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Dite il suo nome: è la Terra (con premessa polemica)
di Massimo Zucchetti
C’è un mio articolo di due anni fa (11/09/2021) sul cambiamento climatico nel quale ho cercato di imitare lo stile di uno dei miei divulgatori scientifici preferiti, Carl Sagan.
Questa ondata recente di negazionismo becero, su un problema che è davvero serio, mi spinge a riproporvelo, con una “brevissima” premessa. Abbiate pazienza, seguitemi.
È ovvio a chiunque abbia non dico un minimo di cultura, ma anche solo un pizzico di sano buon senso, che un conto è il clima, un conto è il meteo. Ovvero: che quest’estate faccia più o meno caldo, non ha nessuna rilevanza sulla “dimostrazione” che i cambiamenti del clima esistano oppure no.
Bisogna avere la stessa visione a lunga distanza di una talpa per associare i due fenomeni. Così come gli appunti sul taccuino di ‘tuo cuggino’, che ha una “stazione meteo” sul balcone da alcuni anni, e si segna le temperature, sono utili, sì: ma il balcone di ‘tuo cuggino’ non è il mondo intero.
Sono utili anche per vedere come negli anni cambia la grafia di ‘tuo cuggino’, come l’effetto della senilità negli anni cambi la sua scrittura.
Ma è ovvio che vi sono migliaia e migliaia di ‘cuggini’ scienziati che da secoli rilevano le temperature e quegli altri cento parametri che servono per poter banfare di clima, no?
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Per Mario Tronti: il pensiero rimane
di AA. VV.
Non è facile reggere la sequenza di perdite che il presente ci impone. Tanto più se ad andarsene è un gigante come Mario Tronti. Comunque la si veda, Mario Tronti è stato un maestro per noi tutti. Ricordarlo è terribilmente complesso e così abbiamo pensato di mettere insieme una pagina di Effimera che si articola su più piani.
Per primo: due estratti di Operai e Capitale, un testo basilare, la Genesi dell’Operaismo italiano, un’opera pubblicata nel 1966 da cui tutto ha avuto origine. Chiunque voglia capire fino in fondo il rapporto tra capitale e lavoro, chiunque voglia vedere la potenza del lavoro – nonostante tutto – deve passare da qui. Tanti sono i brani che potrebbero essere ripresi. Il primo che abbiamo scelto riguarda il concetto centrale di “autonomia” dell’operaio massa. È ciò che abbiamo imparato da Tronti: il lavoro è autonomo rispetto al capitale, nel senso che può farne a meno. Mentre il capitale non può fare a meno del lavoro. Come già notato dallo stesso Marx, il rapporto lavoro-capitale si presenta come rapporto tra due soggetti, di cui il primo (il lavoro) è quello più forte.
Per questo il capitale ha bisogno di sussumere il lavoro, per renderlo a lui dipendente: è il passaggio che il capitalismo disegna tramite il processo di salarizzazione e ricattabilità che ha trasformato il lavoro in “desarmata manu”: “il proprietario (della forza-lavoro, ndr.) non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo” (K. Marx, Il Capitale, Cap. XVII, Editori Riuniti Roma 1972). Oppure: “Il capitalista compera agli stessi operai, a quanto sembra, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro.
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Il paradosso di Oppenheimer: il potere della scienza e la debolezza degli scienziati
di Prabir Purkayastha* Globetrotter - Newsclick
Il nuovo film di successo su Oppenheimer ha riportato alla memoria il ricordo della prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima. Ha sollevato domande complesse sulla natura della società che ha permesso lo sviluppo e l’uso di tali bombe e l’accumulo di arsenali nucleari in grado di distruggere il mondo molte volte.
L’infame era McCarthy e la ‘caccia ai rossi’ ovunque hanno qualche relazione con la patologia di una società che ha soppresso il senso di colpa per il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, sostituendolo con la convinzione del proprio eccezionalismo?
Cosa spiega la trasformazione di Oppenheimer, che era emerso come l'”eroe” del Progetto Manhattan che costruì la bomba atomica, in un cattivo e poi dimenticato?
Ricordo il mio primo incontro con il senso di colpa americano per le due bombe atomiche sganciate sul Giappone.
Nel 1985 partecipavo a una conferenza sui controlli informatici distribuiti a Monterey, in California, e i nostri ospiti erano i Lawrence Livermore Laboratories. Si trattava del laboratorio di armi che aveva sviluppato la bomba all’idrogeno.
Durante la cena, la moglie di uno degli scienziati nucleari chiese al professore giapponese presente al tavolo se i giapponesi avessero capito perché gli americani avevano dovuto sganciare la bomba sul Giappone.
Che ha salvato un milione di vite di soldati americani? E molti altri giapponesi? Cercava l’assoluzione per il senso di colpa che tutti gli americani portavano con sé? Oppure cercava la conferma che ciò che le era stato detto e in cui credeva era la verità? Che questa convinzione era condivisa anche dalle vittime della bomba?
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L’origine dell’inferiorità della donna nella dialettica tra natura e cultura
di Alessandra Ciattini*
Nell’articolo si tenta di sciogliere il groviglio formato da fattori materiali e culturali su cui si è fondata l’inferiorità della donna, che nonostante le trasformazioni sociali più recenti non è stata ancora superata. Allo stesso tempo, si tenta di valorizzare la differenza femminile, non annullandola con l’applicazione dei diritti che valgono per l’uno e l’altro sesso. Tale valorizzazione consiste nel pieno riconoscimento della funzione riproduttiva della donna, che dovrebbe essere tutelata con istituzioni ad hoc per permetterle di partecipare in prima persona alla vita sociale, politica e culturale.
* * * *
Introduzione
Credo che oggi, dopo decenni di femminismo di vario genere, si possa affermare che esso nella sua complessità e mutevolezza costituisca ormai un’ideologia ufficiale adottata da tutte le forze politiche, con l’esclusione delle più retrive, che intendono deviare l’attenzione generale dalle questioni strutturali della società attuale (la subordinazione sempre più alienante dei salariati) al problema pur importante, ma non risolutivo, dei diritti umani. Per questa ragione ritengo che occorra concentrarsi sull’origine dell’inferiorità della donna per ricalibrare la sua reale natura politica, mostrando come alcuni aspetti primordiali abbiano continuato a influenzarla e come solo il realizzarsi di certe condizioni consentano la sua effettiva soluzione. Mi muoverò quindi sempre secondo lo schema interpretativo della continuità/rottura.
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Impedire che il cerchio si chiuda
di Elisabetta Teghil
Per un obiettivo di controllo così profondo, totalitarismo è un termine possibile, un controllo così completo da non accontentarsi più dell’asservimento esterno-ottenere le azioni volute-ma che rivendica l’intera sottomissione dell’<interiorità>.
F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù
Nella città di Roma il Comune ha programmato l’entrata in vigore, a novembre di quest’anno, di una nuova ZTL, chiamata fascia verde, che comprende una zona estremamente vasta, grande quasi quanto la città all’interno del raccordo anulare, in cui sarà vietato l’accesso e la circolazione ai mezzi che sono considerati inquinanti. Non sto qui a farvene l’elenco, lo potete tranquillamente andare a vedere sul sito del Comune, ma la gamma è vastissima, comprende anche moto e motorini e mezzi di lavoro anche a GPL e a metano e praticamente chiama in causa quasi tutto il parco macchine degli abitanti escluse chiaramente, per il momento, le auto più nuove. Già, perché il progetto ha l’obiettivo, alla fine, di permettere solo la circolazione dei mezzi elettrici. Un progetto simile è già attivo a Milano e in altre città si stanno sperimentando varianti adattate alle realtà locali come a Venezia e a Trento dove stanno mettendo in opera un sistema di controllo ancora più inquietante. A Milano il sindaco ha pensato bene di aumentare il costo dei pedaggi d’ingresso e di chiudere il centro per tutta la settimana quindi compresi i sabati e le domeniche. Ormai da mesi qui nella capitale si susseguono i lavori per l’impianto dei varchi di controllo elettronici per l’accesso con sofisticate telecamere di riconoscimento e con spese faraoniche ed è stato dato il via dal Comune alla gara per 1000 telecamere e per la realizzazione di un unico polo operativo “Smart Police Support” (SPS) in uso alla Polizia Locale e alla Protezione Civile di Roma Capitale per la gestione della sicurezza pubblica.
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Niger e dintorni: Africa ribelle, Occidente in panne
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Ancora una volta un grido di lotta che si ode in tutto il mondo viene dall’Africa – questa volta dall’Africa “nera” occidentale.
Questo grido di lotta non è in nulla paragonabile, per potenza, estensione, protagonismo degli sfruttati, ai sommovimenti del 2011-2012 che percorsero in lungo e in largo come un’unica onda sismica l’intero mondo arabo, in Africa del nord e in Medio Oriente. Allora milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti, riaprirono nelle piazze il processo della rivoluzione democratica ed anti-imperialista in una regione strategica del globo, dando un formidabile scossone alla stabilità del capitalismo globale a egemonia occidentale già alle prese con la più grande crisi finanziaria della storia – prima di essere sconfitti dalla reazione delle borghesie locali in combutta con le grandi potenze. E neppure è lontanamente paragonabile, quanto a diretto protagonismo proletario e a contenuti di classe, alle potenti lotte dei minatori del Sud Africa, con epicentro a Marikana, che nel 2012 diedero il via ad un biennio di scioperi “selvaggi” in agricoltura, nella metalmeccanica, nei trasporti, in edilizia, mettendo in luce la trama di interessi che lega, e subordina, il regime bianco-nero “post-apartheid” di Pretoria alle multinazionali delle vecchie potenze coloniali, e approfondendo il solco tra questo regime borghese e la sola forza che potrà portare a compimento la liberazione dell’Africa dal fardello dei vecchi e nuovi colonialisti: il suo giovane proletariato – e non si tratta solo del giovane proletariato sud-africano: al 2017 tra i primi trenta paesi al mondo per livelli di attività sindacale, dodici erano paesi africani.
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Fuori norma. Lo “stile” operaista
Ida Dominijanni intervista Mario Tronti
“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista – una delle molte – che facemmo per “il manifesto” (20/06/2006) in occasione della ripubblicazione di “Operai e capitale” quarant’anni dopo la sua prima uscita, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo.
* * * *
“Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?
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Un momento cruciale del marxismo italiano: il contrasto tra Panzieri e Tronti
di Rino Malinconico
Dopo i fatti di Piazza Statuto del luglio ‘62, si avviò all’interno del gruppo–rivista dei Quaderni Rossi un dibattito serrato, che via via assunse toni aspri e alla fine determinò la rottura. Nel giugno del 1963 la contrapposizione si esplicitò plasticamente con due editoriali sul terzo numero. Il primo, firmato direttamente Quaderni Rossi è da attribuire a Panzieri. In esso veniva colta la progressione in avanti della coscienza operaia, ma mettendone in risalto anche le parzialità. Poi, a proposito del ciclo di lotte aperto dalla stagione contrattuale del 1962, si metteva in guardia dai pericoli di un’interpretazione immediatista delle potenzialità rivoluzionarie:
Un aspetto importante nella situazione di oggi è nel pericolo di scambiare in modo immediato la «feroce» critica verso le organizzazioni implicita, e spesso esplicita, nei comportamenti operai, o il grado più alto di consapevolezza che vasti gruppi di operai rivelano delle condizioni politiche delle lotte a livello di capitalismo organizzato e pianificato, per una immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale, ignorando il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia. Una strategia operaia non può essere preparata dall’accumularsi di una serie di rifiuti frammentari, non collegati tra loro in un disegno politico unitario virgola ma soltanto idealmente unificati in uno schema interpretativo del funzionamento del capitalismo contemporaneo. In tal modo diviene indifferente se l’esigenza operaia di «trascendere» il contenuto delle singole rivendicazioni si manifesti in forma anarchizzante, o nel senso di predisporre una linea anticapitalistica globale, secondo una dinamica controllabile.
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Atena sulla terra
di Emilio Quadrelli e Lidia Triossi
Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto come l’attuale è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito. Sulla questione del partito (organizzazione), della strategia politica e militare, è chiaro che abbiamo, nel movimento comunista, un piano teorico e di dibattito quanto mai arretrato che non possiamo ignorare. Provare a affrontarlo, qui e ora, ci pare un compito non più rimandabile.
L’obiettivo della nostra elaborazione è quello di cogliere quelle tendenze del movimento comunista che si sono affermate e che hanno ancora un carattere di validità e capire, invece, quegli elementi che sono stati superati e ai quali è inutile rimanere aggrappati. Infine gli elementi che riteniamo validi vanno collegati al nuovo contesto in cui ci muoviamo. Naturalmente da queste riflessioni non possiamo pensare di trovare una “formula perfetta”, che peraltro non esiste, però possiamo utilizzarle per capire la direzione in cui muoverci e quali debbano essere i passi da fare per adeguare le attuali forme d’organizzazione alle necessità e soprattutto alle possibilità che vengono dalla realtà. È quindi centrale per noi capire il ruolo e il nesso tra «il partito» e l’»autonomia del proletariato», la composizione dei movimenti di protesta rispetto all’attuale organizzazione del lavoro e dimensione metropolitana, le contraddizioni della fase imperialista: guerra, fascistizzazione, multipolarismo, ecc…
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Quando il capitalismo si è messo in quarantena
La crisi del Covid-19 secondo la critica del valore
di Afshin Kaveh
Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias: Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale, ombre corte, Verona 2021, pp. 128
Al momento la prima parvenza di un dibattito pubblico sul Covid-19 – che poi si è a lungo perso polarizzandosi nel tracciare una linea di demarcazione tra chi, di fronte alla nascita, alla diffusione e alla gestione del virus si pretendeva ragionevole, accusando invece di irragionevolezza la fazione opposta e così viceversa – sembra oggi essersi completamente disinteressato di sé, svanendo nel nulla. Di quel poco che ha prodotto ciò che sembra cadere sempre di più nel dimenticatoio è l’accrescimento del livello di coscienza e consapevolezza che, successivamente a quella che riguardandoci indietro viene ricordata come “prima ondata”, sembrava già poter ridisegnare le pratiche necessarie verso vere e proprie rotture emancipatrici: la tragica portata dell’evento aveva illuminato determinati angoli bui della logica del funzionamento del modo di produzione capitalistico tanto che in un primo momento sembrava prendere piede una lettura abbastanza radicale della deforestazione, dell’agricoltura industriale, degli allevamenti intensivi, dell’inquinamento, degli scambi commerciali, della relazione animale umano, animale non-umano e natura e il nesso di questi specifici fattori alla malattia del Covid-19.
A questo proposito il libro Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale (ombre corte, Verona 2021, pp. 128) è uno strumento prezioso per poter riaccendere quella luce. Composto a più mani da alcuni dei membri redazionali della rivista francese Jaggernaut ruotante attorno alla corrente internazionale della “critica del valore”, Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias ne iniziarono la stesura in concomitanza al primo confinamento nel marzo 2020 e poco dopo, verso la fine di agosto, veniva stampato dalle edizioni Crise&Critique col titolo De virus Illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme, mentre contemporaneamente veniva tradotto ed edito in Brasile come Capitalismo em quarentena, titolo poi ereditato sia dall’edizione uscita in Portogallo che da quella italiana.
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La Guerra del Trent’anni del XXI Secolo
di Fulvio Bellini*
Le similitudini tra la Guerra del Trent’anni e l’attuale scontro dal carattere strategico tra fronte imperialista in crisi e fronte antimperialista in ascesa
Premessa: sono le guerre (purtroppo) che mutano i paradigmi
In questi giorni si sta concretizzando un fatto evidente fin dall’inizio: il velleitarismo della tanto proclamata controffensiva ucraina di primavera. Alcuni osservatori stanno supponendo che si vada incontro ad una fase di negoziazione tra le parti, che sono Stati Uniti e Russia, non certamente l’Ucraina che è uno stato fantoccio, e tanto meno la NATO che un’organizzazione che coordina le attività dell’esercito imperiale, attualmente quello americano, con le forze armate ausiliarie dei vassalli, come è sempre stato fin dai tempi antichi.
Ovviamente vi è la speranza che questi negoziati inizino presto, ma non è detto che ciò accada e non è detto neppure che il ritorno alla diplomazia chiuda lo stato di ostilità globale, anzi vi sono elementi che giocano in senso contrario come cercherò di spiegare nel presente articolo. I conflitti militari sono importanti nella storia dell’uomo perché, fino alla determinazione di nuovi modi di composizione dei conflitti tra le potenze, che indubbiamente l’introduzione dell’arma atomica sollecita, sono le guerre che stabiliscono chi siano i vincitori, i vinti e le regole del gioco a beneficio dei primi. Quando il premier italiano Giorgia Meloni dichiara pomposamente davanti al Congresso americano il 27 luglio scorso che: “L’Occidente è unito e difende le regole”, intende quelle scaturite dalla Seconda Guerra mondiale, le ultime stabilite e vigenti. Ma di quali regole si parla? Nel 1945 i benefici dei vincitori si tradussero in norme ascrivibili al cosiddetto diritto internazionale il quale, non bisogna mai scordarlo, non ha nulla a che fare con il cosiddetto diritto delle genti (Ius gentium), e tantomeno con criteri di giustizia, che al contrario sono spesso contraddetti: il rapporto tra Stato d’Israele e palestinesi è più che sufficiente per dimostrare questo assunto.
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Se ne è andato Mario Tronti
di Antonio Cantaro
Uno dei padri dell’operaismo italiano. Fuori di noi e dentro di noi. Così lo sentiva emotivamente chiunque abbia militato nella seconda metà del 20° secolo. Un grande pensatore nel senso che lo stesso Tronti dava al termine. Un pensatore non occidentale, ma europeo. Un teorico dell’attesa

Il primo è una sorta di autobiografia, recentissima e toccante, La saggezza della lotta edito nel 2021 da DeriveApprodi. Un breve profilo nel quale Mario Tronti ripercorre le tappe più importanti della sua formazione politica e teorica, traccia la sua personale interpretazione del Novecento, si interroga sulla “saggezza della lotta.” Lo trovate ancora agevolmente in libreria.
Il secondo, un testo praticamente introvabile ed è per questa ragione che abbiamo deciso di pubblicarlo integralmente. Si tratta dell’intervento ad una tavola rotonda tenutasi all’Università di Urbino il 21 ottobre 2010 in occasione del seminario Il nomos della Terra 60 anni dopo. L’Europa di Carl Schmitt nell’ambito dei seminari promossi da “Critica europea” e pubblicato nel numero 1-2 del 2011 nella Rivista “Teoria del diritto e dello Stato”.
Nel corso della tavola rotonda dedicata al tema “Il nomos e il nuovo ordine europeo” Mario Tronti interviene due volte. Interloquisce con i promotori del seminario e gli altri partecipanti alla tavola rotonda (Antonio Baldassarre, Domenico Losurdo, Guido Maggioni, Stelio Mangiameli), cimentandosi con l’interrogativo tipicamente trontiano del perché oggi “non si pensa più l’Europa”. Una denuncia, una profezia, come era nel suo stile abituale.
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Decrescita pianificata: ecosocialismo e sviluppo umano sostenibile
di John Bellamy Foster
Tutti i concetti importanti hanno contorni dialetticamente vaghi.
Herman E. Daly [1]
Il termine decrescita indica un insieme di approcci politico-economici che, di fronte all'attuale accelerazione della crisi ecologica planetaria, rifiutano la crescita economica esponenziale e illimitata come definizione di progresso umano.
Abbandonare la crescita economica nelle società ricche significa azzerare la formazione di capitale netto. Con il continuo sviluppo tecnologico e il miglioramento delle capacità umane, il mero investimento di sostituzione è in grado di promuovere un costante progresso qualitativo della produzione nelle società industriali mature, eliminando al contempo le condizioni di sfruttamento del lavoro e riducendone l'orario. Unitamente alla ridistribuzione globale del surplus sociale e alla riduzione degli sprechi, ciò consentirebbe di migliorare notevolmente la vita della maggior parte delle persone. La decrescita, che si rivolge specificamente ai settori più opulenti della popolazione mondiale, è quindi diretta al miglioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza, mantenendo le condizioni ambientali dell'esistenza e promuovendo uno sviluppo umano sostenibile.[2]
La scienza ha stabilito senza ombra di dubbio che, nell'odierna “economia del mondo intero”, è necessario operare all'interno di un budget complessivo del Sistema Terra rispetto alla portata fisica consentita.[3]
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Il Niger e il Ribollire Africano
di Alessio Galluppi
Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?
Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.
E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.
Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali.
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“L’Occidente in Ucraina ha sabotato i negoziati”
Aaron Malè intervista John Mearsheimer
Il professore dell’Università di Chicago John Mearsheimer ha notoriamente messo in guardia nel 2014 rispetto alle provocazioni della NATO contro la Russia in Ucraina, avvertendo che la politica della NATO in Ucraina stava portando al disastro.
In questa intervista risponde alle domande del giornalista freelance Aaron Maté sullo stato della guerra per procura in Ucraina e sui pericoli futuri.
* * * *
AARON MATE’: Benvenuto. Sono Aaron Mate. Con me c’è John Mearsheimer. È professore emerito di scienze politiche all’Università di Chicago e attualmente scrive su Substack. Professor Mearsheimer, grazie mille per essere qui.
JOHN MEARSHEIMER: È un piacere per me essere qui, Aaron.
Vorrei la tua reazione a questo articolo del Wall Street Journal. È appena stato pubblicato. Sullo stato della tanto pubblicizzata controffensiva dell’Ucraina e sugli sforzi dell’Occidente per incoraggiarla, dice questo, e cito: “Quando l’Ucraina ha lanciato la sua grande controffensiva questa primavera, i funzionari militari occidentali sapevano che Kiev non aveva tutto l’addestramento o tutte le armi – dai proiettili agli aerei da guerra – necessarie per sloggiare le forze russe.
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Neoliberismo all’italiana
di Nicola Melloni
L’ideologia che difende e rilancia gli interessi del capitale contro il mondo del lavoro come si è adattata al nostro paese?
Nelle ultime settimane si sta sviluppando un interessante dibattito sull’influenza avuta dal neoliberismo in Italia negli ultimi trent’anni. Curiosamente queste riflessioni partono da un articolo di Angelo Panebianco sulla rivista Il Mulino che nega che il nostro paese abbia mai vissuto un periodo «(neo)liberale». Nelle settimane successive sono arrivati i contributi di Norberto Dilmore, sempre sul Mulino, che, appropriatamente, mette il caso italiano all’interno del contesto internazionale, nella lunga stagione della globalizzazione di marca liberista cui l’Italia non poteva certo sottrarsi. Su questa falsa riga è anche la risposta di Luciano Capone e Carlo Stagnaro sul Foglio, dove si ammette parzialmente l’influenza non tanto del pensiero neoliberale, quanto piuttosto del vincolo esterno dell’Unione europea che ha imposto politiche cui la classe politica, un po’ obtorto collo, ha dovuto adeguarsi.
Ma cosa è questo neoliberismo di cui tanto si parla? Dilmore si concentra, nuovamente non a torto, sulle politiche simbolo di quel periodo: privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni, politiche fiscali a favore del capitale.
Il neoliberismo in Italia
Usando questi criteri è davvero difficile negare che non si sia avuta in Italia una fase storica di pura marca neoliberista. Andiamo con ordine: la politica economica è stata sottoposta a un fortissimo vincolo esterno che ha tolto, di fatto, molto della discrezionalità dei governi nello stabilire gli obiettivi di politica economica – esattamente quanto richiesto dalla critica neoliberale.
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Una guerra ipocrita e cinica
di Enrico Tomaselli
Segnata sin dal principio dalla manipolazione propagandistica occidentale, e dallo spregiudicato utilizzo degli ucraini come carne da cannone, la proxy war ingaggiata dalla NATO contro la Russia è probabilmente destinata a trovare il suo epilogo sotto il segno della medesima ipocrisia e dello stesso cinismo. Come hanno chiaramente mostrato in Vietnam ed Afghanistan, gli Stati Uniti non si fanno scrupoli a voltare le spalle ai propri vassalli.
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Il fallimento della guerra ibrida
La contraddizione più stridente in questa guerra, persino più di quella generica tra la narrazione occidentale e la realtà effettuale, è quella tra la propaganda NATO sull’importanza dell’impegno al fianco dell’Ucraina, e la effettiva natura di questo impegno.
Ovviamente, i media mainstream ci soverchiano di informazioni sulla quantità di denaro impiegato per sostenere Kiev, così come su quella dei vari trasferimenti di armi, enfatizzando al massimo entrambe, ma dimenticando di ricordare che la gran parte dei soldi erogati sono prestiti (i cui fondi assai spesso vanno direttamente alle industrie militari occidentali, e che un paese messo in ginocchio dalla guerra dovrà restituire), e che contemporaneamente i grandi fondi finanziari stanno saccheggiando quel che resta dell’economia ucraina. Ma ancor più stridente è lo scarto laddove si osservano gli aiuti militari.
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Lo “sganciamento” e la prospettiva decoloniale riguardano anche l’Europa
di Rita Martufi - Luciano Vasapollo
In ricordo di Angelo Baracca e Roberto Sassi
Dopo i continui sospetti di nuove bolle finanziarie, la competizione tra capitali si è intensificata, estendendosi a tutte le attività produttive, con sempre più determinante contraddizione capitale-ambiente come specifica caratterizzazione del centrale e paradigmatico conflitto capitale-lavoro. Nonostante ciò, o forse proprio a causa della concorrenza imperialista, le singole oligarchie nazionali non si sono accordate sulla futura divisione internazionale del lavoro, cioè non hanno deciso dove, cosa, come e per chi ogni paese o agglomerato produrrà multistatalità di dominio. Pertanto il terreno di confronto e conflitto rimane la guerra nelle sue diverse configurazioni.
In questa competizione interimperialista, il capitale finanziario (dato dall’unione di capitale industriale e bancario), che rappresenta la componente più forte del capitale transnazionale contemporaneo, segue una strategia contraddittoria rispetto agli Stati: in nome della “libertà economica” necessita per toglierli di mezzo ma, dall’altro, ne ha bisogno come interfaccia con società civili sempre più degradate e globalizzate, e per estrarre denaro e “pace sociale” dai lavoratori, occupati e non e per far ciò è indispensabile la guerra sociale, la guerra economico-monetaria e la guerra militare con il rafforzamento degli apparati industriali-militari anche a uso civile.
Il rapporto di reciprocità che esiste tra il modello produttivo dominante e la società dei subalterni pende ancora più chiaramente verso la destrutturazione globale considerando il rapporto tra scienza e militarismo. Il primo elemento di chiarezza al riguardo è il contributo quantitativo che la scienza riserva all’apparato produttivo militare e tecnologico mondiale: secondo i dati forniti negli studi della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, riportato da Angelo Baracca:
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Il golpe in Niger: la Francafrique definitivamente in crisi?
di Paolo Arigotti
La Repubblica del Niger è uno stato, privo di sbocchi al mare, situato nell’Africa occidentale subsahariana: il suo nome deriva dall’omonimo fiume che attraversa il paese. Si tratta della nazione più estesa della parte occidentale del continente nero, che confina, tra le altre, con l’Algeria e la Libia a nord, la Nigeria a sud, il Burkina Faso e il Mali a ovest, il Ciad a est. Con diversi di questi paesi ha condiviso la colonizzazione francese (a partire dal XIX secolo), sino all’indipendenza arrivata nel 1960. Ancora oggi, come retaggio dell’epoca coloniale e (soprattutto) post-coloniale, adotta come valuta ufficiale, in quanto membro della Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), il franco CFA; vi suggeriamo di guardare un video del canale YouTube Nova Lectio[1], non ha caso intitolato: “La moneta coloniale che schiavizza ancora l’africa”.
Il fatto che la ex madre patria sia sempre meno amata nel Sahel è testimoniato dalla vicenda di Mali e Burkina Faso, oltre che dalla crescente presenza russa e cinese[2]. Fino a pochi giorni fa, tuttavia, la prospettiva che il Niger seguisse l’esempio delle nazioni vicine, sbattendo la porta in faccia a Parigi, sembrava trovare un ostacolo nelle miniere di uranio; come scriveva l’analista geopolitico Marco Di Liddo: “Io non so quanto la Francia sia disposta a rinunciare a questi interessi nel Paese.”[3]. Ma sappiamo come l’evoluzione del quadro geopolitico internazionale ultimamente si stia rivelando dimostrando assai rapida, basti pensare alle pesanti ripercussioni del conflitto in Ucraina, che hanno finito per colpire, specie sul versante degli approvvigionamenti alimentari e della spirale inflattiva, molte delle nazioni più povere, tra le quali il Niger[4]; non sempre per colpa dei “cattivi russi” aggiungeremmo noi[5].
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Merci++
Ovvero i feticci non sono più quelli di una volta
di Stefano Borselli
Quasi un anno fa, Il Covile № 646, pubblicai un testo sulla questione del feticismo delle merci intitolato «Marx e gli stalloni dello storpio» nel quale, tra l’altro, mi confrontavo criticamente con un brillante articolo sul tema di Daniele Vazquez (vedi in rete: L’anatra di Vaucanson, 4 aprile 2016). Successivamente, sulla scorta delle forse ora meglio comprese chiarificazioni, anche terminologiche, di Jacques Camatte, mi sono reso conto di alcune lacune. Con questo provo a colmarle.
* * * *
Jacques Camatte, nella sua opera Emergenza di Homo gemeinwesen, separa concettualmente quello che chiama il movimento del valore, da quello, successivo, del capitale. Ciò, insieme ad altre importanti implicazioni che non tratteremo qui, gli permette di non fraintendere il celebre incipit del Capitale di Marx:
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci» e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce.
Il passo ha infatti dato luogo all’idea che la mercificazione sia caratteristica nuova e propria della società capitalistica. Idea peregrina perché scambio, mercato, merci, equivalente generale, denaro, conio ecc. precedono di gran lunga l’affermazione del capitale. In effetti, a pensarci, quello che si presentava nelle agorà greche o nei fòri romani non era già una «immane raccolta di merci», dove venivano «mercificati» alimenti, animali, uomini? Il capitale, imponendosi, ha trasformato in modo a lui confacente non solo il lavoro1 (dalla ricca complessità di quello artigiano sussunto inizialmente nella manifattura, all’astrazione parcellizzata del lavoro meccanizzato della fabbrica moderna) ma pure la natura della merce, come vedremo. Scrive Camatte:
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Non allontanare dalla “classe” il dibattito politico-teorico
Anche a proposito dei compiti del Centro Studi “Domenico Losurdo”
di Raffaele Gorpìa*
La prassi (praxis) per Marx è ogni forma di attività umana, teorica o pratica; è un’attività produttiva concreta che modifica l’oggetto del suo stesso produrre. Nella prassi si decide inoltre la verità: per Marx – come sostiene nella seconda tesi – infatti il dibattito tra realismo e relativismo non è una questione solo teoretica, ma soprattutto pratica. Verità, realtà e potere infatti secondo lui sono decidibili solo nella prassi, poiché ogni teoria deve essere corroborata dalle pratiche.
Ho già affrontato, se pur sommariamente, il tema dell’inchiesta come pezzo fondamentale della costruzione di una analisi unitaria che un centro studi voglia proporsi di realizzare, tuttavia non si può prescindere, nella costruzione anche solo di gruppi di studio e di ricerca, da quadri operai e da quadri di vari pezzi del panorama produttivo (logistica ad esempio) derivanti presumibilmente anche dal mondo sindacale, come elemento di metodo per la costruzione di nuclei operativi sia sul terreno della teoria che su quello della prassi, così da scongiurare il rischio dell’appiattimento solo sull’una o solo sull’altra con l’inevitabile scollamento tra i due poli. Ciò perché il rischio di creare un dibattito anche avanzato ma sostanzialmente ancora slegato dalla classe di riferimento è sempre alto, ovvero la circostanza andrebbe a creare nella migliore delle ipotesi una posizione politico-teorica avanzata su alcuni ambiti ma arretrata ad esempio sul terreno dell’analisi di fase del modo di produzione con specifico riferimento all’Italia e con specifico riferimento alla mancata produzione di un sapere scaturente dalla classe subalterna e quindi da un suo livello di coscienza determinato. Tradotto, se resta la nostra una produzione di sapere legata al nostro essere sociale collocato in una determinata posizione sociale senza la partecipazione attiva di almeno qualche pezzo di classe subalterna, allora si ritornerà sempre al punto di partenza.
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La Polonia alla guida dell’Europa centro-orientale
Chi sono i nuovi ussari alati sotto le insegne della Nato?
di Francesco Galofaro*
La Polonia conta circa 40 milioni di abitanti, pari ai due terzi della popolazione italiana. Nonostante la crescita economica impetuosa, si tratta di un Paese ancora in gran parte poco sviluppato e segnato da grandi contrasti sociali. Nel 1991, per l’italiano medio la Polonia era un semisconosciuto Paese dell’est, patria di Giovanni Paolo II e di Lech Wałęsa, il leader delle battaglie sindacali che Solidarność ha portato avanti contro il governo comunista degli anni ’80. Oggi la Polonia è probabilmente più nota per il suo attivismo nella politica internazionale: guida blocchi di Paesi centro-orientali contro l’Europa a trazione franco-tedesca e contro la concezione liberale della democrazia, promuove un modello di Stato etico ispirato al cattolicesimo conservatore, paternalista e familista, nel tentativo di assoggettare al governo il potere giurisdizionale e il sistema dei media. Al confronto con il protagonismo e l’assertività polacca, stupisce che l’Italia, Paese ampiamente sviluppato e fondatore della UE, giochi un ruolo sempre più marginale nelle relazioni internazionali finendo per contare poco o nulla negli equilibri europei e mondiali. In qualche modo quel che ho descritto fin qui è già il passato: la guerra russo-ucraina ha in realtà colpito molto duramente il modello economico-politico polacco. Nonostante ciò, la Polonia non si adopera per il dialogo, o per una soluzione pacifica e celere, ma si pone alla testa di una coalizione di Paesi manifestamente russofobi i quali spingono perché la NATO e la UE alimentino ulteriormente l’escalation, mettendo in grossa difficoltà l’asse franco-tedesco che sin qui deteneva la supremazia sull’Unione. In questa mia riflessione mi chiederò quali siano le caratteristiche culturali che caratterizzano la Polonia e ne determinano stabilmente la politica estera.
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Come sfuggire al capitalismo totale
di Paolo Cacciari
Come si fa a contrastare la forza, reale e simbolica, del denaro? Oggi quella forza onnipotente trova nella tecnoscienza il suo faro, con le élite più avvedute del capitalismo globale che sempre più spesso mostrano di voler affrontare, a modo loro ovviamente, problemi ambientali e sociali. Del resto il fallimento delle strategie delle forze progressiste che facevano affidamento sull’allargamento delle basi democratiche rappresentative delle istituzioni politiche nazionali liberali è evidente. Secondo Paolo Cacciari potrebbe verificarsi quello che McKenzie Wark ipotizza: «Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire» o, come dice Bifo: «Possiamo sperare che il capitalismo non sopravvivrà, ma saremo capaci di vivere fuori dal suo cadavere?». «Agli individui e ai gruppi sociali che sentono il bisogno di “fare società” non rimane che agire nel modo più coraggioso e radicale possibile nelle condizioni date… – scrive Cacciari – Dovremmo cercare di praticare nel nostro piccolo azioni di resistenza e diserzione… Non c’è alternativa all’iniziativa dal basso…». Per dirla con Esteva si tratta di formare «ambiti di comunità autonome», ma per farlo servono prima di tutto nuovi modi di vedere il mondo. In questo saggio Cacciari propone di guardare alcune storie, note ai lettori di Comune ma che messe insieme offrono un punto di vista ricco di speranza, tra la miriade di esperienze di resistenza e ai tentativi di creare comunità locali capaci di sottrarsi al furore distruttivo dell’ipercapitalismo: dal No Dal Molin di Vicenza ai Beni comuni civici di Napoli, da Mondeggi Fattoria senza padroni alla Val Susa, passando per il pane del Friûl di Mieç.
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Tra le persone più informate e avvedute non c’è chi non si renda conto delle enormi trasformazioni socioeconomiche, politico-istituzionali, culturali, antropologiche che sarebbero necessarie per poter sperare di evitare le catastrofi ecologiche in atto e riuscire ad assicurare un futuro degno a tutti gli esseri viventi, nella loro totalità e interdipendenza.
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Geopolitica del grano. Putin e il sud globale
di Geraldina Colotti
Un vertice tira l’altro, sempre all’ombra del conflitto in Ucraina e nell’intento di ridefinire i rapporti di forza internazionali, dentro o fuori dall’orbita Usa. Il 26 luglio, si è concluso a Roma, nella sede della FAO, il Secondo Vertice delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari Sostenibili. Il 28, ha chiuso i battenti a Pietroburgo il secondo summit Russia-Africa. Entrambi hanno avuto in comune, ma con approcci geopolitici ovviamente diversi, le ripercussioni globali per la mancata proroga, da parte della Russia, dell’accordo che aveva consentito di riprendere le esportazioni di cereali dall’Ucraina.
L’accordo sul grano tra Mosca, Kiev, l’Onu e la Turchia aveva contribuito a calmierare i prezzi. Tuttavia, secondo un rapporto di Oxfam, organizzazione internazionale per la lotta alla povertà, che ha ripreso i dati del Joint Coordination Centre delle Nazioni Unite, “fino a oggi l’80% dell’export passato attraverso il Mar Nero se lo sono accaparrato i Paesi più ricchi, mentre agli Stati più poveri e a un passo dalla carestia come Somalia e sud Sudan è andato appena il 3%”.
I paesi occidentali accusano invece la Russia di essere la principale responsabile dell’aumento della fame nel mondo. Al vertice di Roma, la premier italiana, Giorgia Meloni (di estrema destra), ha addirittura parlato di “offesa all’umanità”. Accuse pretestuose, che mirano a compattare un fronte comune contro la Russia: per nascondere le responsabilità di un modello economico iniquo e devastante, mosso da intenti neocoloniali, messo in atto dalle politiche predatorie nordamericane e europee, mediante le organizzazioni finanziarie neoliberiste come l’FMI, e attraverso il cappio del debito.
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Dopo il Novecento. Verso le istituzioni del comune
Peppe Allegri intervista Toni Negri
A chent’annos!
È impossibile in poche righe riuscire a sintetizzare l’importanza di un lavoro teorico-politco che ha attraversato tutta la seconda metà del XX secolo e i primi due decenni del nuovo millennio, facendo di Antonio Negri – oltre che un protagonista della storia italiana contemporanea ‒, uno dei pensatori più influenti nel mondo e uno dei nomi della filosofia italiana che rimarranno nel tempo. Negri è un dispositivo, una macchina del pensiero che ha attraversato le rivolte della classe operaia italiana e internazionale, senza mai arrendersi e senza acquietarsi nelle comodità delle cattedre accademiche pur avendole occupate fin dalla più giovane età. Un «cattivo» maestro, senz’altro – come solo possono essere i maestri (Socrate docet) – che ha insistito sempre su una idea del sapere come arma e pratica collettiva di liberazione, lontanissimo da qualsiasi idea di conoscenza come esercizio del potere e forma di oppressione, o come sterile esercizio accademico (c’è grande differenza?), e che proprio per questo ha conosciuto la galera e l’esilio (titolo del secondo volume della trilogia «Storia di un comunista» che racconta la sua biografia intellettuale e politica). Maestro che dalla teoria del diritto e dello Stato alla filosofia politica, dalla storia del pensiero politico all’ontologia, dall’estetica all’arte contemporanea, dalla letteratura al giornalismo culturale (Negri è anche, forse pochi lo sanno, uno straordinario critico letterario, basterebbe qui ricordare i suoi interventi su Bachtin, Dostoevskij, Barthes e Balestrini, per non citarne che alcuni), dalle fabbriche alla società globale, ha sovvertito le logiche del potere insegnando a tutti noi a leggere Machiavelli, Spinoza, Marx (ma anche Cartesio e Leopardi, passando per la nascita e la fine della modernità e le sue alternative) e a pensare e lottare collettivamente per un mondo concretamente più ricco e più libero.
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