Le parole e le cose: la resistenza
di Algamica*
A 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale si torna a parlare di un fenomeno politico sociale ormai scolorito, e il tentativo di rinvigorirlo appare in tutta la sua nudità: un falso storico, ovvero una patacca, venduto al popolo come una medaglia d’oro. Parliamo di quella definizione che va sotto il nome di resistenza partigiana italiana e che si commemora il 25 aprile di ogni anno.
Non si scandalizzino, lor signori, se usiamo il termine «patacca», perché una mistificazione venduta per 80 anni non diviene platino inciso, proprio perché la verità è come la tosse, non la si può trattenere troppo a lungo e alla fine esplode in tutta la sua forza.
Cosa fu realmente quel movimento “nazionale” che va sotto il nome di resistenza? Come nacque, chi vi aderì, e cosa si proponeva? Sono queste le domande a cui dovremmo cercare di rispondere per capire la natura vera – non quella contrabbandata – di un movimento sociale composito che si incominciò a sviluppare sul finire della Seconda guerra mondiale contro il nazismo germanico e – di riflesso – contro il fascismo e la Repubblica sociale che si era insediata a Salò come estremo tentativo di difendere l’alleanza colonialista con la Germania contro un colonialismo maggiore in ascesa, ovvero quello angloamericano.
Succede – come sempre nella storia – che se vai avanti vieni seguito, come dire vinciamo noi, viceversa, se vieni sconfitto, beh, paghi tu per la sconfitta. Il fascismo italiano pagò per essere stato sconfitto da potenze maggiori e in ascesa. In sostanza il 25 aprile ricorre la celebrazione della “liberazione” piuttosto che della “resistenza”. Ma liberazione da cosa? Una liberazione il cui scopo ultimo era quello di sottrarre l’Italia dal ruolo di paese sconfitto nel tentativo di un blocco imperialista minore di competere contro quello maggiore e straripante, per ben continuare a rivendicare un posto alla tavola dei banditi delle maggiori potenze democratiche contro i popoli colonizzati. Siamo all’abc della storia.
Per onorare, perciò, la verità storica, va detto che per tutto il ventennio fascista in Italia non si sviluppò mai un vero movimento di massa, men che meno composto dalla classe operaia. Al tempo stesso va detto che il fascismo mentre reprimeva l’opposizione politica organizzava anche movimenti oceanici di masse a suo sostegno. In modo particolare nella sua foga colonialista e imperialista. Anche, o forse soprattutto, perché il fascismo fu una risposta reale che si innestò nella società contro l’ideale dell’Internazionalismo proletario che agli occhi delle masse – in modo particolare quelle giovanili e reduci di guerra – si presentava come pura astrazione ideologica.
Sicché in sede di bilancio storico abbiamo l’obbligo di chiamare le cose per il loro nome: il movimento ideale del comunismo fu preso per la cavezza al carro del liberalismo democratico e portato al macello nel turbine dell’accumulazione capitalistica occidentale ai danni di interi continenti, al di sopra di tutti i colorati. La cui classe operaia poté godere dei privilegi di uno straordinario sviluppo che non sarebbe potuto durare all’infinito.
Piedi a terra dunque: le leggi razziali in Italia furono introdotte nel 1938 contro le quali non vi fu mai un movimento di massa che si opponesse. Tanto meno si sviluppò un movimento di massa – reale – contro la guerra, men che meno contro quella coloniale. Questi come fatti, poi di racconti se ne possono inventare sempre in quantità industriali.
Di che resistenza parliamo? Di una resistenza liberaldemocratica di un imperialismo maggiore e vincente contro uno minore e sconfitto. C’è dell’eroismo in ciò? O c’è dell’eroismo nel prendere a sputare su un cadavere appeso come in piazzale Loreto? O c’è dell’eroismo nell’acclamare come liberatori quelli che hanno bombardato e raso al suolo il tuo paese? O c’è dell’eroismo nello stare nei CLN insieme a monarchici, liberali, cattolici (che fino a un minuto prima avevano sostenuto il fascismo), repubblicani, socialisti e comunisti che verranno finanziati a suon di dollari e inneggeranno poi alla Nato? Suvvia, parliamo di cose serie.
Diamo la parola a chi, da vero liberista, chiama le cose per il loro nome, a quel Alessandro Sallusti che scriveva «Purtroppo non da oggi il ricordo della giornata della Liberazione è diventato una baraccata ». Ma perché un liberista arriva a definire la celebrazioni per il giorno della Liberazione una baraccata? Lo sintetizza in modo chiaro e netto nella chiusa: «Viva il 25 aprile, ma quello del 1945 ». Ovvero la giornata che sanciva la vittoria della liberaldemocrazia occidentale contro il fascismo europeo.
Qui va necessariamente aperta una parentesi storica, teorica, politica e pratica sul ruolo avuto dal movimento comunista imperniato intorno all’Urss. Perché mentre il liberismo usciva tronfio con i suoi valori sulla democrazia, il movimento comunista era costretto – dai fattori storici determinati, che non stiamo a spiegare per brevità in questa sede – ad accodarsi pagando uno straordinario contributo di sangue proletario, assoggettandosi alla tesi che « la democrazia fosse propedeutica allo sviluppo del socialismo ».
Allora tanto per essere chiari diciamo che la resistenza contro il nazifascismo in Italia comincia a svilupparsi solo a seguito della guerra all’Italia da parte delle truppe angloamericane e della caduta di Mussolini che cerca di mantenere l’alleanza con la Germania costituendo la Repubblica Sociale a Salò sul lago di Garda. Un’Italia bombardata e distrutta da anni di guerra da parte delle truppe degli angloamericani, che diventano così “alleati”. Solo quando l’Italia cambia alleanza, perciò, si comincia a sviluppare la resistenza contro il nazifascismo e si costituirono i Comitati di Liberazione Nazionale che si subordinarono al comando “alleato”.
Dunque in Italia il 1945 segna, senza dubbio alcuno, una svolta storica in favore del liberismo occidentale, a guida Usa, che si autocandida perciò a modello da imporre, in un modo o nell’altro, al resto del mondo.
La fine della Seconda guerra mondiale segna un altro passaggio storico il favore dell’Occidente, con la creazione dello Stato di Israele cui l’Urss salutò con un certo entusiasmo, sottovalutando la manovra che si celava sotto la creazione dello Stato sionista, come vero guardiano degli interessi occidentali nell’area contro i paesi arabi del Medioriente e innanzitutto contro il martirio del popolo palestinese.
Questo significò nei fatti finire nel tritacarne occidentale che ci utilizzò e poi ci criminalizzò con una odiosa campagna contro l’Urss “staliniana”, una campagna alla quale non si sottrassero neppure “fior di comunisti” occidentali e intellettuali di “rango”. Non a caso di lì a pochi anni gli occidentali con alla testa gli Usa costituirono la Nato, 1949, forti di uno straordinario mercato e di un potenziale altrettanto straordinario di potere economico e politico poterono anche concordare con la costituzione del Patto di Varsavia, nel 1955 come sfera di influenza dell’Urss insieme ad altri paesi dell’Est europeo.
La “resistenza” contro il nazi fascismo della Germania e della Italia, se rivendicava da sinistra e da parte comunista una giustizia sociale per le classi lavoratrici, essa non si rivolse mai verso i popoli di colore e colonizzati che le potenti nazioni democratiche utilizzarono come carne da cannone a decine di milioni – dall’Africa, India, Asia Occidentale e Asia Minore. Un utilizzo sui fronti di guerra, volutamente dimenticato dalla storiografia, non per liberali dall’oppressione coloniale, ma per far vincere il padrone che li dominava e che ha continuato a dominarli a liberazione avvenuta. Una vittoria quelle delle liberal democrazie occidentali che fu così schiacciante, che il movimento dei lavoratori in Occidente salutò la fondazione dello Stato di Israele come figlio legittimo della vittoria al nazi fascismo e come sperimentazione di una forma nuova di laburismo. In sostanza legittimando la forma inedita del colonialismo degli europei e degli occidentali con la patacca ideologica del socialismo kibuzzista.
Ora chi vuol intendere per “Resistenza” quella aspettativa di giustizia sociale per il servizio reso alle maggiori potenze, non può non considerare il ruolo storico che essa effettivamente rappresentò per i movimenti anticoloniali in Algeria, India e in Medio Oriente, visti in quegli anni per forza storica materiale oggettivamente pericolosi, da cui prendere le distanze e tacere quando repressi perché tutto sommato definiti dai movimenti socialisti e comunisti d’occidente filo hitleriani. Di fatto facendo eco alla voce del padrone.
Quindi, sul piano storico la “resistenza” al nazi fascismo in Europa ha avuto un duplice e divergente risultato a seconda del punto di vista dell’unitario processo storico combinato e diseguale: liberazione e aspettativa di giustizia sociale per le classi lavoratrici europee che poterono realizzare il proprio antagonismo sociale sull’eccedenza della spartizione coloniale e proprio per aver contribuito a liberare l’Italia dal ruolo di sconfitto; rinnovata oppressione coloniale per i popoli di colore, in particolare quelli del Medio Oriente e della Palestina che videro ergersi terroristicamente contro di loro un potente nuovo stato coloniale armato e finanziato dalle nazioni democratiche e antifasciste.
Da una parte c’era non solo la forza economica, militare e politica, ma c’era il fattore tempo di un moto-modo di produzione che con leggi impersonali favoriva l’Occidente, con alle spalle secoli di rapina coloniale, a sviluppare a macchia d’olio i mercati e penetrare così il resto del mondo, mentre prima la Cina fu obbligata a un accordo, dopo il 1972, e a distanza di anni, nel 1989, doveva, crollare l’Urss e con esso tutti i paesi del Patto di Varsavia per la forza che andava assumendo l’espansione del mercato. Paesi del patto di Varsavia come la Polonia, l’Albania, la Romania che fornirono la mano d’opera a basso costo di un giovane proletariato ad alcuni paesi dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia, e che garantirono un rilancio dell’accumulazione per un paio di decenni.
Si osservi poi il paradosso: quella classe operaia che era stata silente durante il fascismo e si attivò durante la resistenza accogliendo gli “alleati” poi diviene vittima degli operai dell’Europa dell’Est. I quali operai, dell’Est europeo, arrivarono in competizione per costi inferiori per rilanciare l’accumulazione capitalistica funzionando come diluente nei confronti dell’insieme del movimento operaio che iniziò a sciogliersi come movimento politico, ideale e culturale. Si chiude così la parabola che il 1848 Marx e Engels avevano indicato in una classe, quella operaia, come fattore taumaturgico per abbattere il capitalismo.
Ma la storia è lenta, ha leggi proprie, poi accelera all’improvviso e presenta il conto.
Ed eccoci al “nuovo” che avanza: il paese liberista per eccellenza, gli USA, viene avvolto in una crisi di produzione di valore proprio per aver generato, secondo le leggi che ha osannato e favorito, concorrenti in tutti i continenti che lo stanno facendo barcollare. E un paese che comincia a barcollare non può non eleggere come presidente un personaggio come Trump che promette mari e monti come un ubriaco appena uscito dall’osteria a tarda sera. Un presidente eletto – si badi bene – democraticamente, dunque popolare, cioè di settori sociali castigati dalla crisi e che barcollano lanciando fendenti a destra e a manca, come una bestia inferocita in gabbia, favorendo una destabilizzazione dell’insieme del quadro occidentale di cui s’era fatto da garante.
Trump e il fascismo
C’è una sorta di suggestione in alcuni paesi europei in modo particolare secondo cui Trump rappresenterebbe il nuovo fascismo che avanza contro cui bisognerebbe sviluppare una resistenza democratica. Le ragioni addotte a tale tesi perché starebbe attaccando spazi e diritti democratici. Insomma Trump, Vance, Musk costituirebbe un nuovo triunvirato imperiale antidemocratico contro cui è necessario battersi.
Signori: la NATO nacque a seguito di una guerra vittoriosa che seguiva un periodo lussureggiante del colonialismo e imperialismo angloamericano cui gli europei, sconfitti, si acquattarono. Oggi gli USA sono il paese più indebitato al mondo, non solo, ma non è più in grado di produrre valore ed è in calo demografico. Questo vuol dire che il trio rappresenta non l’espressione della forza, ma quella della disperazione. Sicché comparare un movimento di resistenza liberaldemocratico, come il trumpismo odierno come il nuovo fascismo ha dell’antistorico da analisti d’accatto. Semplicemente perché il fascismo-nazismo erano il frutto di una crescita dell’accumulazione capitalistica che chiedeva più spazio, mentre il trumpismo è un tentativo di pronto soccorso verso una economia votata al disastro. Lo dimostrano le giravolte cui è costretto a ricorrere continuamente. Un nuovo boom economico per l’America? Una favola da raccontare agli scemi, non ai bambini che oggi sono più svegli rispetto a ieri. E che gli europei barcollino tra la necessità di dover fare da soli o l’indulgenza a non poter fare a meno dell’alleato storico la dice lunga sulla gravità della crisi generale del modo di produzione capitalistico.
Cerchiamo di afferrare il toro per le corna chiedendoci: cosa scatena il nuovo nazionalismo, non solo americano, ma di tutti i paesi occidentali? La non crescita, e con essa la crisi della accumulazione di valore. E questo genera una guerra di tutti contro tutti. È questo il quadro d’assieme, un quadro caotico in cui ogni nazione cerca di far per sé. Mentre un personaggio alla Romano Prodi – tanto per citare un dotto che parla al vento – predica una razionalità filosofica per un sistema che fa dell’irrazionalità la sua ragion d’essere. È questo il punto fondamentale in cui in ogni paese vale il principio mors tua vita mea. Un principio che è trasferito da ogni singola azienda, che costituisce la doppia schiavitù del mercato, alla nazione. Ed emergono, così, i Salvini, i Trump, gli Orban, o anche – attenzione bene – i Xi Jnping o gli stessi Putin. Per non dire di Netanyahu e di riflesso i bollenti spiriti dei paesi africani e mediorientali che sentono il fiato sul collo e reagiscono come possono, vedi lo Yemen, il Marocco, per non dire dei palestinesi che hanno catalizzato intorno alla loro causa l’attenzione generale del mondo intero in modo particolare verso le nuove generazioni occidentali.
Dunque si profilerebbe, come in tanti e anche in troppi, scrivono dando per certa una Terza guerra mondiale? O peggio ancora che il capitalismo ha bisogno di una nuova guerra mondiale per rigenerarsi come sistema? Chiacchiere da bar dello sport, anzi peggio perché si personalizza un modo di produzione dandogli la patente di libero arbitrio capace di decidere di fare una nuova guerra per distruggere mezzi delle produzioni per rilanciarsi in un nuovo processo di accumulazione di capitali. Siamo alla fantasia al potere.
Forse è il caso di ricordare a certi signori, cotanto di cattedratici, che le guerre nell’epoca moderna si sono svolte per espansione di una potenza economica, cioè valore precedentemente accumulato. Gli USA, tanto per dirne una, nella Seconda guerra mondiale, avendo alle spalle una lunga fase di sviluppo poté mettere sul campo milioni di nordafricani e mandarli al martirio in nome della democrazia, anche perché la guerra, non le chiacchiere, si fa mettendo i piedi a terra, ovvero sacrificando uomini oltre che mezzi, e gli uomini costano.
Nel 1991 gli Usa, con al seguito dell’ONU, solo 34 anni fa (che per la storia sono un alito) schierarono oltre 500 mila uomini e mezzi superiori a quelli impiegati durante la Seconda guerra mondiale, per sconfiggere un irruente Saddam Hussein, cioè un Iraq che chiedeva spazio nello scambio attraverso la vendita del proprio petrolio.
C’è qualcosa di nuovo e di vecchio
«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole» d’Oriente ma non è la presenza raggiante degli italiani in Libia come la salutava Pascoli, ma un punto nevralgico che coagula l’antisistema ed è la crisi generale del modo di produzione capitalistico che oltre all’Occidente smuove anche paesi arabo-islamici che sono imbrigliati dalle leggi dell’accumulazione di cui la resistenza palestinese è un iceberg. Dunque di una straordinaria potenza di nuove generazioni che può esplodere come un movimento tellurico e provocare scossoni per l’insieme del sistema.
Vogliamo essere ancora una volta chiari: ciò che farà implodere l’insieme del moto non sarà una classe che si ergerà a soggetto, ma l’insieme delle leggi che aumenteranno il caos e renderanno sempre più impotenti gli uomini a poter correggere le leggi del moto. Si tratta di una tesi dura da masticare per chi è abituato a ragionare di libero arbitrio e di potenzialità dell’uomo rispetto a tutte le altre specie della natura.
Pertanto quello che sembrava fino a ieri forte, potente e invincibile, come ad esempio gli USA e la sua longa mano in Medio Oriente, cioè lo Stato sionista di Israele, viene scosso dalle fondamenta e sbriciolato. È la legge della natura della materia: niente è eterno.
Quale sarà la natura della resistenza in Occidente di questa fase?
Rispondiamo senza nasconderci dietro il dito: sarà ancora una volta di natura liberaldemocratica nei confronti di concorrenti diversi rispetto ad allora, perché il modo di produzione capitalistico si è esteso per cerchi concentrici o a macchia d’olio, se così si preferisce, non più circoscritti a un solo continente, ma su tutto il globo terrestre. Detto brutalmente l’Occidente si è comportato come un apprendista stregone ed ha allevato i suoi seppellitori, contro cui oggi è chiamato a resistere proprio quando è zavorrato da un debito infinito, una crisi della produzione di valore, un calo demografico pauroso e una avversione in tutti i continenti contro i quali è molto complicato fare i conti. Un insieme di fattori che ne stanno annunciando la fine. È questa la novità storica con cui dover fare i conti, ovvero di una resistenza senza possibilità di resistere.
Chi in Occidente cerca di darsi coraggio lo fa per esorcizzare l’impietoso crollo di un sistema che ha garantito benessere a scapito di centinaia di milioni di esseri umani che oggi gli si ritorcono contro ed era ora!
Senza perciò astrarre e per essere concreti, citiamo a modo di esempio quanto sta succedendo in questi giorni che precedono il 25 aprile, ovvero se per festeggiare la “liberazione” a Porta san Paolo a Roma la prima bandiera è quella che rappresenta il genocidio del popolo palestinese, la seconda esprime l’isteria del riarmo dell’Europa e dell’Italia fatta propria dal governo, dai partiti di opposizione e dal campo delle democrazie occidentali che utilizzano l’Ucraina in una guerra di aggressione alla Russia ben precedente al fatidico febbraio 2022. Questo avviene perché la storia è inesorabile. Esauritisi i fattori materiali di un intero ciclo ascendente, le illusioni di giustizia sociale che animarono le generazioni del 1945 sono impotenti e costrette a cedere il passo alla sostanza nuda e cruda della barbarie dell’Occidente in declino. Dunque contro l’uno e contro l’altro le nuove generazioni sono poste di fronte a una inedita necessità di lotta non contro un generico fascismo ma contro l’insieme dell’Occidente.
Gli ebrei in questa fase sono chiamati a fare i conti e fino in fondo con la loro storia, non più come popolo vittima delle leggi razziali e le discriminazioni, no, sono posti – dalla storia – sul banco degli imputati, non devono fare i conti con il fascismo tedesco o italiano di ieri, ma col proprio fascismo e nazismo di oggi.
Diamo dunque merito al merito: la resistenza di ieri fu liberaldemocratica e la sua versione rinnovata di oggi non può che essere in continuità con tutto un ciclo storico ma in questa fase con le polveri bagnate e perdente. Pertanto alle nuove generazioni va lanciato un appello di fiducia verso non una astratta o ideologica rivoluzione sociale fatta da una classe, il proletariato contro un’altra classe, la borghesia. Ma la certezza che la crisi del modo di produzione possa generare dappertutto un’aspirazione contro le leggi dello scambio e della accumulazione giunte a fine corsa.
Non apparteniamo a quella categoria che si lamenta che alla Resistenza non seguì l’insurrezione proletaria. Di quelli che si alambiccano il cervello ipotizzando come sarebbe potuta andare in un altro verso. Quindi sia nell’uno che nell’altro caso non abbiamo nulla da festeggiare. Se leggi il Giornale fa un articolo istigatore.
Noi saremo a Porta San Paolo a Roma per le motivazioni scritte e poi sintetizzate in un appello che è riportato integralmente tra i commenti. In una iniziativa necessaria cui ci siamo spesi a sostenere e promuovere insieme a chi oggi vuole sfidare la marcia sionista a Roma. Quindi non una festa, ma tutt’altra lotta.
Solo per questo ci sarebbe da festeggiare tutti i giorni.
https://m.youtube.com/watch?v=oacPPgAMHG8&pp=QAFIAQ%3D%3D