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I guerrafondai che ballano sulla bara
di Dante Barontini
Nemmeno il tempo di inchiodare la bara del “papa pacifista” che ecco i guerrafondai si scatenano per cancellarne anche il ricordo, puntando dritto sull’obiettivo che a loro interessa: continuare la guerra. Anche senza sapere, né capire, per quale obbiettivo razionale. O almeno raggiungibile… Ma quale occasione – e location – migliore per raggiungere più obiettivi in un colpo solo?
Come sapete, non consideriamo il mondo dei media mainstream capace di alcuna autonomia di pensiero. Obbediscono ai proprietari, tra cui spicca ancora la famiglia Agnelli – ora declinata in Elkann – che almeno per quanto riguarda l’Italia rappresenta ancora il principale gruppo industriale privato (insieme alla semi-pubblica Leonardo) interessato alla produzione militare (tramite l’Iveco).
E quindi siamo obbligati a pensare che un ordine sia corso in tutte le redazioni: mettere nella bara anche ogni speranza di pace.
Bisogna conoscere il mestiere (da non confondere con il giornalismo degno di questo nome) e tutto diventa molto semplice. Non badate alla melassa di parole di circostanza seminate a ogni passo del corteo funebre, non badate alle dichiarazioni di questo o di quello (tutti personaggi importanti, per carità, ma per una giornata soltanto comparse di prima fila, davanti e contro i loro popoli).
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Vogliamo lasciarci alle spalle la vicenda pandemica?
di Andrea Zhok
Negli ultimi giorni, su pagine di cui ho stima, sono comparsi alcuni testi il cui senso di fondo – senza fare giustizia delle argomentazioni differenti – può essere riassunto in questi termini: “Lasciamoci la vicenda pandemica alle spalle una volta per tutte. Sono stati commessi errori, certo, ma continuare a ogni pie' sospinto a tornarvi sopra finisce per nutrire il settarismo dogmatico di una minoranza, e ciò rende difficile occuparsi di altri temi, più urgenti e importanti.”
Vorrei di seguito spiegare, nel mondo più conciso possibile, perché credo che questo appello, per quanto comprensibile, sia sbagliato.
Parto dal perché lo ritengo comprensibile.
È indubbio che nelle pieghe della critica alla gestione pandemica si sono incistati argomenti di livello molto diverso ed è emersa una tendenza al settarismo. È sicuro che, essendo stato per alcuni un forzoso “momento di sveglia politica”, esso è divenuto per quelli una sorta di paradigma con caratteri di unicità, il che è una forzatura. Ed è certo che la tendenza a vedere tutti gli eventi con occhiali forgiati dalla vicenda pandemica tende a creare, talora, una ripetitività fastidiosa (e anche controproducente per una stessa riflessione sul passato).
Tutto questo lo condivido e dunque capisco il moto di impazienza che può aver alimentato quelle pagine.
Ci sono però ragioni sostanziali per cui penso sia profondamente sbagliato ogni tentativo di “lasciarsi alle spalle” il problema. Nomino, senza pretese di esaustività, tre ragioni, nell’ordine.
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La spesa militare in Italia nel 2025. Il trucco del Mef
di Osservatorio Mil€x*
Negli ultimi giorni diversi esponenti del governo (dal ministro dell’Economia al ministro della Difesa) hanno confermato l’intenzione da parte dell’esecutivo di raggiungere il tanto chiacchierato obiettivo del 2% del prodotto interno lordo (Pil) in spesa militare.
Ne ha parlato anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nell’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump. Ma come si potrà raggiungere tale livello e quale sarà la cifra reale da mettere sul tavolo? Prima di analizzare i freddi numeri, occorrono due premesse.
Come nasce l’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare
La prima riguarda l’obiettivo ormai preso a punto di riferimento. Che – va sempre ricordato – non è una semplice applicazione di una richiesta Nato già prevista e decisa in maniera definitiva.
L’indicazione ai Paesi membri di dover raggiungere almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei ministri della Difesa. È stato ulteriormente rilanciato durante il vertice dei Capi di Stato e di governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. E poi ripetuto come un mantra negli ultimi anni per farlo passare come assodato e finalizzato.
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Una gigantesca partita a scacchi si sta giocando fra USA, Russia e Iran
di Roberto Iannuzzi
Il negoziato ucraino e quello sul nucleare iraniano rientrano in una più ampia battaglia per la ridefinizione degli equilibri mondiali. Mosca e Teheran hanno piena consapevolezza della posta in gioco
In mezzo a continui colpi di scena, smentite, dichiarazioni contraddittorie, accuse e controaccuse, i contorni generali del piano di pace che l’amministrazione Trump offre a Kiev e Mosca sono alla fine emersi.
Nel frattempo, l’inviato speciale del presidente americano, Steve Witkoff, oltre a giocare un ruolo di primo piano nel negoziato con la Russia è impegnato in un’altra trattativa cruciale e piena di incognite con l’Iran.
Non è esagerato dire che dall’esito dei due tavoli negoziali dipende una porzione rilevante degli equilibri mondiali e la pace in due regioni strategiche come Europa e Medio Oriente.
Esiste inoltre un legame fra le due partite diplomatiche, sebbene si giochino su scacchieri differenti.
Entrambe fanno parte del (disperato) tentativo di Washington di preservare un ruolo egemone, sebbene ridimensionato rispetto a quello della tramontata era unipolare americana, in un mondo che è sempre più chiaramente multipolare.
Ambiguità e incertezze del piano Trump
Che il piano di pace USA per risolvere il conflitto ucraino risulti appetibile anche ad uno solo dei contendenti è tutto da dimostrare. Esso chiede dolorose concessioni a entrambe le parti, ed è già stato definito essenzialmente inaccettabile dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Ma soprattutto, il piano sembra andare in direzione di un congelamento del conflitto, e non di una rimozione delle cause che lo hanno provocato.
In concreto, dunque, esso potrebbe risultare inammissibile anche per Mosca, sebbene i negoziatori russi, diplomaticamente più accorti di quelli ucraini, abbiano per ora evitato di sbilanciarsi.
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Marxismo occidentale e imperialismo
di John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill
Parte prima: un dialogo
Pubblichiamo la prima parte di un dialogo tra John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill che esaminano la storia e l'influsso del "marxismo occidentale", definito non da caratteristiche geografiche, ma dal rifiuto del marxismo sviluppato in Unione Sovietica, nel Sud globale, e persino del marxismo classico. Questa corrente di pensiero marxista, nata nel nucleo imperialista, invece di fronteggiare i problemi urgenti che la società di oggi deve affrontare, rappresenta una concessione al predominio dell’ideologia statunitense.
Gabriel Rockhill: Vorrei iniziare questa discussione affrontando, prima di tutto, un equivoco sul marxismo occidentale che è di interesse reciproco. Marxismo occidentale non equivale a marxismo in Occidente. È invece una versione particolare del marxismo che, per ragioni molto materiali, si è sviluppata nel cuore dell'impero dove c'è una significativa pressione ideologica per conformarsi ai suoi dettami e che condiziona le vite di coloro che vi lavorano. Tutto questo vale, in pratica, per gli stati capitalisti di tutto il mondo, ma non determina in modo rigoroso la ricerca e l'organizzazione marxista in queste aree. La prova più semplice di tutto ciò è il fatto che noi non ci identifichiamo come marxisti occidentali, anche se siamo marxisti che lavorano in Occidente, proprio come per il filosofo italiano Domenico Losurdo, il cui Western Marxism è stato recentemente pubblicato da Monthly Review Press.[*] Cosa pensi della relazione tra "marxismo occidentale" e "marxismo in Occidente"?
John Bellamy Foster: Non mi piace il termine "marxismo occidentale", in parte perché è stato adottato come forma di auto-identificazione da pensatori che rifiutano non solo il marxismo sovietico, ma anche gran parte del marxismo classico di Karl Marx e di Friedrich Engels, così come il marxismo del Sud globale. Contemporaneamente, gran parte del marxismo in Occidente, e le analisi più materialiste, politico-economiche e storiche, sono tendenzialmente esclusi da questo tipo di marxismo occidentale auto-identificato, che tuttavia si è posto come arbitro del pensiero marxista e ha dominato la marxologia. Di solito, nell'affrontare la questione del marxismo occidentale dal punto di vista teorico, io sottolineo che ciò con cui abbiamo a che fare è una specifica tradizione filosofica. Questa è iniziata con Maurice Merleau-Ponty (e non con György Lukács, come comunemente si suppone), ed è stata caratterizzata dall'abbandono del concetto di dialettica della natura associato a Engels (ma anche a Marx). Ciò significa che la nozione di marxismo occidentale si allontana sistematicamente da un materialismo ontologico in termini marxisti, e gravita verso l'idealismo, che ben si adatta alla rimozione della dialettica della natura.
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Rileggendo Marx. Appunti sui libri II e III del Capitale
di Carlo Formenti
2. Sui rapporti fra il modo di produzione capitalistico e le altre forme sociali
Avvertenza: le parentesi quadre contengono chiarimenti o aggiunte del sottoscritto. Viceversa i termini in corsivo sono degli autori citati, salvo eccezioni esplicitamente segnalate.
Secondo Marx, la forma di merce che i prodotti del lavoro umano tendono ad assumere a mano a mano che le forze produttive si sviluppano, tanto da generare una eccedenza rispetto alle esigenze del consumo immediato, e le relazioni sociali (scambio mercantile) che ne derivano, non vanno classificati solo fra i presupposti della nascita del modo di produzione capitalista, ma rappresentano anche e soprattutto gli agenti che consentono a quest’ultimo di assimilare-integrare tutte le forme sociali con cui esso viene a contatto. Entrambe queste funzioni sono ampiamente discusse sia nel Libro II che nel Libro III del Capitale.
Nel capitolo XX del III Libro leggiamo: “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica -, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (pp. 411-412).
Il medesimo concetto è spiegato in modo più ampio e dettagliato nel capitolo IV del II Libro: “il ciclo del capitale industriale, vuoi in quanto capitale denaro, vuoi in quanto capitale merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più svariati modi di produzione sociale, nei limiti in cui questa è nello stesso tempo produzione di merci.
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Il “caso” del giovane Victor Serge
di Diego Giachetti
Dal n. 9 (primavera 2025) di Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe
Quella che ci sottopone Claudio Albertani è una ricerca approfondita e minuziosa sul giovane Victor Serge (Il giovane Victor Serge. Ribellione e anarchia (1890-1919), BFS Edizioni, Ghezzano (PI) 2024).l
Il suo percorso formativo è opportunamente inserito nel contesto storico della crescita e diffusione, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, di correnti di pensiero anarchiche prive, com’è tipico di questo movimento, di un centro unico di direzione e di linea teorico-politica. Erano, e ancora lo sono, voci plurali che si esprimevano in una pubblicistica variegata, non ripetitiva, ma creativa, con analisi e interpretazioni della situazione sociale e del significato dell’essere anarchici in quel periodo.
Emerge la figura di un intellettuale impegnato nella lotta politica il cui pensiero non si combina con alcuna ortodossia precostituita. La sua vita si risolse in un consumarsi di rotture. Con gli anarchici prima, coi bolscevichi poi e infine con lo stesso Trotskij. Se una coerenza la si vuol proprio trovare, essa risiede nell’essere stato un ottimo scrittore, nella tragedia o nella vittoria della rivoluzione. Distintivo dei suoi romanzi è la messa in scena delle lotte sociali in modo non ideologico, mediante una pluralità di voci, atteggiamenti e punti di vista contrastanti. Romanzi che non trasmettono una linea politica e ancor meno occultano le contraddizioni della vita reale.
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Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano
di coltrane59
Si può davvero ancora pensare dopo Gaza?
Pensare dopo Gaza è un saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, come indicato nel sottotitolo del libro di Bifo uscito nel febbraio 2025 per la casa editrice indipendente Timeo.
Ultimamente recensire i libri di Bifo è veramente difficile ma proveremo a definire delle linee di lettura e di pensiero che si sforzano di capire, aprire varchi, indicare cosa vuol dire pensare oggi, dopo Gaza e dopo quel 1900 che sembrava, dopo Auschwitz e Hiroshima, dirci “mai più”…
La ferocia
Proprio dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i continui avvertimenti sui rischi di guerre, povertà, miserie culturali e falsi miti, dittature e tecnologie usate per uccidere, siamo di fronte, in quel cimitero spettrale a cielo aperto che è Gaza, al “ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna il processo di estinzione della cosiddetta civiltà”, dove ogni forma di linguaggio e di spettacolo di tv, media, social diventa uno strumento di sterminio.
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Parla Amirhossein Sabeti
di Enrico Tomaselli
Questa è una breve intervista, realizzata dalla redazione di Middle East Spectator, con Amirhossein Sabeti, un parlamentare iraniano conservatore.
L’ho tradotta e pubblicata perché ritengo sia interessante per capire sia le dinamiche politiche dell’Iran, sia quelle delle attuali relazioni iraniane con gli Stati Uniti.
Innanzitutto, una breve introduzione: chi è il Dott. Amirhossein Sabeti?
Il Dott. Amirhossein Sabeti è un membro del parlamento iraniano. Nato a Teheran nel 1988, dopo aver frequentato il liceo umanistico, ha superato brillantemente l’esame di ammissione nazionale ed è stato ammesso all’Università di Teheran, presso la Facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche, nel 2006.
Durante gli studi universitari, si è dedicato al dibattito politico, affermandosi rapidamente come appassionato oratore e guadagnandosi la reputazione di voce guida dell’attivismo studentesco, diventando infine deputato politico dell’Organizzazione Studentesca Basij dell’Università di Teheran nel 2011.
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L’immaginario marxismo-gentilismo di Gramsci
di Alessio Frau
Il dilettantistico revisionismo storico
L’idea di passare la Pasqua in biblioteca non mi metteva esattamente il sorriso, ma l’atmosfera uggiosa e grigia sembrava perfetta per concentrarsi e lasciarsi andare a qualche dilettantistica riflessione mistica sul mistero della resurrezione e sul suo significato culturale. Mi è infatti tornata alla mente la definizione che Hegel dà della forma nella parte sulla Religione, e in particolare sulla religione artistica o estetica, nella Fenomenologia dello Spirito: “Questa forma è la notte in cui la sostanza fu tradita, e si fece soggetto” [1].
Sorvolando sul significato che assume nel contesto dell’opera hegeliana, questa evocativa citazione ha appagato, almeno per il momento, la mia voglia di sacro, data dalla mancanza di un pranzo come si deve in Sardegna. Ma ancora non sapevo che quella citazione avrebbe assunto un significato del tutto peculiare in quella strana giornata.
A farmi ripiombare nello sconforto è stato poi infatti il quotidiano Libero, che nel numero del 19 aprile, ha ospitato, a pagina 25, una riflessione (anche se chiamarla così è già fare un complimento) di Claudio Siniscalchi, già docente di Storia e teoria del cinema all’Università Pontificia Salesiana. Nell’articolo si celebra il centesimo anniversario della pubblicazione, avvenuta il 21 aprile 1925, del Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni curato dal filosofo, al tempo ex Ministro della Pubblica istruzione e senatore, Giovanni Gentile.
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Lenin: teoria e prassi internazionalista
di Rete Dei Comunisti
In occasione della ricorrenza della nascita di Lenin, a 155 anni dal 22 aprile 1870, cogliamo l’occasione per rendere omaggio al rivoluzionario che tentò l’assalto al cielo portando alla vittoria la Rivoluzione bolscevica che realizzò la prima esperienza di socialismo reale della storia.
A testimonianza dell’attualità di Lenin, scegliamo di approfondire la “paternità leniniana” dell’anticolonialismo bolscevico, ricostruendo per sommi capi il processo di elaborazione teorica sulla questione nazionale e coloniale, dagli inizi del 1900 fino agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione. È in questi anni, infatti, che Lenin sviluppa quelle coordinate teoriche che forniranno da bussola per tutto il movimento comunista internazionale nel suo complesso, lungo tutto il corso del Novecento, fino ancora a oggi.
Su quest’aspetto rimandiamo alla prima sessione del forum organizzato dalla Rete dei comunisti: “Elogio del Comunismo del Novecento”, svoltosi a Roma, il 4-5-6 ottobre 2024, di cui è disponibile la registrazione audio-video degli interventi, nonché la pubblicazione cartacea degli atti che è in corso di presentazione in differenti città italiane.
Di fronte all’attacco sistematico dell’Occidente imperialista nei paesi del Sud globale, di fronte al genocidio in Palestina e all’escalation bellica promossa dall’Unione Europea, l’eredità teorica leniniana, che allora costituiva l’unico argine alla Prima guerra mondiale, torna oggi materia viva con cui affrontare le sfide del presente.
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Ultima chiamata per la pax americana: il no di Ucraina ed Europa
di Gianandrea Gaiani
“Putin deve perdere in Ucraina”.
“Non è il momento di negoziare, Kiev può vincere la guerra e vincerà”.
Boris Johnson, primo ministro britannico, 30 maggio e 26 giugno 2022
“Penso di aver raggiunto un accordo con la Russia. Dobbiamo raggiungere un accordo con Zelensky … ma finora è stato più difficile”.
Con queste parole il presidente statunitense Donald Trump ha sintetizzato nella tarda serata di ieri (ora europea) la situazione al termine di una giornata convulsa caratterizzata dal rinvio degli incontri previsti a Londra per la pace in Ucraina a livello di ministri degli Esteri a causa delle profonde divergenze tra l’Ucraina e gli alleati occidentali circa il piano di pace proposto dagli Stati Uniti.
Il Foreign Office ha precisato che si è tenuto comunque un incontro a livello inferiore e che “i colloqui a livello ufficiale proseguiranno” ma il fallimento del summit è apparso a tutti evidente dopo che il Segretario di Stato americano Marco Rubio e l’inviato speciale della Casa bianca Steve Witkoff avevano annunciato nella mattinata di ieri che non sarebbero andati a Londra.
Decisione assunta, secondo il New York Times, in seguito alle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che aveva chiarito che Kiev “non riconoscerà legalmente l’occupazione della Crimea” da parte dei russi.
Nei giorni scorsi Rubio aveva dichiarato che gli Stati Uniti erano pronti ad abbandonare i negoziati se non ci fossero stati progressi tangibili verso una soluzione della crisi. Dopo il forfait di Rubio anche i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno annullato il viaggio a Londra.
A spiegare implicitamente le ragioni del fallimento del summit ha provveduto la Presidenza francese con un comunicato che spiega che “il rispetto dell’integrità territoriale e della vocazione europea dell’Ucraina sono esigenze molto forti degli europei” aggiungendo che “l’obiettivo resta quello di costruire un approccio comune che gli Stati Uniti potrebbero presentare ai Russia“.
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La lotta di classe con l’arma dei dazi
di Alfonso Gianni
C’è del metodo nella follia di Trump, che con i dazi punta a riconquistare il baricentro dell’economia e della politica mondiale. La consonanza ideologica con la nostra Presidente del Consiglio non ci aiuterà. L’Europa deve rendersi indipendente dal disegno USA spezzando il sistema di guerra che gli è proprio e aprendosi al Sud Globale
Che il viaggio a Washington della presidente Giorgia Meloni potesse portare a risultati concreti sul fronte della guerra commerciale era davvero difficile pensarlo, specialmente dopo che la proposta di “zero dazi” tra USA e Europa era stata respinta nettamente dall’Amministrazione statunitense e ribadita al Commissario europeo per il commercio, Maros Sefcovic. Allo stesso tempo supporre che Donald Trump potesse assumere posizioni sostanzialmente diverse da quelle brutalmente aggressive, appena temperate dalla tregua dei 90 giorni, per di più alla vigilia di importanti riunioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale era altrettanto impensabile. Oltre tutto la natura della visita della Meloni era stata messa in dubbio da più parti, se si trattava di una missione per conto della UE – non bastavano le telefonate con Ursula von der Leyen per accreditarla – o di un bilaterale Italia-USA, come i suoi fedelissimi nel Governo italiano avevano prudentemente detto alla vigilia della su partenza. Cosicché l’incontro si è svolto in un’aura di indeterminatezza che in fondo faceva comodo alla Meloni, potendo in questo modo vendere nel modo più favorevole qualunque tipo di esito, evitando le strette di una valutazione sui risultati concreti, avendo avvolto nel fumo gli obiettivi di partenza. La risposta di Trump all’invito a venire a Roma è rimasta indeterminata nei tempi e negli scopi e, secondo la stessa Meloni, non si sa se in quel caso intenderà farne sede di trattativa con la UE. Non a caso l’incontro con la stampa italiana, previsto prima della partenza da Washington, è stato sconvocato e la Meloni ha risolto con un whatsapp che definiva, in termini del tutto rituali e burocratici, l’incontro con il Presidente USA come un “confronto ideale e costruttivo”.
Il timore di una brusca accoglienza da parte di Trump è stato volutamente ingigantito per potere poi presentare come una vittoria i sorrisi e le parole di encomio che Trump non ha lesinato alla ospite italiana. Anche qui non c’è da stupirsi, dal momento che la Meloni poteva vantare un feeling di vecchia data con The Donald, avendolo sostenuto nelle sue accuse di brogli elettorali nel 2020.
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Usa: l'inutile, brutale, illegittima guerra contro lo Yemen
di Davide Malacaria
“Il presidente Trump è entrato in carica promettendo di svincolare l’esercito americano dalle sue costose guerre senza fine in Medio Oriente. Dopo tre mesi, è coinvolto nello stesso tipo di campagna militare senza fine che ha afflitto i suoi predecessori e che potrebbe portare a una guerra più ampia contro l’Iran”. Così W. J. Hennigan sul New York Times sulla brutale guerra contro lo Yemen.
“L’esercito, impegnato in una controversa missione per fermare gli attacchi degli Houthi provenienti dallo Yemen contro le navi commerciali nel Mar Rosso, sta accumulando sempre più potenza di fuoco nella regione […]. Si tratta di un’operazione in cui gli Stati Uniti non solo non sono riusciti finora a ripristinare il traffico regolare attraverso la rotta marittima che collega l’Oceano Indiano al Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, ma che ha anche spinto l’amministrazione Trump in una spirale vorticosa con prospettive di escalation dalla quale, più passano i giorni, più sarà sempre più difficile ritirare l’esercito americano”.
“Si considerino le spese: due gruppi d’attacco di portaerei, la cui operatività costa circa 6,5 milioni di dollari al giorno ciascuno, sono ancorati al largo delle coste dello Yemen. Bombardieri B-2 invisibili, progettati per bombardare l’Unione Sovietica e che costano circa 90.000 dollari ogni ora di volo, hanno condotto diversi attacchi aerei”.
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Tanta barbarie su Gaza, tante fake sulla Russia
di Elena Basile*
Mi capita di incontrare persone del ceto medio, anche molto cortesi e istruite, capaci per certi aspetti di esibire una certa umanità nei confronti dei consimili, che d’improvviso mi fanno gelare il sangue nelle vene, pronunciando espressioni relative al genocidio di Gaza di chiara approvazione della carneficina in corso, anche dell’omicidio dei bambini:
“Beh poi crescono e divengono terroristi”.
Mi sembra evidente che l’umanità sia destinata a ripetere i propri crimini. Gli ebrei venivano considerati ladri e persone infami, non potevano indurre a compassione. Ugualmente i bambini di pochi anni trucidati da Israele non possono ispirare alcuna pietà, appartenendo essi alla categoria subumana dei terroristi.
La barbarie avanza. Il noi e il loro ritorna prepotente. Il cattivo di turno è cangiante, ora islamista, ora russo, ora palestinese. C’è sempre una buona ragione per escluderlo, demonizzarlo, massacrarlo.
È vero, a Gaza i bambini sopravvissuti agli stermini israeliani hanno buone chances di combattere Israele con la lotta armata. Non vi sono canali politici. Difficile combattere una potenza occupante con altri metodi. Craxi e Andreotti avevano compreso come soltanto la fortuna permettesse ad alcuni di essere rispettabili cittadini e trasformasse altri in criminali.
Non si stancavano di ammettere che se fossero nati in una prigione a cielo aperto, sarebbero divenuti anch’essi terroristi.
La razionalità vorrebbe che al fine di eliminare il pericolo terrorista si cancellassero le sue cause profonde in Palestina. Sarebbe essenziale porre fine all’assedio di Gaza, all’occupazione illecita della Cisgiordania.
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Critica, ragione e ricordo: un requiem per il giornalismo
di Il Chimico Scettico
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/19/critica-della-ragione-pandemica-tinari-giornalismo/7957844/
L'agonia della democrazia italiana è alimentata da politiche emergenziali che si susseguono senza soluzione di continuità. Una politica emergenziale ha bisogno di un apparato propagandistico che la maggioranza del giornalismo è sempre stata pronta a fornire. L'impressione è che neanche ci fosse bisogno di chiederglielo.
Lasciando da parte considerazioni usurate e facili da pervertire ("La storia serve a non ripetere gli stessi errori", "La qualità dell'informazione determina la qualità di una democrazia") vorrei solo ricordare che prima della crisi pandemica, ormai quasi dieci anni fa, un tweet di Roberto Burioni o uno di Walter Ricciardi bastava a fare una notizia, così come trenta anni fa un entomologo era diventato l'esperto di OGM per eccellenza. Più che nel cercare le fonti il giornalismo italiano ha una lunga storia nel crearsele su misura, conformi all'hype del momento. È il meccanismo di creazione dei "competenti" nel sistema mediatico italiano - e in automatico chi non si allinea all'hype, indipendentemente dalle sue qualifiche, per magia diventa "non competente". Le eccezioni sono rare.
In ragione di tutto ciò, dall'esterno, non stupise che il lavoro di Serena Tinari sui metodi del giornalismo di inchiesta in materia di sanità sia caduto nel nulla: semplicemente non funzionale alla missione della maggioranza del giornalismo che non è informare, ma orientare la pubblica opinione, esattamente come il fact-checking a cui lo stesso giornalismo si è rivolto.
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Il piano Kellog è un disastro per Trump
di Alastair Crooke
La guerra politica a Washington è endemica. Ma il numero delle vittime al Pentagono ha iniziato a salire vertiginosamente. Tre dei principali consiglieri del Segretario alla Difesa Hegseth sono stati messi in congedo e poi licenziati. La guerra continua, con lo stesso Segretario alla Difesa ora nel mirino.
Ciò che conta è che l’attrito con Hegseth avviene in un contesto di accesi dibattiti interni all’amministrazione Trump sulla politica iraniana. I falchi vogliono l’eliminazione definitiva di tutte le capacità nucleari e belliche dell’Iran, mentre molti “frenatori” mettono in guardia contro un’escalation militare; Hegseth, a quanto pare, era tra coloro che mettevano in guardia contro un intervento in Iran.
I recenti licenziamenti del Pentagono sono stati tutti identificati come fattori di restrizioni. Uno di questi, Dan Caldwell, ex consigliere di Hegseth e veterano dell’esercito, ha scritto un post in cui criticava duramente i “Falchi dell’Iran” ed è stato successivamente licenziato. È stato poi intervistato da Tucker Carlson. In particolare, Caldwell descrive in termini feroci le guerre americane in Iraq e Siria (“criminali“). Questo sentimento negativo nei confronti delle precedenti guerre americane è un tema crescente, a quanto pare, tra i veterani statunitensi di oggi.
I tre membri dello staff del Pentagono sono stati sostanzialmente licenziati non perché avevano fatto trapelare la notizia, ma a quanto pare perché avevano convinto Hegseth a non sostenere la guerra contro l’Iran; i sostenitori del “First Israel” non hanno rinunciato a quella guerra.
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Benvenuti nella civiltà del paradosso del mentitore
di Slavoj Žižek
La verità soggettiva si contrappone alla verità fattuale in modo analogo all’opposizione tra isteria e nevrosi ossessiva: la prima è una verità sotto forma di menzogna, la seconda una menzogna sotto forma di verità
* * * *
Il cosiddetto paradosso del mentitore (“ciò che sto dicendo è falso”), è stato discusso fino alla nausea dall’antica Grecia all’India fino alla filosofia del Novecento. Il paradosso implica che se la mia affermazione è vera, allora essa è falsa (“se ciò che sto dicendo è falso, allora ciò che sto dicendo non è falso”), e viceversa. Invece di perdere tempo nella rete infinita di argomentazioni e contro-argomentazioni, rivolgeremo lo sguardo a Jacques Lacan, il quale ha proposto una soluzione speciale a questo problema distinguendo tra enunciato ed enunciazione, ovvero tra il contenuto dell’enunciato e la posizione soggettiva implicata o espressa nell’atto dell’enunciazione. Non appena introduciamo questa distinzione, notiamo immediatamente che in sé un’affermazione del tipo “tutto ciò che dico è falso” può essere tanto vera quanto falsa, ma anche che una frase come “dico sempre il falso” può rappresentare perfettamente la mia percezione soggettiva di star vivendo un’esistenza inautentica o fasulla. Il discorso vale anche a rovescio: l’affermazione “so di essere un pezzo di merda” potrebbe di per sé essere letteralmente vera, ma falsa a livello della posizione soggettiva che pretende di ostentare – potrebbe essere per esempio qualcosa che dico per rappresentarmi agli altri come qualcuno che almeno è onesto con se stesso e che NON è completamente “un pezzo di merda”… La nostra risposta a quest’ultimo enunciatore potrebbe essere la parafrasi di una famosa gag di Groucho Marx: “Ti comporti come un pezzo di merda e ammetti di essere un pezzo di merda, ma questo non ci trarrà in inganno – tu sei un pezzo di merda!”
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Neoliberalismo, neo-populismo, neo-autoritarismo. Nuova personalità autoritaria e collasso della democrazia
di Alessandro Simoncini
Questo testo indaga il rapporto che intercorre tra i tre concetti che compaiono nel titolo, mettendoli in tensione. Nella prima parte fornisce una definizione del neoliberalismo, per poi mostrare come esso abbia prodotto le condizioni di possibilità dell’affermazione di un neo-populismo sorto sulle rovine del neoliberalismo stesso. Nella seconda parte si sofferma sul neo-populismo di destra sostenendo che esso non è un’alternativa politica al neoliberalismo, come spesso si tende a credere, ma il suo rovescio osceno. La terza e ultima parte del testo sostiene che il neoliberalismo contiene da sempre un elemento strutturale di autoritarismo su cui, nel tempo presente, si innesta un autoritarismo neo-populista che accelera il collasso della democrazia rappresentativa.
1, Nascita del neo-populismo dalle rovine del neoliberalismo
Con “neoliberalismo” non si intende qui soltanto il neoliberismo economico. Il neoliberalismo non è stato solo la risposta alle lotte sociali e alle politiche economiche keynesiane con cui negli ultimi decenni, a partire dalla crisi degli anni ’70, le classi capitaliste hanno realizzato un’enorme “concentrazione della ricchezza” – come ha scritto David Harvey –, ristabilendo e consolidando nel mondo il loro potere[1]. Certo, il neoliberalismo è stato naturalmente globalizzazione finanziaria, delocalizzazione produttiva, libera circolazione dei capitali e delle merci, privatizzazioni, riduzione del carico fiscale per i ceti abbienti, tagli alla spesa pubblica, smantellamento progressivo dello Stato sociale, precarizzazione del lavoro: tutte componenti di una vincente “lotta di classe dall’alto”, per dirla con Luciano Gallino[2]. Il neoliberalismo, però, è stato anche (ed è) una razionalità politica capace di modellare la società e le soggettività in base alle esigenze del mercato: una “nuova ragione del mondo” – per citare il titolo di un libro ormai classico – in base a cui un po’ ovunque gli Stati hanno adottato politiche capaci di estendere la logica aziendale e l’assiomatica concorrenziale ben oltre l’ambito economico: nell’amministrazione pubblica, nella giustizia, nell’Università, nella scuola, nella sanità, nelle relazioni sociali[3].
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Engels e la condizione operaia
di Salvatore Bravo
F. Engels nel 1845, a soli 24 anni, descrisse la condizione di sfruttamento della classe operaia in Inghilterra con un testo La situazione della classe operaia in Inghilterra che nel nostro tempo andrebbe riletto per la sua attualità. L’indagine empirica e razionale coniuga l’oggettività dei dati con il giudizio etico. L’indagine di Engels è oggi, ancora viva e vera, poiché lo sfruttamento generalizzato è tornato a essere l’ordinaria normalità del nostro quotidiano. Il capitalismo neoliberale, mentre volge lo sguardo verso il transumanesimo e l’I.A, mostra il “suo cuore di pietra”, senza equivoci e fraintendimenti come nell’Ottocento. Lo sguardo libero dagli abbagli degli slogan ci restituisce la verità sulla condizione lavorativa e umana di tanti. Contingenze storiche e una sinistra liberale complice consentono al capitale di mostrarsi nella sua verità regressiva e disumana senza infingimenti: lo sfruttamento è diventato un “dato di fatto” ormai naturalizzato, per cui lo si accetta al punto che, malgrado la sua evidenza, non pochi lo ignorano. Vi è un nucleo del capitalismo che resta sempre eguale nella sua lunga storia, esso resta inalterato, poiché è la sostanza che lo muove e lo nutre. La descrizione-denuncia di Engels lo mostra con rara chiarezza e, pertanto, il tempo che ci separa dal pensatore tedesco, ci permette di ritrovare ciò che nel nostro tempo il capitale in modo sempre più manifesto produce con i suoi effetti letali. Il capitalismo non è semplice sfruttamento, ma esso disumanizza lo sfruttato riducendolo a mezzo per la produzione del plusvalore. Allora come oggi i nuovi proletari vivono processi di alienazione che li offendono nella psiche come nel corpo. La violenza è il carattere dominante ed eterno del capitalismo; è la sua verità che Engels visse e denunciò , ed è ancora fra noi in forme antiche e nuove. Allo sfruttamento di tanti corrisponde una ristretta oligarchia che governa con la violenza legalizzata. La legalità scissa dalla giustizia è il volto “legale” del capitalismo che convive con forme di illegalità, sempre più diffuse e ignorate, orientate verso il “consumo di esseri umani e di risorse”:
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La propaganda menzognera
di Elena Basile
Leggo sempre gli articoli degli intellettuali organici alle lobby delle armi e alla politica estera della NATO. Naturalmente evito di pensare che scrivano volontariamente menzogne propagandistiche in quanto essere funzionali al sistema ha molti ritorni positivi: visibilità, rispetto, prebende, carriera, riconoscimento della maggioranza. Benefici a cui i cosiddetti filo-putiniani hanno rinunciato senza naturalmente ottenere alcun compenso simbolico o materiale dai Paesi considerati nemici dall’Occidente: Russia, Cina, molti Stati del Sud globale. Una verità che dovrebbe saltare agli occhi di tutti nella sua evidenza e che a mio avviso non necessita di pubblicazioni ad hoc.
Evito quindi pensieri maliziosi e leggo con occhi candidi quanto scrive Galli della Loggia sul Corriere della sera il 4 aprile 2025 mentre ancora la morte di Papa Francesco, che ha sempre invocato la pace, scuote le coscienze. Voglio credere che l’editorialista in parola esprima in buona fede le sue convinzioni.
Egli parte dal sondaggio che vede la maggioranza degli italiani a favore della pace in Ucraina. Pur comprendendone le ragioni, rivendica l’autonomia della politica, degli esperti della politica identificati tout court con i dirigenti politici occidentali. Competerebbe a essi informare il gregge incolto su cosa sia in gioco in Ucraina, la vittoria della libertà contro un nuovo Hitler che vuole conquistare l’Europa.
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Il Poker delle monete è allo “stallo messicano"
di Giuseppe Masala
Nonostante l'eco mediatica relativa alla scomparsa di Papa Francesco sia fortissima, non si placano le polemiche provenienti dall'America tra il Presidente Trump e il Presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana.
Segno questo che la situazione non è affatto tranquilla per quanto riguarda la stabilità del sistema monetario-finanziario d'oltre Atlantico.
Del resto lo sappiamo bene, gli squilibri dei conti nazionali che si protraggono per troppo tempo pongono le classi dirigenti di fronte a delle scelte dolorose: o rischiare l'implosione del sistema finanziario o rischiare il meltdown della moneta nazionale. Questo perché le politiche di allentamento monetario (quali l'abbassamento dei tassi o nella peggiore delle ipotesi Quantitative Easing) necessari alla sopravvivenza delle istituzioni finanziarie nel caso in cui ci fosse una fuga di capitali esteri rischiano però di condannare la moneta nazionale a un progressivo depauperamento del proprio valore. Una situazione questa in stile argentino, giusto per fare un esempio eclatante.
Una situazione che però ormai può essere ipotizzata anche per gli Stati Uniti e per il Dollaro. I conti nazionali ormai fuori controllo, a partire dalla Posizione Finanziaria Netta passiva per oltre 26mila miliardi di dollari, espone il sistema finanziario a stelle e strisce di fronte al rischio di una fuga di capitali con conseguente rischio di crollo di banche e istituzioni finanziarie nello stile di quanto avvenne nel 2008.
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Imperialismi amatoriali
di comidad
Dal Cremlino ci si è preoccupati di precisare che nell’incontro di San Pietroburgo dell’11 aprile tra Putin e il mediatore americano Witkoff non si è parlato del dossier Iran. Ce n’è quindi abbastanza per supporre che la verità sia il contrario. Del resto non ci sarebbe nulla di strano se Trump e Witkoff coltivassero il sogno nel cassetto di accontentare l’AIPAC ma senza sobbarcarsi le terribili incognite di una guerra nel Golfo Persico. Si tratterebbe di ottenere una rinuncia dell’Iran alle sue capacità missilistiche e nucleari, quindi esponendosi inerme ai bombardamenti da parte di Israele, e affidando in toto la propria sicurezza a un “garante”, che dovrebbe essere Putin. Tra l’altro sarebbe lo stesso Putin che non ha mai concesso ai siriani l’uso della contraerea di fabbricazione russa contro gli attacchi israeliani.
Lo schema dell’accordo desiderato da Washington dovrebbe ricalcare quello del 2013 tra Obama e Putin sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Obama non aveva nessuna voglia di intervenire militarmente in Siria, ma purtroppo aveva incautamente imposto ad Assad la linea rossa del non usare armi chimiche nel conflitto con le milizie sunnite che cercavano di rovesciare il regime. Con una dichiarazione così ingenua era pressoché inevitabile che arrivasse un “false flag” con cui accusare Assad di aver varcato la linea rossa.
D’altra parte l’Iran dovrebbe già sapere che come “garante” Putin è in grado di offrirti una sola garanzia, cioè che, prima o poi, ti rifilerà il bidone, esattamente come ha fatto lo scorso anno con Assad e, prima ancora, con Saddam Hussein e Gheddafi.
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Chiudere le basi militari USA in Asia
di Jeffrey Sachs - Other News
Il presidente Donald Trump si lamenta nuovamente a gran voce che le basi militari statunitensi in Asia siano troppo costose per gli Stati Uniti. Nell'ambito del nuovo ciclo di negoziati tariffari con Giappone e Corea del Sud, Trump sta chiedendo a questi paesi di pagare per il mantenimento delle truppe USA. Ecco un'idea molto migliore: chiudere le basi e riportare i militari negli Stati Uniti.
Trump lascia intendere che gli Stati Uniti stiano fornendo un grande servizio a Giappone e Corea del Sud stazionando 50.000 soldati in Giappone e quasi 30.000 in Corea del Sud. Tuttavia, questi paesi non hanno bisogno che gli Stati Uniti li difendano. Sono nazioni ricche e sicuramente possono provvedere alla propria difesa. Ancora più importante, la diplomazia può garantire la pace nel nord-est asiatico in modo molto più efficace e a un costo decisamente inferiore rispetto alla presenza militare statunitense.
Gli Stati Uniti si comportano come se il Giappone avesse bisogno di protezione dalla Cina. Diamo un'occhiata alla storia. Negli ultimi 1.000 anni, periodo in cui la Cina è stata la potenza dominante nella regione per tutti tranne gli ultimi 150 anni, quante volte ha cercato di invadere il Giappone? Se hai risposto zero, hai ragione. La Cina non ha mai tentato di invadere il Giappone neanche una volta.
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I dazi possono fermare la decadenza degli Stati Uniti?
di Domenico Moro
L’atteggiamento del presidente Trump riguardo ai dazi appare ondivago: in una serie ininterrotta di dichiarazioni i dazi vengono messi, poi tolti e rimessi ancora. Il 2 aprile, il “giorno della liberazione” secondo la retorica trumpiana, sono stati annunciati dazi elevati per quasi tutti gli stati mondiali. Alla Ue sarebbero stati applicati dazi del 20%. Qualche giorno dopo, Trump li ha sospesi per 90 giorni, ma ha mantenuto dazi al 10% per tutte le merci e i dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25%. Inoltre, ha innalzato i dazi contro la Cina al 145%, salvo qualche giorno dopo esentare dall’aumento tutta una serie di prodotti elettronici provenienti dal paese asiatico.
La ragione di questo passo indietro sta nel fatto che Big tech, che ha appoggiato Trump, sarebbe stata penalizzata dai dazi alla Cina, visto che da lì provengono molti componenti e prodotti finiti delle multinazionali statunitensi, come l’iPhone della Apple. Inoltre, prima della pausa di 90 giorni, Barclays aveva stimato un calo di tutti i fondamentali economici. Il Pil per il terzo trimestre era previsto in contrazione dell’1,5% e nel quarto dello 0,5%, cosa che avrebbe provocato una recessione. L’inflazione sarebbe passata dal 3,4% della fine del 2024 al 4% di fine 2025, mentre la disoccupazione sarebbe aumentata.
Secondo alcuni, dentro il campo trumpiano ci sarebbe una spaccatura tra, da una parte, il segretario al Tesoro, Scott Bessent, e il segretario al commercio, Howard Lutnik, che premevano per un approccio più morbido e, dall’altra parte, il consigliere di Trump per il commercio e la manifattura, Peter Navarro, e il capo dei consiglieri economici, Stephen Miran, che hanno una posizione più dura. In particolare Stephen Miran rappresenta la vera eminenza grigia che sta dietro la politica dei dazi, avendo teorizzato il loro uso in A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System.
La decadenza degli Usa secondo Todd
La spiegazione della politica dei dazi sta nella situazione di decadenza, politica, culturale ed economica, in cui versano gli Usa.
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Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
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Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
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Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto