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Gli Stati Uniti d'Europa sarebbero o impossibili o reazionari
di Domenico Moro
Recentemente Marco Travaglio ha pubblicato un editoriale sul Fatto quotidiano, giornale di cui è direttore, intitolato “Il regalo di Trump”[i]. Nell’articolo Travaglio tocca il tema della costituzione di un unico esercito europeo, da porre al servizio di una politica estera europea indipendente dagli Usa. In pratica non sarebbe altro che la riduzione ulteriore della sovranità degli stati europei in un campo, quello delle Forze Armate e della politica estera, che rappresenta il nocciolo stesso dell’esistenza di uno Stato. Infatti, secondo i maggiori filosofi e sociologi, tra cui Max Weber[ii] e Frederick Engels[iii], lo Stato si caratterizza in primo luogo per il monopolio della forza su un dato territorio. Di conseguenza, la formazione di Forze Armate europee, unitamente a una politica estera comune, prefigurano la costruzione di un nuovo super-stato europeo, gli Stati Uniti d’Europa.
L’opinione di Travaglio è particolarmente interessante perché il direttore del Fatto quotidiano ha assunto sulla guerra tra Russia e Ucraina una posizione molto più equilibrata della stragrande maggioranza dei direttori dei quotidiani nazionali. Travaglio, inoltre, viene considerato di “sinistra”, malgrado il fatto che sia un liberale, che come giornalista si sia formato con Indro Montanelli e che si sia sempre collocato ideologicamente a destra. Ma questa sorta di confusione è del tutto naturale in un mondo in cui la maggior parte della sedicente sinistra, a partire dal Pds-Ds-Pd, ha attuato politiche di destra sul piano economico, comprendenti privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato del lavoro (dal “pacchetto Treu” al jobs act), che hanno prodotto una diffusa precarizzazione. Un analogo spostamento a destra è stato attuato anche riguardo alla politica estera: il Pds-Ds-Pd è stato in Italia il maggiore paladino della Nato e delle regole del Patto di stabilità europeo, incluso il pareggio di bilancio, anche più di Berlusconi.
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La polarizzazione ideologica negli Usa e il ruolo dei «Neocon» nell’America di oggi
di Tommaso Di Caprio
«Il potere genera responsabilità sia negli affari internazionali, che negli affari domestici e persino nei propri affari privati. Rifiutare o abdicare queste responsabilità è una forma di abuso di potere»[1]. È con questa breve frase che nel 1968 Irving Kristol riassumeva il senso della missione dei neoconservatori nel forgiare il futuro grandioso dell’America come guida del mondo libero.
A un primo fugace sguardo, il neoconservatorismo appare, ancora oggi, come un movimento intellettuale e politico dal perimetro estremamente variabile e indefinito, incapace di darsi una qualsivoglia strutturazione o di agire come effettivo gruppo di pressione, oltreché invariabilmente mutevole nelle simpatie politiche dei suoi esponenti più significativi.
E sebbene a coniare il lemma “neoconservatore” non fu Kristol, ma Michael Harrington all’inizio degli anni Settanta in un articolo intitolato “The Welfare State and Its Neoconservative Critics”, è al primo che si deve il successo del termine.
Nel tentativo di provare a identificare in modo netto un gruppo di intellettuali che pur dichiarandosi liberals (liberali) avevano smesso di riconoscersi nel partito democratico, sempre Kristol era solito definire il neoconservatorismo un «termine descrittivo più che normativo», in grado di cogliere il realismo che regna nel mondo.
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A partire da Gershom Scholem, “Il nichilismo come fenomeno religioso”, la questione dell’elitismo e del messianismo politico
di Alessandro Visalli
Gershom Scholem fu, probabilmente, il migliore e più stabile amico di Walter Benjamin ma la sua vita si svolse, dopo un avvio comune, su strade e sentieri molto diversi. Filosofo, teologo e semitista proveniente da una famiglia ebraica tedesca, si trasferì molto presto in Israele e qui rimase fino alla morte, a ottantacinque anni, a Gerusalemme nel 1982. Nel percorso della sua ricerca fu uno studioso della storia delle religioni e, in particolare, della cabala oltre che dei movimenti mistici ebraici. In particolare del movimento sabbatiano (da Shabbĕtay Ṣĕbī). Vicino in gioventù al sionismo laico e socialisteggiante degli anni Dieci ne giudicò in modo severo l’evoluzione. In Walter Benjamin. Storia di un’amicizia[1], il suo libro sull’amico, dichiaro che “il sionismo si è ucciso vincendo”[2], distinguendo tra una versione mistico-religiosa e una ‘pratica’ mirante alla soluzione politica ben nota. Una pratica che evoca da sé le forze della sua distruzione spirituale e precipita nella “disperazione del vincitore [che] è ormai da anni la demonìa peculiare del sionismo”. Il quale con Buber, e tanto più quando si fa materia in Palestina, si vuole come ‘sangue e vita vissuta’ e quindi razza.
Di questo complesso autore leggeremo ora solo una piccola, ma interessante, conferenza, tenuta in Svizzera nel 1974, Il nichilismo come forma religiosa[3], nella quale l’autore riassume la storia di alcune forme del misticismo ereticale e messianico ebraico e cristiano. Per cominciare vediamo intanto cosa definisce come ‘nichilismo’: l’atteggiamento di colui che contesta per principio qualsiasi autorità, che quindi non accetta alcun principio per fede, a prescindere da quanto sia essa seguita. Si tratta di un atteggiamento invero oggi molto familiare. Per questo vale la pena ripercorrere il racconto di Scholem.
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Per un New Deal europeo
di Ernesto Screpanti*
C’è un problema che assilla la sinistra europea fin dagli anni della crisi del debito greco: come deve agire un governo popolare per evitare che l’UE faccia fare a un’altra nazione la fine che ha fatto fare alla Grecia? Le scelte effettuate all’epoca dai governi greci (sia quello di Papandreu, 2009-11, sia quello di Tsipras, 2015) causarono non solo una grande sofferenza economica ai loro cittadini, ma anche un grave danno politico alla sinistra europea. Secondo molti osservatori avrebbero dimostrato che i socialisti e i comunisti non hanno la soluzione ai problemi che le politiche e i trattati dell’Unione hanno causato ai popoli europei.
Io invece credo che la soluzione ce l’abbiano, e per dimostrarlo voglio proporre un esercizio di fantapolitica in cui ipotizzo che un governo di vera sinistra vada al potere in Italia.
Non bisogna essere un profeta per prevedere che, appena si sa nel mondo che c’è un ministro dell’economia di sinistra, i “mercati” cominciano a giocare al ribasso sul debito pubblico italiano. Le agenzie di rating declassano il nostro debito a spazzatura, la speculazione alza la testa e la situazione diventa difficile da gestire.
A quel punto interviene la Commissione Europea proponendo di usare la troika per salvare l’Italia dal default, chiedendo però che il governo somministri politiche che tranquillizzino i mercati, cioè propini al popolo una medicina “lacrime e sangue” fatta di tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse, riforme delle pensioni, abbassamento dei salari, aumento della disoccupazione e della povertà. Un governo di sinistra non può accettare queste condizioni.
Dovrebbe piuttosto approfittare della crisi per lanciare un forte programma di new deal. Ecco cosa dovrebbe fare secondo me.
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Fare debito è di sinistra?
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
Anche le forme dell'indebitamento hanno un segno di classe, riflettono i rapporti di forza. Quelle di questi anni hanno accresciuto le disuguaglianze
Dipende. Non intendiamo, con il pretesto di una provocazione, ribaltare il senso delle cose come fecero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ascrivendo il liberismo al campo della sinistra in un celebre libro, ma provare a fare qualche riflessione sugli ultimi decenni.
Per ragioni anagrafiche chi scrive è cresciuto in uno schema del dibattito politico abbastanza consolidato. Da una parte le politiche europee vocate al «rigore» di bilancio, cementate dal trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio del 1992, dall’altro l’opposizione alle politiche di austerity portata avanti dai movimenti sociali, da alcuni settori sindacali radicali, poi dal movimento antiglobalizzazione e dalla sinistra politica antiliberista che lo appoggiava (e di cui chi scrive faceva parte attivamente). Un’opposizione che via via si è allargata a forze politiche e intellettuali crescenti, seppur contraddistinte da tonalità differenti. Le ragioni dell’opposizione erano semplici: le politiche di austerity bloccavano la spesa sociale e gli investimenti pubblici, comprimevano diritti e riducevano il salario indiretto. Molti riproponevano un tradizionale e generico orientamento keynesiano, una politica in deficit spending che avrebbe permesso maggiore redistribuzione, ma anche maggiore crescita, che avrebbe ripagato (almeno in parte) il deficit iniziale.
La cosa interessante di questo schema politico sta nel risultato a trent’anni di distanza. Un risultato che ha il gusto forte del triplo paradosso.
I paradossi dell’austerity
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Palestina–Ucraina: il realismo imperialista e le assurdità di certe compagnerie a sinistra
di Algamica*
Diviene necessario dover affrontare alcune questioni teoriche e politiche con la dovuta chiarezza con risvolti che sembreranno come pugni nello stomaco a chi aspira a una alternativa di sistema ideale attraverso i fantasmi ideologici di quel che rimane della sinistra occidentale incapace di considerare i processi materiali reali e il saldo della storia. Non tenerne conto – a essere buoni – porta lì dove non si pensa di arrivare.
Proprio perché la storia è il vero giudice inappellabile siamo obbligati a cercare di separare il grano dal loglio, o la farina dalla crusca, in modo particolare in una fase come quella attuale, cioè di crisi generale del modo di produzione capitalistico, mostrando la pericolosità di certe posizioni teorico-politiche nella prospettiva di una decomposizione generale del modo di produzione capitalistico.
È buona abitudine chiamare a testimoniare sempre i fatti per essere credibili e ci riferiamo, perciò, a chi usa lo stesso metodo nel campo avverso, cioè non di parlare a vuoto o di mestare in ideologia, per capire in che direzione si sta andando. Ci riferiamo a quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina ultimamente.
Chiediamo perciò pazienza al lettore se citiamo anche lunghi strali di quello che scriveva il 19 febbraio 2024 Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera in modo schietto e chiaro come lui sa fare.
«[…] una merce sempre assai rara è il realismo: cioè la conoscenza dei fatti e della loro storia, l’analisi obiettiva degli interessi in gioco» prendano bene nota le varie compagnerie «la valutazione delle soluzioni concretamente possibili fondata sui due fattori ora detti.
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L’Energia, i suoi equilibri e le forme sociali /1/
di Paolo Di Marco
1- L’auspicabile sparizione di Energia Oscura e Materia Oscura
L’Energia è uno dei concetti più semplici e insieme più abusati della Fisica.
Ovunque vi sia una forza se questa sposta un oggetto compie lavoro. (L≈FxS)
L’energia è la capacità di compiere lavoro, e a ogni campo di forza quindi è associata un’energia, che si può misurare, combinare, trasformare (ad esempio da energia potenziale a energia cinetica).
È un po' più complicato con l’uso in ambiti meno definiti, dato che è difficile stabilire una metrica e delle operazioni (controllabili e condivisibili) per l’energia morale o affettiva o mistica, per quanto uno senta di poterle descrivere e anche valutare.
Uno degli ultimi arrivati, stavolta in cosmologia, è l’Energia Oscura.
Malgrado il nome minaccioso il termine rappresenta semplicemente il fatto che l’Universo si sta espandendo, e viene quindi ipotizzata l’esistenza di un’energia (e quindi Forza) che causi questa espansione.
Ma dato che l’unico effetto visibile è proprio l’espansione (l’allontanamento delle galassie avviene come se qualcuno gonfiasse un pallone sulla cui superficie le galassie si appoggiano) e non si vedono responsabili diretti è stata chiamata oscura; e molti ricercatori basano la loro carriera su questa indagine.
Peccato che, come Rovelli si sgola a spiegare da molti anni (anche sul tubo), questa energia è così oscura che proprio non c’è: infatti l’espansione è già contenuta nell’equazione fondamentale della Relatività Generale, e specificamente in una piccola costante chiamata appunto costante cosmologica.
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Guerra al lavoro, uberizzazione
di Vincenzo Comito
L’innovazione, la globalizzazione, l’intelligenza artificiale favoriscono una minoranza di privilegiati e una degradazione della condizione dei lavoratori. Che non possono contare che su sé stessi in caso di infortunio, malattia, gravidanza; niente sanità, niente pensione, ma solo una feroce concorrenza
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a delle grandi trasformazioni nel mondo del lavoro. Viste dall’Europa, tali trasformazioni appaiono complessivamente negative, ma se guardiamo dal punto di vista globale il quadro tende a farsi almeno un poco più sfumato. Dall’avvento della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti (simboli eloquenti della loro azione sono la lotta feroce della prima contro i minatori e del secondo contro i controllori di volo), l’attacco frontale al mondo del lavoro ha assunto nuovo vigore, trascinando in un ruolo attivo contro il lavoro anche importanti forze politiche un tempo di sinistra e lasciandosi progressivamente dietro molte delle conquiste del dopoguerra. In Occidente tale attacco, del resto ancora in atto, è stato reso possibile oltre che dalle pessime decisioni assunte dalla politica, anche dallo sviluppo dei processi di globalizzazione e da quelli di innovazione tecnologica.
Gli effetti della globalizzazione e dell’outsourcing
Un grande fattore di trasformazione del mondo del lavoro negli ultimi decenni sono stati indubbiamente i processi di globalizzazione, che hanno portato alla fine a risultati in parte diversi da quelli che sperava di ottenere chi li aveva innescati.
La coppia globalizzazione-outsourcing è stata avviata in diverse ondate dagli Stati Uniti, da governo e imprese mano nella mano, e più in generale dai paesi ricchi, con diversi obiettivi: intanto quello di espandere e di approfondire la presa economica, ma anche politica e ideologica, sul mondo, poi quella di ridurre i costi di produzione, approfittando in particolare del bassissimo livello dei salari nei paesi del Terzo Mondo, a fronte di una forza lavoro che in quei paesi andava tra l’altro scolarizzandosi, insieme, soprattutto in alcuni di essi, a una certa dotazione di infrastrutture funzionali a rendere efficiente il processo di delocalizzazione.
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Eurocentrismo di Samir Amin
Recensione di Monica Quirico
Samir Amin: Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di G. Riolo, La Città del Sole, Napoli/Potenza, 2022, pp. 274, Isbn 9788882925529
Nel 1988 usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018), che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata (in Occidente come altrove) dalla politica identitaria, la traduzione italiana della seconda edizione dell’opera, uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale, invita a riflettere sulla genealogia dei fenomeni odierni, il cui punto d’arrivo Amin così sintetizza: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).
Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non-allineati. Diventa così urgente un confronto sulle cause dell’”arretratezza” (nella terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro (l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali.
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La sfida di Sanders non spaventa il capitalismo
di Carlo Formenti
Leggendo il titolo del nuovo libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo (Fazi Editore), mi sono detto: vuoi vedere che l’anziano senatore populista-socialista (così si autodefinisce), emulo della tradizione di un movimento operaio otto/novecentesco che, pur non avendo mai assunto posizioni “bolsceviche”, ha espresso leader radicali come Eugene Debs, ha finalmente rotto gli indugi. Magari, dopo due campagne presidenziali in cui, dopo avere inutilmente tentato di ottenere la nomination dando l’assalto all’establishment democratico, ha finito per fungere da galoppino delle candidature “eccellenti” di Hillary Clinton e Joe Biden, si è deciso a lavorare per un’alternativa antisistemica alla diarchia repubblicano-democratica, fedele esecutrice degli interessi dell’impero a stelle e strisce.
Purtroppo ho invece dovuto constatare che, rispetto a qualche anno fa, la sua attuale posizione può essere definita, citando un noto titolo di Lenin, come un passo avanti e due (se non tre!) passi indietro. Ma procediamo con ordine. Se invece di leggere il libro seguendone l’indice, qualcuno fosse tentato di “saltare” alcuni capitoli, lasciandosi attrarre dai passaggi che affondano impietosamente il dito nelle piaghe più purulente che affliggono il corpaccione dello zio Sam, l’illusione di svolta radicale evocata dal titolo sembra giustificata. Vediamo alcuni esempi.
Dopo avere descritto l’intollerabile tasso di disuguaglianza (pari a quello record degli anni Venti) raggiunto negli ultimi decenni, Sanders denuncia la situazione agghiacciante di un sistema sanitario da incubo: il 44% degli adulti fatica a pagarsi le cure mediche (c’è gente che evita di sorridere per non mostrare i buchi di una dentatura falcidiata dall’assenza di cure dentistiche, mentre più di 60 000 persone all’anno muoiono perché non possono acquistare farmaci salvavita né farsi ricoverare);
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Imperiarcato e sociopatia
di Piero Pagliani
Dopo aver preparato la trappola ucraina per anni e anni, per lo meno da quando lo stratega statunitense della Guerra Fredda, George Kennan, scongiurava di non farlo, di non allargare la Nato a Est, ed era il 1997, e dopo averne accelerato la messa a punto a partire dal golpe nazista della Maidan nel 2014, gli Usa, la Nato e tutto l’Occidente ci sono cascati dentro. Da soli. Ripeto: sono cascati dentro la trappola che avevano accuratamente preparato.
E ora non sanno come uscirne.
Si agitano senza un piano e continuano a chiedere agli ucraini di immolarsi per non fargli perdere del tutto la faccia, alimentare ancora un po’ il business della loro industria militare e dargli tempo per capire come scappare fuori dal pantano.
Nel frattempo per consolarsi si raccontano le favole da soli, come ha recentemente fatto su Foreign Affairs il capo della CIA, William Burns:
«L’obiettivo originale [di Putin] di conquistare Kiev e soggiogare l’Ucraina si è dimostrato folle e illusorio. Il suo esercito ha sofferto immensi danni. Almeno 315.000 soldati russi sono stati uccisi o feriti» [1].
Ex analisti militari americani e persino della CIA, preoccupati che ormai da tempo i servizi di intelligence raccontino solo quello che i politici neo-liberal-con voglio sentirsi raccontare, dicono tutt’altro, in base ai dati: la Russia non ha mai cercato di prendere Kiev (aveva dislocato lì meno di un ventesimo delle truppe necessarie a farlo).
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Playfication. A partire da “La regola del gioco” di Raffaele Alberto Ventura
di Alessandro De Cesaris
Nel 2018 Alessandro Baricco pubblica The Game, un libro basato su una tesi semplice ma efficace: il videogioco è diventato la forma dominante di ogni esperienza degna di nota all’interno delle nostre società. Si tratta di un’idea leggera, apparentemente innocua, che suggerisce un’immagine giocosa e divertente della vita. D’altra parte, a chi non piace giocare ai videogiochi? Cinque anni dopo, Raffaele Alberto Ventura riprende questa idea con toni completamente differenti e ne radicalizza le implicazioni più preoccupanti.
La regola del gioco si presenta come un manuale di comunicazione per l’era dei social, ma l’aspetto più interessante del libro è la visione del mondo che sottende. Ventura resta il teorico della classe disagiata e della guerra di tutti, e nella sua lettura la metafora ludica sprigiona tutta la sua potenza più sinistra: in un mondo dominato dalla scarsità di risorse e dalla corsa alla conquista di beni posizionali, la regola del gioco è la più semplice ma anche la più dura, ovvero che se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Ma siamo sicuri che questa idea di gioco sia l’unica possibile? E soprattutto, è davvero questa la visione della vita che ci trasmettono i videogiochi?
Dal play al game. L’eredità di Don Chisciotte
Per comprendere le premesse della diagnosi di Ventura è utile partire dal suo saggio contenuto in The Game Unplugged, una raccolta di testi pensati a partire dal libro di Baricco e uscita nel 2019. In quelle pagine Don Chisciotte viene indicato come la figura più rappresentativa della metafora del Game, quasi un mito fondatore, se non fosse che la contaminazione tra realtà e gioco è molto più antica del cavaliere dalla triste figura.
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La porta delle lacrime, le risa del capitale e l'inflazione. Riflessioni amare sulla crisi del Mar Rosso
di Andrea Pannone
Nel testo odierno, Andrea Pannone riflette sulle conseguenze economiche del conflitto in Medio Oriente e delle azioni del gruppo yemenita Houthi.
È un testo molto utile perché spiega i maggiori beneficiari delle tensioni belliche, gli interessi materiali sul campo e dunque le contraddizioni tra gli attori della guerra
La guerra nello stretto e le conseguenze sul commercio mondiale
Come ci ricorda il National Geographic Magazine, Bab el-Mandeb, in arabo la Porta delle lacrime, è una piccola strozzatura geografica nel Mar Rosso che ha un'influenza enorme sull’economia mondiale: è un punto chiave per il controllo di quasi tutte le spedizioni tra l'Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez[1]. Da lì, come ormai noto, passa quasi il 15% del commercio marittimo globale, compreso l’8% del commercio mondiale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del commercio totale di gas naturale liquefatto.
Da circa due mesi alcune navi che transitano in quel tratto sono prese di mira dai droni e dai missili del movimento yemenita Houthi, da anni sostenuto dall’Iran. Alcune navi, non tutte però. Solo le navi mercantili che navigano al largo delle coste dello Yemen e che hanno collegamenti con Israele. Gli stessi Houthi presentano gli attacchi come una risposta alla mancata condanna da parte dell’occidente al massacro che il governo di Netanyahu sta compiendo a Gaza. In realtà, si potrebbe a buon diritto sostenere (come fa ad esempio Emiliano Brancaccio nell’articolo Lo stretto necessario, il Manifesto, 23 gennaio 2024) che le azioni degli Houthi, sicuramente ben note a Teheran, vadano a vantaggio di un progetto antitetico a quello dell’Occidente che mira a contrastare, anche con l’imposizione di barriere commerciali e finanziarie, la crescente sfida dei competitor cinesi e russi al dominio economico degli Stati Uniti e al loro storico ruolo guida delle relazioni geopolitiche.
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Da Neoliberismo a Caosliberismo: Una malattia sociale di lunga durata
di Glauco Benigni
Il Neoliberismo è al tempo stesso un’ideologia politica e una teoria economica. La sua comparsa risale alla fine degli anni ’70. Il suo effetto apparve sin da subito subdolo e persuasivo e cominciò a influire non solo sui mercati finanziari e del lavoro, ma anche sull’organizzazione degli stili di vita e di pensiero. Il suo ideologo Friedrich von Hayek, che ricevette il Nobel per l’economia nel 1974, era assolutamente convinto che la Società si regge solo e unicamente grazie alle azioni di singoli individui. Una certezza che “risuona” con alcune affermazioni del Calvinismo: “la vocazione di ognuno si lega in positivo con la predestinazione e da vita a una nuova etica della Società e del lavoro“. Una “chiave morale” che vede la crescita del capitale individuale quale “opera buona e giusta”, da cui molti studiosi vollero interpretare il messaggio calvinista quale modello ideale della borghesia occidentale contemporanea. Alcuni opinion makers di regime arrivano a sostenere che il Neoliberismo è “la fonte dei nostri valori“, alludendo con “nostri” ai valori di quelli che hanno un reddito annuo piuttosto importante e conti bancari nei paradisi fiscali.
L’ordine che tiene la società, secondo von Hayek, si genera spontaneamente dalla confluenza delle imprese e delle finalità dei singoli, e non ha niente a che vedere con qualsiasi forma di progettazione collettiva e/o di economia pianificata Ogni forma di controllo dall’alto, tipica delle visioni stataliste, è superflua, anzi dannosa. Talvolta si potrebbe confondere il Neoliberismo con l’anarchia del Potere – e infatti spesso le due pratiche si intersecano – ma von Hayek e i suoi seguaci puntualizzano che: invece no! la società – dicono – è regolata dalla proprietà privata: un fondamento naturale, un argine al caos.
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Concretezza e storicità della contraddizione
di Salvatore Bravo
La contraddizione è la legge oggettiva della storia, è sinolo di universale e particolare; la legge della contraddizione è concreta e storica, perché si esplica nelle contingenze particolari. Capire la contraddizione significa coglierla nei suoi movimenti storici. La tensione tra particolare e universale necessita della valutazione attiva e consapevole degli uomini e delle donne in lotta. Non tutte le contraddizioni hanno lo stesso valore, ci sono priorità che devono essere oggetto di azione e pensiero, in modo da discernere le contraddizioni antagoniste dalle secondarie e calibrare le risposte alle circostanze che si presentano.
La duttilità del pensiero di Mao Tse-tung ha la sua genesi nella lotta per liberare la Cina dalla “grande mortificazione”, a cui l’aveva sottoposta l’Occidente con le guerre dell’oppio fino all’invasione giapponese nel 1937. L’aggressione giapponese è stata parte del disegno egemonico liberalista di spartizione del pianeta in aree di influenza e di saccheggio delle risorse. Dinanzi alla Cina devastata dall’invasione giapponese Mao Tse-tung dichiara la guerra di liberazione della Cina “contraddizione principale”, per cui l’alleanza con il Kuomintang diviene il mezzo con cui liberare la Cina dal nemico giapponese. Le contraddizioni interne alla Cina con relative visioni politiche sono valutate secondarie rispetto alla lotta di indipendenza della Cina:
“Dato che la contraddizione fra la Cina e il Giappone è divenuta la contraddizione principale e che le contraddizioni interne sono passate in secondo piano e vengono subordinate alla prima, si sono verificati cambiamenti nelle relazioni internazionali e nei rapporti tra le classi all’interno del paese; questi cambiamenti hanno segnato l’inizio di una nuova fase nello sviluppo dell’attuale situazione.
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Terza guerra mondiale
di Leonardo Mazzei
Parlare di “Terza Guerra Mondiale” è impegnativo, ma necessario. E’ impegnativo perché può sembrare esagerato, è necessario perché è l’immagine che meglio rende l’attuale situazione.
In questo inizio 2024 c’è in giro una pericolosa illusione. Secondo molti la guerra d’Ucraina starebbe per finire, o quantomeno per spegnersi per poi congelarsi magari in una “soluzione” alla coreana. Secondo questa visione, qualcosa del genere dovrebbe accadere pure in Medio Oriente, con l’allentarsi della presa di Israele su Gaza, cui seguirebbe non si sa bene che cosa.
Sfortunatamente le cose sono molto, ma molto più complicate.
Cosa vuol dire “Terza Guerra Mondiale”?
Questo articolo non ha lo scopo di affrontare l’insieme delle questioni geopolitiche che si stanno avviluppando davanti ai nostri occhi. Quel che qui ci interessa è fissare un dirimente punto di analisi. La “Guerra Grande” (copyright Lucio Caracciolo) ha la sua origine nella scelta occidentale, dunque in buona sostanza americana, di non cedere l’attuale supremazia su scala planetaria. Una supremazia messa in discussione dall’emergere della Cina, dallo sviluppo dei Brics, dal minor peso economico dell’Occidente complessivo, dall’evidente tendenza generale al multipolarismo, dall’insostenibilità di un sistema monetario dollaro-centrico.
A Washington hanno da tempo deciso di lottare per impedire il passaggio dal “nuovo secolo americano”, teorizzato venti anni fa, a un sistema policentrico in cui dover ricontrattare i nuovi equilibri di potenza.
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«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”
di Afshin Kaveh
In questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione
Quel libro tra gli scaffali
Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].
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L’università e il genocidio
di Rete universitaria per la Palestina
La guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]
* * * *
Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).
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C’era una volta… oppure c’è ancora Marx?
di Sandro Moiso
Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro
Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)
Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.
Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio a opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.
Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova a offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.
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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra
di Massimo D'Antoni
L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.
Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».
Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice
Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.
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Questione meridionale: una questione di sviluppo?*
di Augusto Graziani
Pubblichiamo un inedito di Augusto Graziani nel decimo anniversario della sua morte sulla cd. “questione meridionale” Il testo viene accompagnata da una prefazione di Francesco Maria Pezzulli, che ha scoperto la registrazione dell’intervento, e da una breve postfazione di Andrea Fumagalli
Prefazione di Francesco Maria Pezzulli
Questo testo inedito di Augusto Graziani è particolarmente utile perché vi è riassunto il suo punto di vista, in modo semplice e dialogico, su una delle tematiche che lo ha accompagnato per tutta la vita: la questione meridionale. Oserei dire che in queste poche pagine, oltre alla competenza scientifica del grande economista, emerge anche una sua positiva “classicità”. Graziani comincia la sua discussione con gli studenti ricordando loro, fatemela passare, che lui è un economista di sinistra, che ha abbracciato cioè quel principio secondo il quale, con Marx, sono le condizioni d’esistenza delle classi sociali che condizionano le loro dimensioni culturali e che dunque queste due cose vanno tenute insieme se si vogliono intendere per davvero le dinamiche di cambiamento. Ma parlando agli studenti, in modo sornione e divertito, si rivolgeva anche ai sociologi ed agli economisti del Mezzogiorno presenti, ai quali, prendendoli un pò in giro, gli rimproverava di aver dimenticato questo dato scientifico e politico essenziale. Con le sue parole: «gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale».
Per Augusto Graziani la questione meridionale è stata sempre e soprattutto un problema concreto di rottura con il passato, con ciò che un tempo venivano definiti “residui feudali” delle società sottosviluppate. Ed è innegabile che tali residui fossero presenti nel Mezzogiorno e che, sotto certi aspetti, lo sono ancora oggi.
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Se il “mondo libero” ha paura di una intervista
di Gianandrea Gaiani
Con l’intervista fiume a Vladimir Putin il giornalista televisivo Tucker Carlson ha fatto arrabbiare tutti al di qua della “Cortina di Ferro”, cioè in quello che ai tempi della prima guerra fredda potevamo definire orgogliosamente il “mondo libero”.
Ha fatto arrabbiare i colleghi, anchorman e star dei grandi media mainstream statunitensi perché ha ottenuto un incontro e una intervista con Putin che ad altri è stata negata, Non pago, giusto per aumentare la dose di bile dei colleghi che non gli perdonano né di venire dalla “reazionaria” Fox News né di essere vicino a Donald Trump, Carlson ha ottenuto da Mosca anche di poter incontrare e intervistare Edward Snowden.
Un’intervista non meno importante di quella a Putin (anche se avrà forse minor impatto mediatico) tenuto conto che la fuga di Snowden, prima in Cina poi a Mosca, scatenò nel 2013 quel Datagate che raccontò al mondo intero di come gli Stati Uniti (e i britannici) spiano amici e alleati fino a controllare i cellulari di leader, capi di stato e di governo europei, i quali hanno peraltro reagito con limitate proteste formali, di fatto accettando come un fatto ineluttabile il loro status di sudditi ( status che, dieci anni dopo, appare oggi ancora più marcato).
Giova ricordare che i fatti svelati da Snowden riguardavano operazioni di spionaggio sviluppatesi negli anni dell’amministrazione Obama in cui Joe Biden ricopriva il ruolo di vice presidente. Per questo i contenuti dell’intervista a Snowden potrebbero forse avere un impatto sulle imminenti elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
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Maccartismo. Su un angosciante documento del Parlamento europeo
di Andrea Zhok
Mentre tutte le principali testate giornalistiche europee sono in caduta libera di lettori; mentre Tucker Carlson, dopo aver svolto l'intervista più virale della storia a Vladimir Putin, viene indiziato di "spionaggio" in Europa; il Parlamento Europeo produce un documento come il seguente, che riproduco integralmente qui sotto, dove si chiede la condanna di un'eurodeputata lettone.
Al di là del caso particolare, la batteria argomentativa di questo atto, con valore legale, è agghiacciante. Rubando le parole dell'amico Pino Cabras, stiamo assistendo a un ritorno del maccartismo in grande stile.
Mettiamoci in testa che la cornice di libertà di pensiero e parola in cui siamo cresciuti è morta e sepolta. Lo avevamo già capito durante la pandemia, ma ora stiamo assistendo ai primi atti giuridicamente vincolanti.
Da qui, a cascata, questi principi entreranno sistematicamente nelle nostre scuole e università, nei nostri media, nella nostra quotidianità.
C'è chi dirà: "E dov'è la differenza con quello che già accade?"
La differenza sta nel fatto che finora le eccezioni marginali venivano tollerate, mentre questo impianto culturale predispone la trasformazione in reato di ogni parola critica verso i capisaldi neoliberali UE-NATO.
Come l'asino che dà del cornuto al bue, questo documento è mirabile per la sua capacità di affermare una sequela incredibile di falsità o di schiette inversioni dei ruoli e poi di accusare la controparte di "disinformazione".
Documento molto lungo, molto angosciante, ma da leggere.
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Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano
Recensione di Rachele Cinerari
Le prime righe di Guerre culturali e neoliberismo, scritto da Mimmo Cangiano e in uscita per Nottetempo, chiariscono cosa il libro vuole, ma soprattutto non vuole, fare.
Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (…), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.
I nove capitoli del libro si muovono attraverso numerosi esempi, attraversando teorie almeno degli ultimi vent’anni, statunitensi ma anche italiane, per ripercorrere ciò che è accaduto nelle università statunitensi e di come certi processi siano stati inglobati, già masticati e digeriti, da quelle italiane. Partendo dall’esperienza che Cangiano ha fatto lavorando dieci anni nelle università statunitensi ed elaborandole, il libro ricostruisce infatti in modo conciso la culturalizzazione accademica statunitense e il progressivo spostamento delle lotte su un piano esclusivamente simbolico e sovrastrutturale, l’analisi erroneamente a-storica e la naturalizzazione del capitalismo, l’inglobamento (e fraintendimento?) della cosiddetta French Theory.
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Ampliare il conflitto dal Mar Rosso? Le strategie imperialistiche per il controllo del Medioriente
di Maurizio Brignoli
Ansarallah e l’attacco a Israele nel Mar Rosso
Nello Yemen nel 2011 scoppiava la rivolta degli al-Huthiyyun, meglio noti come huthi (per quanto il termine non sia gradito agli stessi), sciiti raggruppati nella formazione di Ansarallah (Partigiani di Dio), il movimento prende il nome da Hussein Badr al-Din al-Huthi un capo politico e religioso dello sciismo zaydita ucciso dalle forze governative nel corso di un’insurrezione nel 2004, che portava alla caduta del regime filosaudita artefice dell’inserimento dello Yemen nel mercato mondiale in stretta relazione con il capitale anglo-statunitense interessato allo sfruttamento delle risorse delle regioni centromeridionali e a una politica di privatizzazioni delle imprese statali a beneficio di Usa e petromonarchie. Per fronteggiare l’insurrezione – alla quale, a conferma che le contrapposizioni religiose fungono da paravento, partecipano anche sunniti, socialisti e formazioni del nazionalismo arabo – Usa e sauditi utilizzano prima l’infiltrazione jihadista con al-Qaida nella Penisola arabica (Aqpa), cui si aggiungeranno uomini dell’Isis per tramite degli Eau[1], e poi dal 2015 l’intervento militare diretto, giustificato con l’accusa ad Ansarallah di essere una quinta colonna iraniana (Ansarallah in realtà è riuscita a resistere grazie al sostegno popolare di cui gode nel paese)[2], con una coalizione composta da Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein, Eau, Giordania, Egitto, Marocco, Oman e Sudan con supervisione militare e interventi diretti di Usa, Regno Unito e Francia. Un’altra buona occasione per l’apparato militare-industriale statunitense che, dall’inizio del conflitto fino al 2020, ha venduto ai sauditi armi per oltre 60 miliardi di dollari.
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Autori Vari: Sul compagno Stalin
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Tutti i colori del rosso
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Luca Busca: La scienza negata
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Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
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