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Angolature di nazionalismo
Prodi, il sogno europeo e il nemico americano
Alessandro Visalli
Un titolo provocatorio, lo ammetto. Ma vero.
Partirò dal commento ad una intervista a Theodore Roosevelt Malloch, un politologo americano che insegna alla Henley Business School (già Oxford University) ed è il candidato più probabile alla carica di ambasciatore USA presso Bruxelles. Si tratta di una intervista, dunque, in qualche modo programmatica e volta a catturare il consenso della nuova amministrazione.
Quindi ascolteremo una presentazione, in conferenza con l’economista Emiliano Brancaccio, dell’ex Presidente della Commissione Europea (ed ex Premier) Romano Prodi.
Il possibile futuro ambasciatore in sostanza pronuncia dieci enunciati davvero significativi:
1- “che il progetto di integrazione europea sia un disastro dovrebbe ormai essere cosa nota a tutti. Una cosa del genere non avrebbe mai trovato l’avvallo né di Churchill né di Roosevelt”.
2- “Per molto tempo, a partire da Dulles, il Dipartimento di Stato è stato dell’avviso che la strada migliore per assicurare la pace in Europa fosse di unificarla. Al centro di questo ragionamento vi era la relazione Francia-Germania” MA “È sensato perseguire questa politica dopo il trattato di Maastricht del 1992 e quelli successivi?
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1977. Il movimento inaudito
di Felice Mometti
La vicenda di chi cerca un’altra via per le Indie
e proprio per questo scopre nuovi continenti
è molto vicina al nostro modo attuale di procedere;
"A/traverso" 1977.
I movimenti sociali sono strani animali. Non ce n’è uno che somigli a un altro. Le alchimie che si creano tra subalternità, antagonismo e autonomia sono spesso il risultato di uno sguardo verso il passato e di un’anticipazione del futuro. E il movimento del Settantasette fu un movimento al tempo stesso atteso e imprevisto. Il 1976 fu l’anno della campagna per le elezioni politiche dopo che l’anno precedente l’alleanza Pci-Psi aveva conquistato le amministrazioni delle principali città del Paese. Intorno al Pci erano nate grandi speranze e altrettante illusioni. Il sogno del “sorpasso” e di un governo delle sinistre, l’ascesa dei comunisti al governo come grande trasformazione del Paese ebbe una reale presa su larghi settori di massa che aspiravano ad un cambiamento radicale. In realtà, già da molto tempo il gruppo dirigente del Pci aveva altri piani. La tenuta elettorale della Dc diede la definitiva giustificazione alla strategia del “compromesso storico”, teorizzata apertamente fin dal 1973.
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Non più e non ancora
Carlo Formenti e Alexis Escudero
di Armando Ermini
Due opere recenti mostrano come il pensiero critico e anticapitalista cominci a ad uscire dalla gabbia dell’omologazione progressista
Il libro di Formenti (Carlo Formenti, La variante populista, lotta di classe nel neo-liberismo, Comunità Concrete, Roma 2016)
Con questo testo Carlo Formenti intende prendere qualche distanza dal progressismo di sinistra genericamente inteso, partendo dalla constatazione che dagli anni settanta-ottanta del xx secolo, «le culture di sinistra (socialdemocrazie, nuovi movimenti sociali, femminismo, ambientalismo, movimenti per i diritti civili, ecc.)» hanno subito una mutazione sociale, politica, antropologica, cosí profonda da essere diventati «soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere», il progetto egemonico che definisce ordoliberista, teso alla costruzione di un uomo nuovo, conforme su tutti i piani all’ideologia del capitalismo globalizzato.
È da qui, dalla ricerca delle cause del fenomeno, e dall’analisi delle trasformazioni del capitalismo, che l’autore sviluppa una serie di ragionamenti che lo portano, come vedremo, a ripensare la categoria marxiana di general intellect ma anche a spostare l’identificazione dei soggetti politici anticapitalistici dalla classe operaia dei paesi sviluppati, incarnanti il punto piú alto di contraddizione fra rapporti di produzione e forze produttive, a quegli strati sociali che vivono ai «margini del sistema», quali le masse operaie super-sfruttate dei paesi in via di sviluppo, i migranti, le classi medie precipitate «nell’inferno del terziario arretrato», i precari, i sottoccupati, in generale «gli esclusi e gli emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo».
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La crisi dell'Europa neoliberista e la follia dell'austerità
Fabio Cabrini intervista Sergio Cesaratto
facciamosinistra! ha il piacere di ospitare nelle sue pagine il pensiero di Sergio Cesaratto, professore ordinario di Politica monetaria e fiscale dell'Unione Economica e Monetaria europea, Economia della crescita e Post-Keynesian Economics all'Università di Siena, e autore, tra gli altri, di un libro estremamente interessante intitolato "Sei lezioni di economia", adatto a tutti quelli che desiderano capire più profondamente una crisi che sembra non avere fine.
* * * *
1° Prof. Cesaratto, stiamo vivendo in una fase storica di grandi cambiamenti: prima il Brexit, poi la vittoria di Donald Trump e ora, in sequenza, si terranno le elezioni in Olanda, Francia e Germania che potrebbero modificare ulteriormente lo scenario internazionale, in particolare quello dell'UE. A prescindere dall'esito che uscirà dalle urne, è chiaro che i partiti pro-establishment sono entrati in una profonda crisi specialmente quelli che fanno riferimento al PSE. Non sarà mica che a ad essere le pallide fotocopie dell'originale, leggesi "terza via" di Blair, si perde consenso?
"La terza via si è rivelata per quel che era: una versione neppure troppo mascherata del neo-liberismo. Un tempo la terza via era la socialdemocrazia, fra socialismo reale e capitalismo liberista. Soprattutto nelle sue versioni migliori come quella scandinava, quella terza via era, e rimane, una cosa seria.
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Amnesty e le Parche facilitatrici
di Fulvio Grimaldi
(Con un intervento in calce di Enzo Brandi e Stefania Russo)
Andiamo indietro almeno fino alla guerra contro la Jugoslavia e vedremo come ogni crimine di guerra, ogni crimine contro l’umanità, ogni crimine di aggressione economica, sanzioni, embargo, blocco, diretti contro paesi sovrani, indipendenti, liberi, che si difendono contro i tentacoli della piovra imperialista, essenzialmente Usa, Israele, UE e Nato, vengano preceduti e, dunque, facilitati dall’intervento di Amnesty International, Human Rights Watch (quella di Soros) e Save the Children, le tre sedicenti organizzazioni per i diritti umani di matrice angloamericana. Sono loro le tre Parche, o, per i Greci, Moire, figlie depravate di Zeus e Temi, che pretendono di governare vita, destino e morte degli umani. Al loro seguito formicolano altre entità minori con il compito di rafforzare, a livello tecnico e di categoria, l’impatto delle operazioni propagandistiche delle tre sorelle del crimine umanitario organizzato, tipo Avaaz, Medici Senza Frontiere, Reporter Senza Frontiere.
Alle origini e al vertice hanno tutti gente che una persona perbene non toccherebbe con una pertica. Il Kouchner di MSF, sodale del filosofo sguattero Henry Levy e agitprop della guerra dei briganti UCK contro la Serbia; il Robert Ménard di RSF, che sostiene la tortura, lavora con il terrorista anticastrista Otto Reich, viene pagato dalla Cia e si permette di dare la classifica delle libertà di stampa; Tom Perricello, deputato democratico e fautore dell’attacco all’Afghanistan e Tom Pravda, consulente del Dipartimento di Stato, più una spruzzatina di Wall Street, a capo dell’agenzia di raccolte firme e schedatura dei farlocconi Avaaz, fondata da MoveOn, la piattaforma di ogni perfidia imperialista.
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Megamacchine del neurocapitalismo
Genesi delle piattaforme globali
di Giorgio Griziotti
Flussi e piattaforme
Lewis Mumford introduce nel 1967 il concetto di megamacchina1 come complesso sociale e tecnologico che modellizza le grandi organizzazioni e progetti dove gli umani diventano pezzi intercambiabili o servo-unità e lo applica risalendo addirittura alla costruzione delle Piramidi in Egitto.
Mentre Mumford considera che le megamacchine più rappresentative dell’era industriale sono i grandi complessi militari-tecnocratici che gestiscono il potere nucleare noi prendiamo come ipotesi che le grandi Piattaforme del Capitalismo (PdC) siano le megamacchine del Neurocapitalismo.
Possiamo schematicamente ridurre a due le componenti tecniche/funzionali delle piattaforme. La funzione di server centralizzato che nel caso delle PdC è controllato dal proprietario e le interfacce umano-macchina (H2M) e macchina-macchina2 (M2M) che permettono le interazioni fra il centro ed il mondo esterno.
Non bisogna intendere la funzione server come una macchina fisica ma come un insieme di sistemi complessi di software e hardware capaci di gestire i big data e che includono fra l’altro server farm, data center3 e funzioni di cloud. Non a caso Amazon, oltre ad essere la prima piattaforma di commercio online, è anche il leader mondiale dei servizi di cloud computing.
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Oltre la miseria del presente
di Franco Milanesi
Recensione di l’“Abecedario” di Mario Tronti
La forza militante della riflessione teorica non va misurata secondo la radicalità delle affermazioni ma per la precisione delle domande che interrogano il pensiero e per sua la capacità di farsi materia dentro il movimento reale di classe. Il lavoro di Mario Tronti, in tale prospettiva, si distende come una pluridecennale, rigorosa azione di militanza teorico-politica. Dagli studi gramsciani alla fine degli anni cinquanta fino agli scritti più recenti sullo “spirito libero”, Tronti ha svolto l’unico compito politico possibile: pensare forme e modi di alterità al capitale. Come combatterlo? Cosa significa costituire conflitto sul terreno dell’egemonia globale medio-borghese? L’Abecedario pubblicato da DeriveApprodi (Roma 2016, euro 20, a cura di Carlo Formenti con la regia di Uliano Paolozzi Balestrini, 2 dvd) sgrana questi e altri temi in una video-intervista di circa sette ore che si apre con amico/nemico e si conclude con tempo (Zeit) passando, tra le altre voci, per democrazia, guerra, libertà, Novecento, rivoluzione.
Un abecedario si svolge come una successione di parole-concetti che nella declinazione trontiana si delineano innanzi tutto nella netta distanza dalla semantica degli avversari. Un dizionario di lotta, percorso da un tono politico tutto “di parte” a conferma, a nostro parere, che le svolte che hanno caratterizzato il pensiero di Tronti, spesso oggetto di forti polemiche, non ne spezzano la continuità, ma si caratterizzano come un’incessantemente ridefinizione della “linea di condotta”.
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Il mondo non è una merce
Serge Latouche
Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato ancora simile all’accrescimento di una pianta. È tempo di decrescita
Fare della decrescita, come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola d’ordine della decrescita. All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto. Per parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.
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Per una società diversamente ordinata
Una concezione adattativa della storia
di Pierluigi Fagan
Con questo ultimo articolo di taglio storico-filosofico[1], si chiude una ideale trilogia di cui abbiamo già pubblicato una prima (qui) ed una seconda (qui) parte. La tesi generale che abbiamo più ampiamente trattato nel nostro “Verso un mondo multipolare” ( Fazi editore, 2017)) è che siamo entrati in una nuova era, l’era complessa. La geopolitica ovvero la dinamica politica del tavolo-mondo giocata dai vari soggetti prevalentemente statali, diviene il gioco principale, quello che condiziona ogni altro. Per giocare a questo gioco, gli europei dovrebbero riflettere sulla propria consistenza e strategia adattiva, creando soggetti dotati di intenzionalità politica in grado di agire a livello dei giocatori più forti e potenti. Infine, in quest’ultimo scritto, si sostiene che tali soggetti, dovrebbero progressivamente sottomettere l’economico al politico e quest’ultimo al principio di una democrazia diffusa, un deciso cambio di paradigma senza il quale, l’adattamento ai tempi nuovi è fortemente a rischio.
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In un poemetto del 1025, Adalberone di Leon, poeta e vescovo francese, dava la prima e più nitida descrizione di quello che poi verrà conosciuto come l’ordine trifunzionale della società medioevale. Lasciamogli direttamente la parola:
“In questa valle di lacrime alcuni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano; le tre categorie stanno insieme e non sopportano d’esser disgiunte, di modo che sulla funzione dell’una restano le opere delle altre due, tutte e tre a loro volta assicurando aiuto a ciascuna”[2].
Jacques Le Goff, compagno di medievalistica di George Duby e Marc Bloch in quel della Scuola degli Annales di L. Febvre e F.Braudel, ce la spiega così:
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Appello per la costruzione di una campagna politica per il centenario dell’Ottobre
Preambolo
Quest’anno, come noto, cadrà l’anniversario del centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Pensiamo che le celebrazioni fini a se stesse, come tutti i rituali privi di una forza vitale capace di renderli attuali, restino lettera morta e non abbiano alcun significato per chi si ponga come obiettivo la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente. Tuttavia siamo convinti che il centenario offra un’occasione importante a chi, come noi, riconosce nel marxismo lo strumento politico fondamentale e nell’esperienza bolscevica, concretizzatasi nella rivoluzione del 1917, una tappa centrale della storia del movimento comunista. Senza aprire una corposa parentesi sul ruolo della memoria nella costruzione delle identità politiche e sulle battaglie ideologiche che inevitabilmente la costruzione della memoria scatena, è facile immaginarsi come il centenario dell’Ottobre susciterà interventi e iniziative da parte di tutte le forze e le correnti politiche. Certamente l’obiettivo ideologico centrale per i nostri nemici – borghesia imperialista insieme a tutti i suoi portaborse opportunisti – sarà quello di dichiarare l’anacronismo scientificamente sancito, la morte, senza resurrezione possibile, dell’idea di rivoluzione politica comunista. Ma non è difficile prevedere come anche nel campo della sinistra il 2017 sarà l’anno degli eventi, dei convegni, delle mostre, delle pubblicazioni legati alla Rivoluzione d’Ottobre. Un appuntamento a cui bene o male tutti sentiranno il bisogno di partecipare e in cui tutti sentiranno il bisogno d’intervenire. Il rischio che percepiamo è che in questo modo l’Ottobre rischierà di essere trasformato in un mito in fondo tranquillizzante e riducibile alle logiche evenemenziali dell’odierna società social, perdendo così qualsiasi mordente politico, qualsiasi attualità. In tal caso, insieme alla materialità della storia, si espellerà il nocciolo dell’esperienza dell’Ottobre: l’assalto al cielo. La rivoluzione d’Ottobre è stata tale in quanto è culminata con la presa del Palazzo d’Inverno: ossia con la presa del potere politico. Per questo, dunque, una “nostra” campagna politica sull’Ottobre è quanto mai urgente e necessaria, tanto quanto occorre riportare al centro del dibattito l’attualità della rivoluzione e del comunismo.
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L’euro 15 anni dopo: il fact checking dell’ISPI non regge il fact checking
di Andrea Wollisch
All’inizio di questa settimana l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha pubblicato un sedicente fact checking sull’euro che promette “un’informazione sintetica e il più possibile fondata su dati oggettivi”. In pratica, sette affermazioni sull’euro sono state definite “vere” o “false”, con brevi note esplicative. Quali che fossero le reali intenzioni degli estensori, il risultato ha poco a che vedere con un fact checking e molto più con una semplice esposizione di opinioni, poco o nulla avvalorata da dati. Ora, come ha affermato Alberto Bagnai in un articolo recentemente pubblicato su questo sito, “l’euro è uno dei più grandi successi della scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza economica l’aveva previsto”. Commentando dunque alla luce dei dati e di quanto insegna la scienza economica i sette punti proposti dall’ISPI, Andrea Wollisch, laureato in Economia e Scienze sociali, giunge a conclusioni decisamente diverse rispetto a quelle propagandate dall’Istituto.
* * * *
1 – L’euro ha fatto aumentare i prezzi?
Che in un’Europa dove si combatte la deflazione si tiri nuovamente fuori questa vecchia questione, significa essere ignari del dibattito.
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Post-neoliberismo e la politica della sovranità
Paolo Gerbaudo
La crisi della globalizzazione neoliberista che si sta manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in maniera eclatante dalla vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha risuscitato una delle più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l’idea di sovranità.
Di solito intesa come l’autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall’insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell’orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di “riprendere il controllo”, si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall’Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull’immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese.
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Gattopardismo di sinistra?
di Renato Caputo
In questi giorni stiamo assistendo, perplessi, a grandi manovre di riposizionamento a sinistra, per cercare di occupare gli spazi vuoti che si sono aperti dopo il deciso spostamento a destra del Pd renziano e la sua netta battuta d’arresto a seguito del referendum del 4 dicembre. Il fatto che persino gli irriducibili sostenitori della “ditta”, come Bersani e Speranza, si siano infine decisi ad abbandonarla alla sua deriva neo-democristiana, è certamente un evento da valutare positivamente.
In primo luogo perché mette definitivamente la parola fine all’incubo di un ventennio renziano sotto il segno del Partito della nazione, in realtà già duramente colpito dalla grande mobilitazione contro la “Buona scuola”, dal primo sciopero generale della Cgil contro il governo amico e, infine, dalla disfatta del tentativo di stravolgere la Costituzione.
In secondo luogo perché contribuisce indubbiamente a una maggiore chiarezza del quadro politico e mette la parola fine al tentativo dei liberisti renziani di spacciarsi come di sinistra e, quindi – grazie alla copertura della triplice sindacale e della sinistra interna – di presentarsi al contempo come la più affidabile opposizione. In altri termini un partito sempre più affine nei fatti ai partiti Popolari europei che continua però a spacciarsi come la principale e più credibile alternativa al centro-destra. Tanto più che la scissione del Pd comporta, nei fatti, la rottura del cordone ombelicale che lo legava – coprendolo a sinistra – con la più grande forza sindacale italiana, ovvero la Cgil che mantiene, nonostante tutto, un forte ascendente su ampi settori di lavoratori salariati e della stessa classe operaia.
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Maschera e volto del postmodernismo contemporaneo
di Luca Siniscalco*
Il postmodernismo si presenta in maniera confusa, quasi bifronte. Dire -post è filosoficamente un non dire, in quanto la collocazione temporale di una nozione non ne stabilisce il contenuto esplicativo né, tanto meno, veritativo. Per considerare la trasfigurazione tutta profana del modernismo in postmodernismo intendiamo avvalerci del contributo di due studiosi contemporanei di grande statura e, per rimanere nel campo delle anomalie, di antitetica provenienza culturale. Ci riferiamo a Mario Tronti, padre dell’operaismo italiano e fine filosofo politico, e ad Aleksandr Dugin, tradizionalista ed eurasiatista russo
L’eco evoliano di questo titolo intende, fra il serio e il faceto, evocare un problema culturale – e, perché no, spirituale – del nostro evo. Così come nel secolo scorso un “idealista magico” ha messo in luce la natura ambivalente degli spiritualismi, forme degenerate della spiritualità tradizionale, è oggi opportuno denunciare la struttura ambigua e sfuggente del postmodernismo, figlio spurio della modernità. Filiazione di segno negativo, quella rilevata da Evola; partenogenesi di segno dubbio, meritevole di un dibattito, quella del paradigma politico, culturale ed esistenziale del postmodernismo. Poiché, sebbene tutti gli -ismi meritino riserve – e Nietzsche ha già detto tutto in merito – lo statuto del postmodernismo è foriero di dinamiche perennemente instabili, scivolose, chiaroscurali. A tratti ineffabile, questo Giano bifronte – sulla cui stessa esistenza autonoma, svincolata dal Moderno, il dibattito teoretico si sbizzarrisce – comporta infiniti problemi di definizione. Si staglia come una chimera, il sogno mostruoso che tutti noi sogniamo nei momenti di lucidità e che la veglia della ragione lascia obliato in nome del sensus communis.
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Le anime elettriche del capitale
Benedetta Pinzari e Salvatore Cominu intervistano Ippolita
Abbiamo intervistato il collettivo Ippolita che da anni analizza gli effetti delle nuove tecnologie di rete sulla soggettività, le ricadute sociali dell’innovazione e le pratiche di autodifesa digitale
Partiamo dal vostro ultimo libro “Anime elettriche”, che dialoga esplicitamente con Foucault e affronta il tema della produzione di soggettività in età tardo-capitalistica (nel “rumore bianco” della rete). Questa contiguità tra individuo e tecnologia da una parte ha innescato un processo di “smaterializzazione” del corpo biologico degli utenti, le cui possibilità di relazionarsi diventano pressoché illimitate, dall’altra ha prodotto forme ibride di socializzazione in cui il confine fra “realtà” e “rete” non è più distinguibile. Questa ibridazione, che ha investito in parte anche le pratiche dei movimenti sociali, lungi dal favorire il “divenire collettività” - organizzata o meno - dentro la rete, e nei social network in maniera più specifica, sembra piuttosto avere avviato una forma distopica di ricomposizione nella de-socializzazione e nell’individualismo, con modalità che sembrano ricalcare l’individualizzazione della relazione fra capitale e lavoro. Vorremo iniziare col chiedervi se ritenete irreversibile questa deriva o se ci sono nella rete (per come è strutturata) anche le possibilità di una sua messa in crisi?
Il corpo non si smaterializza. La mente è coestensiva al corpo, il corpo è coestensivo alla mente. Noi siamo ciò che il nostro corpo è.
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Crisi e critica della società della merce
Editoriale EXIT! nº 14 (Marzo 2017)
Roswitha Scholz
Negli ultimi anni, a partire dal 2008, il mercato è stato inondato da pubblicazioni che sostengono che la fine del capitalismo non solo è possibile, ma è anche probabile. Solo per menzionare alcuni titoli: David Harvey, "Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo" (Feltrinelli, 2014); Wolfgang Streeck, "Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico" (Feltrinelli, 2013); Paul Mason, "Postcapitalismo" (Il saggiatore, 2016); Ulrike Hermann, " Der Sieg des Kapitals" (La vittoria del capitale), 2013; Mark Fisher, "Capitalist Realism: Is there no alternative?" Winchester: Zero Books, 2009; Fabian Scheidler, "Das Ende der Megamaschine. Geschichte einer scheiternden Zivilisation" (La fine della megamacchina. Storia di una civilizzazione fallita), Vienna 2015.
A questo proposito Wallerstein ha detto nel 2009 che il capitalismo probabilmente non vivrà per più di 30 anni (Telepolis, 6/2/2009), e Varoufakis ha sostenuto con veemenza che come prima cosa bisognerebbe salvare il capitalismo in modo da poter avere ancora il tempo di pensare a delle alternative, in caso contrario andrà tutto a putt ane (der Freitaf, 16/3/2015). Questa lista non è per niente completa e potrebbe essere facilmente arricchita, ma non è questo il luogo per entrare nel dettaglio di tutte le pubblicazioni.
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Natura del sindacato ieri e oggi
Michele Castaldo
Prendo spunto dall'arresto e dalla scarcerazione di Aldo Milani per affrontare un tema molto complesso.
Premesso che era da difendere il compagno Aldo Milani come militante comunista da sempre schierato per la causa degli oppressi e sfruttati; premesso ancora che il suo arresto e le motivazioni che stanno dietro sono da ritenere una ignominiosa macchinazione degna di un moderno Stato democratico, veniamo alla questione seria da affrontare, cioè il rapporto tra la militanza rivoluzionaria comunista e il movimento di massa nella doppia relazione: sindacale e politica.
Nella storia del movimento proletario questa questione ha da sempre riscaldato i cuori dei militanti di ogni livello e grado, senza riuscire a venirne a capo. La ragione è molto semplice: siamo stati e siamo tuttora troppo legati all’aspetto formale della rappresentanza, piuttosto che farla derivare dallo stato reale dei rappresentati. Per cercare di farmi capire meglio cito proprio Aldo Milani che disse – a proposito dei lavoratori della Logistica: «sono stati loro che ci hanno cercati e ci hanno chiesto di metterci alla loro testa per organizzarli perché nessuno dava loro ascolto, mentre le loro condizioni di lavoro erano proibitive, non ce la facevano più».
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Oltre La La Land
di Piero Pagliani
Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire. Un'analisi dello splendido saggio di Fagan
Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un mondo di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di Platone e per l'altra dal migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo tenuti apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le nostre élite operano costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi più affilati strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia torturare la realtà, sia tenercelo nascosto, viene fatto per il "nostro bene", non reggeremmo allo shock e tutte le nostre sicurezze ne risentirebbero.
(Pierluigi Fagan)
1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell'era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un'esaltazione della Patria e del Re e i seguaci dell'establishment culturale di sinistra avranno il dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione della "fine degli stati-nazione", che verranno chiamati col loro nome proprio: imperialismo.
Sono secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca - o ci ritenta. E viene sbugiardata.
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Lavorare senza diritti: dal voucher al caporalato
Collettivo Clash City Workers
Ormai da mesi, ogni settimana i titoli dei giornali riportano, più o meno allarmati, notizie e dati sul dilagante utilizzo dei vouchernell’economia italiana. Da ultimo, a far parlare del tema è stata la notizia dell’approvazione, l’11 gennaio, da parte della Corte Costituzionale, di un referendum proposto dalla Cgil che intende abrogare lo strumento dei voucher (approvazione, va ricordato, parallela all’accettazione di un secondo quesito, relativo agli appalti nella pubblica amministrazione, e alla negazione di un terzo, che verteva sull’articolo 18 – e quest’ultima decisione ha suscitato non poche perplessità, sul piano giuridico prima ancora che su quello politico [1]).
L’origine dei voucher è nella legge Biagi che ne prevedeva limitazioni temporali ed economiche e parametri di occasionalità e soggetti coinvolti: la loro natura è cambiata con la legge Fornero e poi il Jobs Act
Ora, per capire effettivamente di cosa stiamo parlando, conviene guar-dare alla storia di questo recente protagonista del mercato del lavoro del nostro Paese.
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L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi
di Torkil Lauesen e Zak Cope
Introduzione
Con questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati, ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord. I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e l’estorsione per mezzo del servizio del debito.
L’assorbimento di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione. I miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato, in larga parte metropolitano, dei consumatori;
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Disastro privatizzazioni, il caso dell'ENEL
di Leonardo Mazzei
Mentre le nuove privatizzazioni affannano, ricominciamo a parlare di nazionalizzazioni. Per capire quanto sia necessario diamo uno sguardo alle privatizzazioni del passato, a partire dal caso da manuale del settore elettrico
Nel governo qualcuno si è svegliato?
Su La Stampa di ieri campeggiava un titolo all'apparenza bislacco: «Orfini avvisa il governo: “Fiducia sullo ius soli e basta privatizzazioni”». La novità, che segnala pure una divisione nel governo, è tutta in quel «basta privatizzazioni». Ora, Matteo Orfini è un personaggio assolutamente modesto, ma dopo quarant'anni di «viva le privatizzazioni!» a reti unificate anche quel «basta» del neo-reggente del Pd qualcosa ci dice.
Insomma, la crisi del modello e delle politiche neoliberiste è ormai evidente a tutti. Perfino a chi quelle politiche le ha sempre sostenute fino ad oggi. Si pensi alla fallimentare idea renziana sulla «soluzione di mercato» in materia bancaria.
Ma cosa dice esattamente Orfini? Leggiamo:
«Prima di tutto, dobbiamo fare una discussione seria sull’economia. Purtroppo siamo tutti più vecchi e gli anni ’90 sono finiti: riproporre oggi come soluzione a un debito pubblico di oltre 2000 miliardi le privatizzazioni è sbagliato. Abbiamo piuttosto bisogno di rilanciare la funzione delle grandi imprese pubbliche e di capire come usare meglio in questo senso anche Cassa depositi e prestiti. Su questo dobbiamo discutere prima di procedere».
Fin troppo facile rilevare come questo primo segnale di ravvedimento sia del tutto tardivo.
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"Un mondo senza guerre"
intervista a Domenico Losurdo
1) Professor Losurdo, la Sua ultima fatica, appena uscita per i tipi di Carocci, si intitola Un mondo senza guerre: è possibile un mondo senza guerre?
Il mio libro è anche la descrizione del fallimento dei diversi progetti di realizzazione di un mondo senza guerre che storicamente si sono succeduti. Pur accomunati dal fallimento, questi progetti non possono essere messi sullo stesso piano. Storicamente, la «pace perpetua» è stata invocata abbracciando l‘umanità nel suo complesso oppure con lo sguardo rivolto solo ai popoli «civili», escludendo quindi i popoli coloniali nei confronti dei quali erano giustificate la conquista, l’assoggettamento, la schiavizzazione, le guerre di ogni genere comprese quelle di carattere genocida.
L’unico italiano ad aver conseguito il Premio Nobel per la pace è stato nel 1907 Ernesto Teodoro Moneta, che però quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, legittimata e trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», egli aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», tra le quali egli chiaramente non annoverava né la Turchia (che sino a quel momento esercitava la sovranità sulla Libia) né tanto meno i libici.
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Governare il vuoto? Neoliberalismo e direzione tecnocratica della società
di Alessandro Somma*
Recentemente è uscito per Rubbettino «Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti», traduzione in italiano dell'opera incompiuta del prematuramente scomparso Peter Mair, dedicata alla crisi della partecipazione popolare alla vita politica. L'errore dell'autore sta tuttavia nella indebita separazione dell'analisi del livello politico della crisi da quella del livello economico
Peter Mair, politologo irlandese di fama mondiale, è scomparso prematuramente nel 2011, quando stava lavorando a un volume sulla crisi della partecipazione popolare alla vita democratica come fenomeno tipico delle società occidentali. L’opera è rimasta dunque incompiuta, ma è stata integrata con altri interventi dell’autore e pubblicata su iniziativa della «New Left Review»: il prestigioso periodico della sinistra postmarxista che già aveva ospitato un ampio contributo di Mair anticipatore delle principali tesi poi sviluppate nel libro[1]. Di quest’ultimo è da poco uscita una traduzione italiana per i tipi di Rubbettino[2], la piccola ma vivace casa editrice nota soprattutto come amplificatrice del pensiero neoliberale.
Ci si potrebbe stupire di questa curiosa osmosi tra esperienze culturali di matrice non proprio assimilabile, ma a bene vedere il volume di Mair ben può metterle d’accordo entrambe. Compatibile con le opposte visioni postmarxista e neoliberale è infatti la riflessione sulla fine del partito di massa, all’origine del vuoto evocato nel titolo del libro, e in particolare la descrizione di ciò che il partito politico è diventato: un centro di potere sradicato dalla società, proiettato verso lo Stato e il governo, e in ultima analisi incapace di alimentare l’ordine democratico. Il discorso potrebbe a questo punto divenire incompatibile con il punto di vista neoliberale, giacché fon-dativa dell’identità occidentale è la commistione di capitalismo e democrazia, motivo per cui le trasformazioni nella sfera politica difficilmente possono spiegarsi senza riferimenti a quanto avviene nella sfera economica: senza una critica alle teorie e pratiche neoliberali.
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Chi vuole spostare la Capitale a Milano?
di Sergio Cararo
Le campagne stampa contro Roma Capitale
Qualcuno spinge per spostare la Capitale da Roma a Milano? Possiamo liquidarla come un battuta dell’ex sindaco Pisapia di due anni fa, alla quale replicò con algida indulgenza l’ex sindaco Marino. Spostare la Capitale da Roma a Milano sarebbe invece una questione da non liquidare come l’eterna competizione campanilista tra la capitale storica e quella economica. Per un periodo, fino al 1992, Milano volle fregiarsi anche del titolo di “Capitale morale” del paese fino ad essere travolta dall’inchiesta su Tangentopoli. Per anni dunque non se ne è parlato più. Ma da almeno un paio d’anni, il partito dello spostamento della Capitale a Milano ha ripreso vigore.
Le prime reazioni, come di consueto, sono quelle tese ad ignorare il problema, le seconde quelle tese a deriderlo, le terze sono quelle che mettono in moto il combattimento. A fiuto possiamo dire che siamo in una fase intermedia tra le seconda e la terza. Il motivo? Quello economico innanzitutto, ma c’è anche una narrazione ideologica che ha molto a che fare con i tempi che corrono. Eppure, ad esempio, moltissimi hanno completamente sottovalutato il processo di ristrutturazione istituzionale introdotto con le Città Metropolitane nelle principali città italiane. Gli effetti verranno avvertiti non subito ma neanche troppo in là in termini di poteri decisionali, meccanismi elettivi, gestione delle risorse.
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Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell’economia mondiale
di Gianni Cadoppi
“Geofinanza e Geopolitica” di Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati. EGEA (29 settembre 2016), € 16
Economia reale Vs. finanziarizzazione
“Se nel 1970 il valore totale dello scambio valutario era circa equivalente al valore del commercio globale (1:1), nel 2007 il rapporto è diventato di 50:1, in altre parole una finanziarizzazione spinta. La globalizzazione finanziaria ha portato allo squilibrio tra creazione di valore reale, ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi, e creazione di valore artificiale, ovvero ancorato alla mera circolazione di denaro, spesso solo virtuale, e di titoli derivati. Una dinamica, quest’ultima, che si è incardinata nel sovradimensionamento del settore bancario, soprattutto nei paesi più avanzati dell’Occidente, e nel progressivo indebitamento di paesi, famiglie e individui in giro per il mondo”. Così Fabio Massimo Parenti ci spiega come la finanziarizzazione dell'economia comporti uno scambio valutario che non corrisponde più all’entità del commercio mondiale. I beni e servizi sono aumentati in maniera assai inferiore agli investimenti in beni finanziari non più correlati all'economia reale come era concepita tradizionalmente. Ciò ha portato all'esplosione del settore bancario.
La globalizzazione finanziaria è stata diretta dagli USA a loro beneficio e al limite dei loro alleati. La competizione con questo ordine proviene dai BRICS ma soprattutto dalla Cina che è la più coerente nel portare una sfida a tutto campo.
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