare sulle origini della disuguaglianza attraverso l’analisi delle riflessioni degli autori presi a riferimento non può prescindere dal contesto storico nel quale ciascuno di essi è vissuto e nel quale ha operato. T. Hobbes è il primo ad essere messo sotto osservazione. Riferendosi ad Hobbes e al concetto di uguaglianza proprio della trattazione del filosofo inglese, Martone parla di un’“uguaglianza omicida” ossia l’idea che l’homo homini lupus non sia altro che l’uguaglianza nell’essere potenzialmente omicida dell’altro uomo, motivata dalla naturale spinta alla sopravvivenza. L’uguaglianza è un dato naturale per cui tutti gli uomini sono uguali.
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La sporca caccia al dragone
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Contro la campagna commerciale, diplomatica, politica, ideologica e militare anti-cinese
Trent’anni dopo la celebrazione della fine della Guerra Fredda e l’inizio di un nuovo secolo americano, siamo nel pieno di una nuova Guerra Fredda? Sì e no, nel senso che potrebbe anche diventare una guerra rovente …
Il clima delle relazioni internazionali è già da diversi anni segnato dal crescente confronto USA/Cina, con il quale l’imperialismo americano cerca di contenere e bloccare l’ascesa della potenza cinese, con armi economiche, diplomatiche e militari.
Noi denunciamo le iniziative di guerra economica messe in atto dai vari imperialismi occidentali contro la Cina, siano esse volte a colpire l’economia cinese, il suo interscambio commerciale o ad impedire l’accesso alle tecnologie più avanzate, e le vere e proprie provocazioni militari ad opera di Stati Uniti e alleati, che sono non solo minacce, ma preparazioni militari per una possibile guerra contro la Cina.
In particolare, nei paesi europei alleati degli USA nella NATO, è in corso un dibattito sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina, in una difficile e spesso impossibile mediazione tra gli interessi economici a commerciare con e investire in Cina, un mercato enorme, la rivalità diretta tra le vecchie potenze imperialiste europee e il rampante capitalismo cinese per l’influenza sulle aree ex coloniali, e la forte pressione USA, soprattutto tramite la NATO, per allineare i paesi europei sulla politica di “confronto” verso la Cina (e la Russia).
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Il Diritto al servizio del capitale. Note a margine di un libro di Katharina Pistor
di Sergio Marotta
Che cos’è il «codice del capitale»?
Ormai anche nella patria del capitalismo contemporaneo, gli Stati Uniti d’America, c’è chi si interroga sulla necessità di tornare a riflettere sulla natura, sul significato e sul ruolo del diritto nella nostra epoca. Lo fa con grande intelligenza la comparatista Katharina Pistor in un libro uscito nel 2019 nella versione originale per i tipi di Princeton University Press e qualche mese fa nell’edizione italiana con il titolo Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza (con postfazione di Francesco Di Ciommo, Sergio Di Nola e Massimiliano Vatiero, Luiss University Press, Roma 2021).
La tesi di fondo della studiosa tedesca che insegna “Comparative Law” alla Columbia Law School è espressa con estrema chiarezza sin dalle prime pagine e resta il filo costante dell’intero volume: «In questo libro sostengo che il capitale viene codificato nella legge, che gli avvocati sono signori del codice, e che gran parte dei signori del codice provengono da un solo sistema giuridico: la common law. Se questo è vero, è ora di rimettere mano al dibattito sull’impatto dei sistemi giuridici»[1].
I nove capitoli di cui si compone il libro sono costruiti con l’intento di dimostrare il fondamento di questa tesi, di rintracciarne le antiche origini, risalenti all’età medievale, e di descriverne i successivi sviluppi fino al diritto commerciale e finanziario dei nostri giorni.
L’ottavo capitolo apre lo sguardo verso un possibile futuro del diritto messo a dura prova dai nuovi codici digitali. L’ultimo capitolo, dal titolo suggestivo Il capitale impera secondo la legge, è dedicato all’elaborazione di possibili rimedi da poter utilizzare per superare le terribili distorsioni prodotte dal codice del capitale che sono ormai tutte dispiegate chiaramente innanzi ai nostri occhi.
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Agamben o la fuga dal mondo
di Moreno Pasquinelli
«Vano è il desiderio di prevalere sugli uomini della perdizione prima del giorno della vendetta […] Occorre separarsi dai malvagi e attendere che scenda su di loro il giudizio di Dio»
Rotoli di Qumrȃn. Regola della Comunità, x, 17-20
Ogni vero movimento di massa è, non fosse che per le sue dimensioni, collettore di disparati bisogni e pulsioni sociali. Questo dato, sebbene fosse camuffato dalla preponderanza egemonica della componente socialista e anticapitalista, era vero anche nel ‘900. Nel nuovo secolo, venuta meno quella preponderanza egemonica, i movimenti di massa sono caratterizzati anche dalla più complessa pluralità ideologica. Essi sono dunque doppiamente eterogenei.
Le filosofie politiche dei “no-vax”
Prendiamo ad esempio il movimento contro il green pass. Fenomeno tipicamente italiano — conseguenza del fatto che l’Italia è assurto a principale banco di prova del great reset —, esso è fuoco di resistenza al regime change e moto di rifiuto della dittatura tecno-sanitaria, ergo un movimento politico di massa. Una composizione sociale quanto mai poliedrica — esso mobilita infatti cittadini appartenenti alle più diverse classi e categorie sociali —, si specchia con una composizione ideologica altrettanto frammentata.
Il Rapporto CENSIS 2021 volendo catturare gli aspetti ideologico-culturali salienti del movimento è giunto a conclusioni caustiche: esso sarebbe anzitutto caratterizzato da “irrazionalità, pensiero magico, superstizioni antimoderne, speculazioni complottiste” e via contumeliando.
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Oltre Biden. Quale secondo tempo del neopopulismo?
di Raffaele Sciortino
Pubblichiamo di Raffaele Sciortino un paragrafo sull’attuale situazione interna statunitense tratto da un lavoro di prossima pubblicazione sullo scontro Usa/Cina. È il seguito dell’articolo “Dopo Trump?” sulle elezioni presidenziali di un anno fa
Biden eredita un paese oltremodo polarizzato e sfiduciato, nonché ancora sotto la minaccia di una pandemia tutt’altro che superata sia per l’insufficienza del solo rimedio vaccinale a ovviare a una condizione a dir poco precaria della salute della popolazione proletaria1 sia per la persistente opposizione ad esso di parte della base elettorale trumpista. Al contempo, uscita non certo fortissima dal voto per il Congresso, l’amministrazione democratica deve fronteggiare una dura offensiva politica di altri centri di potere, come la Corte Suprema e singoli Stati a maggioranza repubblicana, su temi sensibilissimi quali il diritto all’aborto o le politiche sull’immigrazione.
Ma è sul fronte delle misure economiche, all’uscita dal primo anno di pandemia, che Biden deve intervenire urgentemente e in modo massiccio. Per non rimanere indietro rispetto agli interventi di Trump - quasi quattro trilioni di dollari nel solo 2020 tra helicopter money (denaro a pioggia) per tutti i contribuenti, finanziamenti a fondo perduto, crediti di imposta, detrazioni fiscali e garanzie sui prestiti alle imprese anche medio-piccole, varie indennità di disoccupazione insieme a una moratoria dei pignoramenti e degli sfratti per i ceti medio-bassi, senza contare il quasi raddoppio del bilancio della Federal Reserve al fine di mantenere liquidi i circuiti finanziari. Ma anche per cogliere il momento e tentare di rinsaldare con un piano di riforme il tessuto connettivo di una società che rischia di frantumarsi e balcanizzarsi. Di un possibile, nuovo New Deal si parla negli Stati Uniti per lo meno dalla presidenza Obama, a ridosso della crisi del 2008. Non ne è uscito niente di sostanziale, e qui sta certamente una delle ragioni di fondo dell’ascesa del trumpismo. È la volta buona con Biden? Non è così sicuro.
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Una fase complessa
di Michele Castaldo
Scrivo queste note col cuore e con la mente, come volessi indirizzarle a un compagno che la pensa diversamente sulla crisi, sulla fase e sulla pandemia.
Capisco l’amarezza di tanti compagni e non solo, più che giustificata, per mille e più ragioni; se però questa si tramuta in astio nei confronti di chi è costretto ad agire diversamente, come chi deve sbarcare il lunario esibendo il green pass della vaccinazione, non ci aiuta a ragionare in modo equilibrato, mentre abbiamo bisogno di molta pazienza, freddezza e lucidità.
Qui di seguito cerco di chiarire il senso della complessità che do alle questioni della fase, e di un punto di vista di natura teorica e politica rispetto ad essa. Si può essere d’accordo o meno, ma ciò non dovrebbe costituire un muro tale da non riuscire nemmeno ad ascoltarsi.
Oggi di fronte a un caos mondiale non possiamo avere la presunzione di pensare che tutti aspettino il nostro intervento e la nostra linea politica per dargli una soluzione rivoluzionaria. In queste note sarò ancora una volta chiaro e limpido, senza allungare troppo il brodo come sono costretti a farei i mestieranti del centrismo politico o i filosofi furbacchioni.
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Pandemia. Abbiamo o possiamo avere dei pareri discordi. Per me esiste, non sono in grado di quantificarne la profondità. Ma ritengo che questa sia arrivata come effetto del modo di produzione capitalistico. Ed essa rappresenta una mazzata tra capo e collo per l’insieme del sistema e lo sta obbligando a correre ai ripari nel tentativo di evitare la catastrofe generale. L’esempio più chiaro non ci viene dall’Italia, dall’Europa o da tutto l’Occidente, ma dalla Cina che fu costretta a un lockdown totale per una popolazione di 60 milioni di abitanti, cioè la stessa quantità del popolo italiano, in una zona molto simile al nostro nord-est.
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Essere in comune
di Paolo Cacciari
La crisi ecologica è nella sua essenza una questione etica di giustizia, in cui quelli che sono in alto tentano di mettere i ceti popolari contro la transizione ecologica (lo fa, ad esempio, il ministro Cingolani quando dice “sarà un bagno di sangue” e quando parla di “ambientalisti radicali chic, oltranzisti ed ideologici”). Che fare? Non basta rafforzare il sistema dei trattati multilaterali introducendo clausole vincolanti, spiega Paolo Cacciari, occorre “sottrarre agli stati la sovranità sull’utilizzo delle risorse naturali e cederla alle comunità locali insediate, agli abitanti dei luoghi, ai popoli indigeni…”. Significa, ad esempio, ri-territorializzare le attività economiche a cominciare dalla produzione del cibo. Ma questo può realizzarsi solo sulla base dell’esistenza di una comunità umana capace, per dirla con Jean-Luc Nancy, di “essere-in-comune”, una comunità in cui prevale la condivisione sul possesso e la convivenza sul dominio.
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La crisi ecologica, o, per dire meglio, il progressivo deterioramento degli spazi abitabili del pianeta e quindi la riduzione delle condizioni di sopravvivenza per porzioni sempre più grandi di popolazioni animali, genere umano compreso, rendono evidenti in modo clamoroso almeno due questioni politiche fondamentali: le differenti responsabilità storiche e morali delle società umane operanti nei diversi paesi; la sopravvenuta irrilevanza del principio organizzativo-giuridico del modello dello stato nazionale.
Pensiamo al diossido di carbonio. Il tempo di permanenza e di decadimento di una molecola di CO2 emessa in atmosfera varia da un minimo di trent’anni (metà delle quantità emesse) a cento anni (un terzo) e, per alcune frazioni, fino a oltre mille anni (vedi il documentato sito www.climalteranti diretto da Stefano Caserini).
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