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Lenin e l'imperialismo come categoria economico-politica
di Guido Ricci
«Non abbiamo bisogno di infarcire le menti, ma dobbiamo sviluppare e perfezionare la memoria … con la conoscenza dei fatti fondamentali, perché altrimenti il comunismo si trasformerà in una parola vuota, in una semplice insegna e il comunista non sarà che un millantatore se nella sua coscienza non saranno elaborate tutte le nozioni che gli sono state date. Queste nozioni non soltanto dovete impararle, ma impararle e al tempo stesso criticarle al fine di non ingombrare la nostra mente di un ciarpame assolutamente inutile, ma di arricchirla con la conoscenza di tutti quei fatti che un uomo moderno colto non può in nessun modo ignorare». V.I. Lenin, Discorso al Congresso Panrusso della Gioventù Comunista, 2 ottobre 1920.
1. Premessa
La nozione di imperialismo, delineata già da Marx ed Engels ed analizzata scientificamente da Lenin, è di grande importanza per la corretta comprensione della realtà, cioè delle contraddizioni insanabili del modo di produzione capitalistico nella sua fase suprema, che stanno alla base del conflitto tra classi e tra paesi e determinano l’ineluttabilità della violenza imperialista.
La corretta comprensione della nozione di imperialismo è fondamentale anche per contrastare l’influenza diretta che esso ha sul movimento operaio e, quindi, sulla lotta di classe e sulla strategia per la trasformazione rivoluzionaria della società.
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Impadronirsi della Fase Tre - In galera! - Contributi a Cinque Stelle (non spente)
di Fulvio Grimaldi
Viviamo in un mondo in cui i medici distruggono la salute, i giuristi distruggono la giustizia, le università distruggono la conoscenza, i governi distruggono la libertà, la stampa distrugge l’informazione, la religione distrugge la morale e le nostre banche distruggono l’economia” (Chris Hedges, giornalista e scrittore statunitense, premio Pulitzer, professore a quattro delle maggiori università USA)
A convalida di quanto qui sopra epitomizzato da un illustre giornalista, poniamo una citazione, tanto celebre quanto artatamente fatta dimenticare, di un personaggio centrale nella strategia economica, sociale e biologica dell’UE. Una personalità francese di altissimo rango, ascoltata dai potenti, venerata dai media e che riassume in sé le categorie citate da Hedges. Jacques Attali è giurista amministrativo, eminenza grigia politica e capo di gabinetto di Mitterand, massimo consigliere economico dello stesso Mitterand e poi di Sarkozy e Macron, banchiere internazionale quale presidente della Banca Europea per lo Sviluppo e presidente della Commissione Attali incaricata di promuovere il neoliberismo finanzcapitalista in Europa e specialmente nei paesi ex-comunisti. Infine autonominato, ma riconosciuto, medico e biologo, come risulta dal programmino di sfoltimento dell’umanità riassunto in questa sua dichiarazione. Per pura coincidenza, appartiene alla stessa confessione di tutti i protagonisti della strategia del vaccino e della depopolazione mondiale:
Un programmino per lo sfoltimento
“Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società. L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle nostre società future. Macchine per sopprimere permetteranno di eliminare la vita allorché essa sarà troppo insopportabile, o economicamente troppo costosa” (Jacques Attali, “La médicine en accusation“, in AA.VV., L’avenir de la vie, Seghers, Paris 1981).
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Globalizzazione/glebalizzazione
di Salvatore Bravo
La globalizzazione pone quesiti imprescindibili sul futuro dell’umanità e di ciascuno. È necessario filtrare i messaggi che disorientano per “riflettere sulla durezza del problema”. I trombettieri della globalizzazione rappresentano l’interconnessione planetaria come una destino a cui non ci si può sottrarre. L’operazione ideologica si ripete secondo parametri operativi sempre uguali: si osannano le potenzialità del mercato globale, le tecnologie, si sciorinano numeri e nel contempo si occultano la verità e le tragedie etiche di cui è portatrice. Non sono “convenzionali tragedie della storia umana”, ma ci si trova dinanzi a processi tendenzialmente irreversibili che, nel loro incedere graduale, rischiano concretamente di minacciare ogni forma di vita e civiltà.
Si assiste ad una mutazione antropologica definita “rivoluzione”, ma in realtà si tratta di una regressione. Il termine rivoluzione ha un’accezione positiva. Si scorgono, invece, nel present,e i primi segni della barbarie che verrà. Il lavoro e la sua scomparsa a causa della robotizzazione crescente ed incontenibile è parte della regressione umana che si configura. Il lavoro non è una maledizione biblica, può esserlo in particolari condizioni materiali ed ambientali, ma il lavoro è parte sostanziale dei processi attraverso cui la persona ed intere classi sociali divengono consapevoli della propria condizione, e assumono il compito della lotta e dell’emancipazione per sé e per l’umanità. Senza il lavoro condiviso e simbolizzato non vi è che la tragedia dell’atomismo. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, descrive la figura “servo-padrone”: il servo, attraverso il lavoro, impara a trasformare la natura, educa il proprio carattere e specialmente impara che non necessita del padrone, che la forza del padrone è la sua paura.
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La peste e lo Stato
di Alberto Toscano
La crisi pandemica ha generato un diffuso desiderio di stato e di autorità. Ma per filtrare questo desiderio imponendo un nuovo bisogno collettivo di salute occorre rivolgersi alle tradizioni di ciò che potremmo chiamare “dualismo del biopotere”, vale a dire ai tentativi di appropriarsi politicamente di quegli aspetti della riproduzione sociale, dalle abitazioni alla medicina, che lo stato e il capitale hanno abbandonato o reso insopportabilmente “esclusivi”
È un luogo comune commentare le più diverse crisi notando la loro capacità di rivelare, in un istante, ciò che l'apparentemente fluida riproduzione dello status quo lascia inosservato, di portare in primo piano ciò che è dietro le quinte, di rovesciare la scala delle priorità etc. Il carattere, la durata e le dimensioni del SARS-CoV-2/Covid-19 sono una illustrazione particolarmente efficace di questa vecchia, “apocalittica”, verità. Dalla esposizione “differenziale” alla morte creata dal capitalismo razziale alla nuova ribalta conquistata dal lavoro di cura, dall'attenzione alle condizioni letali della vita carceraria alla diminuzione, visibile a occhio nudo, dell'inquinamento, le “rivelazioni” catalizzate dalla pandemia sembrano grandi tanto quanto il suo impatto sulle nostre relazioni di produzione e riproduzione sociale.
La dimensione politica della nostra vita collettiva non fa eccezione. Dilagano stati di emergenza, nascono vere e proprie dittature sanitarie (egregiamente in Ungheria), una emergenza che è di sanità pubblica viene militarizzata, e ciò che The Economist soprannomina “coronopticon” è variamente testato su popolazioni in preda al panico[i].
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Eurobonds e MES. Cosa bolle in pentola per i lavoratori
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Impazza da giorni sulla stampa, in tv, nei social, con toni da fine del mondo, lo scontro tra chi è per il MES e chi per gli Eurobonds – incluso un certo numero di personaggi e personaggetti di “sinistra” (vedi Fassina). Tutti i contendenti, però, sono uniti sul punto decisivo: far crescere esponenzialmente il debito di stato, che dovrà essere ripagato, con gli interessi, dai lavoratori. Ragioniamo qui su questa “alternativa” farlocca, e sulla necessità di contrapporre ad entrambi questi strumenti anti-proletari (Eurobonds e MES) la lotta contro il debito di stato e il suo ingigantimento, per una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% dei più ricchi. E colpire in questo modo ricchezza e potere della classe capitalistica, la sola ed unica responsabile dell’attuale disastro sanitario ed economico (In coda un glossario per capire i termini ‘tecnici’ con cui vogliono estraniare i lavoratori e le lavoratrici da questioni che, invece, toccano in profondità le loro vite, e le vite dei loro figli e nipoti).
La riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile si è conclusa con un generico compromesso. La decisione è stata demandata al Consiglio Europeo del 23 aprile, la sede nella quale i capi di Stato e di governo dell’UE dovranno sciogliere il nodo del MES e del Recovery Fund proposto dalla Francia e appoggiato dal fronte dei paesi favorevoli agli Eurobonds, sia pure nella forma dei cosiddetti coronabonds, un orrendo neologismo che sta a indicare la mutualizzazione del debito che sarà contratto per far fronte alla pandemia in corso e solo di questo, con l’esclusione di quello passato (La mutualizzazione del debito è la condivisione della responsabilità, cioè del peso, da parte di tutti i paesi dell’Unione europea, e non solo di un singolo paese).
La questione ha aperto una aspra polemica politica in Italia, con divaricazioni sia all’interno della maggioranza di governo che nel fronte delle opposizioni. Gli schieramenti pro o contro il MES sono fin troppo noti e rendono qui superflua una loro illustrazione. Qualcosa in più, invece, vale la pena di dire sul merito della questione.
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I loro virus, le nostre morti
di Pièces et main-d’œuvre
«La speranza, al contrario di ciò che si crede,
equivale alla rassegnazione.
E vivere quello non è rassegnarsi»
Albert Camus, Noces
Le idee, lo diciamo da lustri, sono epidemiche. Circolano di testa in testa più veloci dell’elettricità. Un’idea che si appropria delle teste diventa una forza materiale, come l’acqua che mette in moto la ruota del mulino. È urgente per noi, Scimpanzé del futuro, ecologisti, cioè anti-industriali e nemici della macchinazione, rinforzare la carica virale di alcune idee messe in circolazione in questi due ultimi decenni. Per servire a ciò che potrà.
1) Le “malattie emergenti” sono le malattie della società industriale e della sua guerra al vivente
La società industriale, distruggendo le nostre naturali condizioni di vita, ha prodotto ciò che i medici chiamano non a caso «le malattie della civilizzazione». Cancro, obesità, diabete, malattie cardio-vascolari e neuro-degenerative, in buona sostanza. Gli umani dell’era industriale muoiono di sedentarietà, di malnutrizione e di inquinamento, quando i loro antenati contadini ed artigiani soccombevano per le malattie infettive.
Eppure è un virus che nella primavera del 2020 confina a casa propria un abitante terrestre su sette, come per un riflesso ereditato dalle ore più buie della peste e del colera.
Oltre ai più vecchi fra di noi, il virus uccide soprattutto le vittime delle «malattie della civilizzazione». Non solo l’industria produce nuovi flagelli, ma indebolisce la nostra resistenza a quelli passati. Si parla di «comorbidità», come di «coworking» e di «covettura», queste fecondazioni incrociate di cui l’industria detiene il segreto (1).
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Sovranità di Stato o solidarietà comune
di Pierre Dardot, Christian Laval
Ora che la morte è ovunque, si torna a sperare nello Stato. Nel 1978-79, Foucault parlava di biopolitica: a partire dal XVIII secolo, lo Stato moderno diventa il garante della vita, fa vivere e lascia morire, a differenza del vecchio sovrano investito dal diritto terribile di far morire. Potere di gestione della vita piuttosto che potere di disporre della vita. Oggi la popolazione si accorge, con terrore, dell’imprevedibilità criminale delle autorità pubbliche che, per risparmiare sui conti della serva, sotto la pressione del ministero dell’Economia e Finanza e della Corte dei conti, rigorose vestali delle norme europee, hanno deliberatamente ignorato i moniti dei ricercatori sul rischio pandemico. Lo Stato, d’altra parte, espone all’infezione gli operatori sanitari, chi quotidianamente lavora e tutti coloro i quali sono costretti, senza maschere di protezione, ad andare al fronte di produzione, per poi estendere l’esposizione all’intera popolazione, sostenendo che l’uso delle mascherine era riservato solo agli operatori sanitari e ai portatori del virus.
Lo Stato neoliberale degli ultimi trenta o quarant’anni rivela così violentemente il suo rovescio necropolitico, per dirla con Achille Mbembe. E scopriamo che incarna una nuova forma del potere sovrano di disposizione della vita. Si può parlare, dunque, di un’esposizione calcolata alla morte di interi settori della popolazione, cinicamente sacrificati alla logica del massimo profitto e della riduzione dei costi. In un’intervista a «Le Monde» pubblicata il 24 marzo1, Giorgio Agamben si rifugiava nell’argomentazione di «cospirazioni per così dire oggettive», fino ad appellarsi a Foucault per meglio giustificare di aver parlato a febbraio dell’«invenzione» di un’epidemia.
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Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
di Riccardo Bellofiore
Il testo è la sbobinatura di un intervento orale svolto online il 10 aprile 2020 per la Confederazione Unitaria di Base, con qualche piccola correzione e aggiunta, ma mantiene lo stile colloquiale. Mi sono giovato di alcuni commenti di Francesco Saraceno. (R.B.)
1. La crisi non è ‘esogena’: natura e forma sociale.
Quello che proverò a fornire è un inizio di scrematura dell’orizzonte problematico in cui leggo questa crisi. Vado per punti, in un discorso che si articola in diversi movimenti.
Primo movimento. Questa crisi non è, come spesso si legge, una crisi ‘esogena’, cioè qualcosa che da un esterno (la natura) investe la sfera economica. Se vogliamo, questa è una crisi ‘semi-esogena’ perché per un aspetto è indipendente dalla forma sociale, ma nella grande sostanza è invece legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita. Non è vero neanche che questa crisi giunga inaspettata. Una crisi del genere di quella che stiamo attraversando fu prevista, per esempio, nel 2005, sulla rivista Foreign Affairs, in un articolo preveggente sulla prossima pandemia.
Questa crisi mette in evidenza il rapporto perverso tra società e natura, che è peraltro già stato al centro della discussione, negli ultimi anni, in merito al cosiddetto ‘cambiamento climatico’, ma non è mai stato veramente preso sul serio dalla politica e dalla politica economica. Certo, si potrebbe dire che il problema non è il capitalismo, ma la struttura industriale. Le cose però non stanno proprio così. Il primato di una produzione tesa all’estremo al fine di una estrazione di profitto si è andato ad accompagnare ad un approfondimento della diseguaglianza globale, in alcuni casi in modo anch’esso estremo, dunque a malnutrizione, a forme di agricoltura e allevamento intensivi, al sovraffollamento abitativo, ad una urbanizzazione eccessiva. Tutto ciò ha fatto sì che trasmissioni virali che avrebbero altrimenti avuto una evoluzione lenta hanno visto una drammatica accelerazione.
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Le nuove frontiere del capitalismo: il mercato delle libertà nel pensiero di Shoshana Zuboff
di Sergio Marotta
I nuovi padroni dell’economia globale
L’attuale emergenza sanitaria globale da coronavirus ha spinto anche quelli che fino ad ora avevano fatto resistenza a spostare il centro della propria vita dalla realtà materiale a quella virtuale del web. Ciò rende ancor più attuale l’analisi compiuta da Shoshana Zuboff in un libro molto fortunato e molto discusso, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss University Press, Roma, 2019). La studiosa americana ha descritto nella sua pluriennale ricerca gli assetti della nuova forma assunta dal capitalismo al tempo della rete e delle grandi piattaforme informatiche.
«Il capitalismo della sorveglianza – sono parole della Zuboff – non è una tecnologia; è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Il capitalismo della sorveglianza è una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale, ma non coincide col “digitale”»[1].
La trasformazione tecnologica epocale che ha visto la rete internet entrare prepotentemente nella nostra quotidianità non ha avuto lo sviluppo che i più ottimisti immaginavano. Non è stata lo spazio per nuovi legami sociali globali ispirati al benessere collettivo e alla convivenza pacifica tra popoli diversi e diverse culture, ma ha fornito piuttosto lo strumento indispensabile alla nascita di una nuova forma di organizzazione economica basata sull’accumulazione dei dati da parte dei colossi dell’informatica mondiale.
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Coronavirus Fase 2: analisi di app “Immuni” e contact tracing, scenari e rischi
di Ettore Guarnaccia
Diverse persone preoccupate mi hanno chiesto un parere sulla futura app “Immuni” e sul sistema di contact tracing. Dopo una veloce analisi delle informazioni attualmente disponibili, riporto alcuni scenari e i principali rischi per la sicurezza e la privacy. Come spesso accade, la gestione delle emergenze finisce con il limitare i diritti e le libertà individuali dei cittadini e si scontra con la scarsa comprensione e i limiti della tecnologia
Con l’ordinanza 10/2020 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il 16 aprile il commissario straordinario per l’emergenza sanitaria, Domenico Arcuri, ha disposto la stipula del contratto di acquisizione, dalla società Bending Spoons, dell’app di contact tracing denominata “Immuni”. Il progetto è stato selezionato dalla task force del Ministero dell’Innovazione per supportare la politica nella lotta al Coronavirus, quindi proposto al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dalla ministra Paola Pisano il 10 aprile e sottoposto al vaglio della task force guidata da Vittorio Colao per gestire la ripartenza e tenere sotto controllo la diffusione del virus nella cosiddetta “Fase 2”. Stando a quanto finora dichiarato, la cessione della licenza d’uso del software e l’appalto del servizio avverranno a titolo gratuito, e Bending Spoons si impegnerà a fornire anche gli aggiornamenti necessari nel corso dei mesi.
L’app non è ancora disponibile e, stando alle dichiarazioni finora rilasciate, non sarà resa obbligatoria, ma scaricabile volontariamente, quantomeno fino a diversa disposizione da parte del governo.
Cosa contiene l’ordinanza?
L’ordinanza afferma che il sistema di contact tracing può aiutare a identificare individui potenzialmente infetti prima che emergano sintomi e può impedire la trasmissione successiva.
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COVID-19 e human tracking
di Giorgio Griziotti[1]
Il fine di questo documento è di scattare un’istantanea dell’uso delle tecnologie mobili di tracking e contact tracing nella lotta per il contenimento del contagio nel corso della pandemia Covid 19 nel momento in cui stanno per essere introdotte in Italia, in Francia ed in altri paesi europei. Cercheremo inoltre di mettere in evidenza le problematiche connesse e legate all’uso ed alla diffusione di tecniche di sorveglianza di massa.
Bisogna chiedersi innanzitutto se, nella svolta innescata dall’emergenza pandemica, il quadro d’interpretazione dei sistemi socio-tecnologici della società digitale sia da collegare alle dinamiche preesistenti. O addirittura diventi un’opportunità quando non un pretesto per concretizzarne alcune.
A questo proposito la prima questione riguarda la raccolta dati e l’enfatizzazione di una presunta onnipotenza dei big data, anche quando questo non pare giustificato. Nella proliferazione di comparativi fra dati della pandemia in provenienza da diversi paesi ci sono forti interrogativi che riguardano la qualità e l’omogeneità dei dati stessi Spesso, anche all’interno dell’Europa stessa, la raccolta dati ha messo in evidenza, nell’apice della crisi ed in diversi paesi, gravi carenze ed imprecisioni. C’è inoltre il forte sospetto che in certi casi i metodi di misura non siano omogenei, come per esempio quelli del conteggio delle vittime dell’epidemia.
In questo quadro emerge anche la problematica delle applicazioni mobili COVID-1.
Sin dal mese di febbraio 2020 in alcuni paesi asiatici sono state sviluppate e diffuse applicazioni software mobili progettate per facilitare in vari modi il controllo dei processi di propagazione tramite i contatti o la vicinanza con persone contagiate e l’identificazione di persone a rischio.
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L’importanza della teoria dello Stato leninista nell'epoca della crisi del Covid-19
di Domenico Moro
Lenin teorico della politica marxista
Lenin è stato il più grande teorico marxista del XX secolo e la sua opera rappresenta un classico, essendo un punto di riferimento imprescindibile per la teoria e la politica rivoluzionaria del XXI secolo. Il contributo di Lenin parte direttamente dallo studio di Marx ed Engels, ma ha una sua originalità, perché la sua elaborazione è sempre creativa e capace di adattare e sviluppare i principi dei due fondatori del socialismo in base alle condizioni e al mutare della storia. La teoria leninista è la teoria della rivoluzione per come questa si prospettava tra la fine dell’XIX e l’inizio del XX secolo e rappresenta un corpus unitario, con le varie parti – lo studio delle condizioni economiche della Russia, la teoria dell’imperialismo, la teoria dello Stato e del partito – che si incastrano perfettamente, realizzando la visione d’insieme e intimamente coerente di un progetto rivoluzionario.
Tuttavia, se ci si permette una valutazione, la parte più originale e importante, da cui trarre indicazioni preziose per il presente, è quella della teoria politica. Infatti, Lenin ha il merito enorme di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva se non in spunti sparsi: l’elaborazione e la sistematizzazione di una teoria marxista della politica.
Lenin è sia il leader pratico della Rivoluzione d’Ottobre sia il teorico principale della politica in senso marxista. Non che Marx e Engels non avessero una teoria politica, tutt’altro. Entrambi svolsero un decisivo ruolo politico pratico nella I internazionale, e in tutte le loro opere fanno riferimento a elementi di teoria politica, soprattutto allo Stato, da cui Lenin trae spunto e attinge a piene mani, ma nessuna delle loro opere tratta in modo sistematico ed esclusivo dell’argomento.
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Geopolitica del virus
A. Alia e G. Molinari intervistano Raffaele Sciortino
Con il sopravvento dell’epidemia e poi con lo spettro, non più tanto latente, della crisi economico-finanziaria, molte trasformazioni rischiano un’improvvisa accelerazione: sia quelle che riguardano la forma delle tensioni e delle spinte sociali sia quelle che concernono l’assetto geopolitico. I due piani sono fortemente intrecciati e si strutturano a spirale: le dinamiche e i comportamenti sociali influenzano le scelte e i posizionamenti dei governi e quest’ultimi, a loro volta, rimodulano il tessuto sociale. Con Raffaele Sciortino proviamo a scattare una fotografia del modo in cui i principali attori globali hanno risposto alla crisi sanitaria e di come si accingono a rispondere alla crisi economica. Facciamo questa analisi sempre tenendo in considerazione il fatto che essi non possono controllare o definire l’evoluzione della crisi, ma che gli sviluppi successivi vanno considerati sempre in relazione alle spinte dal «basso».
* * * *
In una prima fase i governi e i media occidentali hanno sfruttato l’epidemia per attaccare la Cina, che però ha saputo reagire e superare l’emergenza medico-sanitaria in un tempo relativamente breve, a giudicare dalle informazioni che riceviamo. In una seconda fase l’epidemia ha raggiunto l’Italia e altri paesi, europei e non, mentre la Cina si è proposta come paese guida nella risoluzione dell’emergenza (per esempio con l’invio di personale medico e di macchinari sanitari in Italia) seppur con delle contraddizioni che restano aperte all’interno dei suoi confini. Questa crisi può essere il banco di prova della via allo sviluppo perseguita dalla Cina, favorire la sua ascesa nella gerarchia globale e segnare la nascita di un nuovo ordine mondiale? Che partita sta giocando il paese guidato da Xi Jinping sullo scacchiere europeo?
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I compiti di questa fase storica di transizione
di Gianfranco La Grassa
1. In effetti, non sono uno storico anche se a volte affronto determinati momenti della nostra storia, in specie del secolo scorso, e mi piacerebbe molto che altri, ben più preparati al riguardo, approfondissero le questioni da me sollevate con tanta imperizia. Desidero qui punteggiare alcuni problemi, prendendo avvio da quanto avvenne in Germania negli anni ’30, quando venne a termine la Repubblica di Weimar, frutto della sconfitta subita dal paese nella prima guerra mondiale. Se la memoria non m’inganna, alcuni dei problemi cui accennerò sono affrontati secondo la direzione da me scelta quasi soltanto nel Behemoth di Franz Neumann, autore socialdemocratico di indubbio valore.
La suddetta Repubblica di Weimar era in quegli anni (caratterizzati dalla Grande Crisi del ’29) ormai corrotta e marcescente; e appariva preda delle manovre del grande capitale finanziario. Il 1933 è indicato “ufficialmente” come l’anno di uscita dalla crisi in questione; negli Stati Uniti la situazione sarebbe stata risolta – è quanto si sostiene pressoché unanimemente e senza ulteriori approfondimenti critici – dal New Deal di Roosevelt (eletto a fine ’32 e insediatosi appunto nel gennaio di quell’anno), una serie di misure di politica economica attuate tramite forte spesa statale (in deficit di bilancio) e costruzione di infrastrutture di notevole importanza; politica che è stata di fatto sistematizzata teoricamente da Keynes nel suo testo più famoso (1936). Il New Deal prese termine nel ’37, ottenne successi iniziali ragguardevoli in termini di occupazione e crescita economica. Tuttavia, ci si scorda che, già nel ’35 e soprattutto ’36 e ’37, si ha una fase di sostanziale stagnazione che perdura fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
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Ricordo dell’imprevedibile
di Vicente Barbarroja
Egli la sorpassò, e fu solo; vide nella città il deserto.
Ossa di case erano nel deserto, e spettri di case; coi portoni chiusi, le finestre chiuse, i negozi chiusi.
Il sole del deserto splendeva sulla città invernale. L’inverno era come non era più stato dal 1908, e il deserto era come non era mai stato in nessun luogo del mondo.
Non era come in Africa, e nemmeno come in Australia, non era né di sabbia né di pietre, e tuttavia era com’è in tutto il mondo. Era com’è anche in mezzo a una camera.
Un uomo entra. Ed entra nel deserto.
ELIO VITTORINI, Uomini e no
- Domande sulla guerra in corso. Potremo toglierci un giorno le nostre maschere? Il mondo ritornerà, ma non sarà più lo stesso; l’esistenza cambierà, ma intorno al dolore e alla morte, al centro rimarranno l’amicizia e l’amore. Con il Covid19, la terra richiede espressioni di un’azione concertata che brillino con semplicità come con intelligenza, audacia, tenacia … alla fine della notte. Legami cospirativi che si diffondono come un virus, frammento per frammento, mondialmente?
Da quando è iniziata la quarantena, mi vengono in mente due fumetti premonitori. Nausicaä della valle del vento, di Miyazaki e I giardini di Edena, di Moebius. Come un ricordo dell’imprevedibile. Due storie illustrate, due immagini in cui il mondo era diventato irrespirabile e la necessità di una maschera per difendersi dall’infezione polmonare inevitabile.
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Circa “Una domanda” di Giorgio Agamben. Cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Il noto filosofo Giorgio Agamben, reso molto noto ben oltre i lettori dei suoi libri dalle sue radicali posizioni negazioniste sulla pandemia in corso, ha nuovamente scritto una invettiva sul tema. E’ una domanda, e dunque è cortesia rispondere.
Avvia il suo testo con un pezzo di Tucidide (II, 53) che dalla mia traduzione di Pietro Rosa suona assai diverso; diverso in modo indicativo: “e nessuno era pronto a soffrire per ciò che veniva considerato degno, dal momento che non poteva sapere se sarebbe morto prima di raggiungerlo”, recita il mio testo[1]. “Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo”, dice la traduzione di Agamben. Qui cambia il soggetto che esprime la forma verbale composta. Mentre nella mia traduzione è un ente collettivo quello che considera “degno”, in quella di Agamben è l’individuo che considera “il bene”.
L’individuo.
E’ più di un mese che, nella solitudine della sua casa che immagino confortevole, il buon Agamben “non cessa di riflettere” su una domanda. La domanda è: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Domanda soppesata, dice, parola per parola. Il paese, è per lui ‘crollato eticamente e politicamente’, e, segue spostando inavvertitamente, l’abdicazione ai principi etici e politici è “propria”[2]. Si abdica, per come scrive, ai “propri” principi. E lo si fa precisamente quando si supera il limite oltre il quale non vi si può rinunciare. Ovvero oltre il quale, se vi si rinuncia, si è “barbari”.
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Italia: cronaca di 18.000 morti stupide
di Alba Sidera
Ci sono immagini che segnano un'epoca, che restano impresse nell'immaginario collettivo di tutto un paese. L'immagine che gli italiani non potranno dimenticare per molti anni, è quella che gli abitanti di Bergamo hanno fotografato dalle loro finestre la notte del 18 marzo. Settanta camion militari hanno attraversato la città in un silenzio tombale, uno dietro l'altro, in una lenta marcia in segno di rispetto: trasportavano cadaveri.
Erano stati portati da altre città, fuori dalla Lombardia, poiché il cimitero, l'obitorio, la chiesa trasformata in un obitorio di emergenza ed il crematorio rimasto in funzione 24 ore al giorno non ce la facevano. L'immagine ha immortalato la portata della tragedia in corso nella regione italiana più colpita dal coronavirus. Il giorno dopo, il paese si è svegliato con la notizia di essere il primo nella lista mondiale dei decessi ufficiali a causa del covid-19. La maggior parte in Lombardia. Ma che cosa ha reso la situazione così drammatica proprio a Bergamo? Cosa è successo in quella regione per far sì che nel mese di marzo del 2020, il numero di morti sia stato del 400% rispetto a quelli dello stesso mese dell'anno precedente? Il 23 febbraio, nella provincia di Bergamo, c'erano stati solo due casi positivi di coronavirus. In una settimana il numero dei contagiati era salito a 220; quasi tutti nella valle del Serio. A Codogno, un'altra città lombarda, dove il primo caso di coronavirus era stato rilevato il 21 febbraio, erano bastati 50 casi positivi per far chiudere la città e dichiararla zona rossa (massimo rischio). Perché non si sono comportati allo stesso modo anche nella valle?
Perché in quella valle si concentra uno dei poli industriali più importanti d'Italia, e gli imprenditori industriali hanno fatto pressione su tutte le istituzioni per evitare di chiudere gli stabilimenti e perdere soldi.
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La scienza è un campo di battaglia
di Noi Restiamo
In questi ultimi giorni, la diffusione del Coronavirus a livello nazionale sembra registrare una diminuzione diffondendo un senso di speranza sul fatto che il peggio sia passato. Tuttavia, al momento non si è ancora trovata la cura al virus Covid-19, ma solo un modo per rallentare i contagi e i decessi, ossia attraverso l’isolamento forzato di massa, il quale però non può essere sostenibile sul lungo periodo.
Da settimane sono al lavoro ricercatori di tutto il mondo per trovare un vaccino che comunque realisticamente non potrà essere pronto prima di un anno. In questo contesto, sta circolando una narrazione fuorviante della scienza come neutrale e benefica per tutti. Una narrazione a cui non dobbiamo abboccare.
Una premessa di metodo
Quando diciamo che “la scienza non è neutrale” e benefica per tutti non intendiamo dire che questa non abbia una valenza conoscitiva assoluta. Dal nostro punto di vista la scienza è in grado di descrivere la realtà oggettiva con processi di approssimazione successiva che vanno a definire i limiti delle teorie passate.
Questi processi, se svolti con il metodo scientifico, non dipendono dai soggetti che li realizzano, ovvero ogni ipotesi deve poi essere confrontata con la durezza dei fatti e l’ipotesi è tanto più valida quanto più il confronto con i fatti è ripetibile nel tempo, nello spazio ed è indipendente dai soggetti che eseguono il confronto.
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Coerenza del materialismo: variazioni filosofiche sullo stato di cose presente
di Eros Barone
La morte rappresenta per il pensiero un oggetto necessario e impossibile. Necessario perché tutta la nostra vita ne è segnata; impossibile perché non vi è niente, nella morte, da pensare. Accade perciò che, quando la realtà e le immagini della morte giungono ad occupare interamente la nostra percezione – è questo il caso delle conseguenze psicologiche prodotte dall’attuale pandemia -, un unico sentimento giunge a dominare il nostro animo.
Mi riferisco, in primo luogo, al problema del male, poiché, come scrive il Manzoni nei capitoli dedicati alla peste, «noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile». 1
E, a proposito del silenzio uniforme che caratterizza la quarantena, sempre nei Promessi Sposi troviamo una ‘espressione che si attaglia perfettamente al nostro stato attuale, là dove l’autore evoca, per descrivere gli interludi fra gli orrori della peste e gli orrori della guerra, il subentrare di “una quiete spaventata”... 2 la stessa che esala in queste settimane dal profondo silenzio dei nostri centri urbani, rotto soltanto dalle sirene delle autoambulanze.
Si dirà: è un grande scrittore che paga il suo debito all’ideologia religiosa. Eppure si tratta di descrizioni e di narrazioni che raggiungono non solo i vertici dell’arte letteraria, ma anche quelli di un realismo asciutto, potente, aspro (non indegno di quello che innerva le descrizioni delle pestilenze in Tucidide o in Lucrezio). 3
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“Una app per tracciare il covid-19”. Siamo sicuri?
di redazione di Codice Rosso
A partire dall’inizio del mese abbiamo posto ad alcuni amici storici una serie di domande sul rapporto tra emergenza covid-19 e uso emergenziale delle tecnologie. Le domande poste non erano una vera intervista quanto una traccia che serviva per stimolare la discussione. Ci ha risposto un esperto, che vuol rimanere rigorosamente anonimo, con un intervento decisamente interessante che spiega come, tramite un’emergenza come la pandemia da coronavirus, si pongano le condizioni per “nuove tecnologie politiche” piuttosto che innovativi sistemi di controllo. Pubblichiamo qui le cinque tracce di partenza e successivamente l’intervento del nostro esperto che ringraziamo vivamente.
1) Dall’inizio dell’epidemia stai seguendo eventuali adozioni di tecnologie che possono ledere la privacy anche dopo la crisi o trovi la situazione veramente spiazzante?
2) La sorveglianza tramite uso dei droni da parte delle amministrazioni locali ha fatto nascere tanti modelli “società di controllo fai da te”. Quali sono secondo te le derive più pericolose di questo modello?
3) dal tuo personale punto di osservazione quali sono le tendenze più pericolose nei dibattiti sui social, quelle che possono fare opinione pubblica per favorire soluzioni pericolose contro la privacy?
4) Pensi che soluzioni “cinesi” e “coreane” di controllo sociale a causa dell’epidemia possano essere adottate in Italia e andare oltre l’emergenza?
5) infine un commento a questa notizia https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2020/03/31/nasce-la-task-force-tecnologica-contro-il-virus-un-team-con-74-esperti_ffdf7852-0def-4711-82f7-c79677fbe0ac.html
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Perché i certificati di compensazione fiscale non sono (e non possono essere) “debito”
di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini
Da diversi anni, come componenti del Gruppo della Moneta Fiscale, proponiamo l’emissione di Certificati di Compensazione Fiscale (CCF) quale strumento per rilanciare l’economia italiana nel rispetto delle vigenti regole europee[1]. Di recente, ne abbiamo sostenuta l’adozione anche per un’accelerazione della lotta alle conseguenze economiche del Covid19, senza che ciò aggravi la situazione debitoria del Paese[2].
In altre sedi, abbiamo più volte chiarito che i CCF non costituiscono debito alla luce dei criteri di contabilità stabiliti dall’Unione Europea e articolati nei regolamenti Eurostat (si veda appendice)[3]. E proprio al fine di evitare la confusione cui facilmente dava luogo l’uso della parola “credito” contenuta nel nome originariamente attribuito allo strumento, abbiamo preferito sostituirla col termine “compensazione”, peraltro perfettamente appropriato alla natura tecnica dello strumento, che è rimasta del tutto identica alla concezione iniziale.
Con quest’articolo s’intende tornare sulla natura non di debito dei CCF, avvalendosi di ulteriori fonti finanziario-contabili.
I crediti fiscali
In sintesi, i crediti fiscali sono distinti tra “pagabili” e “non pagabili”. I secondi, che danno diritto esclusivamente a detrazioni o compensazioni, non sono mai stati considerati debito e non vi è ragione alcuna, se non di vieta opposizione politica, per cambiare orientamento.
Le uniche obiezioni che si cerca di trovare, ad ogni costo, si appoggiano su aspetti marginali e malfermi, che in questa sede saranno meglio puntualizzati.
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La dittatura del lavoro nel capitalismo
di Bollettino Culturale
Rubin e il posizionamento della teoria del valore al centro della teoria di Marx
Negli anni ‘20 Isaak Rubin scrive i suoi saggi sulla teoria del valore marxista. Una lettura del lavoro di Marx, in particolare del Capitale, che si concentrava sulla teoria del feticismo della merce, considerata inseparabile dalla teoria del valore. Non è che il feticismo della merce rivela le relazioni di riproduzione che stanno dietro le categorie materiali, ma che:
“è più preciso esprimere la teoria del valore al contrario: in un'economia mercantile capitalista, i rapporti di lavoro della produzione tra uomini acquisiscono necessariamente la forma-valore delle cose e possono apparire solo in questa forma materiale; il lavoro può essere espresso solo in valore. Qui il punto di partenza non è il valore ma il lavoro.”
Rubin è interessato a dimostrare che, sebbene assuma una forma materiale ed è correlato al processo di produzione, il valore è una relazione sociale tra le persone. Nella sua analisi, "il valore rappresenta il livello medio attorno al quale fluttuano i prezzi di mercato e con cui i prezzi coinciderebbero se il lavoro sociale fosse distribuito proporzionalmente tra i vari rami della produzione" ripristinando l'equilibrio grazie al mercato e al suo sistema di prezzi.
Pertanto, il lavoro appare come lavoro distribuito quantitativamente e come lavoro socialmente equalizzato, cioè "come lavoro "sociale", inteso come la massa totale di lavoro omogeneo ed uguale in tutta la società". Per Rubin il lavoro avrebbe un ruolo regolatorio:
"La legge del valore è la legge dell'equilibrio dell'economia mercantile". Con l'aumento della produttività, il lavoro riduce il lavoro socialmente necessario per produrre un bene, il valore unitario di quel bene viene ridotto e si generano cambiamenti nella distribuzione del lavoro sociale tra i vari rami della produzione. La sequenza sarebbe la seguente: Produttività del lavoro-lavoro astratto-distribuzione-valore del lavoro sociale.
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Irriverenze storiche dal tempo del contagio
di Giorgio Gattei
Perché le epidemie?
Sono confinato in casa da giorni come se fossi un mafioso agli arresti domiciliari, io che non ho commesso alcun reato di mafia. Dicono che l’isolamento domestico favorisca la riscoperta dell’interiorità, ma a me proprio non succede e invece avverto solo una sorda rabbia contro quel giudice che così mi ha condannato. Ma chi è mai questo giudice? Questa volta non c’entra affatto la Storia con la S maiuscola, come nel caso delle guerre che ci cascano addosso, ma è invece la Natura, anche lei con la N maiuscola, che ci ha travolto nei suoi movimenti inconsulti. Non ci avevo mai pensato in precedenza, ma nella mia segregazione casalinga ho avvertito che la Natura, che pure ci crea, non ci ama affatto e ci vorrebbe tutti morti, e non soltanto individualmente (come prima o poi arriva comunque a fare), ma come specie, come intero genere umano. Per questo, nella costrizione domiciliare che sto soffrendo, mi sono ritrovato a condividere il “pessimismo cosmico” di Giacomo Leopardi, di cui ho riletto non tanto le poesie (con quell’Infinito ultra-celebrato e iper-cerebrato che poi non è altro che una fuga tutta di testa, hippy ante litteram, dal “natio borgo selvaggio”), bensì le Operette morali che sono uno straordinario prodotto letterario, sebbene avrei qualcosa da dire su di un linguaggio che non è più il nostro, in cui la filosofia leopardiana si presenta al suo meglio (mentre invece nel suo Zibaldone di pensieri io mi ci perdo…).
Queste Operette sono state pubblicate definitivamente a Napoli nel 1835. Perchè Leopardi ce l’aveva poi fatta a fuggir da Recanati e dopo un vario girovagare aveva raggiunto finalmente una metropoli, com’era Napoli a quel tempo, sulla quale incombeva pur sempre minacciosa la silhouette di quello “sterminator Vesevo” che aveva già annichilito Pompei, Ercolano ed Oplonti.
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Verso il 25 Aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada
di Wu Ming
Oggi, 21 Aprile, celebreremo a modo nostro l’anniversario della Liberazione di Bologna. Non in “telepresenza”, ma nello spazio fisico. Niente “convocazioni”, ci muoveremo da soli, prendendoci in prima persona le responsabilità del caso.
Vogliamo fare qualcosa anche il 25 Aprile. A tale proposito, ecco alcune riflessioni.
Pochi giorni fa, a Torino, due auto e due jeep dei carabinieri hanno inscenato una vera e propria retata per prelevare, perquisire e multare un militante del Centro Sociale Gabrio, reo di aver distribuito un volantino davanti a un supermercato, nell’ambito della raccolta di beni di prima necessità SOSpesa, organizzata per aiutare chi è in difficoltà economica.
L’altroieri, sempre a Torino, l’incrocio tra corso Giulio Cesare e Corso Brescia è stato occupato da uno squadrone misto di forze dell’ordine ed esercito, decine di divise, allo scopo di accerchiare e portare via di peso quattro compagne/i, colpevoli di aver contestato il trattamento inflitto a due giovani immigrati. Tutt’intorno, per strada e alle finestre, molte persone protestavano per l’eccessivo dispiegamento di forze e la tracotanza degli uomini in divisa.
Media e politici hanno subito giustificato l’operato di agenti e soldati dicendo che a monte c’era lo scippo di una collanina. Come se, partendo da un aneddoto di microcriminalità individuale, fosse accettabile una simile escalation.
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Di bocciature, voti e altre amenità
di Mauro Piras
Lo dico subito: questo è uno sfogo. Una reazione irritata a una serie di cose che abbiamo dovuto sentire in giro sulla scuola in queste settimane, nel pieno dell’emergenza. Una reazione ai luoghi comuni, alla pigrizia intellettuale, ai riflessi condizionati, o forse a una visione reazionaria della scuola talmente radicata nella cultura dell’italiano medio (del giornalista medio, del politico medio, dell’opinionista medio) che neanche ce ne rendiamo più conto. “È un 6 politico!”, “Se li promuoviamo tutti non c’è più serietà!”, “Così si deresponsabilizzano gli studenti!”, “Il lavoro dei docenti non ha più nessuna dignità!”, “Non ha più senso mettere i voti!”. Ecc. Tutto più o meno riassumibile nel sommo principio: “Signora mia, non c’è più la scuola di una volta!”. Cosa piuttosto commovente, a dire il vero, perché, a parte il caso ormai raro di qualche quasi ottuagenario brontolone, la maggior parte di questi spropositi viene pronunciata da gente come me, cinquantenni che hanno fatto la scuola degli anni ottanta, semisgangherata, che hanno fatto un esame di maturità superleggero, con due materie all’orale di cui una a scelta e l’altra pure, che non hanno mai vissuto sulla propria pelle un’emergenza di questo genere. Quindi quello che segue è un tentativo di tradurre in frasi leggibili la serie di contumelie e insulti che attraversano la mia mente quando leggo o sento quelle cose.
Primo, il “6 politico”. Che dire? Che non c’entra niente, che parlare di “6 politico” in questo contesto è solo sciatteria, approssimazione, pigrizia linguistica. L’espressione è venuta fuori appena si è iniziato a parlare di promuovere tutti.
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