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La via italiana alle riforme strutturali "tombali"

Tra Electrolux e "Job Act"

Quarantotto

Sono tempi strani, come abbiamo visto.

Persino una rubrica di "arguto commento" su Dagospia sembra aver metabolizzato certi concetti che, mettiamo solo un paio di anni fa, sarebbero stati eretici se non impopolari (la cultura "livorosa pop" pareva molto più saldamente in sella):

"Per salvare la produzione in Italia gli svedesi di Electrolux vogliono che gli stipendi calino da 1.400 a 800 euro al mese. Il costo del lavoro negli stabilimenti del Nord Est deve allinearsi il più possibile a quello di Polonia e Ungheria. Il Sole 24 Ore commenta serafico: "le multinazionali mirano sempre di più al taglio dei costi e all'aumento della produttività" e la colpa è tutta nostra che "non abbiamo fatto le riforme" per offrire migliori "condizioni di costo del lavoro, burocrazia e infrastrutture" (p. 35).

Sarà, ma ci sono altre due notizie che dovrebbero far riflettere: aumentano i poveri e un italiano su sei vive ormai con meno di 640 euro al mese, mentre la Bundesbank tedesca vorrebbe imporre una patrimoniale ai cittadini dei paesi che rischiano il default.

Queste tre notizie, se messe insieme, spiegano molto. Siamo un paese che si è svenato, si sta svenando e si svenerà sempre di più per restare nella moneta unica. Abbiamo accettato l'idea tedesca che il debito pubblico sia il male assoluto e ci siamo incaprettati con il pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact.
Non ci possiamo salvare perché non abbiamo sovranità monetaria, non possiamo applicare dazi, non possiamo fare dumping fiscale (anzi, dobbiamo subirlo), non abbiamo più la struttura industriale per vivere di esportazioni.


Siamo un paese profondamente impoverito, dove milioni di cittadine e cittadini accetterebbero di corsa quegli 800 euro al mese dell'Electrolux perché almeno non sono in nero e nei loro stabilimenti non ‘è il rischio di morire bruciati. Chi vuole un posto di lavoro deve lavorare di più ed essere pagato meno.

Se vogliamo mantenere una quota di produzione industriale - visto che non possiamo vivere tutti di turismo e agricoltura se non altro perché abbiamo devastato mezzo paese - il nostro posto è con Polonia, Ungheria, Bulgaria e Serbia. E dobbiamo anche rincorrere, nel campionato del dumping sociale. Per questo oggi bisognerebbe ringraziare i manager di Electrolux: con la loro durezza ci stanno solo dicendo chi siamo e dove stiamo andando. Loro hanno una politica industriale. I nostri governi neppure quella."

Prontamente, dalla Cisl ci arriva invece il concetto che la trattativa è aperta, che i "notiziari" riportano "inesattezze" e che si può arrivare al modello "Indesit", invocando un intervento del governo che eviti che gli svedesi perdano 30 euro per ogni lavatrice: si potrebbero applicare i "contratti di solidarietà" in cambio di un piano di nuovi investimenti su prodotti innnovativi e della flessibilità dell'orario. Insomma, quello che non va nella questione Electrolux è che ci sia un piano di disimpegno dall'Italia (!), mentre sarebbe prioritario mantenere il manifatturiero (a qualsiasi costo e senza menzionare l'euro).

Ora i contratti di solidarietà essenzialmente introducono una riduzione di orario e di retribuzione in cambio del mantenimento dell'occupazione, evitando di disperdere competenze e know how,: lo Stato, questo parassita, (tramite il Ministero del lavoro- direzione generale per gli ammortizzatori sociali e per gli incentivi del lavoro) garantisce, nel caso della imprese maggiori, rientranti nel campo di applicazione della CIGS, un'integrazione salariale pari all'80% (misura aumentata dalla manovra tremontiana dell'estate 2009) della retribuzione persa.

Notare che l'integrazione non spetta a:

    dirigenti;
    apprendisti;
    lavoratori a domicilio;
    lavoratori con anzianità aziendale inferiore a 90 giorni;
    lavoratori assunti a tempo determinato per attività stagionali.


I lavoratori part-time sono ammessi nel solo caso in cui l’azienda dimostri “il carattere strutturale del part-time nella preesistente organizzazione del lavoro”.

Dunque, il contratto con la sua durata biennale, prorogabile per altri due, e rinnovabile con un nuovo "patto" trascorsi 12 mesi dalla fine del primo periodo, introduce un bench mark di settore, per un periodo significativo, sul mercato del lavoro, che è tanto più indicativo quanto più si riduce il complesso del manifatturiero nazionale: e non a caso si vuole estendere il modello "Indesit".

L'effetto complessivo, dunque, è di rendere accettabile, grazie alla gradualità, una deflazione salariale nominale, lasciando comunque invariati per quattro anni (circa) i salari reali (tagliati); ma, al tempo stesso, richiede la spesa pubblica. Non si scappa.

Gli espertologi della Confindustria escludono che possa esservi, in questo quadro drammaticamente mutato, un ritorno alla indicizzazione salariale, - ma "generosamente" per tutelare il potere d'acqisto dei lavoratori dall'inflazione ('ziamai ci fosse un domani la ripresa!)-, e che la parola "euro" possa essere pronunziata.

E questa mi pare una scelta (suicida) che non lascia adito ad equivoci ed incertezze.

Anzi, poichè l'euro, proprio l'euro (what else?), crea una situazione emergenziale che, come vediamo, fa presentare questa come la migliore delle ipotesi, una specie di salvezza in extremis, il problema che si pone è come guidare un processo di irresistibile deflazione salariale ulteriore, finanziandolo col crescente intervento finanziario pubblico, rigorosamente supply side e volto in definitiva all'esportazione prevalente del prodotto.

In queste condizioni come può calare la pressione fiscale (dato che sicuramente cala la base imponibile)?

Come può non pensarsi che, per finanziare questi "oneri imprevisti", non si ricorra alla logica emergenziale delle entrate straordinarie e al taglio massiccio di altra spesa pubblica?

Questa è la prospettiva concreta: per mantenere un sistema manifatturiero "cacciavite" (in concorrenza con Spagna, Polonia, Irlanda, Serbia et similia), strutturato essenzialmente sugli IDE (l'Electrolux è l'ex italiana Zanussi, oggetto di IDE), e cioè, in ultima analisi, per garantire un certo livello di profitti di gruppi esteri (profitti che vengono quindi esportati), si provvederà ad ampliare la tassazione, arrivando all'inevitabile intensificazione della tassazione patrimoniale (re-invocata da Bundesbank, dopo quella già pianificata da Deutschebank, su carta intestata della Commissione), straordinaria e ordinaria, su questo o quel cespite "al sole" (cioè degli italiani risparmiatori....grazie ai precedenti deficit pubblici, che ora non ci potranno essere più), amplificando il calo della domanda (certo non ci saranno nuove assunzioni di "giovani", esclusi dal beneficio) e quindi della stessa produzione dei comparti industriali inevitabilmente esclusi.

Magari si arriverà, come invoca sempre il Sole24h, alla generalizzata "fiscalizzazione degli oneri sociali", riducendo il "cuneo fiscale", altra misura supply side, che garantisce solo gli attuali livelli di (dis)occupazione (e te credo! Ci manca solo che non applichino la curva di Phillips "al contrario"); ma sempre in pareggio di bilancio, cioè giustificatrice di ulteriore taglio della spesa e tassazione patrimoniale. Cioè aggiungendo altro calo della domanda in fase depressiva. E sfoltendo, nel frattempo, così, la parte dell'industria che non rientra nel gioco dei grossi gruppi tutelati. Una vera e propria ristrutturazione-coloniale.

Eh sì, perchè, poichè pur tosando alla morte i contribuenti o tagliando in modo prociclico la spesa pubblica, le piccole e medie imprese, italiane, non riusciranno ad arrivare in tempo per ottenere i contratti di solidarietà, nè in percentuali significative (dati i numeri), nè in ragione delle condizioni in cui versano, di sostanziale insolvenza, per calo della domanda (pubblica ed estera), che viene così accentuato dal caratterte supply side dell'intervento, e per un connesso drammatico credit crunch.
 

Insomma una ristrutturazione socio-economica, che consente di realizzare esattamente il modello industriale perdente e sussidiario che "loro" vogliono: si continuerà a svendere l'Italia e a contrarre i salari, stabilizzando il basso livello occupazionale e l'avvitamento verso l'est europeo.

E come si può vedere, l'abolizione (job act in vista) dell'art.18 non gioca nessun ruolo significativo di incentivo dell'occupazione in questa irresistibile tendenza: non si connette sensatamente con l'effettuazione di nuovi investimenti e la sua attuale - e ridotta- vigenza non impedisce in alcun modo all'investitore estero, o a qualche labile residuato di "grande" gruppo italiano (nel manifatturiero esistono ancora?), di effettuare tutti i licenziamenti che vuole e, semmai, di ottenere un mantenimento dei profitti finanziato, in ultima analisi, da a) piccoli risparmiatori e proprietari di abitazione italiani; b) piccole e medie imprese.

E la situazione consente pure ai governi che perseguono questa linea di attribuirsene persino dei meriti come emergenziali "salvatori della Patria"...e della pax europea (rigorosamente pacifista e contraria al nazionalista "scontro di classe"!!


E il disegno non è tutto qui: in fondo, si tratta della astuta via italiana, guidata dalla consueta retorica ipocritamente propagandistica del lavoro, ma senza mai nominare l'euro, che porta, senza che gli italiani se ne accorgano, nel contesto della propaganda mediatica, alle riforme strutturali imposte da potenze estere e per una convenienza ancora più ampia della mera deflazione salariale: l'abbattimento del concorrente.

Rammentiamo quanto detto in un precedente post ripreso in "Euro e (o?) democrazia costituzionale", per capire l'utilità aggiuntiva di arrivare a "ufficializzare" l'eliminazione finale dell'art.18 (la riforma strutturale principe dell'ipocrisia "occupazionale") e come ciò si collochi a coronamento della "costruzione €uropea", (l'unica cosa che non si può rimettere in contestazione: dovesse scatenarsi l'inflazione e poi sai i poveri lavoratori, le fasce deboli dei pagatori di mutuo, come si ritroverebbero!). Precisando che quello che vale per le modifiche-abrogazioni dell'art.18, vale in definitiva pure per un sistema supply side di ammortizzatori sociali di "integrazione salariale", come misure coordinate di riforma struttuale €uro-conforme (gli effetti pratici sulle tutele sono esattamente i medesimi):

"L'effetto di sistema della norma è comunque di neutralizzare il resto dello Statuto dei lavoratori (e i costi relativi). Solo un esempio: chi oserà più chiedere differenze retributive per mansioni superiori, segnando il proprio destino per un futuro licenziamento? Si apre così la via alla deflazione salariale mediante utilizzazione dei dipendenti in violazione del contenuto funzionale del contratto di lavoro, da parte del datore che non ne sopporterebbe più il costo "indennitario".


...Smantellata l'effettività dello Statuto, poi, l'abbassamento dei costi che ne sarebbe la ricaduta non sarà sufficiente a risanare le imprese italiane, data l'attuale incidenza non decisiva del costo del lavoro, essendone tra l'altro il carico fiscale il problema. In sostanza si renderà la vita lavorativa e l'uscita dal lavoro meno costosa per le imprese in un momento in cui ciò significa solo incentivazione alla progressiva deindustrializzazione, cioè smantellamento del sistema produttivo senza alcuna prospettiva di investimenti (in caduta libera).

...Insomma, una presa di posizione che, altamente intempestiva, segnala, al contrario della superficiale analisi divulgata dal governo, una decisa presa di posizione ideologica pro-capitale, anti labour, e antiproduttiva. Altrimenti si agirebbe su accesso al credito e incentivo agli investimenti, interventi pubblici di cui anzi si propone la quasi totale abolizione...

Ma il punto fondamentale è che, depotenziato autonomamente dall'euro il sistema manifatturiero, il vero bersaglio della riforma è il settore dei servizi (bancari, assicurativi, telecomunicazioni, gestione servizi pubblici), non il “manifatturiero”, per il quale lo spaventoso credit crunch- e costo del credito- già innescato dagli squilibri commerciali (e di cambio reale) all’interno dell’area euro, consente il disastroso effetto smantellamento da tempo in atto (e tutto dovuto ai limiti valutari e fiscali dell’area UEM).

I servizi, invece,  inseriti in “reti” disciplinate in dettaglio dall’UE, sono lo zoccolo duro indeclinabile della redditività delle imprese IMMEDIATAMENTE  a valle del sistema finanziario-bancario. Un mercato che semplicementee non “può” venire meno, perchè costruito su "reti" corrispondenti a attività di preminente interesse pubblico,  e che porta (attraverso l’irrisolto problema del controllo delle reti, nonché di costi tariffari calibrati da criteri legali che consentono la sistematica e incontrollata formazione di rendite, “protette” da neo-diritto europeo).

Su questo gigantesco business “residuale” (in senso ideologico-programmatico, perché il meno soggetto alla concorrenza extra-UE e il più “localizzato” e vincolato dal disegno normativo europeo, e quindi supportato dalla visione di investimento della grande impresa europea) si appuntano gli appetiti degli “investitori” stranieri.

In definitiva la manovra sull’art.18, e quindi sulla sterilizzazione dello Statuto dei lavoratori,  mira a far entrare (come sul finire del Rinascimento) “conquistatori” stranieri che prendano il controllo delle uniche strutture produttive che l’assetto mercantilistico tedesco-bundesbank, intende consentire all’Italia.

Senza il “freno” dello SdL, gli investitori (tedeschi, nord europei e francesi) potranno gestire il costo del personale operando su demansionamenti e riduzioni del personale strategicamente effettuati, accelerando la realizzazione del modello sotto-occupazionale che già caratterizza la germania nel settore dei servizi (come evidenziano tutti gli studi seri accuratamente nascosti in Italia), rialzandosi i profitti da “rendite” che permarrebbero intangibili (anche per la deliberata inefficacia del sistema di controllo delle autorità indipendenti italiane).

Non solo ma impadronirsi del bancario-assicurativo consente di divenire i “controllori” della politica economica del settore privato -e di un potere di interdizione politica praticamente illimitato-, indirizzando il credito verso i soli settori che siano considerati strategici per i padroni (padrini) stranieri, in modo da eliminare ogni possibile minaccia commerciale costituita da un’ipotetica ripresa italiana e ampliare i profitti attraverso una politica di partecipazioni calibrate sugli obiettivi stabiliti dai nuovi controllori.

Se qualcosa avesse mai ancora una qualche vitalità produttiva (le chicche del made in Italy, meccanico e cantieristico ad es;) si accentueranno  depatrimonializzazione e assenza di linee di credito, sicchè chi ha capitali -e sistema bancario protetto dai meccanismi UE- potrà fare shopping in Italia a prezzi da saldo e decidere quanto spremere un marchio, salvo poi delocalizzare e/o produrre sulle strategie di mercato del controllo “straniero”. Non è ipotizzabile, dati anche i permanenti costi fiscali del lavoro, un afflusso di investimenti in strutture tecnologicamente più avanzate e in innovazione di prodotto e di processo (da mantenere nel paese di residenza dei "controllori"), ma solo la logica dell’acquisizione di “avviamento”, del potere di mercato di un marchio, con riduzione dell’occupazione e contemporanea esportazione di tecnologie, know-how e profitti…"

Quanto può durare ancora questo giochino, insistiamo, possibile solo grazie alla saldatura tra "€uropeismo a oltranza" e sistema mediatico, senza che la base sociale "tritata" apra gli occhi?

A vedere ciò che viene detto nel brano in apertura, parrebbe che si inizi a capire che sono andati "troppo oltre". Ma probabilmente, si attenderà il "via" di qualche altra "base sociale", non nazionale, un pò più reattiva e meno condizionabile dalla grancassa mediatica.

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