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Cinque tesi sull'euro
di Jacques Sapir
Come di consueto, Sapir ha parole sagge sul suo blog in tema di eurocrisi. L’economista francese articola in cinque tesi i modi in cui la moneta unica sta condannando alla miseria un intero continente. Occorre al più presto riconoscere la verità: l’euro è la causa, non la soluzione dei nostri problemi. E l’unico modo di salvare l’Europa è superare questo strumento inadeguato, tornando alle flessibilità valutarie
I problemi posti dall’euro diventano sempre più evidenti con le mobilitazioni e le dimostrazioni di piazza in Francia contro la cosiddetta legge “Labour”. E’ ormai evidente che la basi economiche di questa legge sono imposte dalla nostra partecipazione all’eurozona. Dal momento in cui gli Stati vengono privati della possibilità di regolare la loro situazione economica tramite la svalutazione (o la rivalutazione) del cambio valutario, e in assenza di qualsivoglia sistema di trasferimenti fiscali previsti a priori, gli aggiustamenti possono avvenire solo a spese del fattore lavoro. Questa è l’amara verità, che si evidenzia sempre di più sotto forma della legge “labour”, la cosiddetta legge El Khomri, ossia il nome del Ministro a cui è stato imposto di presentarla, senza avere la possibilità di prendere parte alla sua ideazione. I problemi creati dall’euro possono essere esposti in 5 punti.
1. L’euro non è una moneta; non corrisponde a un singolo soggetto politico né a una volontà politica basata sulla legittimazione popolare.
L’euro è un sistema che paralizza il commercio tra paesi. E’ un regime di cambi fissi di fatto affine al gold standard. Non ammette alcuna flessibilità.
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La deriva culturalista della questione migrante
Zizek e il fardello dell’uomo bianco
di Militant
A gennaio è uscito un interessante articolo del filosofo sloveno Slavoj Zizek sui fatti di Colonia nella notte di Capodanno. Interessante non perché condivisibile, ma perché illustra bene tutti i cliché mentali di una certa sinistra, radicale ma anti-marxista. Ci sembra importante tornare sull’argomento perché il testo di Zizek ha carattere generale, parte dai fatti di Colonia per allargare lo spettro e affrontare di petto la questione migrante. E’ il risultato di un ragionamento di lungo(?)periodo, e siccome Zizek è uno dei punti di riferimento intellettuale della sinistra di cui sopra, ha senso rifletterci sopra.
Per Zizek i fatti di Colonia costituirebbero la rappresentazione oscena-carnevalesca dell’invidia migrante nei confronti del tenore di vita occidentale. Un tenore di vita al quale loro aspirerebbero e che, frustrati dall’impossibile raggiungimento, scatena pulsioni individuali e sociali di invidia e di odio. “L’islamo-fascismo” non sarebbe altro che la materializzazione sociale di questa invidia, di società che vorrebbero adeguarsi agli standard di vita dei paesi occidentali (o almeno competere su di un piano di parità) e non ci riescono, generando forme di reazione autoritaria, pre-moderna, religiosa, in altre parole forme aggiornate di fascismo, che altro non sarebbero che la concretizzazione politica di questo odio. Per leggere interamente il ragionamento di Zizek rimandiamo comunque alla sua versione originale e, in calce a questo articolo, alla nostra traduzione. Ne consigliamo vivamente la lettura, per comprendere la natura dei problemi e delle contraddizioni da lui sollevati.
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Il capitale umano nella fabbrica della vita
Damiano Palano
Chi riveda oggi Traitement de choc – un vecchio polar francese del 1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo L’uomo che uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur nella forma esasperata della cinematografia di genere, almeno alcuni dei problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della vita. Nel film la protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle cure della dottor Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite della clinica, la donna inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura, che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una sostanza di origine ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani che parlano solo portoghese, inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che il misterioso componente in grado di ringiovanire viene estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo prelievo, si indeboliscono fino a morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni buon film d’azione – ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il film si conclude così con le immagini di un furgone che conduce verso la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di carne viva l’inquietante fabbrica della giovinezza.
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Le presidenziali Usa le decide Google?
Big G può condizionare gli elettori. Lo dice una ricerca Usa
di Sergio Braga
Qual’è l’influenza del web sulle nostre scelte quotidiane, in particolare quelle politiche? Ormai siamo abituati alle esternazioni degli uomini politici sui social, le sappiamo filtrare, come filtriamo, le tante bufale che incontriamo navigando. Sono possibili, invece, condizionamenti più sottili, quasi subliminali? Secondo una ricerca effettuata realizzata online da ricercatori comportamentali Usa, negli Stati Uniti ed in India, la risposta è sì.
L’esperimento, descritto da un articolo intitolato The new mind control (Il nuovo controllo della mente – sottotitolo: Internet ha diffuso sottili forme d’influenza che possono condizionare le elezioni e manipolare qualsiasi cosa diciamo, pensiamo e facciamo) pubblicato sull’eZine Aeon da uno degli autori, Robert Epstein, psicologo e ricercatore dell’Istituto Americano di Ricerche comportamentali e Tecnologie di Vista, in California. Il paper relativo alla ricerca è stato invece pubblicato nell’agosto del 2015 sulla prestigiosa rivista scientifica statunitense Pnas, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti d’America).
Una ricerca che s’ispira alla letteratura ed ad un classico delle scienze della comunicazione
Epstein, nell’articolo, puntualizza che l’esperimento realizzato con i suoi colleghi s’ispira a spunti letterari come i romanzi di Jack London “Il Tallone di Ferro”, “Noi” di Yevgeny Ivanovich Zamyatin, “1984″ di George Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley.
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11 Marzo 2016: Noi non dimentichiamo
A dieci anni dalla morte di Milosevic
di Enrico Vigna
Premessa storica
Nell'affrontare gli eventi verificatisi a Belgrado alla fine del Giugno 2001, culminati con il rapimento e poi la morte nel 2006 di Slobodan Milosevic, occorre partire da un dato, mai citato qui in Occidente. Alla scadenza dei tre mesi di carcerazione nella prigione di Belgrado, il collegio difensivo dell'ex Presidente della Jugoslavia, accusato, tra l'altro, di abuso di ufficio, corruzione, omicidio, stragi e concussione, presentò la domanda di scarcerazione entro il 30 giugno 2001 per assoluta mancanza di prove. Le accuse, infatti, erano tutte basate su supposizioni personali rilasciate da 12 testimoni d'accusa considerati decisivi. Nessuno di essi però andò oltre genericità, supposizioni e ipotesi di colpevolezza.
Ed ecco che, casualmente, il 28 Giugno 2001, dopo pressioni, ricatti e ultimatum da parte degli Usa e della Nato al governo fantoccio DOS, scatta l'operazione che portò al rapimento di Milosevic sotto la regia CIA avendo dichiarato che lo Stato Maggiore dell'Esercito Jugoslavo non aveva fornito né un uomo, né un mezzo per l'estradizione dell'ex Presidente.
Ci sono tuttavia delle verità nascoste, poi svelate dagli stessi stipendiati dell'Occidente, che dimostrano il grado di completa sottomissione e dipendenza dei “nuovi” governanti “liberi e democratici” incaricati di far crollare e asservire agli interessi occidentali la piccola Jugoslavia.
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Trump, Clinton & C. Come inquadrarli?
di Piotr
Chiedere a noi se 'teniamo' per Trump o per la Clinton somiglia molto a chiedere a un abitante della Gallia se teneva per Pompeo o per Cesare
L'ultimo «Supermartedì» ha ormai diradato una parte delle incertezze sulla piega che assumeranno le candidature alle presidenziali statunitensi. Alcune delle definizioni coniate fin qui delle personalità emergenti di USA 2016 meritano una riflessione, per inquadrarle meglio.
1) Utilizzare la categoria di "fascismo" in questa circostanza ha un sapore morale, non politico. Anzi spesso si usa questo termine per una sorta di populismo di sinistra, facendo leva sulla sua capacità evocativa ma non esplicativa. Per lo meno, è evocativa per la mia generazione, per questioni anagrafiche e per la sua comprovata superficialità politica ma, a quanto sembra, non è molto evocativa per le nuove generazioni e per quei ceti sociali che assieme alla crescita del politically correct hanno visto anche quella drammatica delle proprie difficoltà.
2) Innanzitutto, se proprio si vuole utilizzare questa categoria, allora occorre confrontare tutte le caratteristiche del fascismo. Solitamente se ne dimenticano almeno due: a) l'utilizzo di bande paramilitari, b) il progetto antiparlamentare. A Donald Trump mancano entrambe. E' un fascista a metà, allora? Quand'è che un fenomeno smette di essere fascista per diventare un'altra cosa, magari disdicevole e censurabile, ma comunque differente?
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Piketty, gli manca solo il loden
di Luca Fantuzzi
Finalmente ho terminato la lettura de "Il Capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty.
Chi non l'ha fatto, comunque, può tranquillamente restare nell'ignoranza.
Il saggio ha mille difetti, il minore dei quali è quello di essere lungo poco meno della Bibbia, peraltro con risultati - si spera - assai meno profondi e duraturi: è tutto incentrato sul capitale, ma non prende mai in considerazione i capitalisti (per cui, sembrerebbe, si dovrebbero tassare allo stesso modo il professionista che si è fatto la villa alle porte di Roma e la casa al Circeo, l'imprenditore che possiede la maggioranza di una media azienda che fattura qualche milione di Euro all'anno, il manager che - giusto alla pensione - investe la liquidazione in strumenti finanziari); sospetta fortemente il debito pubblico - in base, par di capire, ad una concezione un po' aziendalistica dello Stato sociale -, ma non si interessa in alcun modo al debito privato (che è visto, in sostanza, come un "minor capitale"), né valuta in profondità gli effetti delle bilance dei pagamenti (d'altronde, per Piketty l'ottimo sarebbe un unico governo mondiale, anzi galattico); postula tassi di rendimento pressoché stabili nel tempo per il capitale (che, nel retro-pensiero dell'autore, è eminentemente finanziario: azioni, obbligazioni e titoli di Stato), senza però mai porsi il problema della formazione di quei tassi (sono per esempio totalmente assenti le dinamiche salariali, o le scelte normative in materia bancaria); annette importanza, nella riduzione della concentrazione patrimoniale nel secondo dopoguerra, alle sole imposte progressive, senza in alcun mondo considerare la le dinamiche salariali (rispetto alle quali, io guarderei questo); soprattutto, annacqua in affreschi anche di lunghissimo periodo fibrillazioni epocali derivanti da fondamentali eventi sociali, politici, legislativi (con esclusione, bontà sua, delle Guerre Mondiali).
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Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre
Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei
Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano.
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano.
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I misteri dell'attentato di Parigi del 13 novembre 2015. E non solo
di Giulietto Chiesa
L'intera narrazione ufficiale delle Stragi di Parigi del 2015 è stata inquinata da disinformazione, manipolazione, distrazione di massa. Ecco i fatti
A inizio 2015 scrissi un saggio e pubblicai un video su Pandora TV, intitolato "I Misteri di Parigi". Si riferiva alla tragedia del Charlie Hebdo del gennaio di quell'anno.
Avendo studiato a fondo gli eventi dell'11 settembre 2001, avevo la certezza che alle mie domande sul caso Charlie Hebdo non ci sarebbe stata risposta. I misteri dell'epoca dell'inganno universale non sono rivelabili. La società intera dell'Occidente esploderebbe se la verità venisse scoperta. Si può solo, testardamente, accumulare gl'indizi che dimostrano che essa non corrisponde a ciò che ci lasciano vedere e che ci costringono a credere. Le conseguenze le lascio a coloro che tramano contro di noi.
Ma allora non potevo nemmeno immaginare che avrei raggiunto la certezza della validità dei miei dubbi solo qualche mese dopo averli espressi.
Ora possiamo affermare che l'intera narrazione ufficiale degli eventi del Charlie Hebdo - insieme alle sterminate narrazioni "derivate" che la stampa e tutti gli organi del mainstream hanno prodotto - sono opera di disinformazione, di manipolazione, di distrazione di massa. Il ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve, dopo adeguata meditazione, ha infatti deciso che l'indagine in corso per accertare tutte le responsabilità di quella strage doveva essere fermata, chiusa a chiave, archiviata. La motivazione? "Segreto militare" [1].
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Il significato della supremazia bianca oggi
Racconto della conferenza di Angela Davis
di Militant
«Non sono più iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista». Questa una delle affermazioni di Angela Davis durante la lezione magistrale che ha tenuto lunedì scorso all’Università di Roma Tre. Parole decise, prive di ipocrisia e senza toni attenuati, pronunciate in risposta all’intervento polemico del germanista Marino Freschi, che – e la frecciatina anticomunista nelle sue affermazioni era palese – evidenziava i rapporti di Davis con Erich Honecker, segretario della Sed (il partito comunista della Repubblica democratica tedesca) e poi presidente della Ddr, e l’esistenza di una foto che la ritrae con sua moglie Margot. La foto in questione, che vede anche la presenza della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, è del 4 agosto 1973, pochi giorni dopo la morte di Walter Ulbricht, fino ad allora presidente della Ddr con pochi poteri effettivi: Freschi non ha potuto fare a meno di fare un po’ di polemica, dicendo che Honecker aveva tenuto nascosta questa morte perché allora nella Ddr non si poteva dire la verità. La dichiarazione di Davis di essere ancora comunista e l’affermazione precedente sulla possibilità di un futuro socialista («Non solo perché non ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci sarà più un mondo socialista in futuro», ma andiamo a memoria) assumono, in questo contesto ufficiale, ancora più valore.
Queste parole, infatti, sono state pronunciate da Davis nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre, nel corso di un incontro ufficiale organizzato dall’istituzione universitaria. Le cinquecento poltrone dell’aula non sono bastate a contenere tutto il pubblico, composto in gran parte di compagne e compagne, e molti si sono seduti a terra o sono rimasti in piedi.
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Una Eurozona da Draghi?
di Giorgio Gattei, Antonino Iero
1. È stupefacente vedere come il governatore della Banca Centrale Europea si dia da fare per evitare che l’Eurozona precipiti nel baratro della deflazione (-0,2% il dato di febbraio per l’area euro[1]) e non ci riesca.
Il pericolo è che anche l’Eurozona cada in quello stato comatoso dell’economia che, resistendo ad ogni terapia, affligge da vent’anni il Giappone (cfr. G. Visetti, La strenua lotta del Giappone ad una deflazione ventennale, “Affari e Finanza”, 23.11.2015). Ma, siccome per curare bisogna prima diagnosticare la malattia, è proprio qui che Mario Draghi inciampa, facendo il reticente quando rinvia a generiche «forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo bassa l’inflazione» (“La Repubblica”, 5.2.2016). Ma quali queste “forze” (“oscure”, come si sarebbe detto una volta) se non precise variabili macroeconomiche che per pudore non s’intendono nominare?
Più espliciti sono stati i due governatori di Bundesbank e Banque de France in una lettera congiunta (ma il governatore della Banca d’Italia dov’era?) in cui hanno proposto che gli Stati europei cedano più sovranità, allo scopo di «rafforzare la governance della zona-euro», mediante l’istituzione di un Ministro unico del Tesoro con il compito di coordinare l’«unione dei finanziamenti e degli investimenti» per affrontare «il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, 9.2.2016).
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L'euro e l'irrisolvibile deflazione
Saccenti e metodo dell'aggressione polemica nella profezia di Caffè
Quarantotto
1. Niente. Deflazione, insolvenze diffuse delle famiglie, fallimenti seriali di imprese e deindustrializzazione non contano nulla.
Quello che conta è mantenere la moneta unica.
L'euro, lo diciamo in altre parole rispetto a quelle che abbiamo tante volte detto, è una scelta politica volta a eradicare definitivamente la possibilità di redistribuzione del potere sociale al di fuori dell'oligarchia.
L'euro è infatti il presupposto e il fine ultimo (in un processo circolare inavvertito dalle masse anestetizzate dai media) che conferisce la legittimazione per poter adottare misure come quelle cui fanno riferimento le dichiarazioni sopra riportate.
In assenza del vincolo dell'euro, la necessità di quanto preannunciato da Nannicini non avrebbe nè la priorità assoluta nè l'intensità che gli viene, variamente ma costantemente attribuita, da quando l'Italia ha intrapreso il cammino della convergenza dettata da Maastricht, aderendo poi alla moneta unica.
2. Accettiamo pure quello che non appare affatto così scontato, cioè che l'Italia debba essere una economia fortemente "aperta", in modo massimizzato rispetto all'area UE, e in modo negoziato "in crescendo", in base alla intensificata apertura prevista da altri trattati rispetto al resto del mondo.
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Draghi prepara la prossima crisi nell'eurozona
di Pasquale Cicalese
“La Cina non potrà farsi ingabbiare in schemi
come il Trattato di Maastricht. Che non vanno
affatto bene per l’economia cinese”*
Pochi ci hanno fatto caso, ma nell’annunciare le nuove misure della Bce, Draghi il 10 marzo scorso comunicava che il tasso di inflazione atteso per il 2016 nell’eurozona passava da +1% allo 0,1%. Da anni le previsioni della banca centrale vengono smentiti dai fatti, dunque è probabile che, nonostante il QE dell’anno scorso, l’eurozona è in preda alla deflazione. Lo stesso Draghi in conferenza stampa faceva capire che non è attesa una fiammata inflazionistica giacché non ci sono rivendicazioni salariali consistenti. Tradotto: il proletariato europeo è ben bastonato.
Draghi ha spronato i governi alla deflazione salariale e ora quasi si rammarica, come la Yellen della Federal Reserve, che i salari non aumentano. Gira e rigira, la questione è quella: quanto guadagnano i lavoratori dell’eurozona. Il rapporto capitale-lavoro, per chi pensasse che gli operai non ci siano più ci pensa Draghi a far capire che sono determinanti, a tal punto di ucciderli del tutto. Con evidenti contraccolpi, appunto la deflazione e la crisi da domanda.
Ma Draghi si è spinto oltre, invitando i governi ad una politica espansiva per spese per investimenti ad invarianza della stabilità dei conti. In pratica ha detto: fate la Salerno Reggio Calabria ma nel frattempo tagliate posti di lavoro nel settore pubblico, riducete le spese per sanità e soprattutto tagliate le pensioni. Con quel che risparmiate fate lavori pubblici e fate pagare meno tasse alle imprese con minor costo del lavoro e minor tassazione sui profitti (protezionismo fiscale).
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La bolla di Mario Draghi
Sergio Bruno
Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il QE non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10 marzo scorso (<http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016 <) il Presidente della BCE ha preannunciato una lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche, il rafforzamento del Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di acquisto alle obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations) miranti a premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per investimenti, si immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
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Power to the people: politiche monetarie alternative
di Andrea Fumagalli
Giovedì 10 marzo, Mario Draghi è intervenuto in modo deciso per potenziare le politiche di Quantitative Easing (QE). Non solo ha alzato a 80 miliardi al mese il livello degli acquisti di titoli di stato estendo anche l’acquisto a nuovi titoli privati per creare liquidità, ma ha anche abbassato i tassi di interesse di riferimento allo 0.0%. La stampa italiana ha salutato questa manovra con entusiasmo e ha declamato le lodi e il coraggio del governatore della Bce. Ma si è trattato, crediamo, di un coraggio dettato dalla disperazione
Il bilancio di due anni di QE è infatti deludente e i risultati attesi non si sono realizzati, come argomentiamo nel presente articolo. E per di più una nuvola nera si affaccia all’orizzonte: l’insofferenza crescente del potentato economico rappresentato dalle Sparkasse tedesche (e non solo) che mal sopporta la riduzione dei tassi d’interessi se questi diventano negativi. Per il sistema bancario, infatti, tassi d’interesse reali negativi implicano una drastica riduzione degli introiti dell’intermediazione bancaria, in un momento in cui lo scoppio della recente bolla mette a rischio anche le plusvalenze di natura speculativa. E’ facile prevedere un aumento di tensione all’interno del board della Bce. Le avvisaglie di una crisi finanziaria ci sono tutte e Drsghi insiste nel perseverare della sua politica e soprattutto nel metodo finora adottato. Finanziare il sistema finanziario ben sapendo che difficilmente ci saranno ricadute sull’economia reale. Errare è umano ma perseverare è diabolico.
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La lucida eresia di un “protezionismo moderato”
di Emiliano Brancaccio
Addio a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso della storia monetaria e finanziaria internazionale, critico della globalizzazione indiscriminata. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra moneta e potere, senza astrattismi
L’economista Marcello De Cecco è morto lo scorso 3 marzo, a Roma. Nato nel 1939 a Lanciano, laureatosi in legge a Parma e in economia a Cambridge, ha insegnato in numerosi atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Dotato di simpatia innata, colto e raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del “gold standard”, il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un autorevole esempio di analisi storico-critica delle relazioni monetarie internazionali. Il libro, basato su una accurata disamina delle fonti documentali, rivela il radicato scetticismo dell’autore verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche tra paesi in base a teoremi astratti e decontestualizzati [1].
Alla luce di questa metodologia di ricerca, De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico sostenitrice dei “meccanismi di aggiustamento automatico”, secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era assicurato dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eventuale eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro verso l’estero tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con un conseguente aumento della competitività e un riequilibrio tra import ed export.
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On vaut mieux que ça – Noi meritiamo di più!
Cosa succede in Francia e cosa ha a che vedere con noi
Scritto da Clash City Workers
L'altro giorno in Francia sono scese in piazza quasi mezzo milione di persone. Si, avete capito bene, quasi 500 mila persone in piazza mentre uno sciopero generale e le proteste degli studenti bloccavano trasporti, aziende e scuole. Tutto questo nel silenzio generale dei media italiani.
Un popolo in lotta, il “debutto di un movimento” come lo ha definito Le Monde, il secondo giornale di Francia, che si è scagliato contro la riforma del lavoro di Myriam El Kohmri, il ministro del Lavoro. Un intervento del Governo socialista che se dovesse essere approvato in primavera inciderà profondamente nel diritto del lavoro francese. Per il lettore italiano, tuttavia, tutto ciò risuonerà come un film già visto: le affinità con le riforme degli ultimi anni, dagli accordi di Pomigliano del 2011 fino al Jobs Act, sono sorprendenti. Chi sa che non sia per questo che i giornali di regime non danno notizia delle proteste francesi? D’altronde, se c’è un qualcosa che accomuna i paesi europei in questo momento storico, esso è stato pienamente riassunto da Myriam El-Khomri in un’intervista rilasciata al giornale Echos il 19 febbraio scorso: “L’obiettivo […] è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”.
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Le radici filosofiche dell’arte astratta
di Giacomo Fronzi
I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica, come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro, L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la rivoluzione culturale europea dell’inizio del xx secolo, collocando al centro del discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue manifestazioni
Nell’ambito degli studi sull’arte d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente storico quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è notoriamente vasta. Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha percorso itinerari di ricerca inediti e accattivanti, stupisce per l’originalità e la profondità con cui affronta il tema delle radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei capitoli in cui è organizzato il saggio, viene proposta una lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti ermeneutici realmente inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi dell’arte astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue tendenze principali) una luce nuova e inaspettata.
Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca otto-novecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8).
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Lo spacciatore di Francoforte
di Leonardo Mazzei
La droga finanziaria del Quantitative easing (Qe) non funziona, ma dà dipendenza. E siccome uscirne è maledettamente difficile, aumentarne la dose è la tipica risposta di chi non sa più a quale santo votarsi. Questa, in breve, la dinamica che ha portato alle decisioni della Bce, annunciate ieri da Draghi. Per gli apologeti di casa nostra costui è di nuovo "SuperMario", una specie di super-eroe dotato di poteri speciali, se non addirittura risolutivi. Ora, che i poteri della Banca Centrale Europea siano davvero rilevanti è ovviamente fuori dubbio; che possano essere risolutivi dell'infinita crisi economica che tormenta l'Eurozona dal 2008 ci pare quantomeno dubbio. Di certo le scelte fin qui adottate, ed in particolare il Qe, hanno finora mancato clamorosamente gli obiettivi prefissati: riportare l'inflazione attorno al 2%, innescare una crescita economica degna di questo nome.
La cosa è così palese, che è proprio il fallimento su entrambi questi due versanti - evidentemente in stretta correlazione tra di loro - ad aver motivato il rafforzamento del Quantitative easing. Un rafforzamento superiore alle previsioni proprio in conseguenza della presa d'atto di una situazione economica estremamente grave.
Che quella di Francoforte sia stata, nella sostanza, una scelta obbligata, ce lo ha detto, papale papale, proprio un'affermazione di Draghi:
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Globalizzazione e crisi. Il lavoratore multinazionale
Girolamo De Michele
Il 4-5 febbraio si è svolto a Padova il convegno “Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore” [qui la sua presentazione di Sandro Chignola e Devi Sacchetto]. Quello che segue è un report degli interventi, redatto sulla base dei materiali distribuiti e degli appunti presi. Ho scelto di far parlare una sola voce collettiva, per focalizzare l’attenzione sul quadro d’insieme piuttosto che sui singoli interventi, rimandando al programma, nella sua interezza, per il dettaglio degli argomenti [G.D.M.]
È probabile che la migliore sintesi di questo convegno sia stata l’affermazione di uno storico: «ho imparato più qui ascoltandovi per due giorni, che in tre mesi di studio e letture». Affermazione in apparenza paradossale: quale presa di parola può avere lo sguardo dello storico su un tentativo sincronico e orizzontale – o comunque definito da un arco temporale ben più ristretto di quello dello sguardo storico – di descrizione dell’intreccio fra migrazioni, lavoro e produzione di valore? Ad esempio, la messa in discussione dello “statocentrismo” implicito in alcuni studi migratori, nei quali il globale sembra essere considerato come qualcosa di esterno allo Stato; e la contestazione di quel “colpo di Stato linguistico” che derubrica e occulta i movimenti migratori locali rispetto a quelli a largo raggio: laddove questi ultimi emergono invece da un pulviscolo di movimenti locali.
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8 Marzo: qualche considerazione di classe
Militant
Tra le date che scandiscono la vita e la militanza politica dei compagni, alcune assumono un valore imprescindibile (il 25 Aprile e il Primo Maggio, per citarne un paio…), mentre altre, anno dopo anno, sembrano perdere il loro significato collettivo, sfumarsi in quello che le forze politiche più disparate (e per loro volontà i media mainstream) hanno deciso di dare loro.
È il caso dell’8 Marzo. Davvero la celebrazione di questa data può essere ridotta a una cena tra donne con le amiche? Abbiamo davvero bisogno che sia la Vodafone a ricordarci le disparità di genere, attraverso il suo ultimo spot?
E soprattutto, vogliamo davvero che questa disparità venga trattata solo per quelli che sono gli aspetti culturali e sociali (l’invecchiamento – e, quindi, la bellezza; il matrimonio; i figli) che, per quanto urticanti e onnipresenti, sono evidentemente solo la punta dell’iceberg di una questione che riguarda le disparità economiche, lo sfruttamento e le differenze di classe? Eppure, negli ultimi mesi, se non anni, la questione dei diritti delle donne è stata quotidianamente dibattuta a mezzo stampa nazionale e internazionale, in tv, sulla rete, ma sempre (o quasi sempre) dalla prospettiva sbagliata. Si è osannata la bellezza (e soltanto quella) delle combattenti curde, ci si è indignati di fronte alla notizia delle violenze di Colonia avvenute durante la notte di Capodanno e, negli ultimi giorni, ci si è affannati a dibattere se una donna possa o non possa decidere di avere un bambino per donarlo ad altri: il tutto in una cornice buonista incentrata sul senso di protezione del “sesso debole” che acuisce la sensazione di un vero e proprio balzo indietro, sia nel dibattito sia nella pratica, del ruolo della donna nella società.
Origine e contemporaneamente conseguenza di questo fenomeno è stato l’allargarsi, anno dopo anno, dell’utilizzo strumentale delle vicende che vedono coinvolte le donne da parte delle forze politiche più reazionarie.
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L'anima umana sotto il capitalismo
di Jean-Claude Michéa
Postfazione a Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell'egoismo, Elèuthera, 2014
Non c'è da sorprendersi per questo incontro, avvenuto nel 1986 durante una trasmissione televisiva di Channel 4 (canale britannico del servizio pubblico), tra Christopher Lasch e Cornelius Castoriadis, incontro animato da Michael Ignatieff1. Lasch e Castoriadis, critici irriducibili della civiltà capitalista, avevano abbastanza punti in comune - e sufficiente stima reciproca - per rendere amichevole e particolarmente fruttuoso il loro dibattito.
D'altra parte, pur attraverso percorsi filosofici differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva «Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato» {La società dello spettacolo, tesi 56)2. Ci si sorprende quindi ancor meno del fatto che un tale incontro non abbia praticamente lasciato traccia nei media o nelle università (almeno per quanto riguarda la Francia), al punto che la stessa emittente Channel 4 non ricordava di averlo trasmesso3. Va ricordato che in quegli scoppiettanti «anni Tapie»4 - quando la trasmissione Vive la crise, condotta da Yves Montand e Laurent Joffrin, si prodigava a fornire al grande pubblico gli «elementi linguistici» fondamentali - l'idea che ogni critica radicale della logica capitalista conducesse ineluttabilmente alla miseria generalizzata e alla negazione dei «diritti dell'uomo» era già diventata, per i chierici mediatici e intellettuali, una opinione largamente condivisa (anche se non si lasciava ancora intendere, come ha poi fatto un Luc Boltanski, che questo tipo di critica potrebbe trovare il proprio fondamento nelle idee di Charles Maurras e dell'estrema destra degli anni Trenta).
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Cosa vuol dire sinistra oggi?
Emancipazione sociale in tempi di crisi
di Norbert Trenkle
I. Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale» basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyama decretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno sotto i piedi.
In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991).
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Rimettere il dentifricio nel tubetto
La vendetta dell'autunno caldo
di Pasquale Cicalese
“Considerando che la produttività dipende dalle performance delle singole imprese, dobbiamo lavorare duramente per aiutare queste imprese a essere più grandi e più forti. Se sei troppo piccolo, non puoi sopravvivere”. Pier Carlo Padoan Guindhall, City, Londra 4 marzo 2016
“Se a ristrutturare le aziende sono gli stessi manager-imprenditori che le hanno portate alla crisi è difficile cambiare le cose. E poi ci vuole una nuova finanza adeguata a risollevare davvero le sorti delle aziende e finanziarne il rilancio. Finanza che le banche non possono assicurare, ma che invece possono portare veicoli di investimento specializzati come il nostro”. R. Saviane, Idea Capital Partners, in Milano Finanza, Crediti dubbi? Tutte Pmi, 5 marzo 2016
“Il mercato italiano è destinato ad essere l’epicentro del trading delle sofferenze bancarie”. Justin Sulger, Fondo Anacap Padoan, gli Npl frenano la crescita ma per le banche nessun rischio di tracollo, Il sole 24 ore 5 marzo
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Il compianto Marcello de Cecco, assieme all’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, a metà degli anni duemila coniò il detto “rimettere il dentifricio nel tubetto”.
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Imperialismo e super-sfruttamento
di Michael Roberts
Una recensione di "Imperialismo nel 21° secolo" di John Smith
Il libro di John Smith è un potente e bruciante atto d'accusa dello sfruttamenti di miliardi di persone in quello che veniva chiamato Terzo Mondo e che ora da parte dell'economia principale vengono denominate come economie "emergenti" o "in via di sviluppo" (e che da Smith viene chiamato "il Sud"). Ma il libro è molto, molto più di questo. Dopo anni di ricerche che includono anche una tesi di dottorato, John ha dato un importante ed originale contributo alla nostra comprensione del moderno imperialismo, sia a livello teorico che empirico. In tal senso il suo libro "Imperialismo" è un complemento a "The city" di Tony Norfield, già recensito qui - o potrei anche dire che è il libro di Tony ad essere un complemento di quello di John Smith. Mentre il libro di Tony Norfield mostra lo sviluppo del capitale finanziario nei moderni paesi imperialisti ed il dominio di potere finanziario del "Nord" (Stati Uniti e Gran Bretagna, ecc.), John Smith mostra come sia il "super-sfruttamento" dei lavoratori salariati nel "Sud" ad essere la base del moderno imperialismo nel 21° secolo.
Il libro comincia con alcuni esempi di come i lavoratori salariati nel Sud siano "super-sfruttati" per mezzo di salari al di sotto del valore della forza lavoro (i lavoratori tessili del Bangladesh): "I salari di fame, le fabbriche come trappole mortali, ed i fetidi slum del Bangladesh sono rappresentativi delle condizioni patite da centinaia di milioni di persone che lavorano in tutto il Sud globale, sono la fonte del plusvalore che sostiene i profitti ed alimenta un sovra-consumo insostenibile nei paesi capitalisti" (p.10)... e come il plusvalore creato da questi lavoratori super-sfruttati viene acquisito dalle corporazioni trans-nazionali e trasferito attraverso la "catena del valore" ai profitti dei paesi imperialisti del Nord (Apple, I-phone e Foxconn). "L'unica parte dei profitti della Apple che appare avere origine in Cina, è quella risultante dalla vendita dei suoi prodotti in quel paese. Come nel caso delle T-shirt made in Bangladesh, anche con gli ultimi gadget elettronici, il flusso di ricchezza proveniente dai salariati cinesi e da altri lavoratori a basso salario che sostiene i profitti e la prosperità delle aziende e delle nazioni del Nord, diventa invisibile sia nei dati economici che nei cervelli degli economisti" (p. 22).
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