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La Bolivia dopo Evo Morales e il rompicapo dei governi progressisti
di Camilla De Ambroggi e Clemente Parisi
Da oltre un mese la Bolivia vive una profonda crisi politica. Le proteste iniziate in seguito alle controverse elezioni del 20 ottobre hanno portato alle dimissioni e alla fuga di Evo Morales e si sono trasformate in una vera e propria guerra civile quando la presidenza è stata assunta dall’ex-vicepresidente del Senato Jeanine Añez. Gli scontri violenti e le mobilitazioni di quei giorni hanno lasciato sul terreno decine di morti e centinaia di feriti soprattutto per mano della repressione di Stato, evidenziando una spaccatura nel paese che si consuma sui simboli, sulle parole e sulla interpretazione dei fatti che hanno seguito la diffusione dei risultati elettorali. L’accusa di golpe è rimbalzata per giorni da una parte all’altra nel tentativo di stabilire chi per primo abbia forzato le procedure democratiche. L’eterogenea opposizione considera la rinuncia di Morales come una restaurazione della legittimità democratica che ricuce la spaccatura prodotta dal suo tentativo di essere eletto per un quarto mandato dopo che il referendum del 21 febbraio del 2016 lo aveva esplicitamente rifiutato. I sostenitori del Movimiento al Socialismo (MAS) e buona parte dell’opinione pubblica latino-americana, al contrario, guardano con comprensibile sospetto gli eventi che hanno portato all’uscita di scena di Morales. L’esecutivo di Añez si è d’altronde contraddistinto fin da subito per la sua politica reazionaria. I negoziati tra il nuovo governo e il MAS, il partito di Evo Morales maggioritario nelle due Camere, si sono conclusi il 24 novembre con l’approvazione di una legge che stabilisce le condizioni per nuove elezioni presidenziali e legislative a cui non potrà presentarsi il binomio uscente Morales-García Linera. Allo stesso tempo, tuttavia, il «governo provvisorio» ha legittimato le Forze Armate a reprimere le proteste contro il suo autoritarismo, esentandole addirittura da responsabilità penali.
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Qui sème la misère, récolte la colère!
La generalizzazione del conflitto in Francia e il ruolo delle giovani generazioni
di Noi Restiamo
Oggi in Francia si svolge il terzo sciopero generale in meno di due settimane, il terzo momento di culmine della protesta che è andata montando all’annuncio di una nuova riforma pensionistica da parte dell’Alto Commissario alle pensioni e dirigente di En Marche! Jean-Paul Delevoye. L’opposizione a questo provvedimento sembra pronta a durare a lungo, nonostante la dura repressione da parte del governo; il tentativo di divedere il movimento giocando su un ricatto generazionale è stato rispedito al mittente, mostrando la forza di un blocco sociale ricompostosi sul terreno delle lotte reali. È importante dunque seguire da vicino queste mobilitazioni, nelle quali la nostra generazione ricopre un ruolo centrale, anche perché la loro portata oltrepassa i confini francesi e investe anche alcuni pilastri del progetto UE.
La prima giornata di sciopero interprofessionale, il 5 dicembre, ha bloccato il paese e, al di là di ogni aspettativa, è riuscita a portare in piazza 1,5 milioni di persone, alcune delle quali hanno scioperato per la prima volta. Già dalle linee guida rese note il 10 ottobre appariva chiaro che dietro la retorica dell’avanzamento verso un sistema universalistico si nascondeva un progetto di livellamento verso il basso delle prestazioni: aumento di fatto dell’età pensionabile da 62 a 64 anni se si vuole godere della pensione piena, introduzione di un sistema di calcolo a punti che scollega i contributi versati da un valore fisso, colpendo soprattutto le donne e i lavoratori con carriere precarie e discontinue, incentivi al prolungamento dell’attività lavorativa e al passaggio a fondi pensionistici privati.
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Lettera aperta a frate Sardina
di Fulvio Grimaldi
“Le sardine sono persone che riempiono spazi con i loro corpi e le loro idee. Oggi qui facciamo politica”. (Mattia Santori, caposardina e sostenitore di Renzi per lo Sblocca Italia e le trivelle petrolifere)
Caro Alex Zanotelli,
ti saluto in quanto frate missionario, frate giornalista, frate che fa gli appelli e, visto l’approvazione che hai concesso al nuovo movimento ittico, frate Sardina.
Ti scrivo in questo periodo del Santo Natale – o, se mi permetti – del santo ritorno della luce dopo il solstizio, festeggiato dai nostri avi pagani – in cui tutti dovremmo essere, oltre che più consumatori, anche più buoni e più disponibili verso il prossimo. Mi permetto di sottoporti alcune narrazioni alternative a quelle di cui ti dici con evangelica sicurezza convinto. Ultimamente il pneumadiscorso delle Sardine.
In quanto missionario, cioè incaricato di evangelizzazione, che per sua natura qualche irrecuperabile anticolonialista afferma essere prevaricatrice e alienante, diffido di te come di tutti tuoi simili, avendo avuto esperienza diretta e indiretta, tra i popoli che tu e io conosciamo, delle sciagure che hanno causato tutti gli invasori, religiosi, militari ed economici. Ingerenze e interferenze religiose giustificate nel nome dell’”unica vera fede” e dell’”unico vero dio” e che, secondo certi critici forse blasfemi, aprirebbero la strada al saccheggio, alla manipolazione, all’oppressione. Costoro prendono a esempio, quasi fosse un destino ineluttabile di ogni evangelizzazione, quanto missionari e relativo seguito (Vaticano, Usa, Israele) hanno combinato provocando con accanimento la secessione del cattolico Sud Sudan. Tu, comboniano, lo conosci bene e sai anche come da allora sia immerso in un lago di sangue in cui nuotano coloro che se ne contendono il petrolio. Anche qualche prete.
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Aldo Barba, Massimo Pivetti, “Il lavoro importato”
di Alessandro Visalli
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti avvia una trilogia sulle tre “libertà” del progetto europeo nato con l’Atto Unico e consolidato dal Trattato di Maastricht, fondatore della Unione Europea. Si svolge in sei passi: nel primo sono richiamati i dati relativi all’immigrazione nei diversi paesi europei e la loro progressione nel tempo; quindi viene descritta la dinamica che si è generata nel settore dei lavoro lungo la stratificazione dello stesso, ovvero quella della sostituzione di poco meno di un milione di lavoratori autoctoni (cfr. p.40); al terzo passo viene descritta la teoria economica mainstream, ovvero neoclassica, ed il motivo teorico per il quale sistematicamente esclude che possa esserci in effetti disoccupazione involontaria, anche in presenza di una accresciuta competizione; quindi è presentata una teoria alternativa, imperniata sul conflitto distributivo (invece che sull’equilibrio armonico), su questa base emerge l’evidenza della forza disciplinante dell’immigrazione; dopo aver illustrato gli impatti sullo Stato sociale, probabilmente quelli più rilevanti, gli autori entrano con i piedi nel piatto e tematizzano l’atteggiamento delle sinistre verso l’immigrazione e le loro ragioni, fino ad una retrospettiva sulle posizioni del marxismo classico; infine sono proposte alcune soluzioni per la regolamentazione ‘forte’ del fenomeno.
Premessa: la discussione
Si tratta di un libro che farà discutere, verso il quale sono già sorte numerose obiezioni ed aspre polemiche nel piccolo mondo della sinistra radicale. In effetti disturba profondamente i dogmi e le tranquille abitudini di pensiero, rinsaldate dalla reazione popolare praticamente univoca al crescere del fenomeno.
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Qualche considerazione sulle elezioni generali nel Regno Unito del 12 dicembre 2019
di Antiper
Le elezioni inglesi sembrano aver prodotto un esito chiaro: Boris Johnson e i Conservatori hanno vinto, Jeremy Corbyn e la “sinistra” hanno perso, il “popolo” inglese vuole la Brexit.
Ma le cose stanno davvero in questo modo?
I risultati. Una prima osservazione da fare è la seguente: dato il carattere uninominale del sistema elettorale inglese i Conservatori, pur avendo raccolto solo il 43% dei voti hanno ottenuto il 56,1% dei seggi (365 su 650) [1]. I Laburisti non sono stati penalizzati perché con il 32% dei voti ottengono il 31,23% dei seggi. Penalizzati sono stati semmai i partiti minori che in nessun collegio (o quasi) potevano essere maggioritari (ad esempio i Liberali hanno raccolto l’11% dei voti e l’1,6% dei seggi). E già questo dovrebbe farci riflettere sul carattere “democratico” di un sistema politico in cui una minoranza diventa una netta maggioranza e in cui i grandi partiti vengono premiati a scapito dei piccoli.
Dai dati si ricava che i pro-Brexit non sono affatto una larga maggioranza e questo va detto per capire meglio la situazione e non certo per consolare gli europeisti (che non meritano per nulla di essere consolati).
La vittoria dei conservatori. Il partito Conservatore non ha conquistato molti voti (+1,2% rispetto al 2017) e ha potuto fare “man bassa” di seggi solo grazie a due elementi (oltre a quello del sistema elettorale): 1) Il “voto utile” del Brexit Party che alle europee aveva preso il 30,5% [2] e il 12 dicembre ha preso il 2% (i Conservatori avevano raccolto alle europee l’8,8% e questo spiega anche la sostituzione di Theresa May con Boris Johnson); 2) L’arretramento del Labour che perde il 7,9% rispetto al 2017 (anche se fa addirittura +18,5% rispetto alle europee, con il recupero dei voti persi verso i liberali a giugno).
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“Scava, scava, vecchia talpa...”
di Eros Barone
Un tempo, era di norma nelle riunioni dei partiti operai (dai congressi dell’Internazionale Comunista alle cellule di fabbrica, passando attraverso le sezioni nazionali e territoriali), svolgere la relazione introduttiva partendo dall’analisi della situazione internazionale per poi passare all’analisi della situazione interna e concludere l’esposizione con le opportune indicazioni politiche e organizzative. È quello che mi propongo di fare anch’io, limitatamente alla prima parte e in modo schematico, spero con qualche utilità, in questo articolo.
Mi sembra giusto allora prendere le mosse, per il rilievo che essa assume nell’àmbito della difesa dei princìpi di autodeterminazione, indipendenza e sovranità nazionale, dalla sconfitta delle macchinazioni degli Stati Uniti, della NATO e dei mercenari al loro servizio in Siria: un risultato certamente reso possibile dall’intervento politico e militare della Russia, ma anche dall’ampiezza e dalla compattezza del consenso popolare al regime baathista. Una vittoria, quindi, che assume una portata non solo geopolitica ma anche ideale, poiché, altrettanto certamente, ha contribuito a determinare la crisi delle correnti più reazionarie dell’islamismo, spingendo le masse popolari del Medio Oriente a superare le divisioni settarie di tipo religioso e tribale, su cui hanno giocato fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso l’imperialismo israeliano ed occidentale. In tal modo, milioni di persone hanno rialzato la testa e hanno cominciato a lottare per obiettivi economici e sociali, aprendo un fronte di classe contro lo sfruttamento capitalistico, per conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro.
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Marxismo napoletano. Augusto Graziani
di Leo Essen
I
Nel 1983, per il centenario della morte di Marx, l’Istituto Gramsci invita a parlare i più importanti e rappresentativi marxisti. La conferenza si tiene a Roma dal 16 al 19 Novembre, e ha carattere ecumenico. Sono presenti autorità internazionali del marxismo terzomondista, ecologista, operaista, neoricardiano, sraffiano, liberale, strutturalista, keynesiano e nostrano. C’è anche un economista napoletano, Augusto Graziani.
Graziani si laurea nel 1955 in Giurisprudenza alla Federico II, con una tesi in Economia politica con Giuseppe Di Nardi, economista di scuola neoclassica. A metà degli anni Cinquanta si trasferisce alla London School of Economics (LSE) dove studia sotto la supervisione di Lionel Robbins. Un anno dopo si sposta ad Harvard e incontra Wassily Leontiev. Al Massachusetts Institute of Technology (MIT) frequenta Paul Rosenstein-Rodan. Nel 1962 ritorna in Italia, dove gli viene assegnata la cattedra di Economia politica a Catania e poi a Napoli.
Da Robbins, dice Graziani (Intervista), ho appreso quella che sinteticamente si potrebbe definire la grandezza della scuola neoclassica, e cioè la sua rigorosa coerenza interna. Ritengo, dice, che questo insegnamento mi sia rimasto, dal momento che anche negli anni successivi, quando mi sono discostato dalla scuola neoclassica, l'ho fatto senza mai formulare critiche interne, proprio perché ritengo che quello sia uno dei castelli teorici in sé più perfetti. Ho sempre cercato di formulare critiche esterne, e cioè dissociazioni sul terreno dei postulati di partenza e delle ipotesi di base. Da Leontief, dice, credo di aver appreso un principio di prudenza nella ricerca applicata, il non credere mai ciecamente ai dati empirici.
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Sulle élite contemporanee
di Marino Badiale
I. La revoca del mandato celeste
Nelle analisi della situazione sociale e politica attuale nei paesi avanzati, è ormai un dato acquisito l’esistenza di una particolare frattura sociale e culturale. Abbiamo da una parte un ceto, relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova natura transnazionale del capitalismo contemporaneo: persone dotate di conoscenze e capacità (in primo luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo) che le rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto il globo, prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a forte componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu. Si tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle possibilità che la sua dinamica crea. All’interno di questo ceto spiccano ovviamente i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili occasioni; ma il ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto esclusivamente da uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo stile di vita e la visione del mondo degli attuali ceti dominanti. Per chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta cerchia di chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano a Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi globalizzati” intendendo quella strato sociale che abbiamo descritto nelle prime righe, minoritario ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”. Parleremo infine di “élite contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi.
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Il futuro dei movimenti nel XXI secolo
di Giovanni Bruno
Movimenti sovranisti, ambientalisti, democratici caratterizzano lo scenario politico internazionale. Che cosa rappresentano?
Si stanno diffondendo nel mondo attuale tre tipi di movimenti: quelli cosiddetti sovranisti, che sono sostanzialmente critpo o esplicitamente fascisti; quelli transnazionali, come il Fridays For Future e Extinction Rebellion per la salvaguardia del pianeta contro i cambiamenti climatici e il rischio di estinzione dell’umanità e della vita in generale; e movimenti politico-sociali che insorgono contro politiche antipopolari e iper-liberiste e governi illiberali e autoritari.
Il primo movimento rappresenta un vizio antico riproposto in forme apparentemente nuove: la tendenza autoritaria e protezionistica che emerge nelle fasi di crisi del sistema, quando da un ciclo espansivo si passa ad un ciclo recessivo, si presenta con caratteristiche costanti, pur nelle novità dovute all’epoca storica nuova.
Dopo la crisi del ’46-’47 del XIX secolo, allo scoppio rivoluzionario del “biennio rosso” ottocentesco 1848-49 seguì una “seconda restaurazione” (con l’avvento del Secondo Impero in Francia, e il riassetto del potere assolutistico in Germania, Austria, Italia), così come il crollo che provocò la prima “Grande Depressione” (1873-1896) indebolì i regimi liberali inasprendo gli elementi di autoritarismo (ad esempio in Germania, dove Bismarck fece emanare una legislazione anti-socialista, o in Italia in cui, dopo il governo Depretis, vi fu una svolta dai tratti bonapartisti con Francesco Crispi).
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Il problema tedesco
di Heiner Flassbeck*
Bisogna ammettere che i media mainstream hanno creato un senso comune fasullo, ma decisamente “forte”, tale per cui la Germania attuale non è criticabile. Qualsiasi porcata faccia (e ne ha fatte molte, alcune delle quali oltre limite della rapine, come nel caso della Grecia, affosatta per salvare le proprie banche troppo “esposte” verso quel paese).
Siamo perciò al punto che soltanto un tedesco può oggi prendersi la libertà di dire qualcosa di sgradevole nei confronti del pensiero economico dominante nel proprio paese, e che notoriamente passa sotto il nome di ordoliberismo. Ovvero liberismo totale (le imprese e i loro interessi sono al posto di comando), ma lo Stato crea le condizioni (l'”ordine”) per cui questa dominanza possa esprimersi senza ostacoli, anzi, con tante facilitazioni.
Nell’imporre questa visione teorico-ideologica-concretissima anche alle istituzioni europee, ispirandone i trattati e i criteri di funzionamento, la Germania è riuscita nel capolavoro di concentrare sul proprio sistema produttivo e finanziario tutti i vantaggi di una Unione di mercato di quasi mezzo miliardo di abitanti senza mai rischiare di condividere gli oneri di una vera unione politico-statuale.
La sintesi di questi vantaggi unilaterali sta nella libertà di sforare ogni parametro di Maastricht senza mai incappare in nessuna “censura” comunitaria. Prima sforava il deficit ma veniva perdonata perché stava pagando i costi dell’unificazione con la Ddr, poi ha cominciato a sforare – e alla grande – sistematicamente il surplus, ma viene sempre perdonata perché “non si possono punire i virtuosi”. E dire che anche uno studente del primo anno capisce che, in una economia “chiusa” dalle stesse regole se qualcuno va in surplus qualcun altro dovrà andare per forza in deficit…
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Cinquant’anni di impunità per strage di Stato
di Carla Filosa
Prima di Piazza Fontana gli eccidi dei lavoratori erano stati normalizzati nella dinamica delle lotte di classe tollerate dal sistema, dopo lo Stato si assunse in prima persona il ruolo di garante dei profitti, scoraggiando attraverso le stragi ogni possibile rivendicazione
In seguito all’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, dal giorno successivo al 13 maggio 1970, fu elaborata da militanti della sinistra extraparlamentare una controinchiesta che uscì in un libro intitolato La strage di stato, Samonà e Savelli (La Nuova sinistra), Perugia 1970, dedicato a Giuseppe Pinelli, ferroviere e a Ottorino Pesce, magistrato. Alla quarta edizione nel ’70 ne erano state vendute già 60.000 copie. Per chi non c’era e/o non sa, Pinelli, in quanto anarchico, fu “suicidato” dal quarto piano d’una questura milanese intorno alla mezzanotte del 15 dicembre 1969, e Pesce morì d’infarto poco dopo, il 6 gennaio 1970, in seguito al linciaggio della stampa “indipendente” unita all’invito alla prudenza e al tatticismo dei suoi colleghi “progressisti”. Aveva infatti dichiarato pubblicamente che la giustizia italiana è una giustizia di classe, di fronte allo spettacolo della caccia all’anarchico e al maoista, operata dalla sinistra istituzionalizzata di allora.
Intanto, sin dal 3 gennaio 1969 l’Italia era già stata dilaniata da “145 attentati – come si riferisce nel libro citato – dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è per difetto”. La “strategia della tensione” venne così elaborata per mettere a punto un colpo di Stato reazionario da realizzarsi, se necessario, con l’intervento dell’esercito. Dato che non si era in America Latina, non fu necessario. Nonostante la maggior parte di queste bombe fosse stata riconosciuta di marca fascista, fu inventato un capro espiatorio anarchico, Pietro Valpreda, e vennero accusati “i rossi”, chiamati poi “massimalisti impotenti” dagli spalti di un Pci subito pronto a smarcarsi da eventuali sospetti di connivenza.
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Lukács: filosofia e ordine del discorso
di Salvatore Bravo
La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione
La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine
László Rudas (1885-1950) direttore della Scuola centrale del Partito comunista ungherese, membro dell’Accademia ungherese delle scienze e difensore dell’ortodossia marxista, rappresenta la “disposizione” dei burocrati a rinchiudersi in rassicuranti caverne concettuali dalle quali giudicare e condannare coloro che deviano dal cammino stabilito dalle confraternite del pensiero unico ed unidirezionale. La filosofia per sua “natura” è uscita dalle caverne, è attività creativa e logica, è legein attività significante capace di generare concetti nuovi su tradizioni pregresse per trascenderle in nuove configurazioni speculative.
La distanza tra László Rudas e G. Lukács ben simboleggia l’incomprensione intellettuale che vi può essere tra il burocrate di partito ed il libero pensatore, il quale è parte di una storia politica, ideologica, filosofica, ma nello stesso tempo è sempre volto verso l’esodo, poiché “la vita come ricerca” lo porta a divergere dagli schemi, dai paradigmi del potere. L’ortodossia marxista non poteva perdonare a Lukács la sua inesausta aspirazione teoretica, la fedeltà a se stesso, quale condizione imprescindibile per poter aderire ad un progetto politico.
La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine, non è iattanza intellettuale, ma autonomia senza solitudine. Il potere è corrente fredda che congela l’ideologia, stabilisce il grado di purezza degli intellettuali, ed il livello di dissenso che si può tollerare.
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Capire l’economia per un rilancio delle idee di sinistra
di Saverio M. Fratini*
“Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi più lunga (e come uscirne)” di Sergio Cesaratto, scritto in un linguaggio accessibile anche a coloro che non hanno svolto studi di economia, è un manuale economico divulgativo che, richiamandosi alle idee di Keynes e Sraffa, dice qualcosa di sinistra contro il pensiero economico dominante
La divulgazione scientifica è una attività sicuramente meritoria e lo è ancora di più quando ad essere divulgate sono idee alternative rispetto all’impostazione mainstream. In tutte le scienze il pluralismo è una ricchezza: guardare i fenomeni da diversi punti di vista, o anche semplicemente sapere che diversi punti di vista esistono, aiuta sicuramente ad ampliare la nostra capacità di comprensione del mondo che ci circonda. Ciò è particolarmente vero con riferimento all’economia e alle scienze sociali in generale, in cui lo studioso è parte del sistema che studia: ne è influenzato e lo influenza. Come ha scritto Robert Solow[1] (premio Nobel nel 1987), mentre il movimento dei pianeti è completamente indipendente da ciò che pensano gli astronomi, le idee degli economisti hanno effetto sul funzionamento del sistema economico. Così, in economia, il prevalere di una impostazione sulle altre scaturisce da un intreccio di ragioni scientifiche e politiche, a sostegno dell’una o dell’altra parte sociale. Di conseguenza, a differenza di quanto avviene normalmente nelle scienze naturali, nelle scienze sociali non è affatto detto che le teorie più recenti o mainstream siano più solide e avanzate di quelle precedenti o alternative. Si vede, quindi, la grande importanza di coltivare il pluralismo e la storia del pensiero economico.
Proprio in questa direzione va il libro di Sergio Cesaratto Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi (Diarkos, 2019), giunto alla seconda edizione e già in ristampa. Con la prima lezione, infatti, Cesaratto ci riporta indietro al punto di vista degli Economisti Classici, che è stato riscoperto a partire dagli anni ’60 del XX secolo grazie ai contributi di Piero Sraffa e dei suoi allievi[2].
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Di strage in strage... E' il capitalismo, bellezza
Perché non volevano far parlare Bashar el Assad
di Fulvio Grimaldi
La sciagura a cinque stelle si chiama Di Maio-Grillo
Visto che dell’angustiante tema ci siamo tutti occupati intensamente, ma che non è l’oggetto del pezzo di oggi, premetto subito al resto, che il voto pro MES (il nuovo e peggiore cappio salva-Germania e ammazza-Stati del Sud) con l’impudico rinvio a ulteriori “pacchetti” bancari, è l’ennesima dimostrazione della sciagura Di Maio-Grillo e poltronari scombinati vari. Ma non è sciagura Cinquestelle. Per cui ringrazio i quattro parlamentari che hanno votato NO e insisto a trarne auspicio per un ritorno in orbita delle cinque stelle, una volta presa larga, larghissima coscienza, in alto e soprattutto in basso, della sciagura di cui sopra. Per aspera ad astra, mai vero come oggi.
A Byoblu su Rai e Assad
Nella tavola rotonda di giorni fa messa in onda da Byoblu, il canale web di Claudio Messora, che costituisce una delle migliori presenze audiovisive dell’intero panorama mediatico nazionale, si discuteva dell’incredibile traccheggiamento della Rai sull’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar el Assad. Per comprensibili ragioni di pluralistico giro d’orizzonte, erano stati invitati, oltre a me, anche altri tre colleghi, di cui due dichiaratamente “ortodossi” (e ci capiamo).
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La sinistra e il movimento
di Figure
Autunno 2018, il primo numero di Jacobin Italia esce con il titolo: Vivere in un paese senza sinistra. Autunno 2017, il centro sociale Je So Pazzo propone l’idea che darà vita al movimento-partito Potere al popolo!. Lo slogan di lancio era: Nessuno ci rappresenta: facciamolo noi!
Due immagini, fra le tante, indicative della situazione italiana. Un paese in cui il centro sinistra – con i suoi partiti più o meno grandi – si è appiattito su posizioni liberiste. Il centro sinistra è spesso nominato come sinistra liberal; tale nomignolo gli viene attribuito perché è formalmente attento alle diversità e ai diritti civili, ma arreso davanti al problema delle disuguaglianze socio-economiche. Si tratta della sinistra accusata di essere buonista e allo stesso tempo incapace di opporsi alla macelleria sociale del capitale, nostrano e forestiero. Il PD, i suoi tardi secessionisti di LeU, gli amici della liberista Emma Bonino e così via; tutti talmente impauriti che il sistema produttivo italiano possa scivolare nel baratro del terzo mondo da aprire le porte ai peggiori espropriatori di ricchezza, purché anche sopra l’Italia continui a passare qualche flusso internazionale. È la sinistra che ha archiviato i miraggi del comunismo per farsi anti-berlusconiana e poi più nulla: balbettante davanti all’ascesa del Movimento 5 Stelle e impotente di fronte all’irruenza della destra nazionalista di Salvini. È la sinistra che negli ultimi anni ha sostituito le sue parole chiave con quelle proprie del neoliberismo: libertà (d’impresa), tolleranza, differenza, merito, competizione. Ha abbracciato così i processi di invidualizzazione di massa cedendo al mercato il ruolo di pianificare la società. Il progetto ha mostrato le sue debolezze e si può dire fallito, non a caso le destre reazionarie battono i loro colpi su concetti diametralmente opposti, si torna a parlare di identità, nazione, razzismo, famiglia tradizionale (con il rischio di derive patriarcali).
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“È giunto il momento di chiudere la triste parentesi politica della sinistra liberale”
Dissent intervista Jean Claude Michéa
Mentre la Francia è paralizzata dalle proteste contro l’ennesima riforma di stampo neoliberale, proponiamo un’intervista al filosofo Jean Claude Michéa. Egli smaschera la sottomissione alle logiche del capitale della cosiddetta sinistra “liberale”, sensibile solo alle battaglie contro le minoranze sostenute dalla “società civile” – ma in realtà strumentalizzate dai ceti dominanti per sviare l’opinione pubblica con obiettivi sostitutivi e impedire il ritorno di una critica socialista al nuovo ordine liberale. Una sedicente sinistra cieca e sorda, quando non connivente, all’ingiustizia di classe. Questa sinistra, gonfia di pregiudizi contro le classi popolari, manifesta idee (se così si possono chiamare) che portano alla società prodotta dall’ideologia neoliberale: una società di monadi disgregate, inevitabilmente disumana. Bisogna chiudere la parentesi rappresentata da questa cosiddetta sinistra, conclude il filosofo francese, come si è chiuso con lo stalinismo
Dopo un articolo scritto da Michael C. Behrent sul suo pensiero, la rivista americana Dissent pubblica una lunga intervista al filosofo Jean-Claude Michéa. Questa è stata rilasciata a gennaio 2019, quando i gilet gialli celebravano i loro primi due mesi. Il governo ha iniziato a screditare il movimento e scollegarlo dalle sue basi popolari, puntando l’indice in particolare sulla presenza di “Black block” e gruppi di estrema destra ai raduni di Parigi. Mentre Michael Behrent ha deciso, con l’accordo di Michéa, di tagliare alcuni passaggi che potrebbero essere incomprensibili per i lettori americani, il nostro sito offre la traduzione completa dell’intervista. Nella prima parte, il filosofo è tornato alle sue critiche al liberalismo e alla sua difesa dei gilet gialli. In questa seconda parte, sviluppa le sue critiche alla sinistra liberale.
* * * *
Dissent – La xenofobia e l’intolleranza sono in aumento. Combattere il razzismo in questo contesto sembra più necessario che mai. Penso, ad esempio, alla critica al “privilegio bianco” molto diffusa tra i progressisti americani. Per lei, al contrario, l’antirazzismo e le lotte sociali simboleggiano tutto ciò che c’è di falso nel liberalismo culturale. Questa visione non rischia di delegittimare queste lotte in un momento in cui sembrano particolarmente necessarie?
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È solo tutto per il petrolio?
di Greg Godels
"Tutto a causa del petrolio" è stato, dac quando si ha memoria, un ritornello persistente in risposta alla politica in Medio Oriente degli Stati Uniti. Certamente c'è molta verità in questa affermazione. Dalla transizione energetica dal carbone al petrolio e ai suoi derivati, le principali potenze imperialiste hanno cercato di dominare o controllare le risorse petrolifere globali. E il centro dell'estrazione petrolifera globale, specialmente per gli Stati Uniti e altri potenti paesi capitalisti, è rimasto in Medio Oriente e nelle sue periferie.
Quando la Marina dell'allora dominante impero britannico passò dalle navi da guerra a carbone e alimentate a vapore alla dipendenza dal petrolio, il Medio Oriente divenne la sua stazione di servizio strategica. Di conseguenza, lo stato e il destino di persone, nazioni e stati in Medio Oriente si legarono indissolubilmente agli interessi e alla volontà delle più grandi potenze imperiali.
Dopo la prima guerra mondiale, gli inglesi e i francesi hanno aggredito e trasformato il Medio Oriente in un "protettorato" utile ai propri interessi economici. Gli Stati Uniti, autosufficienti nelle risorse petrolifere, furono spinti ai margini, liberi di esplorare i vasti deserti sottopopolati della penisola arabica.
Il caso volle che le vaste distese della penisola arabica si dimostrarono essere una fonte di petrolio e gas naturale vasta ed economica. L'Arabian-American Oil Company (ARAMCO) si rivelò provvidenziale quando le riserve energetiche interne statunitensi iniziarono a diminuire.
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Il mondo fantastico va avanti
di Michael Roberts
Il mondo fantastico continua. Negli Stati Uniti e in Europa, gli indici dei mercati azionari hanno raggiunto nuovo massimi storici. Anche i prezzi delle obbligazioni si avvicinano ai massimi storici. Gli investimenti, sia in azioni che in obbligazioni, stanno generando enormi profitti per le istituzioni finanziarie e per le compagnie. Per contro, nell'economia «reale», in particolare quella dei settori produttivi e dell'industria dei trasporti le cose vanno in maniera deprimente. L'industria automobilistica mondiale si trova in grave declino. Nella maggior parte delle compagnie automobilistiche, i licenziamenti dei lavoratori sono già stati messi in agenda. Nelle compagnie delle maggiori economie, i settori manifatturieri si stanno contraendo. E come misurato dai cosiddetti "Purchasing Manager Indexes" (PMI) [indici dei direttori degli acquisti], che sono indici che misurano la situazione e le prospettive della compagnie, stanno rallentando e ristagnando anche i grandi settori dei servizi.
Ieri, è stata resa pubblica l'ultima stima della crescita del PIL reale degli Stati Uniti. Nel terzo trimestre di quest'anno (giugno-settembre), l'economia degli USA si è espansa in termini reali (vale a dire, dopo che è stata dedotta l'inflazione dei prezzi) secondo un tasso annuo del 2.1%, in calo rispetto al 2,3% del precedente trimestre. Sebbene questa sia, storicamente una crescita modesta, l'economia degli Stati Uniti sta facendo meglio di qualsiasi altra grande economia.
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Riforma Mes: tutti i problemi sul tavolo, spiegati da 4 economisti
A.Battaglia intervista Carlo Cottarelli, Nicola Borri, Sergio Cesaratto, Emiliano Brancaccio
Non si ricorda facilmente una polemica politica innestata su un tema più tecnico e complesso del Meccanismo europeo di stabilità (Mes, o Fondo Salva Stati). Dopo aver trattato i caratteri generali di questo fondo (si veda la nostra guida per punti), Wall Street Italia ha deciso di entrare nel merito degli aspetti più discussi e spinosi della riforma del Mes. Abbiamo posto le stesse domande a quattro esperti*, estranei all’arena politica.
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Perché l’Eurozona ha bisogno di un fondo dedicato alle crisi finanziarie dei suoi membri? Perché si è ritenuta l’ipotesi di un’assistenza del Fmi non sufficiente a far fronte a questo tipo di crisi?
Cottarelli:
L’Eurozona, a differenza degli Stati Uniti, ha bisogno di un Meccanismo di stabilità perché le probabilità che uno Stato come la Virginia esca dagli Usa è molto bassa. Il problema è che uno squilibrio economico in Europa può, al contrario, sollevare nei mercati il sospetto che uno Stato possa decidere di uscire dall’euro, creando uno sconquasso per l’intera area. Teniamo conto che l’Unione monetaria europea esiste da poco e che negli Usa c’è voluta una guerra di secessione per rendere chiaro che quell’unione non si sarebbe più spaccata.
Il fatto che l’Eurozona si doti di un Fondo monetario europeo nasce dall’idea che i suoi interessi siano meglio tutelati da finanziamenti di origine europea, contrariamente a quelli di tipo globale del Fondo monetario internazionale. C’è poi un altro aspetto, il Fmi non ha risorse illimitate e nel caso di una crisi di un grosso Paese potrebbe non bastare il suo intervento. Il Mes, pur avendo anch’esso risorse limitate, può far scattare l’intervento quasi illimitato da parte della Banca centrale europea.
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Il “Manifesto contro il lavoro” venti anni dopo
Postfazione alla quarta edizione
di Norbert Trenkle
Pubblichiamo qui la post-fazione alla IV edizione tedesca del Manifesto contro il lavoro, apparsa in Germania quest’anno a distanza di venti anni dalla prima, uscita nel 1999 (in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi).
Norbert Trenkle prova, con questo scritto, ad “aggiornare” le tesi del Manifesto, molte delle quali comunque non invecchiate ed anzi forse più attuali oggi di allora. Le condizioni che resero quasi “necessario” quel famoso libro non sono certo venute meno, al contrario si sono inasprite e approfondite. Il lavoro (che è qui inteso come una forma storicamente specifica di attività della società capitalistica, come attività che produce merci) è sempre più raro ed opprimente. Al tempo stesso , la crisi si è fatta più acuta e la forma-capitale più folle e devastante. Proprio per questi motivi, più forte si è fatta anche l’esigenza di emanciparsi una volta per tutte da questo sistema omicida, esigenza che però fatica a prendere forma e viene piuttosto incanalata verso vicoli ciechi sovranisti, antisemiti, razzisti, classisti e sessisti.
Il Manifesto contro il lavoro è stato e continua ad essere un tentativo che va nella direzione opposta, nella direzione cioè di dare forma ad un progetto di liberazione di cui si sente veramente la necessità e la mancanza. Per questa ragione resta un testo ancora attuale, e in modo stringente.
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Da quando abbiamo pubblicato il Manifesto contro il lavoro, quasi 20 anni fa, non solo la crisi fondamentale del capitalismo si è rapidamente intensificata dal punto di vista economico, ma sta mettendo sempre più in discussione l’esistenza stessa della società della merce nel suo insieme.
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Democrazia inquinata
di Antonio Martone
Doppio inquinamento
Esiste un inquinamento ambientale, e per fortuna se ne parla: purtroppo, se ne parla soltanto poiché il capitalismo post-industriale ha pur bisogno di “gestire” le proprie contraddizioni più palesi (al fine di addomesticarle) ma qualche volta – almeno – se ne discute. Tuttavia, la questione dell’inquinamento è molto più ampia. Occorre sottolineare, infatti, che gli elementi tossici che possono investire l’uomo non si limitano agli agenti inquinanti esterni. A fronte della spazzatura e di rifiuti di ogni tipo che ormai impregnano l’ecosistema, esiste infatti una psico-sfera umana “impasticcata”, al punto da richiedere cure urgenti. Il vuoto che molti cercano di colmare con droghe, psicofarmaci, con un atteggiamento aggressivo e prevaricante nei confronti degli altri o, più in generale, con la propria falsa coscienza andrebbe affrontato politicamente come il problema centrale del nostro tempo. E, invece, non si fa. È palese a tutti, anzi, che si vada nella direzione contraria.
È chiaro, peraltro, che fra le due forme di inquinamento esista un nesso strettissimo. È del tutto ovvio, per fare un esempio immediatamente comprensibile, che gli abitanti delle periferie del mondo, assediati da ecomostri di ogni tipo, privi di spazi pubblici e di aree ove sia possibile prender parte ad un’intesa sia pur minima con il dato naturale, e dove ammalarsi di cancro è più facile che mandare i figli a scuola la mattina, difficilmente potranno contare su una salute “psichica” degna di questo nome.
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Chantal Mouffe, “Per un populismo di sinistra”
di Alessandro Visalli
Questo libro della filosofa Chantal Mouffe esce nel 2018, al termine di un breve ciclo di instabilità politica aperto dallo straordinario 2016[1] seguito da un 2017 nel quale l’ondata è sembrata rifluire, o essere contenuta dai bastioni dei meccanismi elettorali maggioritari (in Francia) o dalla resilienza dei partiti sistemici (in Germania), ed infine dal 2018, nel quale crolla la roccaforte italiana del bipolarismo. La Mouffe, in linea con il suo ex compagno Ernesto Laclau, chiama tutto questo “momento populista”: una fase di crisi della ‘formazione egemonica neoliberale’ che, a suo parere, “apre la possibilità di costruire un ordine maggiormente democratico”.
L’avvio, in pratica, dice tutto.
Il ‘disorientamento’ dei partiti socialdemocratici (evidente in Spagna, dove Sanchez è sulla difensiva, in Francia, dove è emersa la soluzione ‘populista’ di centro di Macron dalle spoglie della sinistra e della destra gollista[2], in Germania, dove la Spd non riesce a liberarsi dell’abbraccio distruttivo della grande coalizione) deriverebbe quindi da una visione inadeguata della politica. In particolare, dalla incapacità di assorbire i movimenti libertari del 1968, che “coincidevano con la resistenza a una varietà di forme di dominio non definibili in termini di classe”. Si trattava, per come li nomina, della “seconda ondata femminista”, dei movimenti per i diritti dei gay e quelli antirazzisti, inoltre della questione ambientale.
Seguendo lo spirito di questi movimenti, racconta l’autrice, lei e il marito Laclau, indagarono le ragioni della resistenza culturale della sinistra di classe (marxista e socialdemocratica, come la distingue).
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Il nuovo Leviatano, di Geoff Mann e Joel Wainwright, Treccani 2018
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
La questione ambientale ha a che fare direttamente con il politico. Non è una questione scientifica (meno che mai “tecnica”), non ha connotazioni trasversali (“né di destra né di sinistra”), e soprattutto una cosa: prevede soluzioni originali, che non possiamo recuperare dal passato, neanche fosse un “nostro” passato al quale aggrapparci in nome della lotta al capitalismo. Come giustamente indicano i due autori di questi saggio, «il principale mutamento portato dal cambiamento climatico è l’adattamento del politico». La questione ambientale sta trasformando la politica, ma questa cosa, lungi dall’essere (per forza) un bene, si sta presentando come gigantesca TINA (there is no alternative) che piega le ragioni di chi si oppone e, viceversa, rafforza paradossalmente quel modello produttivo che è alla radice degli attuali problemi climatici globali. Serve dunque ragionare di ambiente, ma soprattutto serve «una filosofia politica del cambiamento climatico», uno sforzo interpretativo che, nel momento stesso in cui lega i fili che portano al “colpevole”, ragioni di come la questione ambientale stia mutando tutta la politica: di destra e di sinistra, capitalista e anticapitalista.
Svelare la direzione di questa grande trasformazione è il cuore del saggio. Da una parte, ci indicano i due autori nordamericani, il progressivo deterioramento dell’ecosistema sta portando – porterà sempre di più – alla costituzione di entità tecniche sovranazionali che si intesteranno l’obiettivo di governare il cambiamento climatico, attraverso accordi internazionali che espandano progressivamente la sovranità politica di queste istituzioni. Il cambiamento climatico è l’arma ideologica “fine di mondo”, perfetta e politicamente corretta, attraverso cui presentare come “inevitabile” una spoliazione di sovranità dei paesi della periferia globale concentrandola nelle mani di pochi, pochissimi, forse una sola entità governamentale investita dell’autorità di decidere sullo stato di emergenza: è il nuovo Leviatano climatico, secondo definizione degli autori.
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Argentina: un viaggio nella crisi sociale
di Angelo Zaccaria
Con grande gratitudine e interesse, vi propongo questo prezioso articolo di Angelo Zaccaria, di rientro da un lungo viaggio in Argenina. Buona lettura! A.G.
Argentina nel cuore 2019, parte seconda. La sorgente ed il motore della forza dei movimenti argentini sta nel grande lavoro di base fatto nei territori, con le donne in prima fila.
Come quello da me scritto oltre un anno fa, anche questo contributo nasce da una nuova lunga permanenza in Argentina, fra inizio di Marzo e poco dopo metà Settembre, per la maggior parte del tempo a Buenos Aires.
La crisi sociale si consolida
Il giro di boa della nuova crisi argentina si verifica nell’Aprile 2018, con la crisi cambiaria, la svalutazione del peso rispetto al dollaro, e le conseguenze negative su inflazione, salari reali e livelli di povertà. Da allora in poi la crisi si è consolidata ed approfondita, influenzando sia la dinamica sociale che quella politica ed elettorale.
I numeri della crisi sono facilmente consultabili: inflazione verso il 58%, povertà verso il 40% ma che sale al 50 considerando la sola popolazione infantile (a causa delle maggiori difficoltà nelle famiglie con più figli), cambio col dollaro USA ormai intorno ai 60 pesos, crisi industriali e nel piccolo commercio, recessione a meno 3%. Torno sul dato della povertà infantile, perché oltre che evidenziare il dato della povertà in sé, fa risaltare anche gli enormi squilibri esistenti non solo nel paese, ma nella stessa Grande Buenos Aires: nel conurbano i bambini poveri salgono al 63% del totale, mentre nella città capitale sono al 22%. La media nelle provincie interne invece è del 40% o poco più. Si conferma anche quanto già evidenziato in altre sedi: il conurbano di Buenos Aires è la polveriera sociale dell’Argentina.
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Surplus economico, il rapporto di Baran e l'accumulazione di capitale
del nostro amico Zhun Xu
La crescita economica è stata senza dubbio la prima e principale questione dello sviluppo capitalista dall'economia politica classica agli studi economici più recenti. Molte discussioni sullo sviluppo si riducono alla natura e alle caratteristiche della classe dirigente. Dato che la classe dominante controlla il surplus della società, il modo in cui viene utilizzato il surplus, sia esso investito, consumato o semplicemente sprecato, è a sua discrezione. L'effettivo utilizzo dell'eccedenza implica un ragionevole tasso di accumulazione di capitale e sviluppo economico.
Nel 1957, nell'economia politica della crescita, Paul Baran ha dato un contributo fondamentale alla nostra comprensione del surplus economico, un concetto che ha introdotto nella discussione sullo sviluppo e sulla crescita. Sosteneva che anche i paesi poveri conservano ancora un notevole surplus economico oltre al consumo essenziale nazionale e che il modo in cui le classi dirigenti usano quel surplus modella le traiettorie di sviluppo delle nazioni. Eliminando i consumi della classe superiore non necessari e le inefficienze dell'economia di mercato, tra gli altri fattori, una società meglio organizzata come il socialismo consentirebbe a tutte le nazioni di crescere e svilupparsi.
Per fare un esempio della storia economica cinese, secondo l'economista Victor Lippit, il reddito pro capite in Cina era all'incirca lo stesso nel 1933 come era nel 1953. Il tasso di risparmio, tuttavia, è aumentato dall'1,7 per cento nel 1933 al 20 per cento in 1953. Questo forte aumento fu raggiunto con standard di vita sostanzialmente migliori per la gente comune. La nuova società rivoluzionaria, sosteneva Lippit, era in grado di eliminare contemporaneamente inutili consumi e sprechi d'élite e aumentare consumi e investimenti popolari.
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