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Globalizzazione, capitale, lavoro
di Giovanna Cracco
“Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? È la libertà del capitale. quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto che dare via libera alla sua attività. […] Il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi [capitalisti e lavoratori salariati, n.d.a.] si delineerà più nettamente ancora. […] signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore.” Karl Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles.
Ci sono parole che fanno la loro comparsa nei ristretti circoli economici, migrano nei discorsi politici e vengono infine proposte e riproposte dai mass media fino a farle diventare parte del lessico comune dei cittadini; ma ogni passaggio le semplifica, le riveste con l’abito adatto allo scopo e all’occasione. Così, i primi utilizzatori sono e restano ben consapevoli del loro nudo significato, gli ultimi ne hanno appena una vaga idea. E quando il tempo sbiadisce i lustrini e lacera il vestito, quando presenta il conto, gli ultimi si ritrovano a non capire per cosa pagano. Ed è ben difficile contestare il risultato di una somma quando non si è in grado di fare le addizioni.
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“Dual mandate” per la Bce
di Agenor
Banche da legare/5 L'ossessione della grande finanza per il tapering, il programma di acquisto di titoli di stato americani da parte della Federal Reserve
Mentre a Bruxelles e Francoforte si continua a discutere di indefinite e “infalsificabili” riforme strutturali per risolvere gli squilibri macroeconomici e finanziari causati da trent'anni di ideologia neoliberista e pessimo senso dello Stato, nei circoli della grande finanza si sente parlare sempre più di 'tapering' e dei rischi che questo possa comportare per l'economia globale e I mercati emergenti.
Ciò che si vuole gradualmente ridurre (per l'appunto 'tapering'), è un programma di acquisto di titoli di stato americani da parte della Federal Reserve – la banca centrale americana - volto a sostenere l'economia domestica, la casse dello stato e l'occupazione. Sembrerà strano a chi legge la stampa italiana, ma tutte le principali banche centrali del mondo, dalla Banca d'Inghilterra alla Fed, alla Banca del Giappone, stanno da diverso tempo acquistando quantità massicce di debito pubblico o garantito dal pubblico nel mercato secondario. Tutte ad eccezione della Banca Centrale Europea.
Come documentato in un precedente articolo, risale a circa un anno fa il tanto conciso quanto epocale annuncio con cui la federal reserve comunicava che avrebbe mantenuto i tassi d'interesse vicini allo 0% ed acquistato debito pubblico americano e obbligazioni private in mano ad agenzie statali (prevalentemente mortgage-backed securities) al ritmo di $85 miliardi al mese finché il tasso di disoccupazione sarebbe rimasto sopra il 6,5% e le aspettative di inflazione ancorate attorno al 2%.
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Di seguito due interventi di Stefano G. Azzarà e del collettivo Antiper sul "dialogo socratico" tra Diego Fusaro e CasaPound
Sul "dialogo socratico" con CasaPound
di Stefano G. Azzarà
Sono stato invitato a partecipare assieme a Diego Fusaro a un dibattito su Marx a CasaPound. Ecco la mia risposta.
... Come forse sapete, ho tradotto e commentato Das Recht der juengen Voelker di Arthur Moeller van den Bruck. Sto per pubblicare un libro su Nietzsche dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice che traduce 4 saggi di Moeller su Nietzsche. Ho scritto su Juenger e il socialismo nazionale. Sto lavorando a un libro su Heidegger e la "rivoluzione" nazista. Ho frequenti contatti con Marco Tarchi, che ho difeso pubblicamente piu volte, attirandomi in passato la reazione di molti miei compagni idioti. Anche sul piano biografico, nel 1991 io e i miei compagni occupammo la facoltà di lettere dell'università di Messina assieme a un gruppo di filiazione ordinovista - assumendocene i rischi e mettendo in conto che ci saremmo presto scannati, come puntualmente avvenne -, perche' altrimenti nessuno ne avrebbe avuto la forza. Inoltre sono allievo di Domenico Losurdo, che più volte ha parlato insieme a Ernst Nolte, ha difeso Garaudy, ha criticato tutte le proposte di legge contro il cosiddetto negazionismo.
Insomma non mi scandalizza affatto parlare con i fascisti.
E però conosco molto bene la storia di questi confronti e di tutti i tentativi di elaborare una "terza posizione" andando oltre destra e sinistra. Proprio la rivoluzione conservatrice weimariana, che e' tra i miei principali oggetti di studio, ne è il prototipo.
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L’innocenza perduta della produttività
Claus Peter Ortlieb
“Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, in quanto tende a ridurre al minimo il tempo di lavoro, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come l’unica misura e fonte di ricchezza.”
Marx, Grundrisse.
Il cosiddetto progresso tecnico e l’aumento costante della produttività sono frequentemente presentati come il cammino potenziale per una vita agiata e come soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Guardando a come la produttività sia raddoppiata negli ultimi 30/40 anni, ciò che significa che con la stessa quantità di tempo speso a lavorare oggi è prodotta una quantità di merci doppia di quella degli anni ‘70, se ne dovrebbe concludere che camminiamo a grandi passi verso una vita di abbondanza. Evidentemente, chiunque oggi affermasse ciò, di fronte alle attuali crisi simultanee e crescenti dell’ambiente, delle risorse, dell’economia e della finanza, sarebbe giustamente considerato un sognatore. C’è qualcosa dunque di sbagliato nel suo calcolo e nella sua promessa.
Dove sta l’errore? Un primo indicatore per una risposta a questa questione ci è dato da uno slogan spesso ripetuto in questo contesto: competitività. Il significato di produttività si basa, innanzitutto, sul confronto: l’impresa più produttiva realizza più prodotti e li può quindi vendere a un prezzo più basso, spingendo in questo modo i suoi concorrenti fuori dal mercato.
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La "mandrakata"
di Leonardo Mazzei
Verso il "governissimo Renzi"? Macché! L'ennesimo "governicchio" di una classe dirigente che non sa che pesci prendere e che alla fine dovrà ubbidire ai diktat delle tecno-oligarchie europee e applicare politiche antipopolari.
Chissà perché lo chiamano Renzi 1, come se il "2" fosse cosa scontata. In realtà la confusione sotto il cielo è grande, e per ora siamo semmai al Renzi zero, un oggetto per adesso senza forma, con una maggioranza pittoresca, ed un programma certo immaginabile ma che ancora non c'è.
Molte cose si chiariranno nei prossimi giorni, limitiamoci perciò ad alcune note su questo ennesimo Colpo di Palazzo, dopo i due precedenti del novembre 2011 (arrivo di Monti) e dell'aprile 2013 (governo Napo-Letta).
1. Disegno sistemico o guerra per bande?
Per prima cosa bisogna domandarsi da cosa nasca questa accelerazione, questa spinta fortissima verso un governo Renzi. Si tratta di un vero e proprio disegno sistemico, con il coinvolgimento ed il sostegno attivo dei principali poteri in gioco, od è semplicemente un episodio della guerra per bande che, frutto della crisi della politica secondo-repubblichina, imperversa ormai da anni?
Probabilmente entrambi i fattori giocano la loro parte ma, per quel che è possibile dire oggi, il secondo (la guerra per bande) ha un ruolo prevalente.
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Jean-Claude Michéa e i "misteri" della sinistra
Mario Cecere
Professore di filosofia nei licei e autore di numerose opere dedicate all'analisi del pensiero liberale e agli esiti politici e culturali totalitari delle sue premesse individualistiche, Jean-Claude Michéa è tra i piu' interessanti esponenti di una tendenza controcorrente che, in Francia e in Italia, (pensiamo a Diego Fusaro e al filosofo Costanzo Preve recentemente venuto a mancare), si sta segnalando per lo sforzo generoso di riuscire nell'opera titanica di dissodamento della crosta ideologica che rende attualmente impensabile l'uscita dall' asfissiante impasse "post-moderna" della fine della storia capitalistica, indicando coraggiosi percorsi alternativi di ricerca, di emancipazione e di affrancamento, posti sotto il segno di un rinnovato modello politico etico ed economico di esistenza in comune.
Nel testo di cui ci apprestiamo a esporre e a commentare alcune preziose linee guida, Les mystères de la gauche: de l'idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, apparso in Francia nel marzo del 2013 e ancora non tradotto in italiano, Michéa riassume il lavoro di anni di riflessione storica e filosofica che lo hanno condotto ad affermare, tra l'altro, l'assoluta organicità della "sinistra" al progetto di dominazione capitalista, spiegando che è l'equivocità del termine "sinistra", di cui l'autore ricompone la genesi storica contraddittoria, a generare i numerosi fraintendimenti e la paralisi attuale di molti sinceri anticapitalisti.
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Aporie della moltitudine
Carlo Formenti
Parto da Bifo, non solo perché il suo è l’intervento più lungo, ma anche perché mi consente di rendere ancora più chiara e puntuta l’intenzione polemica del mio libro. Franco mi rende l’onore delle armi: 1) riconoscendo che la mia analisi della mutazione del modo di produzione capitalistico è ineccepibile; 2) lodando l’utilità del mio lavoro di catalogazione di un ampio ventaglio di teorie, sforzo che, appunta ironicamente, risparmia ad altri la fatica di leggere tutti quei libri; 3) sostenendo che quando analizzo i processi sono «formidabile» (captatio benevolentiae?), ma aggiungendo che quando cerco di trarne conclusioni critiche cado nel vizio – «futile» e anche un po’ antipatico – di procedere per confutazioni, pretendendo di dimostrare che tutti sbagliano. Quindi, visto che viceversa rivendico e considero irrinunciabile il metodo della confutazione, procederò a confutare, tanto sul piano del metodo, quanto su quello della realtà di fatto, le sue argomentazioni.
Confutare è inutile, scrive Bifo, seguendo la lezione di Deleuze, perché non esistono verità da affermare né falsità da confutare, bensì solo «visioni». Ebbene, questa «visione» è esattamente il mio primo bersaglio polemico (non a caso ho scelto il sottotitolo Contro le ideologie postmoderne).
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Il populismo è democratico
Machiavelli e gli appetiti delle élite
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
L’anti-populismo può facilmente diventare un’arma nella mani delle élite, un’arma che pone a rischio la stessa convivenza democratica. Questo ci può insegnare Machiavelli attraverso un dibattito anglosassone sui rapporti tra i Discorsi e il neo-repubblicanesimo contemporaneo
L’accusa di populismo ricorre spesso nel lessico pubblico italiano. Interi movimenti politici sono spesso ricondotti a questa categoria. È il caso per esempio del Movimento 5 Stelle e, per alcuni aspetti, del cosiddetto berlusconismo, oltre che di vari soggetti dediti alla contestazione politica, inclusi i vari Occupy e le loro declinazioni locali.[1] A detta di quelli che lo criticano, il populismo consiste nella semplificazione eccessiva di questioni pubbliche complicate, ridotte a caricature adatte a soddisfare gli appetiti dei più e a suscitare in essi irrazionali e controproducenti istinti contestatori. Tale semplificazione agitatoria danneggerebbe non solo il perseguimento del bene collettivo ma anche quello degli interessi di coloro che si fanno attrarre da tale semplificazione. È implicita in questa concezione del populismo un’immagine negativa delle moltitudini: il “popolo” è spesso disinformato, distratto, disinteressato al bene comune, volatile nelle preferenze e nel giudizio politico, attratto dalle semplificazioni concettuali, estraneo alla razionalità e al senso civico richiesto dall’analisi dei problemi sociali ed economici più urgenti e complessi. Non solo: in tale accusa è implicita una valorizzazione paternalistica del ruolo delle élite tecnocratiche, considerate le più adatte a identificare e interpretare le vere esigenze e i veri interessi delle persone comuni. La maggioranza dei cittadini vivrebbe, secondo gli anti-populisti, in una sorta di falsa coscienza indotta da mancanza di competenze, da pigrizia cognitiva, e da un uso smodato della TV o dei social media, che non permetterebbero alle persone comuni di giudicare da sé del proprio destino politico.
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Attenti ai gattopardi
Giovanni Bucchi intervista Emiliano Brancaccio
Euro, disegnato per la Germania: in cinque anni l’occupazione tedesca cresciuta di 1,5 mln, nei paesi periferici calata di 6 milioni. Il disastro non si può evitare col buonismo comunitario. Sì a un “piano B” di uscita dall’euro ma attenzione ai gattopardi del liberismo
L’Italia ha bisogno di un “piano B” per uscire dall’euro, ma bisogna intendersi su come intraprendere questo percorso. Parola di Emiliano Brancaccio, docente all’Università del Sannio, uno di quegli economisti ai quali non si può addebitare la colpa di non aver previsto la crisi, viste le sue ricerche del decennio scorso che avanzavano dubbi sulla tenuta dell’eurozona. Nel settembre 2013 Brancaccio ha promosso un “monito” pubblicato sul Financial Times e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica mondiale (www.theeconomistswarning.com), dove si legge che le politiche di austerity portano dritto all’uscita dall’euro. Gli abbiamo chiesto un parere sul manifesto del prof. Paolo Savona, che propone un “piano B” di uscita dall’eurozona, sia pure come ipotesi estrema.
Professor Brancaccio, quali sono i motivi di questa avversità crescente verso la moneta unica?
“Negli auspici dei padri fondatori, l’Unione monetaria europea avrebbe dovuto creare più collegialità nelle decisioni di politica economica, in modo da arginare il potere soverchiante della Germania unificata. Oggi sappiamo che quelle speranze erano vane.
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Lavorare tutti, lavorare meno (come in Germania)
Stefano Perri
Che l’occupazione e il lavoro siano la questione centrale che dobbiamo affrontare non è più messo in discussione da nessuno[1]. Nei primi anni dallo scoppio della crisi il tasso di disoccupazione dell’Italia è stato più basso di quello della media europea, ma negli ultimi anni il fenomeno si è drammaticamente aggravato fino a raggiungere, secondo le ultime rilevazioni ISTAT, relative al novembre 2013, un tasso di del 12,7%, superando il dato medio europeo[2].
L’andamento dei tassi di disoccupazione per l’area Euro e le tre maggiori economie europee è mostrato nel grafico 1. Sono riportati nel grafico anche la stima da parte dell’ AMECO del tasso di disoccupazione del 2013 (che risulta per l’Italia leggermente inferiore a quello calcolato dall’Istat) e le proiezioni per il 2014 e il 2015. Come si vede è impressionante l’accelerazione che la crescita del tasso di disoccupazione ha avuto a partire dal 2011.
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Quel gran “pasticcione” di Marx?
di Diego Giachetti
In difficoltà a trovare la “classe perduta” hanno provato a interrogare Marx ma si sono presto ritratti. Marx sembrerebbe non aiutare, invece di semplificare complica le cose e quando, dopo più di mille pagine de Il Capitale, si chiede finalmente cosa sono le classi, non va oltre le due paginette, poi s’interrompe. In altre opere invece “pasticcia”, scrive e ragiona rispettivamente di due classi antagoniste oppure individua cinque, sei, sette e anche otto classi. Marx sarebbe quindi la dimostrazione che le classi sono un oggetto indefinibile, contraddittorio, possibile di varie interpretazioni, tutte insufficienti: il mistero di cosa esse siano resta così insoluto.
Lenin in uno scritto del 1919 provò a fare un po’ di chiarezza definendo le classi come «quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i loro rapporti (per lo più fissati e sanzionati da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo e la misura in cui godono della ricchezza sociale di cui dispongono» ( Opere, vol. 29, Roma, Editori Riuniti). Avendo letto un po’ di Marx e di Engels, questa sua sintesi era il frutto di quelle letture e ad essa si ispirava: ma si ispirava ad un “pasticcio” appunto. Invece di semplificare la strada ai ricercatori delle classi perdute la complicò. Chiamava in causa troppe variabili, parlava di produzione sociale e non industriale o manifatturiera e di organizzazione sociale del lavoro e non di fabbrica. Non contento, vi aggiungeva i rapporti, in gran parte giuridici, con i mezzi di produzione e la natura e l’ammontare del reddito.
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Un futuro
di Francesco Ciafaloni
In un mondo che cambia rapidamente colpisce la mancanza di progetto non solo delle forze politiche maggiori, che ci hanno abituato al peggio, ma di tutti. Per i giovani senza lavoro o precari (i vecchi intrinsecamente hanno poco futuro e fanno progetti brevi) è una conseguenza della condizione materiale. Per i soggetti collettivi forse è una conseguenza, o una causa, del declino del paese. L’unico fine rimasto sembra la stabilità, la governabilità. E non è un bel fine. Quando le acque sono agitate bisogna navigare con una direzione, non provare a stare fermi. Stabilità, insieme a comunità e identità, era uno dei principi che reggevano Il mondo nuovo, la società dei consumi gerarchica, biologicamente predeterminata, totalitaria, descritta da Aldous Huxley nel 1932 e molto più simile al mondo attuale che non la società totalitaria povera descritta in 1984 da George Orwell nel 1948. Di 1984 abbiamo realizzato perfettamente solo la neolingua e alcuni suoi principi: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Del Mondo nuovo, negli ultimi trent’anni, quasi tutto: il primato dei consumi e il sesso di consumo, gli psicofarmaci come rimedio globale, la interiorizzazione felice, soddisfatta, del proprio ruolo gerarchico, e la governabilità, la stabilità, come dovere-piacere supremo. I ricchi non li contrastiamo, gli obbediamo.
Ma è difficile citare un momento nel passato in cui “l’alterna onnipotenza delle umane sorti” sia stata all’opera con più vigore di adesso.
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Il dissenso in cattedra
Marco d'Eramo
Marcello Cini, un fisico che ha rimescolato le carte della scienza. Una biografia umana e intellettuale oggi impensabile, discussa in una giornata di studi a Roma
E' incredibile come bastino pochi decenni: esperienze di vita che ci parevano esemplari diventano inaudite. Se un giovane volesse ripercorrere la traiettoria umana di Marcello Cini (1923-2012), gli riuscirebbe impossibile, anzi gli sarebbe quasi impensabile. Eppure Cini è stato uno dei migliori intellettuali italiani del '900.
Non solo perché un giovane di oggi ha la fortuna di non vedere la propria madre ebrea licenziata dall'insegnamento a causa della religione dei suoi avi, come invece avvenne a Cini. Ma anche perché un giovane di oggi ha invece la sfortuna di non potere neanche sognare di diventare professore ordinario a 33 anni, come riuscì a Marcello, nominato ordinario di fisica teorica a Catania nel 1956: ma allora i fisici in Italia erano soltanto alcune centinaia scarse.
Ma non è solo il contesto materiale, politico a essere stravolto. Chissà se un giovane di oggi parteciperebbe a una lotta partigiana se un esercito oppressore occupasse il nostro paese?
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La gonfia, tumefatta vicenda dei #marò
Due anni di fascisteria, patacche e bombe al panzanio
di Matteo Miavaldi (guest blogger)
Il caso Enrica Lexie, dopo due anni, si sta avvicinando alle fasi finali, dopo una serie di rinvii e complicazioni diplomatiche, mistificazioni e propaganda elettorale tanto in India quanto in Italia: elementi che hanno aperto la strada alla “narrazione tossica” della vicenda dei due marò, strapazzata da un’informazione generalmente superficiale e, in alcune circostanze, platealmente nociva.
Poco più di un anno fa, qui su Giap, pubblicammo due lunghi(ssimi) articoli, molto densi di dati e fonti, che smontavano punto per punto la ricostruzione offerta da Il Giornale, Libero e Il Sole 24 Ore: una storia che si basa sulle teorie raffazzonate del sedicente “ingegnere” Luigi Di Stefano, dirigente nazionale di Casapound.
Quei due post si sono presto trasformati in un’inchiesta collettiva, e hanno avuto un numero esorbitante di visite e condivisioni sui social media. Il primo dei due è stato visitato da oltre mezzo milione di IP unici, e ogni giorno continua ad attirare lettori.
Da quei post è nato anche un libro, presentato in giro per l’Italia e recensito su importanti testate nazionali.
Eppure, a distanza di un anno, la quasi totalità dei media nazionali finge che quello smontaggio non abbia mai avuto luogo, e continua a raccontare falsità e mezze verità, stravolgendo completamente l’intera vicenda.
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I vostri segreti in vendita
di Pratap Chatterjee
Immaginate di poter gironzolare non visti attraverso una città, intrufolandovi a vostro piacimento in qualsiasi momento, di notte o di giorno, in case e uffici. Immaginate di poter osservare, una volta all’interno, tutto quel che succede, non notati da altri, dalle combinazioni delle casseforti bancarie agli incontri clandestini di amanti. Immaginate anche di essere in grado di registrare silenziosamente le azioni di tutti, che siano al lavoro o al gioco, senza lasciare traccia. Tale onniscienza potrebbe, naturalmente, rendervi ricchi, ma, cosa forse più importante, potrebbe rendervi molto potenti.
Tale scenario da romanzo di fantascienza futurista è oggi di fatto quasi una realtà. Dopotutto la globalizzazione e Internet hanno collegato tutte le nostre vite in un’unica fluida città virtuale dove tutto è accessibile al tocco di un polpastrello. Depositiamo il nostro denaro in casseforti in rete; conduciamo le nostre conversazioni e spesso ci spostiamo da un luogo all’altro con l’aiuto dei nostri dispositivi mobili. Quasi tutto ciò che facciamo nel regno digitale è registrato e sopravvive per sempre nella memoria di un computer cui, con il software e le password giuste, altri possono avere accesso, che lo vogliate o no.
Ora – ancora un momento d’immaginazione – che ne direste se ogni vostra transazione in quel mondo fosse infiltrata? Se il governo avesse pagato sviluppatori per inserire botole e passaggi segreti nelle strutture costruite in questo nuovo mondo digitale per tenerci continuamente connessi gli uni agli altri?
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Invadiamo i Cie, gabbia di gabbie
Un giorno al centro di Ponte Galeria, il più grande d'Europa
di Christian Raimo
Venerdì mattina sono entrato per la prima volta in un Cie, un centro di identificazione e di espulsione. Ero al seguito del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che portava ai detenuti del centro di Ponte Galeria una lettera che il presidente Napolitano aveva scritto in risposta a quella che gli era arrivata da una serie di detenuti che avevano protestato nelle settimane passate arrivando a cucirsi la bocca.
Era la prima volta che entravo in un Cie, e mi è dispiaciuto che non l’avessi fatto prima. Avrei capito con una chiarezza cristallina alcune cose sulla politica italiana e europea degli ultimi dieci anni.
Il Cie di Ponte Galeria è il più grande di Europa. Visto da fuori è una specie di caserma gigante. Si trova accanto alla Fiera di Roma. Anzi, a dire il vero, si trova attaccato al parcheggio dell’entrata Nord della Fiera di Roma. Non c’è nessuna indicazione che porti al Cie, sembra veramente un non-luogo nella landa della non-luoghità. Lasci la macchina in questo enorme parcheggio vuoto, la desolata stazione della ferrovia per Fiumicino da una parte, e scale mobili che non trasportano nessuno per ore dall’altra: Paolo Virzì l’aveva giustamente presa come location di Tutta la vita davanti.
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Appunti sulla guerra valutaria II
Stefano Lucarelli
Dopo un’anno di incremento delle borse mondiali (2013), iniziano le prime avvisaglie di un’instabilità congenita (strutturale), questa volta derivante dalle tensioni valutarie che hanno attraversato, in particolar modo, i paesi emergenti. In questo articolo Stefano Lucarelli fa il punto della situazione, con un’analisi attenta e puntigliosa della situazione in atto, mettendo in luce come i movimenti dei capitali internazionali siano ancora attratti dalla supremazia del dollaro Usa. Un altro tassello della “critica della crisi”. La prima puntata degli Appunti sulla guerra valutaria può essere letta qui.
* * * * *
1. Il 2013 è stato un anno caratterizzato da menzogne, o – se preferite – da maldestri tentativi di governare le aspettative sui mercati finanziari, sulle relazioni industriali, sul futuro degli assetti istituzionali nazionali ed europei. Tra aggiustamenti al ribasso sui tassi di crescita europei, magie statistiche e comunicative volte a sottostimare il tasso di disoccupazione e a concentrare l’attenzione mediatica sulla sola disoccupazione giovanile (tagliando in questo modo fuori dall’agenda politica i disoccupati e i precari dai 25 anni in su), si giunge al capolavoro del ministro Fabrizio Saccomanni: subito dopo Capodanno l’uomo venuto da Banca d’Italia per far sì che il Tesoro torni degno di tal nome, cerca di diffondere fiducia nel Belpaese invitando gli italiani a gioire per il calo dello spread.
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A proposito di Italian Theory*
Note sullo stato della filosofia italiana
di Toni Negri
Se di quel groviglio di prospettive teoriche, di progetti filosofici, di iniziative e di nuove pratiche politiche, sorto e sviluppatosi fra il ’60 e la fine secolo in Italia, se dunque di questo groviglio qualcuno non facesse un insieme, magari plurale o dialettico, chiamandolo Italian Theory – non ci sarebbe nulla da replicare. Come gli americani hanno fatto mettendo assieme, nellaFrench Theory, Derrida e Deleuze, Bataille e Foucault, Althusser e Lyotard, senza pretendere matrici comuni e solo invece costruendo un ambito, un territorio, un’epoca. In Italia, oltre ad essere difficilmente identificabile un ambito ricopribile da una sigla unitaria, la situazione è complicata dal fatto che quel territorio e quel tratto temporale, più che da un pensiero, furono riempiti da un conflitto politico assai drammatico. La filosofia nacque e si dispose dentro quel conflitto. L’origine di un’eventuale Italian Theory ha dunque caratteristiche difficilmente riconducibili ad una qualsiasi comune condizione storica e teoretica. Se il mondo accademico gli è totalmente estraneo, quello sociale è scisso da conflitti di classe e politici prossimi alla guerra civile. All’origine di quel groviglio non si può certo narrare una teoria politica; al massimo, nei suoi anfratti, si potranno riconoscere degli strumenti di lotta politica. La cassetta degli attrezzi precede tutto il resto.
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Brics, cronaca di una morte annunciata?
di Francesco Bogliacino
La mitologia dei paesi emergenti, con il recente deprezzamento delle valute, lascia ora il posto a una nuova stagione di crisi e debito estero nelle periferie. Ma senza un ritorno alla repressione finanziaria la sequenza di euforia e collasso continuerà a spostarsi indisturbata da un paese all’altro del pianeta
La scorsa settimana l’Economist mostrava in un grafico la generale tendenza delle valute dei principali Paesi emergenti a deprezzarsi, con una forte caduta nell’ultimo mese [1]. Si è assistito a grandi movimenti sui mercati finanziari a cui sono seguite pesanti risposte di politica monetaria. I casi più eclatanti sono stati l’Argentina, che ha dovuto sospendere l’intervento sui mercati dei cambi per evitare l’assottigliarsi delle riserve, e la Turchia, con una manovra monetaria di quasi cinque punti sui tassi d’interesse overnight. Nella vulgata del mondo finanziario, tanto avvezzo ai nomignoli, si parla giá dei Cinque Fragili (India, Indonesia, Brasile, Turchia, e Sudafrica) e altri cinque paesi sono nell’occhio del ciclone (Argentina, Venezuela, Thailandia, Ucraina, Ungheria), per i rischi associati a una crescente instabilità politica [2]. In cifre, la posizione finanziaria netta, cioè la differenza tra attività (patrimoni, investimenti, capitali) detenute all’estero dai cittadini, e passività detenute nel paese da non residenti) al 2012 era negativa per valori pari a 38 punti di Pil per Il Brasile, 16 punti per l’India, 42 punti per l’Indonesia, 53 punti per la Turchia e 8 punti e mezzo per il Sudafrica (dati Fmi).
La storia non è certo nuova, le crisi sono scatenate da un massiccio e improvviso deflusso di capitali dai paesi in questione, che in genere arrivano dopo lunghi periodi di indebitamento denominato in valuta estera e la cui successiva svalutazione mette in fibrillazione i bilanci di banche e imprese.
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Electrolux
Problemi di transito alla dogana operaia di Susegana
di Devi Sacchetto
Alla dogana operaia di Susegana (Treviso) le bolle di accompagnamento e il contenuto di ogni camion in transito sono accuratamente ispezionati. Verso l’esterno gli operai lasciano passare solo una quota della produzione effettuata in loco: un migliaio di frigoriferi al giorno stipati in 10-12 camion, perché vogliono garantirsi un po’ di spazio nei magazzini per stoccare la produzione quotidiana ed evitare così di essere messi in libertà. In effetti Enza Calderone, delegata della Uilm, in uno dei tanti capannelli racconta che l’azienda minaccia di mettere gli operai in libertà perché non riesce a portare fuori i frigoriferi, ma che non sarà certo questo a far togliere i blocchi. Verso l’interno viene concesso di far entrare solo i prodotti finiti che arrivano da altri stabilimenti e i semilavorati necessari per la produzione. I furgoni che riforniscono la mensa sfrecciano invece tra gli applausi. L’organizzazione operaia si estende «tutto intorno al grande stabilimento per evitare che dagli altri passaggi l’azienda tenti qualche sortita», ci racconta Manuela Marcon della Fiom. L’azienda ha fatto arrivare anche un treno per caricare 8000 frigoriferi, la produzione di due, tre giorni, che gli operai però useranno come magazzino senza farlo uscire, almeno per il momento. Perché il sapere operaio in una delle ultime grandi fabbriche del Veneto pare essersi riprodotto nel tempo. Da una settimana ormai il blocco delle portinerie e lo sciopero a rotazione nei reparti a Susegana, come negli altri stabilimenti dell’Electrolux, stanno facendo infuriare la dirigenza che si ritrova senza particolari sostegni.
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Teorie volgari e prospettive economiche
Amit Bhaduri, Nadia Garbellini, Ariel Wirkierman
Per comprendere cosa potrà accadere nel corso del 2014 all’economia mondiale occorre partire da una considerazione squisitamente teorica: di questi tempi le teorie sopravvivono in una forma “volgare” e vengono utilizzate per giustificare politiche opposte a quelle per le quali erano state originariamente pensate. La versione volgare della teoria keynesiana della domanda effettiva a cui i politici fanno riferimento in tempi di recessione è la cosiddetta “stimulation doctrine”, secondo cui governi e banche centrali dovrebbero iniettare liquidità a favore degli istituti finanziari, stimolando la domanda aggregata e credendo di salvare in questo modo l’economia reale dalla disoccupazione. Molti economisti, persino alcuni tra quelli che si definiscono “keynesiani”, continuano a teorizzare su basi neoclassico-liberiste, assumendo “agenti rappresentativi”, teorizzando equilibri di lungo periodo in cui la domanda aggregata non conta, ipotizzando perfetta flessibilità dei salari e una sostituibilità tra capitale e lavoro garantita da un sistema di prezzi che riflette la scarsità relativa. Se saranno queste le teorie che continueranno ad ispirare le politiche economiche anche nel 2014, l’esito prevedibile sarà un acuirsi dei problemi economici e sociali su scala mondiale.
Eppure gli insegnamenti di Kalecki e Keynes potrebbero ispirare scelte politiche ben più sagge.
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Il capitalismo americano
di Daniele Balicco e Pietro Bianchi[1]
Pubblichiamo un saggio di Daìniele Balicco e Pietro Bianchi dal terzo volume di “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici”, vol. III. Jaca Book 2013. Il titolo originale è: “Interpretazioni del capitalismo contemporaneo. Fredric Jameson, David Harvey, Giovanni Arrighi”
Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio 1968-1977. Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana. In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia, ecc.) escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare.
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"E' la prima volta nella storia dell'umanità che abbiamo un sistema monetario così assurdo"
Alessandro Bianchi intervista Alberto Bagnai
Nel Consiglio europeo di giovedì 19 dicembre, Angela Merkel, di fronte all'impossibilità di far accettare ad i suoi “alleati” i cosiddetti contratti di riforma vincolanti, ha sostenuto come “senza la coesione necessaria, l'euro prima o poi esploderà”. Sarà la Germania a staccare la spina? E ci troveremo, quindi, di fronte ad una beffa assoluta per i paesi del sud che hanno deciso la via della povertà, della disoccupazione di massa e della rinegoziazione dei diritti sociali pur di restare nella moneta unica?
Farei una riflessione iniziale di principio. E' assolutamente ovvio come un'unione monetaria tra paesi diversi, creando distorsioni e tensioni derivanti dall’abolizione di quello strumento difensivo che è il cambio flessibile, non possa sopravvivere senza un coordinamento o una cooperazione. Questa esigenza basilare, iscritta in modo molto chiaro nei Trattati europei soprattutto per quel che riguarda le politiche sociali, si può realizzare in tanti modi. Quello che Angela Merkel propone oggi è abbastanza simile ad una resa senza condizioni, come ha commentato in modo molto efficace Jacques Sapir.
L'Unione Europea nasce fra paesi diversi, alcuni dei quali erano in un ritardo quantificabile in termini di Pil pro capite in una ventina di anni rispetto al paese leader, la Germania. In questo contesto, il sogno era quello di creare una comunità di eguali per competere con i big player del mondo, ma per arrivare a questo, i paesi del sud dovevano essere aiutati da quelli del nord ed una cooperazione positiva di questo tipo non si è verificata.
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I governi che vogliono fare politiche progressiste non possono rimanere nell'euro
Intervista a Costas Lapavitsas
Pubblichiamo un'attualissima intervista a Costas Lapavitsas, economista greco che insegna all'Università di Londra e scrive sul Guardian. Oltre ad affrontare in profondità il tema economico, Lapavitsas discute anche delle grandi speranze suscitate dalla lista Tsipras e dal partito Syriza, sia in Grecia che nel resto dell'Europa e nel nostro paese: se non si affrontano i temi con chiarezza, si rischia di affossarle definitivamente
Come sará il voto greco per le europee?
In questo momento c’é tanta rabbia, disperazione e mancanza di capacitá organizzativa. Non so se la gente in Europa lo capisce, peró i greci si sentono molto frustrati, disillusi e soprattutto deboli. É probabile che il Pasok, il vecchio partito di governo socialdemocratico, sparisca completamente e Nuova Democrazia, il partito di destra che è al potere, subisca importanti perdite. É anche probabile che Syriza cresca tanto da diventare il partito di maggioranza relativa, anche se non so se potrá governare da solo. É da prevedere una crescita del partito fascista fino a diventare il secondo o terzo partito per importanza.
Le elezioni europee, insieme alle amministrative in Grecia - si voterá lo stesso giorno - saranno senza dubbio un evento politico molto significativo. Le elezioni europee potrebbero significare una completa trasformazione del quadro politico ed elettorale in tutta la Grecia. Se la coalizione di governo di destra e Pasok dovesse perdere voti, sarebbe molto difficile per loro continuare a governare con stabilitá e portare a termine le misure che esige la Troika.
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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
Militant
Alcuni libri sono come le ciliegie… uno tira l’altro. E’ capitato così che leggendo La bolla del dollaro, un libro che consideriamo davvero importante e che a breve recensiremo, ci siamo imbattuti in un volume altrettanto importante scritto da Duccio Basosi e pubblicato nel 2006 dai tipi delle Edizioni Polistampa: Il governo del dollaro. Sulla scorta di fonti originali e poco conosciute il testo affronta uno degli snodi più importanti della storia recente del capitalismo, ovvero il passaggio dal gold-dollar standard uscito dalla conferenza di Bretton Woods al dollar standard su cui ancora oggi poggia il sistema monetario internazionale. Forse potrà sembrare strano star qui a sottolineare l’importanza di un libro che affronta avvenimenti ormai vecchi di oltre quarant’anni eppure l’analisi di quanto avvenne allora si rivela indispensabile per comprendere le radici della crisi che dal 2007 scuote il modo di produzione capitalistico e, al contempo, le contraddizioni interimperialistiche che caratterizzano il presente. Da questo blog abbiamo più volte sottolineato come la crisi finanziaria rappresenti solo l’epifenomeno di una crisi sistemica ben più profonda legata alla caduta tendenziale del tasso medio di profitto e all’esaurimento del ciclo di accumulazione fordista che aveva caratterizzato i “gloriosi” 30 anni post bellici. Abbiamo anche scritto di come tutto questo si sia tradotto in una crisi di egemonia dell’imperialismo statunitense costretto a confrontarsi in primo luogo con l’emersione del blocco imperialista europeo.
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